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Europeismo ed Atlantismo in Vittorio de Caprariis e Renato Giordano
di Tarcisio Amato
Al termine del 1958, nell’anno cioè che vide da un lato l’entrata in vigore del trattato istitutivo della Comunità Economica Europea e dall’altro la fine traumatica e ingloriosa della IV Repubblica in Francia con il ritorno al potere di De Gaulle (un ritorno in prospettiva non certo foriero di buoni auspici per i sostenitori dell’euro-atlantismo), apparve pubblicato in Italia, per le edizioni “Opere Nuove”, un agile volume di Vittorio de Caprariis dal pregnante titolo Storia di un’alleanza-Genesi e significato del Patto Atlantico. In esso l’assai precoce studioso di gran razza, ed agguerrito polemista politico, ben lungi dal ricondurre il Patto a ragioni meramente militari e strategiche, da lui peraltro mai sottovalutate, tracciava magistralmente un densissimo ed anche propositivo scenario, teso a legittimare con acribia le radici storico-ideali profonde nel tempo, nonché le ragioni persino epocali dell’euro-atlantismo. E fu poi proprio a metà del 1959, nel decennale quindi di quello storico Patto, che per le edizioni de “il Mulino” il giovane Renato Giordano, legatissimo a de Caprariis e di lì a poco, agli inizi del 1960, tragicamente scomparso, pubblicò a sua volta l’opera nella quale va individuata la sua riflessione più compiuta in tema di atlantismo ed europeismo; vale a dire quella dal titolo La nuova frontiera, che porta come sottotitolo per nulla casuale, ed anzi nella studiata diade oltremodo indicativo, La coalizione occidentale e la politica di potenza. Un libro ispirato a Giordano da una ferma convinzione germinata sin da quando giovanissimo aveva recepito l’interpretazione lungimirante di Altiero Spinelli sul Piano Marshall e le sue implicite valenze europeiste; una convinzione che ora egli nella Nuova Frontiera esprimeva così: «L’ideale europeista acquista una sua concretezza solo dopo il lancio del Piano Marshall e del Patto Atlantico. Solo l’iniziativa americana ha reso possibile al sogno di trasformarsi in programma d’azione. E questo del rapporto USA-integrazione europea è un punto chiave che non dovrebbe mai essere dimenticato»1. Un libro inoltre il suo, come è stato scritto, «dal quale ancora oggi si traggono essenziali chiavi di lettura di quel periodo storico»2, ma che purtroppo da allora non è stato più riedito. Meritoriamente, va qui peraltro subito aggiunto, ad encomiabile cura di Giuseppe Buttà ed Eugenio Capozzi, è stata riedita proprio di recente invece l’ormai da tempo introvabile Storia di un’alleanza di de Caprariis, molto opportunamente integrata adesso da importanti suoi successivi interventi su cruciali problemi della inquietante politica internazionale allora in corso; e questo sempre al riparo dalle vacue formule del pacifismo e da quella che egli con sarcasmo, dettato da realismo politico, definiva la «mistica del disarmo»: di un disarmo cioè che «quando lo si cerca con mente agitata dal messianesino pacifista si finisce col ritenere irrilevante tutto il resto»3. Interventi tutti sempre assai documentati, anche in ambiti spesso di arduo specialismo, e sempre tutti ispirati a fermo e vigile atlantismo, mai disgiunto dall’europeismo. Fermezza e vigilanza dettate più volte a de Caprariis anche in considerazione dei paventati e rischiosi risvolti politici, a suo non solitario avviso presenti o latenti nell’intricato quadro delle dilemmatiche e discusse opzioni di strategia militare transatlantica, congiunturalmente imposte dai mutevoli equilibri di potenza che in modo alterno caratterizzavano allora la “guerra fredda”, soprattutto in tema di deterrenza nucleare.
Le ampie ed articolate analisi critiche di de Caprariis sugli argomenti or ora appena accennati, e su altri ancora ad essi congiunti, vennero sviluppandosi nei primi anni ’60, sino agli ultimi suoi giorni, nel giugno ’64, sulla rivista che lo vide per un decennio condirettore, vale a dire su «Nord e Sud». La prestigiosa rivista meridionalista e di cultura politica in senso lato dunque, sempre in sintonia con il «Mondo» di Mario Pannunzio, la cui cifra europeista ed atlantica verrà poco più tardi evocata, nel gennaio ’67, dal suo direttore, l’indimenticabile Francesco Compagna, proprio rinviando ai contributi di Giordano e de Caprariis. Le opere dei quali inoltre, La nuova frontiera cioè e la Storia di un’alleanza venivano, sempre da Compagna, ricordate come quelle che avevano conferito e conferivano il più ampio fondamento storico e culturale alle impostazioni di politica estera in chiave euro-atlantica della rivista da lui diretta4. Una rivista, è doveroso subito aggiungere, la quale notoriamente, anzitutto nel primo decennio di sua vita (1954-1964), seppe inoltre e volle in maniera al tutto nuova, e poi sempre più aggiornata e approfondita, indicare fattivamente un percorso obbligato che coniugava in modo fecondo meridionalismo ed europeismo. Un percorso ribadito a lungo e in primo luogo dal suo direttore, nonché da colui che, quale funzionario della CECA e divenuto, grazie anche a Spinelli, stretto collaboratore di Monnet, oltre che di «Nord e Sud», proprio da Compagna fu definito come chi di volta in volta aveva assunto il ruolo «del meridionalista in Europa e dell’europeista nel Mezzogiorno»; vale a dire Renato Giordano. Anche se poi Compagna, nella bellissima e commossa introduzione al suo Meridionalismo liberale, assieme a Giordano ricordava a giusta ragione come pure l’insostituibile Vittorio de Caprariis fosse stato a sua volta e a suo modo sensibilmente partecipe a quell’area «del meridionalismo che guarda all’Europa e si nutre di una vocazione europeista, rispetto all’area di un meridionalismo che si illude di poter cercare e trovare la via dello sviluppo economico e civile, volgendo le spalle all’Europa e armando la prora per inoltrarsi nel Mediterraneo»5. Ove non vi è chi non avverta nelle parole ora citate di Compagna la punta polemica che l’accomunava a Giordano, all’allievo cioè di Federico Chabod, storico della politica estera italiana. Sulla cui linea interpretativa Compagna, così come anche Giordano, poteva dare per acquisito che
ci sono due tradizioni della politica estera italiana, l’una volta al Mediterraneo, l’altra all’Europa; l’una che risale a Crispi e arriva a Mussolini, l’altra che risale a Visconti Venosta e arriva a Sforza e a De Gasperi; l’una nazionalistica, che incoscientemente si propone obiettivi di prestigio, l’altra europeista, che consapevolmente si propone obiettivi interdipendenti di integrazione politica, di sviluppo economico bilanciato, di libertà civile6.

Obiettivi interdipendenti dunque che trovavano eco in quella pagina della Nuova Frontiera dove Giordano sottolineava come i meridionalisti democratici del secondo dopoguerra avessero capito che, «per risolvere il problema meridionale […] occorre inserire il Mezzogiorno d’Italia – e l’Italia tutta intera – in una Comunità Europea, dotata di un autentico Governo Federale, che disponga dei poteri necessari in sede economica per impedire il cristallizzarsi – o l’aggravarsi – della depressione economica meridionale». E Giordano, alla luce dei Trattati di Roma del 1957 e sulla scia del “funzionalismo” monnettiano cui, dopo il fallimento della CED (da lui ripercorso in maniera avvincente nella Nuova Frontiera) aderiva con ragionato realismo, certamente fiducioso anche se per nulla fideistico, così poi continuava:
Da Napoli, sulla più autorevole rivista meridionalista, Francesco Compagna sostiene da anni la tesi che il Mercato Comune è la più grande speranza d’avvenire del Mezzogiorno, proprio nella misura in cui il Mercato Comune non è concepito come una semplice unione doganale […] ma come una vera e propria Comunità Economica, che dispone, attraverso il Fondo Sociale e la Banca degli investimenti, degli strumenti necessari per una politica riequilibratrice, cioè antidepressiva7.

E vale la pena a questo punto ricordare che proprio sulla «più autorevole rivista meridionalista», e dunque «Nord e Sud», Giordano aveva pubblicato importanti articoli raccolti in seguito nel volume dal titolo Il Mercato Comune e i suoi problemi, del quale a giusta ragione, nel febbraio del ’61, Compagna ritenne doveroso sottolinearne in tal modo il rango: «Chi oggi volesse rendersi conto di che cosa è il Mercato Comune, tanto dal punto di vista economico come da quello politico, di come esso è nato, fra quali contrasti e in rapporto a quali problemi, non potrebbe trovare nulla di più illuminante al di fuori di questa ordinata raccolta degli articoli allora scritti da Giordano»8.
Come abbiamo detto in precedenza era comunque sulla scia del funzionalismo “monnettiano” che Giordano orientava il suo pensiero e il suo agire. Ed in effetti egli, proprio nella Nuova Frontiera, tracciando un quadro per allora ampio ed esauriente del percorso accidentato e variamente interpretato dell’integrazione europea, riportava con adesione il più tardo avviso, formulato nel ’58, di un protagonista di primo piano di quel percorso quale Jean Monnet. Un percorso che all’origine aveva avuto notoriamente in Monnet il primo Presidente della CECA, sulla quale Giordano articolava questo sapiente giudizio:
La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, che fu il punto di arrivo del Piano Schuman, è una specie di sintesi tra il metodo funzionale e quello istituzionale. Monnet rinuncia infatti all’idea della Costituente Europea e sceglie la strada dell’integrazione in un particolare, anche se vitale, settore economico, ma respinge al tempo stesso il metodo della semplice cooperazione tra i Governi per seguire il metodo istituzionale […]. Monnet è convinto che l’unificazione dell’Europa è un fine eminentemente politico, e che questo fine si riassume nell’esigenza di fare dell’Europa una Potenza […] che marci in armonia con il ritmo del mondo […]. La CECA è soltanto una tappa, è la breccia aperta nella cittadella dello Stato nazionale; deve essere la premessa di un’autentica Costituzione federale9.

E dunque per questo che Monnet, reso esperto dal fallimento della CED si era pronunziato, come già detto, nell’ottobre del ‘58 così: «L’unità politica di domani dipenderà dall’entrata effettiva dell’unione economica nei fatti della attività industriale, agricola ed amministrativa quotidiana. Ma nell’immediato non sembra possibile bruciare le tappe»10. Prendendo allora le distanze dalle posizioni per nulla a suo avviso trascurabili dei federalisti che, sulla scia di Spinelli, denunciavano il “minimalismo” del Mercato Comune, ma nella convinzione fin troppo fiduciosa che il principio di “sopranazionalità” caratterizzante la CEE potesse e dovesse portare prima o poi ad esiti federalisti, Giordano così ribadiva:
Gli europeisti si aggrappano tenacemente alla convinzione che la strada da essi indicata porti alla rinascita e continuano a credere che le istituzioni sopranazionali, che sono state costituite, sono la premessa della costruzione federale, nella misura in cui mettono in moto certi meccanismi di fondo, politici, economici e psicologici, che dovranno creare i vincoli profondi di una «unione indissolubile». La comunione di interessi tra i paesi democratici europei, che era solo la visione di una minoranza illuminata, sta ricevendo giorno per giorno la conferma dei fatti: la cosiddetta logica delle cose, che ieri era soltanto un’impostazione razionale, si sta trasformando in una forza obiettiva della realtà politica11.

Fermo rimanendo che anche per de Caprariis quanto sinora detto da Giordano era assai promettente, vero e condivisibile, nelle conclusioni della sua Storia di un’alleanza egli andava più oltre. E questo perché allora riteneva ormai superata con i Trattati di Roma l’impasse dell’europeismo iniziata col trauma della CED; ma anche dissipato, dopo i fatti di Ungheria, l’ingannatore “spirito di Ginevra”, e fugate le illusioni dominanti negli anni fra il ’53 ed il ’56. Anni da de Caprariis definiti come quelli della “grande crisi” dell’atlantismo; quando cioè dalla morte di Stalin al XX Congresso del PCUS si erano inoltre andate accreditando in Occidente edulcorate e fallaci interpretazioni del totalitarismo sovietico da de Caprariis sempre e con decisa dottrina confutate. Così come da lui, ma anche da Giordano, erano state per altri versi criticate le decisioni di Dulles al tempo della tanto discussa spedizione di Suez, e più in generale la politica americana nei confronti del Terzo mondo, laddove si fondava sul generico moralismo anticolonialista. Per nulla assente quest’ultimo proprio riguardo all’appena accennata controversa e controproducente vicenda di Suez, che in Italia vide schierati, con decisione e motivazioni opinabili forse ma di tutto rispetto, Giordano e de Caprariis a favore dell’intervento militare franco-britannico, pur se in dissenso esplicito con gli stessi maggiori esponenti dello schieramento politico in cui essi militavano, a cominciare da Ugo La Malfa.
Fatte ad ogni modo le debite tare de Caprariis, con tono esortativo e fiducioso, nella Storia di un’alleanza così si esprimeva:
Il problema che i dirigenti dell’Occidente devono risolvere, e risolvere subito, è di fare in modo che le energie integrative non vadano disperse, che la spinta alla costruzione europeistica serva a dare maggiore compattezza all’alleanza atlantica e che la dinamica di quest’ultima agevoli, a sua volta, l’edificazione delle strutture europee.

Ed egli così proseguiva con ferma convinzione suffragata sempre con discorso critico:
Non è esatto […] quello che è stato tante volte affermato, che l’integrazione europea porti con sé il germe della dissoluzione dell’alleanza atlantica; e neppure è esatto che la politica europeistica, come pensano coloro che sognano una grande “terza forza” europea che medi tra Stati Uniti e Russia, sia alternativa a quella atlantica: costruire l’Europa equivale a rafforzare l’alleanza atlantica e, reciprocamente, la solidarietà atlantica è uno dei più corroboranti alimenti dell’europeismo12.

Con tonalità diverse, ed in quasi piena sintonia, nella Nuova Frontiera Giordano ebbe modo di esprimersi così:
L’idea di una Federazione Europea – terza forza – equidistante da Mosca e da Washington è una filiazione diretta del punto di vista nazionalista come di quello socialista. È vero soltanto che una Federazione Europea escluderebbe lo squilibrio che c’è attualmente tra le due rive dell’Atlantico, e conferirebbe agli europei un senso di maggiore fiducia, e quindi di maggiore autonomia. Ma è altrettanto sicuro che il processo di consolidamento dell’Europa unita durerebbe decenni, e che durante tutta questa lunga fase, la collaborazione degli Stati Uniti sarà indispensabile. Pretendere di gettare gli sguardi al di là di questo lungo periodo significherebbe lasciare il terreno della critica politica, per avventurarsi su quello delle impossibili profezie13.

Ma dopo la scomparsa di Giordano, le mutevoli e tormentate vicende dell’europeismo e dell’atlantismo, agli inizi degli anni ’60, e non soltanto per le iniziative golliste, spingeranno de Caprariis ad attenuare di molto quanto con cauto ottimismo da lui configurato nella Storia di un’Alleanza in sinergia con la Nuova Frontiera. Nel suo ampio intervento, ad esempio, pubblicato nel 1962 sulla rivista «Nord e Sud» con il titolo Difesa dell’Europa ed europeismo, nel quadro di un’ansiosa e sempre molto documentata analisi della congiuntura politica internazionale, e manifestando significative riserve sull’indirizzo “funzionalista”, esprimendosi in termini quasi contigui al federalismo di Spinelli (senza però aver mai nulla concesso, come si è visto, alle lusinghe dell’Europa come “terza forza”) de Caprariis così infatti criticamente esordiva:
Negli ultimi due anni il Mercato Comune ha dimostrato di avere una vitalità sorprendente: si è avviata una politica agricola comune dei sei paesi aderenti; si sono posti allo studio i principali problemi economici e sociali che la Comunità dovrà affrontare nei prossimi dieci anni. Tuttavia, questo slancio costruttivo […] non deve trarre in inganno. Mai, forse, l’europeismo, ossia il disegno di costruzione di una struttura federale europea è stato così lontano dalla sua meta come lo è oggi14.

Meta che comunque per de Caprariis era e doveva essere ineludibile anche fra l’altro perché, a suo convinto avviso, «il solo partner valido per una reale e seria interdipendenza euro-americana è un’Europa federale»15. Una formula, quella della “interdipendenza”, notoriamente al centro del grande discorso tenuto da Kennedy a Filadelfia il 4 luglio 1962, proprio quindi nell’anniversario della storica Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti. Un discorso che in de Caprariis trovò subito una assai partecipata adesione, condivisa anche da Spinelli, e nel quale veniva detto da Kennedy che gli Stati Uniti si sarebbero tenuti «pronti per una Dichiarazione di Interdipendenza» e disponibili a «discutere con una Europa Unita i modi e i mezzi per costituire una concreta associazione atlantica», in grado di assolvere su una base di perfetta uguaglianza «a tutti i grandi ed onerosi compiti concernenti l’edificazione e la difesa di una comunità di nazioni libere»16.
Il discorso di Kennedy ebbe notoriamente allora vasta risonanza e, al pari di tutte le iniziative “europee” di Washington nel secondo dopoguerra, destò reazioni non univoche su entrambe le rive dell’Atlantico. Per quanto riguarda ad ogni modo l’Europa, così amaramente si esprimeva de Capraris: «Speriamo di non essere accusati di oltranzismo europeistico se affermiamo che la proposta di Kennedy non sarebbe caduta nel gelo di un riservato silenzio, se, al posto dei governi nazionali dell’Europa occidentale, vi fosse stato un governo europeo»17.
Ma più ancora che da “oltranzismo europeistico”, era semmai da “oltranzismo atlantico” che negli ambienti del sinistrismo culturale nostrano venivano ritenute ispirate le puntuali prese di posizione di de Caprariis. Il quale, da ineguagliabile polemista politico, sulle pagine di «Nord e Sud» del novembre del 1961, aveva in modo inoppugnabile sarcasticamente denunciato come una grave stortura intellettuale il “pregiudizio favorevole” di quegli ambienti nei confronti dell’URSS e dei suoi corifei18. Non a caso dunque Francesco Compagna, commemorando nell’anniversario della sua scomparsa il fraterno amico e preziosissimo collaboratore (cui fece seguito provvidenzialmente ed in adeguata maniera Giuseppe Galasso), seppe e volle in modo impeccabile, sulla rivista da lui diretta, scrivere così:
L’“oltranzismo” atlantico di de Caprariis, se di “oltranzismo” si può parlare, nel senso in cui sono soliti parlarne, a proposito e a sproposito, tutti quelli del “pregiudizio favorevole”, non è altro che la proiezione, sul piano della solidarietà atlantica, delle ragioni dell’europeismo democratico e, se si vuole, delle preoccupazioni per la “balcanizzazione dell’Europa”; ma è anche la manifestazione di una acquisita consapevolezza di tutto quello che c’è di comune tra la nazione americana e le nazioni europee, onde veramente si può parlare oggi di una ricca e fiorente civiltà atlantica, le cui diverse componenti devono essere integrate sul piano politico, in modo che non abbiano a prevalere forze centrifughe e disgregatrici, come l’isolazionismo degli americani, magari nelle sue nuove forme, e come il nazionalismo degli europei, magari anche questo nelle sue nuove forme, più o meno neutralistiche, o più o meno golliste19.

Compagna tratteggiava in tal modo e con felice sintesi le linee portanti della riflessione decaprarisiana sui temi dell’atlantismo e dell’europeismo. Una riflessione che venne sviluppandosi, nell’arco di un decennio attraversato da eventi più volte assai clamorosi, sulle colonne del «Mondo» e poi anche di «Nord e Sud», a cominciare dagli anni fra il ’53 e il ’54. Quando cioè l’appena trentenne de Caprariis, risiedendo a Parigi per motivi di studio, ebbe modo di osservare da vicino le turbolenze della IV Repubblica, commentando poi con grande perspicacia proprio sulle colonne del «Mondo» la politica di Mendès-France. La cui deriva antieuropeistica da lui, così come anche da Giordano, veniva ben presto denunciata, scorgendone egli acutamente le implicazioni negli intenti di modernizzazione economica concepiti dal mendesismo nel mero ambito del quadro nazionale francese, in rotta di collisione quindi con la linea seguita dalla politica degli Schumann e dei Monnet. E tutto questo poi inoltre proprio nella congiuntura fatale dell’affossamento della CED, cui non fu certo per nulla estraneo lo stesso Mendès-France. Anzi, secondo il giudizio di Giordano, il quale nella Nuova Frontiera risulta in sintonia con quanto de Caprariis rimeditò in proposito sugli ultimi tre numeri di «Nord e Sud» alla fine del ’5720; secondo quel suo giudizio dunque, la neutralità ostentata da Mendes-France nella votazione del 30 agosto 1954, «non poteva servire a nascondere il fondo del suo pensiero politico». Questo infatti – continuava Giordano – «doveva venire alla luce senza possibilità di errori nei suoi violenti discorsi di opposizione al Mercato Comune ed all’Euratom»21. Beninteso Giordano non appiattiva la figura e la politica di Mendes-France su tale pur fondato giudizio; e questo nell’ampio ed avvincente scenario da lui tratteggiato delle tormentate e complesse vicende della IV Repubblica. Al termine della quale egli, ancor sempre sulla scia di Monnet, dopo il plebiscito del settembre ’58 e gli eventi immediatamente successivi manifesterà un’apertura di credito, per molti aspetti fondata, al Generale De Gaulle, giungendo persino ad esprimersi così:
De Gaulle, che ha sognato la grandezza della Francia sola, constata che per rinnovare la Francia occorre collaborare con le democrazie europee e gli Stati Uniti; che in tale sforzo suoi alleati sono le forze nuove che si sono battute per la modernizzazione del paese e il suo inserimento nell’Europa. La logica della situazione preme sul Presidente della V Repubblica, e lo spinge a nuove visioni22.

Ad interpretare e commentare le quali, per la breve stagione di sua vita, Giordano non ebbe purtroppo modo e tempo necessari. È certo comunque che anche in questo egli avrebbe consentito con quanto, e non fu poco, de Caprariis poté da par suo criticamente giudicare soltanto ahimé agli inizi degli anni ’60. Anche se poi non va dimenticato quello che fu l’atteggiamento filo-atlantico dei primi anni della Presidenza De Gaulle; e questo soprattutto alla luce della ferma presa di posizione gollista durante la seconda crisi di Berlino nonché, in seguito, sulla delicatissima e drammatica vicenda della nota questione dei missili sovietici a Cuba23.




NOTE
1 R. Giordano, La nuova frontiera-La coalizione occidentale e la politica di potenza, Bologna, il Mulino, 1959, p. 247.^
2 P. Craveri, La democrazia incompiuta, Venezia, Marsilio Editori, 2002, p. 251.^
3 V. de Caprariis, Storia di un’alleanza-Genesi e significato del Patto Atlantico, nuova ed. con l’aggiunta di altri saggi, a cura di G. Buttà ed E. Capozzi, Roma, Gangemi Editore, 2006, p. 175.^
4 Cfr. F. Compagna e G. Galasso, Autobiografia di “Nord e Sud”, in «Nord e Sud», n° 146, gennaio 1967, pp. 106-10.^
5 F. Compagna, Meridionalismo liberale, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 1975, p. XXI.^
6 Ivi, p. 69. E’ pienamente pertanto condivisibile a tal proposito quanto è stato di recente rimarcato da V.E. Parsi: «Stare in Europa, ancor più che far parte della NATO, ha costituito la via italiana al consolidamento della sua “identità occidentale”, cosa tutt’altro che scontata visti i precedenti della storia unitaria del paese. Certamente, l’idea di una particolare “vocazione mediterranea” resterà sempre come tentazione ricorrente per una parte anche ampia della classe politica della prima repubblica. Ma, fatte salve alcune eccezioni, tale vocazione non acquisirà mai quel carattere di oggettiva alternativa che avrebbe invece rischiato di avere senza l’istituzionalizzazione della scelta europea e occidentale». V.E. Parsi, L’alleanza inevitabile, Milano, Università Bocconi Editore, 2006, p. 213.^
7 R. Giordano, op. cit., p.186.^
8 F. Compagna, op. cit., p. 67. Cfr. R. Giordano, Il Mercato Comune e i suoi problemi, Roma, Opere Nuove, 1958.^
9 R. Giordano, op. cit., pp. 250-51.^
10 Ivi, p. 263.^
11 Ivi, pp. 263-64.^
12 V. de Caprariis, op. cit., pp. 176-7.^
13 R. Giordano, op. cit., p. 249.^
14 V. de Caprariis, op. cit., p. 225.^
15 Ivi, p. 243.^
16 Cfr. Storia e percorsi del federalismo, a cura di D. Preda e C. Rognoni Vercelli, Bologna, il Mulino, 2005, tomo II, pp. 1098-99.^
17 V. de Caprariis, op. cit., p. 242.^
18 Cfr. V. de Caprariis, Scritti, a cura di G. Buttà, Messina, Edizioni P&M, 1992, 4, pp. 53-71.^
19 F. Compagna, op. cit., p. 131.^
20 Cfr. V. de Caprariis, L’avvento di Mendès-France, in «Nord e Sud», numeri 35/ 36/ 37, (ottobre, novembre, dicembre1957).^
21 R. Giordano, op. cit., p. 140.^
22 Ibid. p. 142.^
23 Cfr. in proposito G. Quagliariello, De Gaulle e il gollismo, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 585 sgg.^
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