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Giorgio Amendola: una scelta comunista
di Giuseppe Galasso
In casa di Giorgio Amendola liberalismo e democrazia erano valori, per così dire, originari. Il padre, Giovanni, è noto per tante cose, ma fra queste non sempre viene ricordato il contributo che egli diede allo sforzo di ampliare e definire «la nuova democrazia», come appropriatamente fu intitolata una raccolta dei suoi scritti. E ciò non in un impegno soltanto etico e intellettuale, ché anzi la sua azione al riguardo si tradusse nel tentativo, audace allora, di dare avvio a una forza politica nuova che della nuova democrazia rappresentasse un veicolo efficace e riconosciuto, quali che ne fossero le dimensioni; e questo appunto fu ciò che Giovanni Amendola volle perseguire con la fondazione a Firenze nel 1925 dell’Unione Nazionale delle forze liberali e democratiche, che perciò merita un suo rilievo nella storia della democrazia italiana.
Da questo ambiente, comunque, proveniva Giorgio, e certo ne portava con sé il senso e la nozione delle idee paterne. Né, altrettanto certamente, a lui mancò lo stimolo, comune a tanti suoi contemporanei, ad approfondire concetti e nozioni della vita politica, che potessero illuminare e guidare il pensiero e l’azione delle giovani generazioni, che maturavano in una fase della vita nazionale definita “rivoluzionaria” da coloro che allora si impadronivano del potere e spegnevano il libero sviluppo della vita pubblica in Italia. Perciò la formazione di Giorgio finì col configurarsi come un processo che incrociava sia l’eredità paterna, sia i bisogni e le idee nascenti dai problemi posti da quell’esperienza italiana. Che non era, come si sa, poi soltanto esperienza italiana, ma europea e occidentale in una travagliata vicenda di contrasti e di novità.
Due elementi risultavano dominanti, in effetti, negli anni della formazione e del primo fiorire della personalità di Amendola: da un lato, la crisi economica mondale del 1929 e anni seguenti; dall’altro, l’avvento di regimi politici di tipo nuovo col comunismo in Russia e col fascismo in Italia, a cui ben presto si affiancò, all’inizio del 1933, il nazional-socialismo in Germania. Coincidenza cronologica di gran peso, anche questa, per gli orientamenti politici e, addirittura, la vita di Amendola.
Detto in breve, la sua scelta fu di identificare immediatamente la democrazia con l’antifascismo, e l’antifascismo con quella che ne appariva la più drastica antitesi, ossia il comunismo. La scelta comunista non era, però, tale da potersi ridurre soltanto all’antifascismo, come allora era non solo per Amendola. Essa rispondeva anche all’altro grande problema del tempo, quello della crisi economica mondiale, e vi rispondeva con implicazioni sociali radicali e, in sostanza, con una sua proposta globale di civiltà nuova, risolutiva. La scelta di Amendola per il comunismo non poteva, quindi, per definizione, che essere ugualmente globale.
È sintomatico che nel ricordo personale e nel giudizio posteriore di Giorgio questo dovesse significare un consapevole distacco non solo dalla posizione paterna, bensì anche da tutto un tipo di cultura che, senza essere propriamente il suo, rappresentava, tuttavia, per così dire, il clima culturale degli anni della sua formazione giovanile.
A Napoli questo voleva dire soprattutto Croce. Non credo che vi sia stata una fase precisa in cui si possa definire Amendola crociano, nel senso proprio del termine, così come allora accadeva a innumerevoli giovani. Credo si possa dire, però, che varie componenti di quel pensiero egli le respirasse e le assimilasse più di quanto il non appartenere a una scuola potrebbe far credere. Si sa, del resto, che il crocianesimo fu molto di più che una scuola, fu anche e forse innanzitutto, negli anni ’20 e ’30, un’ispirazione e un impulso culturale, quasi una condizione ambientale, nella quale ci si muoveva per un dato di fatto, prima ancora di una scelta al riguardo. Ciò ha fatto parlare, molto a sproposito, di una dittatura culturale crociana nell’Italia di quei due decennii, ma le cose stavano ben altrimenti, e Croce non fu mai in maggioranza rispetto alla cultura gentiliana, cattolica, nazionalistica, fascistica, irrazionalistica o attivistica di allora. E, tuttavia, se una voce sorge, ve ne sono delle ragioni, e a questo assioma non sfuggono,ovviamente, né la funzione culturale di Croce in quel tempo, né l’esperienza che ne poté fare Amendola.
Quanto alla crisi economica del 1929, è noto che Giorgio aveva studiato economia nell’università di Napoli e si era laureato con una tesi sul tema, suggeritogli da Nitti, del credito al consumo, della quale fu relatore Augusto Graziani sr. La crisi del 1929 sconvolse la tematica di questa tesi, ma determinò e accentuò in lui la persuasione che il capitalismo non era in grado di superare il ricorrere di crisi per esso fatali. I suoi scritti posteriori su «Lo Stato Operaio», attribuitigli di recente, manifestano, tuttavia, un certo equilibrio nel resistere alla tentazione di ritenere sempre imminente il crollo del capitalismo; e i contatti che negli anni ’30 egli ebbe con Pietro Sraffa e con Maurice Dobb certamente lo rafforzarono in tale atteggiamento. E ciò tanto più in quanto l’orizzonte dell’economia fu sempre inquadrato da lui nelle più ampie prospettive della storia, a cui era stato educato, per esserne condizionate, oltre che per condizionarle; e nelle prospettive della storia erano fondati anche i valori, appunto, della libertà della democrazia.
Se, perciò, dovessi dire che cosa gli restasse di quegli anni, direi, quindi, in sostanza, che sul versante paterno come su quello crociano gli restasse, innanzitutto proprio questo: l’idea che libertà e democrazia sono valori in sé e valori assoluti della vita associata, al di là perfino delle loro vicende e dei loro ruoli storici.
La biografia di Amendola non è nemmeno pensabile se si astrae da questa petizione di principio. Dal versante crociano gli derivavano, inoltre, più specificamente, due elementi non meno importanti. Uno è quello della storicità come categoria totalizzante del pensiero e dell’esperienza umana. L’altro è un richiamo al realismo come metodo della considerazione storica, dove realismo significa varie cose, ma innanzitutto significa tagliare fuori dalla storia l’idea di un disegno storico prestabilito, entro il quale di fatto la storia debba svolgersi. Nella storia non vi sono letti di Procuste nei quali essa debba fatalmente giacere. E qui di nuovo si torna, in qualche misura, alla componente paterna della personalità intellettuale e morale di Amendola, poiché sembra riflettersi in questo istintivo e intuitivo orientamento un po’ del volontarismo (anche in parte spiritualistico) proprio delle posizioni filosofiche del padre. E, del resto, è proprio così che si comprende meglio come il distacco di Giorgio Amendola sia dalle posizioni dell’antifascismo paterno, sia da quelle dell’antifascismo crociano avvenisse su un punto preciso: quegli antifascismi erano nobili e autentici, ma non avevano la combattente efficacia di uno scontro immediato e diretto.
Di tutto ciò nell’intervista sull’antifascismo e negli scritti autobiografici è facile raccogliere le testimonianze. Il fascino della sua biografia sta, peraltro, nel fatto che questi elementi della sua formazione giovanile e intellettuale costituirono in seguito il sale di una tal quale inquietudine e disagio di Amendola anche nel pieno della sua militanza comunista più convinta, anche negli anni in cui l’astro montante del “socialismo reale” lo coinvolse più totalmente e con maggiore passione di slancio e di certezze nella sua attivissima vita di militante e dirigente di partito: diciamo, dunque, in continua ascesa fino al culmine degli anni ’40. Non per nulla la visione storica del comunismo e della classe operaia come soggetti storici che raccoglievano, sottraevano alle angustie di classe e portavano al completo trionfo e a una superiore e ben più ampia espressione le istanze liberali e democratiche della civiltà borghese appartenne ad Amendola forse più che ogni altra idea sul rapporto tra il mondo nuovo del comunismo e il mondo sul quale il comunismo si imponeva.
Queste affermazioni costituirebbero una forzatura poco accettabile se volessero togliere alcunché alla pienezza delle convinzioni e dell’impegno comunista di Amendola:convinzioni e impegno che non solo furono pieni, ma non furono mai disdetti.
Il volumetto La classe operaia italiana del 1968 ne è, ad esempio, una dimostrazione evidente, fondato com’è, ancora a questa data avanzata, sull’idea di classe e sull’egemonia e tutela che sulla classe per eccellenza, ossia sulla classe operaia, deve esercitare il partito della classe operaia, ossia il partito comunista, e che la classe deve accettare, per realismo storico, se non per altro. Una rivendicazione del ruolo del partito che, come è noto, lo rendeva assai critico anche sul ruolo del sindacato, quando esso promuove rivendicazioni avulse da una visione generale delle circostanze e dei problemi economici e sociali, disconoscendo il ruolo dei partiti e delle istituzioni rappresentative.
Allo stesso modo, mai Amendola sembra aver dubitato non solo dell’ufficio discriminante della rivoluzione del 1917 nella storia del mondo e dell’uomo, ma neppure del ruolo particolare che sulla base di quella rivoluzione e dei suoi svolgimenti toccava all’Unione Sovietica e al suo partito comunista. Non possiamo sapere quale posizione egli avrebbe assunto, se fosse stato ancora vivo, sulla dichiarazione di Berlinguer circa l’esaurimento della spinta storica propulsiva della rivoluzione del 1917 e dell’Unione Sovietica. Ma siamo dell’avviso che a una tale tesi molto difficilmente egli avrebbe consentito (o, almeno, consentito senza profonde riserve o limitazioni); e anche in ciò non manca qualche elemento di paradosso, se si pensa che Amendola fu con tutta probabilità il dirigente comunista italiano di alto livello che ebbe forse minore frequentazione e meno contatti anche fisici con Mosca.
Proprio, però, per questa certezza del suo essere comunista assumono tutta la loro importanza quei fermenti che abbiamo sopra definito di inquietudine e di disagio nell’esperienza del militante appassionato e convinto del comunismo che Amendola fu. Sarà bene precisare, intanto, che i termini da noi usati non vogliono avere nulla di puramente psicologico. Al contrario, vogliono indicare una questione e una tensione del tutto e squisitamente politica. E anche qui, nella impossibilità di un’analisi dettagliata, sarà opportuno indicare qualche elemento sintomatico, nell’esperienza politica di Amendola soprattutto, crediamo, dalla fine degli anni ’50 in poi.
Un certo discorso sarebbe qui anche da fare alle posizioni meridionalistiche di Amendola. Più importante è, però, sottolineare il suo ruolo, non sapremmo dire quanto volutamente individuato, di interlocutore di gran lunga principale dei liberali e democratici italiani dal momento in cui si cominciò a sbloccare, almeno in ipotesi, con qualche segno di disgelo, la frontale e polarizzata contrapposizione fra comunisti e non comunisti. I suoi dibattiti con Ugo La Malfa, così come qualche scambio anche polemico con Spadolini, mostrano chiaramente una tendenzialità, che non si può mancare di cogliere. E questo è tanto più notevole in quanto il senso letterale della polemica che Amendola conduceva con La Malfa e con Spadolini era, per alcuni aspetti, di una durezza preclusiva, nell’imputare a La Malfa di rappresentare una minoranza di scarsissima consistenza quantitativa o nel contestare a Spadolini che si potesse parlare di tre culture (la cattolica, la marxistica e la laica), poiché questa terza non appariva ad Amendola di nessun rilievo. Più difficile è analizzare la stessa componente tendenziale nell’idea del “partito del lavoro”, che per qualche anno diede ad Amendola tanto rilievo nel dibattito politico italiano.
Nell’esperienza del “compromesso storico” emergono nello stesso senso ulteriori elementi, ugualmente meritevoli di analisi particolari. Furono allora mosse ad Amendola non poche critiche di nebulosità fuorviante dal punto di vista tradizionale del suo partito per le posizioni da lui via via assunte; e non si può evitare di riconoscere che qualcosa di queste critiche non fosse affatto infondato. L’esperienza dell’europeismo avrebbe, tuttavia, dimostrato a sua volta che inquietudini e disagi amendoliani non mancavano di aspetti politicamente costruttivi. La solidarietà con Spinelli su questo terreno, gli accenti quasi mazziniani con cui per alcuni aspetti il problema della costruzione europea fu da lui non di rado presentato, il segno liberal-democratico della sua visione di un’Europa politica pluripartitica e plurideologica sono una dimostrazione non solo della sicura tensione costruttiva in cui si risolvevano i fermenti espliciti e impliciti nella storia personale di Amendola, ma ne sono anche un segno troppo complesso per dubitare del senso in cui questa storia si svolgeva, sia pure all’ombra di quelle fedeltà delle quali abbiamo detto, in una congiunzione tangenziale o marginale quanto si voglia, ma chiara con le visioni più tipiche della più alta tradizione liberal-democratica italiana. E ciò anche a prescindere dal fatto che l’Europa apparve, infine, ad Amendola come un piano risolutivo rispetto alla prospettiva della dimensione nazionale nell’Europa contemporanea anche dal punto di vista dei problemi di sviluppo economico.
Insomma, la scelta comunista intorno al 1930 non chiuse del tutto, una volta per sempre, i conti di Amendola con la tradizione liberale e democratica. Diluì questi conti nel corso di una intensa biografia di militanza e di lotta nel segno di altre idee, ma mantenne in essa un fermento sempre vivo, di cui si videro gli sviluppi quando si fece sentire la ragione dei tempi, e per cui egli resta molto di più come il testimone di esigenze del suo tempo, oltre che del suo spirito, che non il propositore di soluzioni che abbiano ricevuto in qualche modo il conforto del successo o della verifica storica. E per capirlo e per riconoscere il poco o il molto (non ha importanza qui che si tratti di poco o di molto) che Amendola ha restituito alla tradizione di pensiero dalla quale era partito non c’è affatto bisogno di sottrarlo alla sua militanza comunista o di vederlo emigrare da essa verso altri lidi. Gli bastarono lo storicismo e il realismo della sua formazione giovanile.



Nota bibliografica

Il testo qui presentato fu letto, in una più breve versione, il 21 novembre 2007, in Montecitorio, per le celebrazioni del centenario della nascita di Giorgio Amendola,organizzate dalla Fondazione della Camera dei Deputati. L’occasione spiega la forma del testo, per cui ci limitiamo qui a citare i nostri cenni su Amendola in G. Galasso, Seguendo il P. C. I. Da Togliatti a D’Alema (1955-1996), Lungro (Cs), Marco Editore, 1998; il profilo tracciato in M. Fatica, Amendola, Giorgio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 34, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988, pp. 97-111; e i saggi di V. Sgambati, La formazione politica e culturale di Giorgio Amendola, in «Studi Storici», 32 (1991), pp. 729-760; Tra passione e ragione, tra democrazia e comunismo: l’itinerario di Giorgio Amendola, in «L’Acropoli», 7(2006), pp. 196-209; e Economia e storia nella formazione intellettuale di Giorgio Amendola, ugualmente in «L’Acropoli», 8 (2007), pp. 589-600.
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