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A sei mesi dal voto
di Antonio Maccanico
1. A sei mesi dalle elezioni politiche e dalla netta vittoria della coalizione guidata da Silvio Berlusconi il Partito Democratico, che ha scelto con lo strumento delle primarie il suo leader nella persona di Walter Veltroni, e che, pur sconfitto, ha ottenuto un consenso in voti superiore a133 per cento dei votanti non dà ancora segni di una vera stabilizzazione interna, né si può dire che si sia dato linee identitarie precise, né si è finora dimostrato capace di offrire una visione coerente dei problemi del paese alternativa a quella della maggioranza e del governo.
Inoltre i frequenti contrasti interni che emergono fra i dirigenti del partito trasmettono al Paese l'imma¬gine di una forza politica ondeggiante e incerta, ancora in cerca di una ferma linea politica indirizzata a precisi traguardi.
Si può sostenere che sei mesi sono pochi per conseguire un solido assestamento organizzativo e programmatico di una forza politica nuova dopo una bruciante sconfitta elettorale, e certamente in questa tesi v'è del vero, ed è quindi comprensibile un certo sbandamento e disorientamento che colpiscono sia il gruppo dirigente che la base popolare del partito.
Ciò tuttavia non ci esime dal rilevare che dalle polemiche interne non emergono ancora segni convincenti che si stia per imboccare la strada giusta della riscossa.
V'è una carenza fondamentale in questi dibattiti accesi e spesso costellati di reciproche accuse e imputazioni di responsabilità: una seria, approfondita riflessione su ciò che è avvenuto negli ultimi quindici anni in Italia, dalla legislatura '92-'94, dall'esplosione di Tangentopoli, dai referendum elettorali, che ci hanno dato in prevalenza il sistema maggioritario e sono stati la vera pietra tombale della prima repubblica. Riflessione, che non deve investire solo i cambiamenti strutturali economici e sociali e del contesto internazionale, ma anche più specificatamente la politica, le forze politiche in campo, e gli indirizzi prevalenti che hanno portato allo sbocco attuale della complessa vicenda nazionale.
2. Il dato di novità principale che la nuova legge elettorale prevalentemente maggioritaria ha introdotto nel nostro sistema è stato la cancellazione della cosiddetta "conventio ad excludendum" che è stato uno dei pilastri della costituzione "materiale" della prima repubblica.
Quando si parla di "conventio ad excludendum" in genere si pensa alla condizione creata al Partito comunista,
presente, forte e vitale in Palamento, ma escluso dagli equilibri di Governo per il legame di politica internazionale con l'U.R.S.S., in contrasto aperto con la nostra appartenenza all'alleanza occidentale guidata dagli Stati Uniti, in periodo di guerra fredda.
Ma la "conventio ad excludendum" riguardava anche la destra post-fascista e tutte le forze che erano estranee al cosiddetto "arco costituzionale".
In certo senso, con il Partito comunista fu trovato un compenso alla esclusione rigorosa dell'area del governo, e cioè il cosiddetto "consociativismo". Con questo termine, che è spesso usato a sproposito, si intende una fase della politica istituzionale della nostra Repubblica con lineamenti assai precisi, perché fissati nei regolamenti parlamentari.
Si intende lo spostamento sistematico di poteri decisionali dal Governo al Parlamento e un ruolo spesso condizionante nelle decisioni parlamentari dei gruppi più forti, indipendentemente dalla loro collocazione nella maggioranza che sosteneva il Governo o all'opposizione.
Nei confronti delle forze di destra post-fascista ed estranee "all'arco costituzionale" la chiusura fu in genere più netta. Basta pensare alle vicende del Governo Tambroni all'inizio degli anni '60 e ai moti di Genova che l'accompagnarono.
Fu un grande merito storico della Democrazia cristiana, in particolare di De Gasperi, quello di attirare le forze moderate del paese su una linea di ferma opposizione al comunismo, ma anche di inequivoca difesa democratica, con chiusura alle forze delle destre oltranziste, che spesso erano sostenute dalla gerarchia vaticana.
Ma quando per le conseguenze di Tangentopoli e per la nuova legge elettorale la Dc si dissolse, questa distinzione tra destra moderata e destra oltranzista crollò: la nuova legge elettorale e il crollo del muro di Berlino portarono con se una sorta di legittimazione universale, a sinistra come a destra.
Silvio Berlusconi colse subito questa novità e il suo primo atto politico fu l'annuncio che per le elezioni nella Capitale avrebbe sostenuto la candidatura di Fini contro quella di Rutelli.
Da allora Berlusconi perseguì con fermezza e con coerenza l'intento di creare una coalizione fondata prevalentemente sulle forze che erano state estranee o escluse dalla costruzione della prima Repubblica, dalla Repubblica proporzionalistica, dalla Repubblica dei partiti "dell'arco costituzionale".
Mise insieme i post fascisti di AN, la Lega, che all'inizio era sotto l'influsso ideologico di Miglio, teorico non del federalismo, ma della Confederazione (gli Stati Uniti per passare dalla Confederazione alla Federazione combatterono una sanguinosa guerra civile), trasformò in partito Pubblitalia, mettendo insieme il popolo delle partite I.V.A. non certo entusiasta delle degenerazioni partitocratiche della prima Repubblica. Fu un'impresa as-sai ardua, caratterizzata dalla forte personalizzazione della leadership. La sua introduzione rappresentò elemento importante, corrispondente alle tendenze affermatesi nelle democrazie europee, di una nuova costituzione materiale. E aiutata dal potere mediatico di cui disponeva quella leadership riuscì anche a determinare quelle evoluzioni e convergenze delle principali componenti, che resero meno conflittuale la coalizione, e l'hanno portata al clamoroso successo elettorale dell'aprile scorso.
La natura delle forze prevalenti nella coalizione di centro-destra spiega anche, accanto ai problemi personali del leader Berlusconi (mostruoso conflitto di interessi, problemi giudiziari rilevanti), perché il contrasto tra i due schieramenti nell'assetto bipolare che si costruì fu così acuto e persistente, e le ragioni di una riforma costituzionale del periodo del primo lungo governo Berlusconi 2001-2006 in stridente contrasto con la Costituzione del '48. Ciò determinò un moto di rigetto nell'elettorato, che la respinse nella consultazione referendaria.
3. Nello schieramento opposto di centro-sinistra, che raccolse in prevalenza eredi dei partiti scomparsi, i comunisti e i democristiani di sinistra non si ebbe una percezione altrettanto nitida della novità che la legge elettorale maggioritaria aveva introdotto nel sistema politico. Non si colsero cioè le implicazioni insite nella logica maggioritaria, che segnava una discontinuità profonda rispetto agli equilibri della prima repubblica.
Al contrario, l'unica idea emersa, l'Ulivo, che sembrò l'embrione di una forza politica veramente nuova e che portò il centro-sinistra alla vittoria nel '96, incontrò subito resistenze, riserve rivendicazioni identitarie, diffidenze partitiche, richiami alla vecchia logica proporzionalistica.
All'interno del centro sinistra, la prova della prevalenza di questo "mood" largamente condiviso da post comunisti e post democristiani, fu data dalla riforma degli enti locali e delle Regioni.
Per assicurare stabilità di governo ai comuni, alle province, alle Regioni non si pensò affatto di estendere un sistema elettorale a prevalenza maggioritario anche agli enti territoriali; si preferì cambiare la forma di governo (elezione diretta dei capi degli esecutivi) pur di conservare il sistema proporzionale (con piccoli sbarramenti e premi di maggioranza) per la elezione dei consigli comunali, provinciali e regionali. Si crearono cioè sistemi ibridi di governance, semipresidenziali e semi parlamentari, che preservarono comunque "il partitismo" locale, anche a scapito dell'efficienza e della capacità decisionale di quelle istituzioni.
Non si capì che la cultura del maggioritario non spegne affatto il pluralismo politico: in nessun paese di democrazia occidentale con sistemi elettorali caratterizzati da elementi forti di logica maggioritaria il pluralismo politico si può dire sia sparito.
Esso esiste, ma è incanalato nella dialettica interna alle grandi formazioni politiche, non provoca la frammentazione, i veti, i ricatti di minoranze, che sono fenomeni tipici dei sistemi proporzionali.
Il risultato di tutto ciò fu la crisi del Governo Prodi nel '98, seguita da ben due governi del centro-sinistra in quella legislatura (D'Alema e Amato) e da una terza candidatura alla guida della coalizione (Rutelli): una girandola di nomi da capogiro politico.
Inoltre il Governo Berlusconi, che nacque dalla vittoria elettorale, a metà percorso della legislatura incassò una sconfitta rovinosa alle elezioni regionali e amministrative. Ma quale uso fece il centro-sinistra di quella schiacciante vittoria se nel 2006 alle elezioni politiche conseguì un successo assai stentato? Ne nacque l'ultimo Governo Prodi con un programma monstre di trecento pagine e con centodue componenti, che sembrò il perfetto revival dei governi della prima Repubblica.
Perché questo è il dato che emerge abbastanza nettamente. Gran parte del Paese vede nella coalizione guidata da Berlusconi la vera novità politica italiana del terzo millennio, e nella coalizione di centro-sinistra la semplice proiezione del "partitismo" del secolo scorso.
4. Non si può negare che la decisione di Veltroni di portare il partito democratico alle elezioni da solo, come "partito a vocazione maggioritaria" sia stata una iniziativa di rottura, abbia segnato una discontinuità salutare, che ha avuto l'effetto immediato di semplificare lo schieramento politico nonostante la pessima legge elettorale.
Ma non è stata seguita subito da uno sforzo adeguato a dare una inequivoca identità riformista nuova al partito, fatta di valori e di visione ideale, di un progetto politico realistico dai lineamenti chiari, di un metodo trasparente di selezione della classe dirigente. Sono comparsi i primi dubbi e le prime riserve, le polemiche lunari sui rapporti di collaborazione o meno con la maggioranza, sui problemi delle alleanze. E parso evidente che non tutto il partito condivideva la svolta del suo leader, e ciò ha portato ad un puro gioco di rimessa con la maggioranza, divenuta padrona assoluta dell'agenda politica, in assenza di iniziative della più forte forza di opposizione.
È chiaro che la via di uscita è una rapida conversione dalla polemichetta interna, all'attenzione e alla riflessione sulla straordinaria accelerazione degli eventi sulla scena internazionale e interna avvenuta nelle ultime settimane.
Stiamo assistendo al colossale fallimento su scala planetaria delle idee e degli indirizzi della destra conservatrice, a partire degli Stati Uniti, che ha dominato la scena politica ed economica del pianeta degli ultimi venti anni: e le forze di centro sinistra non esprimono con chiarezza il loro giudizio su come affrontare i problemi colossali che nascono e ci stanno davanti.
È fallito il lungo tentativo dei new-con americani di assicurare progresso al cittadino consumatore e investitore, comprimendo e cancellando i suoi diritti civili (v. Robert Reich); di garantire lo sviluppo del mercato abolendo le regole e favorendo abissali livelli di disuguaglianza; di fondare l'ordine internazionale sul più smaccato unilateralismo, velleitario e rovinoso. Su tutto ciò il partito democratico è piuttosto afono e lascia spazio paradossalmente a Tremonti.
Quando si fanno raffronti con il grande crasch del '29 e degli anni '30 si dimentica che allora nell'epicentro della crisi, gli Stati Uniti, vinse ED. Roosevelt, il New Deal, la moderna sinistra democratica, ma in Europa vinsero il nazismo ed il fascismo, il nazionalismo esasperato che portò al secondo conflitto mondiale.
Ora il rischio non è più quello sbocco rovinoso, ma un altro, quello che è stato definito "il capitalismo autoritario", una "scimmiottatura" del modello cinese e russo, un dirigismo di tipo nuovo.
Già serpeggia l'invidia dei "decisionisti" per quel modello, una deriva che trova sulla sua strada un solo ostacolo serio, la Unione Europea.
Sono in tanti a domandarsi, come scrive Bastasin sul "Sole 24 ore", se la democrazia sia in grado di fronteggiare e governare crisi epocali come quella che stiamo vivendo.
Un partito democratico in queste dizioni deve battersi e attivamente operare con determinazione per una rigenerazione democratica dell’economia di mercato, per respingere ogni tipo di estremismo, per avviare un nuovo corso dei rapporti transatlantici alla vigilia delle elezioni americane, e per una ripresa vigorosa del processo d'integrazione europea entro un quadro di riscossa dell'Occidente e dei suoi valori di civiltà che sia senza esitazione e ambiguità.
Ciò comporta definizione di confini precisi sia a sinistra che a destra; ma anche l'accettazione di convergenze quando ci si muove nella stessa direzione, al governo o all'opposizione.
Comporta altresì lo sforzo di costruire una "democrazia decidente", che salvi le garanzie democratiche, ma eviti le secche di quello che nell’ordine del giorno Perassi alla Costituente veniva definito "parlamentarismo".
Gli arroccamenti su procedimenti inutilmente dilatori, residui del periodo consociativo, sono perniciosi a tutti, maggioranza e opposizione.
In materia istituzionale credo centrale un problema troppo a lungo trascurato: l'imparzialità delle pubbliche amministrazioni, un valore costituzionale quasi totalmente ignorato dalle forze politiche.
Mi riesce difficile pensare ad una pubblica amministrazione efficiente, se non ne è garantita la imparzialità. Si tratta in sostanza di pensare ad una nuova statualità all'altezza della crescente complessità della vita politica e amministrativa.
Sulle istituzioni sarebbe necessario chiarire che l'attuazione dell'art. 119 della Costituzione non esaurisce il problema del federalismo, e cioè della nuova forma di Stato, ma è solo un capitolo che deve essere inquadrato in una complessa strategia di attuazione e di correzione di tutta la riforma del titolo V, incluso il problema del bicameralismo e cioè della riforma del Senato. Senza la fissazione di una scala di priorità delle questioni da affrontare si rischia di fare giganteschi buchi nell'acqua.
Un altro punto fermo della identità del partito democratico deve essere quello della laicità.
Se è vero quello che scrive don Gianni Baget Bozzo che «la Dc è morta in Vaticano»; che «il cattolicesimo ha cessato di essere una motivazione politica»; che «la Chiesa non affida più ai laici credenti il compito della sua presenza nel mondo politico» credo che il partito democratico debba una particolare considerazione per i cattolici democratici che militano nelle sue organizzazioni e per la loro tradizionale laicità. Il cattolicesimo democratico italiano, nato da Sturzo e De Gasperi, sa che cosa significa governare il pluralismo politico e sa resistere alla tentazione neo temporale di cancellare la neutralità etica dello Stato, di trasformare in norme giuridiche dello Stato i precetti etici della Chiesa. Tutto ciò non può rimanere nascosto; è bene che emerga con chiarezza.
Infine, mentre tutti gli osservatori della condizione generale dell'Italia sono giustamente allarmati dall'aggravarsi del divario economico e sociale tra il Sud Italia e il Centro-Nord, di tali dimensioni da far pensare allo sgretolamento in corso del tessuto unitario del paese; mentre il Governatore della Banca d'Italia invoca "un nesso" tra la politica economica generale e quella per lo sviluppo del Mezzogiorno come condizione indispensabile per la ripresa durevole; mentre il Governo a questo riguardo dimezza i contributi alla Svimez, unico strumento che sistematicamente analizza le condizioni del Sud, si avverte molto fievole la voce del partito democratico su questo che è il secolare problema della unificazione economica del paese, che è il vero problema dell'Italia unita.
5. Le rapide considerazioni esposte fin qui sono sommarie indicazioni che muovono dall'idea che la costruzione su basi solide dell'identità di un partito democratico come polo aggregante di forze politiche alternativa alla coalizione che governa oggi l'Italia sia indispensabile non solo per assicurare in futuro una alternanza nella guida del Paese; ma perché anche nell'immediato un'opposizione autorevole può svolgere un ruolo importante, vitale nella maturazione democratica complessiva del Paese. Le forze politiche, anche quelle più divaricate e distanti come quelle presenti oggi in Italia, si influenzano reciprocamente finché l'ordinamento democratico regge; si evolvono, si correggono, si trasformano sotto i colpi della mutevole realtà.
Anche le gravi anomalie, che certamente sono presenti, possono essere superate dalle iniziative dell'autonomia secolarizzata della politica, se essa è veramente creativa, storicamente radicata e dotata di energia morale. E questa in sostanza l'essenza delle fede democratica.
È fisiologico che la dialettica politica proceda per scontri duri e per convergenze improvvise. E importante che al fondo rimanga vivo il senso della comunità nazionale. Non sarà un compito facile: le suggestioni estremistiche di varia natura creeranno ostacoli e divisioni e saranno rafforzate dall'aggravamento del disagio sociale che la crisi porterà con se. Ma quella che si è indicata è la via obbligata per la crescita democratica e civile del nostro paese.
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