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Gli albori del Movimento Comunità (1947-1949)
di Davide Cadeddu
«Coerentemente alla posizione ideologica assunta», nei giorni compresi tra il 15 e il 17 maggio del 1947, alcuni delegati piemontesi del Partito cristiano-sociale sostennero a Livorno, durante le discussioni del terzo congresso nazionale del partito, una mozione con cui ne proponevano la trasformazione in Movimento Comunità, «abbandonando il nome e il carattere di partito»1 .
Il documento conteneva «la sostanza del programma politico» di quella porzione del Partito cristiano-sociale che aveva iniziato la propria attività costituendo ufficialmente la sede di Ivrea con una conferenza, sull’idea di Comunità, svolta da Adriano Olivetti nel capoluogo canavesano, presso la Camera del lavoro, la mattina di domenica 23 marzo 1947 . Un incunabolo del movimento «Comunità», tuttavia, stava agendo politicamente già da settimane. Aveva, tra l’altro, preso contatti a Verona con il Movimento integralista dei liberi lavoratori, che pubblicava il quindicinale «Civiltà» e che «aveva da tempo espresso le proprie simpatie per “Comunità” e l’ordine politico da essa propugnato»3 , esposto nel libro di Olivetti, L’ordine politico delle Comunità4.
Lo scopo che questi stava perseguendo con l’incipiente movimento, dopo la delusione maturata in seno al Psiup5, era esaminare l’orientamento di formazioni politiche minori, ispirate a principi affini a quelli da lui sostenuti, e «concretare le basi teoriche e pratiche di un nuovo raggruppamento politico di più ampio respiro»6. Fin dall’estate del 1946, in effetti, aveva iniziato a sviluppare un dialogo con Gerardo Bruni, che, con l’esecutivo centrale del Partito cristiano-sociale, il 27 agosto del 1946 aveva riconosciuto le idee espresse da Olivetti su «Comunità» conformi all’indirizzo generale del partito e, quindi, gliene aveva affidato l’organizzazione in Piemonte7 . Già nel maggio del ’47, tuttavia, fu evidente che i gruppi cristiano-sociali di diverse altre regioni non condividevano la posizione della delegazione piemontese, la quale, assumendo «un atteggiamento decisamente chiarificatore», sceglieva dunque di uscire dal partito8.
Nella mozione sostenuta durante il congresso di Livorno – ma ritirata prima delle votazioni finali9 –, il gruppo piemontese dichiarava «la necessità di mantenere la autonomia di fronte a qualsiasi altro raggruppamento politico italiano oggi esistente», pur consapevole «delle conseguenze implicite» a questa decisione. Riteneva, in effetti, che la difesa della ‘persona’ implicasse «la condanna dell’attuale organizzazione politica», contraddistinta da «un sistema di rappresentanza attraverso i partiti che annulla il carattere di entità sociale del cittadino, staccandolo dall’ambiente e dalla posizione nella quale soltanto egli assume un preciso valore»: veniva propugnata, pertanto, l’idea di una «democrazia integrata». Logica conseguenza della concezione personalista era «l’azione diretta a ottenere il rispetto dei diritti delle varie Comunità e il loro riconoscimento giuridico nei limiti dei supremi interessi della Comunità nazionale», attraverso un certo numero di «riforme politiche di struttura, dirette a creare nuove entità amministrative e nuovi collegi elettorali». Si trattava, in particolare, di definire giuridicamente delle entità territoriali minori, «fornite di concreta realtà economica e sociale». Erano, insomma, «i problemi sorgenti dall’attuale inefficienza governativa» che occorreva risolvere attraverso nuovi «organismi costituzionali»10.
Quella in cui si trovava l’Italia del secondo dopoguerra era, secondo Adriano Olivetti, «l’ora critica della democrazia»11. Essa vedeva «riprodursi, nelle sue linee essenziali, la situazione che maturò negli anni tra il ’19 e il ’22 e che sboccò fatalmente nel fascismo». La crisi promanava «dall’effettivo distacco» che le istituzioni determinavano tra i cittadini e il governo. Il sistema della rappresentanza politica imperniata intorno ai partiti si era dimostrato «nettamente e senza rimedio inidoneo e insufficiente» a garantire alla maggioranza delle donne e degli uomini di agire politicamente12. Tra l’altro, anche i partiti politici progressisti si erano «resi colpevoli verso la democrazia, cercando di imporre un conformismo in stridente contrasto col vero costume democratico»13. La soluzione, per Olivetti, non era che una: «L’Italia deve ritrovare il suo respiro dalle basi». Occorreva, quindi, una riforma autonomistica capace di generare una nuova classe politica. Occorreva che la comunità nazionale italiana fosse governata dai «rappresentanti qualificati delle minori comunità che la compongono: economiche, sindacali, spirituali, territorialmente raggruppate»14. Come egli avrebbe esplicitato più tardi, la sua proposta di selezione della classe politica partiva dall’assunto che «poche sono le persone che possono veramente dirigere la vita di una Comunità e essere a contatto, con profitto, di pubbliche amministrazioni»15. Due concetti rilevanti erano quelli di democrazia e competenza, nel loro rispettivo significato di criteri fondamentali per concretare una partecipazione responsabile e garantirne una sua riqualificazione16.
Più in generale, sua intenzione era portare alle estreme conseguenze «idee e schemi semplici» allo scopo di alimentare lo sviluppo della civiltà, così come, per altro verso, fascismo e nazionalsocialismo avevano generato la barbarie. «La forza ideale ispiratrice» non poteva che essere il ‘cristianesimo’, mentre lo schema sarebbe stato impostato su tre formule: Comunità concreta, democrazia «compensata» e Ordini politici. Esse «opportunamente elaborate e adattate alla situazione storica» avrebbero permesso di concretare «un sistema giuridico assai più efficiente e umano dello Stato liberale, finito il 2 Agosto 1914»17.
Sulle colonne della rivista «Comunità», Olivetti ricordava che «l’efficienza democratica del sistema dei Cln si ebbe in quanto esso implicava un superamento dei partiti attraverso una democrazia differenziata e diretta»18. Allo scopo di non «tradire» quella eredità, egli era persuaso che il «lavoro che resta è immenso», ma «ritirarsi da esso o compierlo malamente» non era moralmente possibile19. Con il nuovo ente territoriale locale preconizzato, voleva così anche raccogliere l’eredità dispersa dei Cln. E la frase «tutto il potere alle Comunità», più che essere un facile slogan – riecheggiante Cln e Soviet –, riassumeva in modo pregnante la «visione di un ordine in cui allo Stato ed ai partiti è tolto il predominio sull’uomo»20.
L’idea seminale olivettiana era individuare i confini adeguati a un nuovo ente territoriale locale che, permettendo ai suoi abitanti di enucleare chiaramente interessi concreti comuni, facilitasse il governo del territorio e la composizione degli inevitabili conflitti sociali21. Della solidarietà cristiana che si andava cercando, la famiglia ne era l’esempio preclaro: rappresentava la «possibilità, nei limiti obiettivi di un’umanità imperfetta, di una società socialista-comunista e cristiana»22.
Il richiamo al cristianesimo non implicava «un’identità di posizioni confessionali»: molti comunitari erano cattolici, alcuni evangelici e altri ancora aderivano a quei principi che il cristianesimo aveva realizzato nella storia, «senza tuttavia ammetterne il valore trascendente»23. Lungi dall’assumere un atteggiamento dogmatico – alimentato dalla pubblicazione di L’ordine politico delle Comunità24 –, Olivetti inoltre era persuaso che la stessa idea comunitaria richiedesse «ancora un profondo studio di approfondimento e di chiarificazione al contatto con i problemi concreti della vita associata»25. Ben differente l’animus dei partiti politici, «fondati su base ideologica, catafratti di dogmi, di catechismi e di intolleranza»26. E al Partito cristiano-sociale veniva rimproverato proprio di essere composto da gruppi «fermi su posizioni partitistiche e astratte», la cui fecondità era «assolutamente nulla»27.
In una lettera inviata il 3 giugno 1947, Olivetti scriveva al commissario di pubblica sicurezza di Ivrea, al fine di «rendere noto» che, dopo il Congresso di Livorno del Partito cristiano-sociale, la sezione di Ivrea si era «resa autonoma» e continuava «la sua attività politica sotto la denominazione di “Movimento Comunitario”»28. Nello stesso giorno, confidava a Gerardo Bruni il proprio interesse a studiare «la forma ed i caratteri» futuri del Movimento Comunità, che riteneva avrebbe dovuto procedere attraverso «un movimento completamente intensivo analitico in profondità, anziché un movimento estensivo che è quello caratteristico degli altri piccoli movimenti o partiti». Era persuaso, inoltre, sia della «lentezza» con la quale si sarebbe evoluta la situazione, sia delle «limitate possibilità che per molto tempo» avrebbe avuto il nuovo movimento29.
Ciò che era chiaro fu esposto sinteticamente sulla rivista «Comunità» il 21 giugno dello stesso anno: «Noi vogliamo» – esordiva la prima dichiarazione politica del nuovo movimento30. La volontà ivi espressa era di perseguire una «riforma politico-amministrativa», una «riforma economico-sociale» e una «rivoluzione spirituale». La prima avrebbe dovuto superare «l’attuale punto morto della democrazia formale, espresso dalla crisi della partitocrazia». Era ventilata l’idea di una rappresentanza plurima – con esponenti della politica (eletti a suffragio universale), del lavoro (nominati dai sindacati) e della cultura (scelti fra persone con una specifica competenza) – e di un decentramento amministrativo realizzato con l’istituzione non solo di enti regionali, bensì anche circondariali (all’interno dei quali selezionare la classe politica). La seconda riforma prevedeva «una graduale evoluzione» verso particolari forme di socializzazione industriale e agricola, che avrebbero contemplato la proprietà e la gestione delle aziende da parte sia dei lavoratori sia degli enti territoriali locali, in relazione agli «interessi dei consumatori». La rivoluzione spirituale, infine, non poteva ovviamente scaturire da mezzi politici, ma da un reiterato e generale appello al perseguimento di principi concretamente cristiani31.
A questa sommaria dichiarazione politica seguì, a metà ottobre, la pubblicazione su «Comunità» di un Estratto dello statuto provvisorio del movimento, che esprimeva apertura al dialogo interpartitico e delineava una struttura gerarchica, ascendente e federale, articolata attraverso centri di azione sociale e politica, gruppi di lavoratori iscritti alla Cgil e gruppi culturali32.
«Un passo innanzi» – ricordò Olivetti nel luglio del ’49 –, rispetto all’inadeguatezza teorica e organizzativa del neonato Movimento Comunità, fu realizzato con la «prima riunione comunitaria» tenutasi nella Casa della Cultura a Milano la sera del 28 ottobre 194733 . La questione subito sollevata nella relazione di apertura di Adriano Olivetti – rivolta, più precisamente, ad «amici, simpatizzanti, lettori di «Comunità» – riguardava la possibilità di una lotta politica in assenza di partiti. Egli ne era convinto, pur conscio che «il processo di trasformazione delle strutture tradizionali dello Stato e dei partiti» avrebbe richiesto «un tempo di imprevedibile durata». Il suo sguardo era rivolto al partito laburista, non tanto per proporre «assurde trasposizioni» in Italia, bensì al fine di coglierne le peculiarità: «La forza del partito laburista inglese risiede nella pluralità della sua struttura e nel suo carattere federalista». Si trattava, in altre parole, di «una federazione di elementi eterogenei: le Trade Unions, le cooperative, i membri socialisti del Parlamento», che contribuivano a plasmare il partito dal basso34.
Il problema politico per eccellenza, in un’ottica squisitamente democratica, era dunque l’enucleazione della «prima cellula di un organismo politico adatto alla formazione di un nuovo tipo di civiltà». Olivetti, sotto la scorta dell’esempio inglese e di quello della Chiesa cattolica, individuava nei Centri comunitari le «necessarie premesse democratiche ad una struttura più complessa», che avrebbe dovuto comprendere anche altre espressioni politiche: i sindacati e le associazioni culturali. La costante collaborazione fra gli eletti dei collegi uninominali, i rappresentanti dei sindacati e gli esponenti di una «cultura giuridicamente organizzata» avrebbe permesso di generare una nuova direzione politica, rivolta a fini umani superiori: quelli che non esitava a definire caratteristici di una «civiltà cristiana»35. Sicché «il problema centrale della costituzione del nuovo Stato» sarebbe consistito «nell’estendere l’equilibrio esistente nella Comunità a ciascuno degli ordini superiori cui è devoluto l’esercizio dei tre poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario nello Stato stesso»36.
Circa venti giorni dopo, il 22 novembre, si riunì a Torino il Comitato centrale del Movimento Comunità, che, in vista delle imminenti consultazioni elettorali, convenne unanimemente sull’opportunità di una «presa di posizione impegnativa» ed, eventualmente, di una «partecipazione diretta»37. Non si escludeva la possibilità di far parte di raggruppamenti o di sostenere singoli candidati di essi, purché fosse garantita al movimento la «più rigorosa autonomia» e tale atteggiamento non implicasse una «deviazione dagli obbiettivi e dai presupposti comunitari»38. Oltre a essere confermata l’adesione all’iniziativa di «Europa Socialista» (da cui scaturì l’Unione dei Socialisti39) – del cui comitato direttivo faceva parte Olivetti a nome del Movimento Comunità –, erano state prese diverse importanti decisioni al fine di potenziare e sviluppare l’articolazione del movimento40, che, tuttavia, ancora nel febbraio del ’49 si sarebbe trovata in una fase incipiente di «organizzazione concreta nel Canavese»41.
Alla fine del ’47, il periodico «Comunità» cessò provvisoriamente le pubblicazioni e l’attività del movimento, per tutto l’anno seguente, consistette soprattutto in una timida opera di propaganda, condotta in particolare attraverso l’organizzazione d’importanti conferenze e lo sviluppo dell’attività dei centri culturali – i cosiddetti Centri comunitari – nel Canavese, di cui si diede conto negli unici due numeri della rivista «Movimento Comunità»42. Come fu poi ricordato da Olivetti, «questa pausa, questo momentaneo ripiegamento era indispensabile»: mancavano i dirigenti, il materiale di propaganda era inadeguato e molti dubitavano addirittura dell’utilità di un’azione politica autonoma43. L’organizzazione dei Centri comunitari rappresentava un’evidente manifestazione del tentativo di «passaggio dal piano teorico al piano pratico»44: si trattava di un’azione politica che, con singolarità, si esprimeva sub specie culturale.
Quasi a sintetizzare la propria riflessione politica nell’ambito sia pratico sia teorico, alla fine del ’48 Adriano Olivetti pubblicò sulla rivista «Movimento Comunità» due editoriali, intitolati Decadenza delle ideologie e Vera e falsa competenza politica45.
Nel primo scritto, egli sostenne che ci si trovasse all’apogeo dell’influenza politica del Manifesto del partito comunista e, pertanto, all’inizio della sua decadenza: «le grandi ideologie che hanno dominato la lotta politica nell’Europa occidentale» – precisava – «hanno esaurito il loro compito storico». Rivolte critiche agli ottusi o banali atteggiamenti politici dei socialisti democratici e dei liberali di sinistra, dichiarava che la sola posizione che poteva veramente interessare al Movimento Comunità era quella dei democratici cristiani di sinistra, che, tuttavia, non avevano saputo «concretare sul piano giuridico le affermazioni teoriche»46. Tale difetto mancava, invece, al movimento da lui diretto che trovava nell’opera L’ordine politico delle Comunità un preciso e non dogmatico punto di riferimento della sua azione politica47. Questa costruzione teorica, però, non era stata accolta né rifiutata, perché – si rammaricava Olivetti – «non fu né esaminata né discussa»48, perdendo così, tra l’altro, l’occasione di riflettere sulla differenza esistente tra gli ordini professionali e quelli funzionali o politici49.
A «un anno dalla sua fondazione», il Movimento Comunità era orientato lungo cinque direttrici: «una azione culturale indiretta a lungo raggio costituita dalla diffusione nel paese delle ‘Edizioni di Comunità’»50; un’organizzazione territoriale limitata al Canavese, «allo scopo di approfittare di circostanze favorevoli per la creazione di una prima Comunità autonoma, almeno sul piano amministrativo»; un lavoro teorico al fine di precisare «una nuova economia ‘comunitaria’»; e, inoltre, la ripresa di una pubblicazione periodica del Movimento Comunità, il quale, «consapevole della complessità della propria posizione teorica e della difficoltà di permeare la vita politica italiana delle proprie posizioni ideologiche» non poteva e non doveva «avere fretta nell’affermare la propria dottrina»51. Il movimento, infine, intendeva inserirsi nell’alveo dell’attività politica delle sinistre, con l’adesione all’Unione dei Socialisti52. In consonanza con questo proposito, in effetti, alla fine di novembre Olivetti sottoscrisse come indipendente il documento Per l’unità socialista in Italia53, redatto dalla minoranza del Partito socialista italiano che faceva capo a Giuseppe Romita e da questi inviato alla direzione del partito e delle altre organizzazioni socialiste54. L’adesione del fondatore del Movimento Comunità era, tuttavia, allo spirito generale e alla funzione del documento, non certo al suo preciso dettato, che in alcuni passaggi si rivelava in contrasto con i principi olivettiani55.
Nel secondo editoriale della rivista «Movimento Comunità», Adriano Olivetti approfondì il proprio discorso sugli ordini politici funzionali, prendendo spunto dall’articolo di Benedetto Croce, Il ricorso ai “competenti” nelle crisi storiche, pubblicato su «Il Corriere della Sera» del 17 ottobre 194856, che risollevava argomenti affrontati anche in Etica e Politica57. Dopo aver convenuto con il filosofo sulle necessarie capacità e competenze propriamente politiche che dovevano contraddistinguere le persone dedite al governo della cosa pubblica, Olivetti tenne a ricordare la posizione del Movimento Comunità, che si stagliava sul panorama politico italiano per l’originalità della proposta elaborata58.
Respinta senz’altro sia la posizione organicista, sia quella corporativa, sia quella tecnocratica, bollate come «false concezioni dello Stato che vogliono apparire nuove e moderne», egli precisava di partire «dallo stesso atteggiamento critico verso il regime parlamentare», che si era costituito sul continente europeo «per imitazione del sistema anglosassone», e che si era poi corrotto sia «per le mutate condizioni», sia «per il differente clima storico e ambientale in cui ebbe a funzionare». Si sforzava, tuttavia, di riflettere con «maggiore chiarezza», «onestà scientifica» e «ordine» su «questa complicata e misteriosa faccenda di un nuovo tipo di rappresentanza politica»59.
Se «l’unica possibile distinzione tra la falsa e la vera competenza in politica» era data, secondo Olivetti, dalla vocazione delle persone, corroborata e «autenticata dalla serietà e dalla coerenza» della loro preparazione culturale, teorica e pratica, non era possibile pensare di lasciare al dominio della contingenza tale processo di selezione e formazione. Lo studio della «struttura politica dello Stato» gli aveva permesso di «suggerire a quali forme e a quali corpi – tradizionali e non tradizionali – dovesse essere affidata, nella Comunità, nella Regione e nello Stato, la difesa e l’ascesa di ciascun valore» necessario da perseguire60. Come osservato circa un anno prima, con spiccata sensibilità storica, egli era persuaso che «i tempi corrono, le cose si muovono, non possiamo fermarci a rimescolare le formule e le istituzioni del passato se non per quella parte di bene che in esse è contenuta e per cui ancora valgono»61. La fonte d’ispirazione e di confronto era la storia di istituzioni, con una secolare esperienza organizzativa, come la Chiesa cattolica, gli Eserciti e le Università, al fine di riflettere sui metodi da queste seguiti per raggiungere i propri scopi. Sicché anche per lo Stato occorreva individuare innanzitutto «un obbiettivo perenne, universale nel tempo e nello spazio (un mito, cioè)», verso cui tendere idealmente, che fosse accettato o accettabile dalla maggioranza dei membri della comunità politica: questo, nel caso italiano, non poteva che essere «lo stabilirsi di una civiltà cristiana», ovvero un’«armonica sintesi di valori scientifici, sociali, estetici». In secondo luogo, era d’uopo enucleare i mezzi, coerenti al fine, con cui inverare «il primato dello spirito sulla materia e la conseguente sottomissione dell’economia e della tecnica ai fini e ai criteri politici». Tra gli strumenti individuati vi era senz’altro il nuovo ente territoriale locale denominato ‘Comunità’ (che doveva sostituire la Provincia), ma anche la creazione di «veri e propri Ordini politici a simiglianza e analogia con quelli religiosi, nei quali competenza (politica), capacità (politica), specializzazione funzionale e infine, “last not least”, validità ai fini di una vera democrazia (autenticità di mandato, consenso dei cittadini, alternativa nelle funzioni di comando) trovassero finalmente una espressione armonica»62. In altri termini, da un lato i fini funzionali di ciascun ente politico territoriale dovevano avere regole proprie sia nella preparazione culturale sia nei criteri di legittimazione dei rappresentanti politici, dall’altro il fine ideale della ‘civiltà cristiana’ permetteva di condurre a unità di intenti questa pluralità di funzioni.
L’articolo Vera e falsa competenza politica fu inviato da Olivetti a Benedetto Croce, che, con una sintetica lettera datata «Napoli, 4 dicembre 1948», dopo essersi scusato per il ritardo con cui rispondeva, si dichiarava «ben lieto» che egli approvasse la sua «protesta contro la confusione tra competenza politica e competenza di altra natura, che dovrebbe rendere un individuo capace di esercitare politica». Complicato era «coltivare ed educare questa specifica competenza la cui prima condizione è che si abbia da natura l’ingegno e l’animo a ciò disposti». Per quanto riguardava l’educazione, «certo la migliore era quella del non gran mondo di famiglie inglesi in cui per tradizione si esercitava politica». E – rivolta a sé e a Olivetti la domanda «come, con altri mezzi e nei nuovi tempi, ottenere il medesimo effetto?» – concludeva: «Vedo con interesse che Ella intorno a questo problema si travaglia»63. Quasi a precisare ulteriormente al filosofo il proprio pensiero in materia, nella stessa pagina in cui appariva la lettera Olivetti fece pubblicare l’articolo Dell’Istituto politico, composto da frasi tratte dal settimo capitolo di L’ordine politico delle Comunità. Denunciata la «dissociazione tra cultura e politica»64, egli si rivelava convinto della necessità di istituire un cursus obbligatorio – «democratico per la libertà di accessione e aristocratico per la severità della scelta»65 – rivolto a tutti coloro che aspiravano alla «direzione delle cose pubbliche». Tra gli scopi dell’ordinamento statuale era opportuno che fosse contemplato «un meccanismo politico capace di conferire esperienza e maturità amministrativa a quella frazione di “politici” che proverranno da una preparazione dottrinale»66 e, inoltre, promossa la creazione di un Istituto politico in grado di «assicurare ai funzionari elettivi degli organi superiori dello Stato una eccezionale preparazione dottrinale in un senso umanistico»67.
«L’anno 1908, lì ventinove del mese d’ottobre, nella città d’Ivrea ed in loco proprio del signor Ing. Camillo Olivetti» – recitava l’atto notarile – era stata costituita la ditta Ing. C. Olivetti & C68. Quarant’anni dopo, il 29 ottobre del 1948, Adriano Olivetti celebrava la ricorrenza nella ‘Sala dei duemila’ della fabbrica, davanti a operai e dirigenti. Come sua consuetudine, quasi a cercare l’energia necessaria per progettare le linee di sviluppo dell’impresa, ne ripercorse tutta la storia. Essa, infatti, era per Olivetti la necessaria fonte da cui scaturiva consapevolmente il futuro: «Ora noi tutti abbiamo la grande responsabilità di non tradire il passato, di portare innanzi il testamento spirituale dell’ing. Camillo. Abbiamo la grande responsabilità di progredire oltre, in tutti i campi, nel dominio della tecnica, nella complicata vicenda dei rapporti umani e dei rapporti sociali, onde fare di questa fabbrica una piccola oasi di civiltà»69.
Con i primi mesi del 1949, «Comunità. Rivista bimestrale del Movimento Comunità», con la collaborazione di Giorgio Soavi, Egidio Bonfante, Geno Pampaloni, Giorgio Fuà e altri, «riprendeva il suo posto nella cultura e nella politica nazionale senza che il lungo silenzio costituisse una rottura irreparabile»70. Nel primo numero, oltre ai due articoli Dell’Istituto politico – di cui si è detto – e Stato Sindacati Comunità71, il direttore pubblicò l’editoriale Società e Stato72, che, con modifiche e aggiunte, costituiva la ristampa del suo contributo inviato al Convegno per l’unificazione socialista, svoltosi a Torino il 9 gennaio 1949 su iniziativa dell’Unione dei socialisti, e apparso anche in «Il Socialista Moderno» con il titolo Socializzare senza statizzare73.
Nell’articolo, riflettendo in prospettiva storica, egli individuò nella prima guerra mondiale il discrimine tra due momenti diversi della politica europea, contraddistinti rispettivamente dalla reciproca autonomia di società e Stato e dalla crisi profonda in cui piombarono entrambi con il venir meno di quella condizione: quando, «in virtù della spinta rivoluzionaria dei movimenti marxisti e di lieviti ispirati al cristianesimo», il concetto di libertà assunse il significato «non più di illimitato potere individuale, rivelatosi incapace di prevedere e provvedere ai bisogni sociali della comunità», e maturò nella coscienza dei più «arricchito di nuovi valori spirituali», si aspirò «a un nuovo regno della libertà splendido e umano» e, conseguentemente all’azione politica inveratasi, «Stato e società entrarono in una crisi profonda»74. Ricordò rapidamente alcune considerazioni di Hegel sul ruolo dello Stato, ciò a cui aveva portato il materialismo storico di Marx, la crisi del 1929-34 e, infine, l’intervento dello Stato in economia in pressoché tutto il mondo occidentale. E dopo aver citato alcune frasi dell’«aureo libretto» Del principio federalista di Pierre-Joseph Proudhon, al fine di ricordare la necessità secondo cui nella storia l’autorità si manifesta sempre prima della libertà, osservava: «La storia si è dunque compiaciuta delle soluzioni necessarie, sebbene provvisorie e insoddisfacenti». Rivendicava quindi essere «compito nostro ritrovare, interpretare, capire se delle forme nuove per avventura non stiano germogliando, non stiano intessendosi fragili frammenti». Potevano essere queste «indicazioni preziose, isolate spinte creative per l’urgenza avvertita dagli spiriti più chiaroveggenti di reintegrare, in nuove forme, la Libertà nell’Autorità»75. Secondo Olivetti una nuova forma di diritto tendeva ad affermarsi in «forme autonomiste, pluraliste e federaliste», profilandosi il tentativo, attraverso una pluralità di istituti, di «socializzare senza statizzare», ovvero di «organizzare la società economica in modo autonomo, coi propri mezzi e renderla indipendente dall’intervento prevalente dello Stato»76.
In Stato Sindacati Comunità, come preannunciato nell’editoriale, l’autore delucidava quindi il problema del rapporto tra Stato e sindacati all’interno della nuova organizzazione comunitaria. Anche in questo caso erano rapide considerazioni di ordine storico a introdurre l’argomento, che sfociavano in riflessioni sull’attualità. La soluzione del problema del rapporto tra Stato e sindacati riguardava quello più complesso della riforma del sistema rappresentativo e, secondo Olivetti, consisteva anche nel promuovere una forma di rappresentanza plurima. In ogni circoscrizione territoriale occorreva eleggere non una persona (come nel collegio uninominale) o una lista di persone (come nel sistema proporzionale), bensì un gruppo, «un comitato in cui tutte le funzioni politiche» fossero «egualmente rappresentate»77. In questo modo, contestualmente all’esistenza di un «sindacato libero», era possibile garantire una forma di rappresentanza sindacale per quelle due funzioni che interessavano le classi lavoratrici: i problemi del lavoro e delle relazioni sociali; la protezione, l’assistenza e l’igiene sociale. Il sindacato avrebbe assolto «la difesa degli interessi economici di fronte alle manifestazioni libere della società» e alcuni rappresentanti politici avrebbero garantito, con maggior forza e competenza, la presenza nel Parlamento della volontà delle classi lavoratrici. «Non confusione, non interferenza» – teneva a precisare Olivetti: «la Comunità stabilisce un contatto, una relazione ove si esplicano e si attuano le due manifestazioni della volontà delle classi lavoratrici». L’una si risolveva nel sindacato e l’altra nello Stato, dove sarebbe apparsa «nella forma di due ordini ivi inseriti per svolgervi speciali funzioni politiche»78. Questa impostazione generale derivava da un profondo convincimento, espresso a introduzione della proposta. «La soluzione del problema» consisteva segnatamente «nell’individuare all’origine un aspetto dualistico delle manifestazioni sociali e spirituali della persona». Esse dovevano esprimersi liberamente nella società, affinché fosse garantita «la libertà della società stessa»; e dovevano esprimersi però anche secondo un profilo politico, «affinché la libertà sia sociale»79.
Martedì 1° febbraio 1949, intorno alle ore 21.30, nella sala dell’Unione sportiva di Ivrea, Adriano Olivetti svolse una conferenza su «Fini e fine della politica». Rilevato il «fallimento dell’azione dei partiti politici come attualmente organizzati», il relatore dichiarò la propria intenzione di «superare l’attività politica come oggi si concepisce»80. Si trattava di un testo complesso, che riprendeva e sviluppava alcuni aspetti teoretici sottesi a L’ordine politico delle Comunità81, e che inizialmente fu solo in parte pubblicato, nella rivista da lui diretta, con l’editoriale Democrazia integrata e l’articolo La nostra Comunità82, anticipando alcuni capitoli (o parte di essi) dell’opuscolo Per una civiltà cristiana. Fini e fine della politica, finito di stampare il 9 aprile del 194983.
Il titolo della conferenza sembrava candidamente riassumere intenzioni organicistiche e tecnocratiche del relatore. L’equivoco consisteva nel fatto che l’organizzazione statale funzionalista proposta in L’ordine politico delle Comunità indicava degli scopi istituzionali da perseguire attraverso la competenza specifica della classe dirigente e l’organizzazione comunitaria: realizzare questi fini sembrava condurre implicitamente a una dichiarazione di inutilità del momento politico. L’ordine delle Comunità preconizzato da Olivetti era, invece, esplicitamente politico. Egli, in effetti, si riferiva al fine della politica, all’obiettivo principale che l’azione politica avrebbe dovuto prefiggersi. La sequenza logica delle prime due parole che componevano anche il sottotitolo dell’opuscolo avrebbe dovuto essere da lui invertita per poter rappresentare fedelmente il suo pensiero: fine e fini della politica. Scopo dell’attività politica, nella concezione olivettiana, era perseguire, in ultima istanza, una finalità spirituale, attraverso la realizzazione di una pluralità di obiettivi concreti. Questo fine era legato alle sue vedute religiose e implicava la realizzazione sul piano materiale dell’«Humana Civilitas», di una civiltà che, animata da valori cristiani, assicurasse il rispetto della dignità della persona umana in ogni sua quotidiana manifestazione: poiché «il fine ultimo di ogni uomo trascende l’ambito della società terrena», ne conseguiva secondo Olivetti che lo Stato avrebbe dovuto «garantire il libero perseguimento di tale fine», o, in altre parole, avrebbe dovuto «tutelare la dignità della persona umana» attraverso un concreto riconoscimento dei suoi diritti e un’efficace loro tutela con strumenti giuridici adeguati84. Le stesse vedute di origine religiosa gli impedivano di alimentarsi di prospettive idilliache o sogni palingenetici sul futuro: «Noi non partiamo da un esagerato ottimismo sulla natura dell’uomo: noi crediamo alla sua imperfezione, sappiamo della sua corruttela originaria, viviamo anche noi nel peccato»85.
Nel secondo numero di «Comunità», si offriva anche un quadro generale della proposta politica di Olivetti con i Punti programmatici del «Movimento Comunità», da lui redatti e in seguito ristampati più volte86. Come recitava il primo paragrafo, fine del movimento era promuovere all’interno dell’opinione pubblica, «direttamente nel popolo e nel seno dei diversi partiti», una sensibilità rivolta all’«instaurazione in Italia dello Stato Federale delle Comunità»87. A questo scopo – si precisava nel tredicesimo e ultimo dei punti programmatici – potevano «aderire al “Movimento Comunità” tutte le persone iscritte o non iscritte a Partiti politici», che s’impegnassero a «rispettare nella forma o nello spirito» quanto espresso nei cinque paragrafi del documento88: si trattava degli aspetti fondamentali del «nuovo Stato» che – costituendo «l’indirizzo di azione» – il movimento avrebbe cercato di promuovere89.
Adriano Olivetti articolava il proprio pensiero all’interno di una tensione ideale animata segnatamente dal valore della cultura e dalla preoccupazione per le condizioni di vita delle persone meno abbienti. Una tensione che era riassunta in modo assai significativo dal quinto punto: «Scopo della vita associata e individuale è precipuamente il perfezionamento spirituale della personalità. Ma poiché non si può prescindere dalla materia, sono indispensabili mezzi armonici di perfezionamento fisico, onde il nuovo Stato perseguirà strenuamente l’aumento generale del livello di vita di tutti gli strati sociali»90.
Veniva da lui individuata, in particolare, «l’esistenza di un ostacolo di natura sociale conservatrice», che si opponeva «all’elevazione materiale e culturale delle classi economicamente inferiori»91. Il perfezionamento spirituale della personalità era perseguito soprattutto attraverso il ruolo riservato alla cultura: essa, «in termini di ricerca indipendente di verità e bellezza», sarebbe stata «l’elemento caratteristico» della nuova civiltà da lui preconizzata92. I mezzi necessari all’elevazione del tenore di vita della società, invece, potevano essere favoriti da un’economia «socializzata e non statizzata» condotta da «gruppi autonomi» federati a livello nazionale (e in prospettiva internazionale), con una compartecipazione da parte sia di unità di lavoratori sia di enti territoriali locali. Lo Stato sarebbe intervenuto in economia solo al fine di «impedire la formazione di monopoli contrari al pubblico interesse» e di «garantire al consumatore un alto livello di qualità e un basso livello di prezzi»93. Più in generale, Olivetti auspicava una nuova economia fondata non «esclusivamente sull’idea del profitto individuale», bensì su quella di «servire la Comunità», maturando nel contempo un sentimento di orgoglio professionale intriso di «una più alta comprensione dei valori eterni della cultura»94.
L’eguaglianza dei «mezzi di cultura», senza cui «la libertà dell’uomo è illusoria»95, e «una società più equa»96 potevano essere garantiti solo da un ordine politico democratico particolarmente sensibile al problema della formazione della classe politica: «arte, scienza e tecnica, condizionate da una seria esperienza di vita associata, saranno inserite come termini indissociabili nella formazione di una nuova classe politica»97. Cultura, competenza ed esperienza erano altri caratteristiche ineludibili di una sana vita politica, insieme alle non condizionabili «libertà politiche fondamentali di parola, associazione, stampa»98.
Se il discorso di Adriano Olivetti sul rapporto tra economia e cultura poteva essere simbolicamente riassunto dall’imperativo «sia data dignità e consapevolezza di fini del lavoro»99, quello sul nuovo ordinamento costituzionale trovava espressione sintetica in un brano presente anche come epigrafe del suo libro L’ordine politico delle Comunità: «Né lo Stato né l’individuo possono da soli realizzare il mondo che nasce. Sia accettato e spiritualmente inteso un nuovo fondamento mirante a ricomporre l’unità dell’uomo: una Comunità concreta»100.
Al problema istituzionale era dedicato tutto il paragrafo terzo, che esordiva con una frase singolare: «Il nuovo Stato sarà organizzato secondo leggi spirituali»101. Quali fossero queste leggi non era precisato, né forse poteva esserlo in un testo tanto sintetico. D’altro canto, l’autore se ne era occupato nell’opera sopra citata, senz’altro propedeutica alla piena comprensione dei principi ideali da cui il Movimento Comunità prendeva le mosse. La sua seconda edizione faceva mostra dell’ambizioso sottotitolo «Dello Stato secondo le leggi dello spirito», che, forse (anche perché citato), ammiccava al montesquieuiano «spirito delle leggi» capovolgendolo e superandolo, e che era possibile intendere solo attribuendo – secondo l’accezione olivettiana – all’approccio scientifico un carattere eminentemente spirituale102.
L’organizzazione statuale italiana, secondo le leggi della scienza politica, doveva essere informata – precisava Olivetti – da principi autonomistici imperniati intorno al nuovo ente territoriale locale denominato ‘Comunità’, dall’idea di una rappresentanza politica fondata su democrazia, lavoro e cultura, e dall’istituzionalizzazione di «veri e propri ordini politici (analoghi agli ordini religiosi e simili agli ordini professionali)»103. La struttura generale dello Stato era quella federale: federazione di Regioni costituite da federazioni di Comunità. Il federalismo propugnato era «mediato» e – annacquando in parte alcuni principi espressi in L’ordine politico delle Comunità – contemplava «una soluzione di equilibrio tra autogoverno e decentramento amministrativo», «l’eguaglianza delle costituzioni regionali» e la funzione di autogoverno e decentramento regionale espletata dalle Comunità, che le rendeva soprattutto «organi esecutivi della Regione e dello Stato»104.
Questa forma di organizzazione, nelle intenzioni di Adriano Olivetti, avrebbe dovuto favorire il controllo democratico, la formazione graduale di una competente classe politica e il perseguimento della «giustizia sociale», che, tuttavia, era opportuno fosse «sempre completata dallo spirito individuale di carità e tolleranza»105. Ciò doveva essere favorito dal riferimento ideale delle leggi costituzionali e statali a «quell’insieme di valori spirituali e morali che per accettazione comune si intendono denominare “civiltà cristiana”»106. Erano i contenuti dell’Evangelo che, secondo Olivetti, anche laicamente intesi107, avrebbero dovuto ispirare la politica del nuovo Stato italiano108.
A conclusione del testo, egli ricordava che i punti programmatici erano stati «ampliati e chiariti» in un memorandum, tratto segnatamente da L’ordine politico delle Comunità e composto da quattro parti: «L’idea di una Comunità concreta»; «Di taluni princìpi che reggono l’ordinamento delle Comunità»; «Per una civiltà cristiana (fini e fine della politica)»; «Economia delle Comunità»109. Il rimando all’«allegato Statuto» tradiva la collocazione effettiva per cui era stato approntato il testo: l’opuscolo del Movimento Comunità, Linee e mezzi d’azione. Punti programmatici e statuto (provvisorio), la cui stampa fu ultimata il 10 maggio 1949110.
Nella «Cronaca del Movimento», pubblicata sul secondo numero di «Comunità», si menzionava, in effetti, uno «Statuto del Movimento, attualmente in corso di stampa», oltre a descrivere alcune deliberazioni di ordine organizzativo (tesseramento, abbonamenti alla rivista, elezioni del Consiglio generale e del Comitato delle Comunità del Canavese, quota d’iscrizione, zone di propaganda, formazione di un nucleo di sindacalisti, chiarimenti ai simpatizzanti), che rivelavano un impegno politico profuso soprattutto a Ivrea e nel Canavese, con teste di ponte a Torino e Milano. Le decisioni di cui si dava conto erano state prese la sera dell’8 marzo dal Comitato direttivo, composto nell’occasione da Giuliano Bergaglio, Tullio Fazi, Adriano Olivetti, Geno Pampaloni, Giorgio Trossarelli, Tullio Tulli e Ignazio Weiss111. Forse riferendosi proprio a questo incontro, nel luglio del ’49 Olivetti ricordò che «lo scorso mese di marzo venne ancora su molti punti importanti chiarita la nostra posizione, espressa nel breve volumetto che [ha] il titolo Fine e fini della politica [sic]». Nello stesso tempo, «una piccola commissione, ai lavori della quale parteciparono il prof. Pampaloni, il dr. Tulli, il dr. Weiss, il prof. Zorzi, redigeva il memorandum programmatico del movimento che abbiamo denominato Linee e mezzi d’azione»112.
Che lo statuto provvisorio fosse suggerito dallo stesso Adriano Olivetti risultava fin troppo evidente sia per la sua struttura sia per i suoi contenuti. Dopo una sorta di introduzione costituita dai «Punti programmatici del Movimento Comunità», il testo si articolava in tre parti, dedicate agli organi locali, a quelli regionali e a quelli nazionali. Delle disposizioni transitorie, un elenco esemplificativo delle Comunità del Piemonte e uno schema dell’organizzazione locale erano presenti a chiusura dell’opuscolo113. Lo statuto era informato dalla canonica attenzione olivettiana alla composizione pluralista e selezionata di ogni organo politico. La stessa tripartizione del documento rivelava quanto era precisato dal dettato statutario: una molteplice federazione di organismi che dalle Comunità di base sorgeva a comporre le Regioni e a costituire la rappresentanza politica nazionale di uno Stato auspicato federale114. A fronte di un ordinamento repubblicano italiano edificato di fatto in modo accentrato, la coerenza strutturale del Movimento Comunità guardava specularmente all’ordinamento federale preconizzato nelle pagine di L’ordine politico delle Comunità: i mezzi dovevano essere conformi al fine, affinché non divenissero fine a sé stessi.
Preoccupazione prioritaria dei redattori del testo era garantire all’interno del Movimento Comunità «una vera e nuova democrazia basata sull’equilibrio tra il principio democratico, le forze del lavoro e quelle culturali», allo scopo di differenziarlo anche nella struttura dai partiti politici115. Ne derivava la presenza di tre organismi distinti in ciascuna Comunità: i Centri comunitari, costituiti intorno all’emeroteca e alla biblioteca locali; i Comitati Comunitari Sindacali, a cui potevano appartenere «i lavoratori e gli impiegati delle officine e dei campi regolarmente iscritti alle Camere del Lavoro, senza distinzione di corrente sindacale»116; e infine il Gruppo Culturale Comunitario, costituito dai laureati della Comunità. A questo proposito, era chiaro che la cultura avesse «altre espressioni naturali e spontanee» e non si esaurisse nell’ambito dei laureati, ma l’«organizzazione giuridica della cultura» e l’«eguaglianza dei mezzi di cultura», perseguiti dal Movimento Comunità, rendevano «necessario l’accertamento di una preparazione sistematica e specifica, praticamente attuabile solo attraverso esami o titoli» e giustificavano «la discriminazione tra laureati e non laureati» perché fosse percepito il dovere politico di agire indirettamente o direttamente allo scopo di garantire un’istruzione superiore ai migliori117.
Assemblea locale principale del movimento era il Consiglio Generale della Comunità, che, oltre a essere l’organo deliberativo fondamentale, avrebbe espletato funzioni di controllo dell’esecutivo e di collegamento tra questo e la Comunità degli iscritti118. Al posto del canonico Congresso nazionale di un partito politico, veniva indicato come istituto permanente, definito e rinnovabile, il Congresso Federale delle Comunità, al fine di «eliminare il normale gioco di influenze e di vere corruzioni politiche – nella nomina dei delegati ai Congressi – proprie dei partiti a statuto tradizionale»119.
Se un ruolo rilevante nell’indirizzo politico del movimento avrebbero dovuto svolgere il Comitato Centrale delle Comunità e la Direzione Politica Esecutiva, una funzione particolare spettava alla Commissione Teorica Permanente. Essa costituiva, in effetti, l’organo deputato a far decadere dalla «qualità di membro» del movimento colui che, accusato di «grave deviazione ideologica» rispetto ai punti programmatici e allo statuto, fosse stato riconosciuto incoerente nella propria azione politica: «I membri del Movimento Comunità non vogliono trasformare il Movimento in una setta dogmatica, ma nemmeno in un organismo disordinato, privo di coerenza e continuità». D’altro canto, i suoi membri si impegnavano «esclusivamente, ma tassativamente» a seguire il programma stilizzato dai punti programmatici e, in secondo luogo, dallo statuto120.
A prescindere da caratteristiche, più o meno accreditate politologicamente, che permettono di individuare quando un partito politico possa essere definito tale, ciò che veniva criticato dal Movimento Comunità non era la gerarchia della struttura, bensì l’ideologia dogmatica che la informava e che la rendeva strumento di perpetuazione dell’ideologia stessa. Quella del Movimento Comunità scaturiva sì dalle pagine di L’ordine politico delle Comunità, ma, in quanto tale, era un’ideologia connotata da un afflato etico e, in particolare, da una metodologia, che riconosceva l’analisi delle scienze sociali guida ‘spirituale’ nell’orientamento della condotta politica121. Se a contraddistinguere l’atteggiamento di ogni partito era proprio, secondo Olivetti, la sua visione parziale della realtà e, paradossalmente, la sua ambizione totalizzante, a individuare la prassi peculiare del Movimento Comunità emergeva gradualmente quella che nella sua dichiarazione politica del 1953 sarebbe stata indicata come «politica della cultura»: «È stata chiarita di recente la distinzione tra “politica culturale” (di cui è soggetto lo Stato, la cultura oggetto, e la libertà della cultura la vittima) e “politica della cultura” (in cui invece sono gli uomini di cultura i soggetti, che intervengono, in quanto tali, nella vita politica)»122. Essi accettavano questa distinzione – precisata meglio da Umberto Campagnolo l’8 novembre 1951 durante la prima assemblea generale ordinaria della Société Européenne de Culture123 – allo scopo di «intendere l’espressione libertà della cultura in senso attivo: non soltanto quindi libertà dallo Stato, ma libertà nello Stato, libertà nell’impegno, libertà nella vita»124.
Il Movimento Comunità stava lentamente prendendo forma e i suoi documenti ufficiali cominciavano a essere il risultato di un lavoro collegiale, per quanto Olivetti rimanesse il costante «ispiratore del Movimento Comunitario»125. La prima assemblea del Consiglio generale della Comunità del Canavese si svolse a Ivrea il 18 maggio del 1949126, preceduta il 2 aprile dall’elezione, per referendum scritto, del Comitato per la Comunità del Canavese e del Consiglio generale della Comunità del Canavese127. Durante la prima assemblea del Consiglio generale, il segretario Tullo Tulli tenne una relazione di apertura con la quale, tra l’altro, osservò che il Movimento Comunità non si era proposto né si proponeva di «ricercare un facile ed effimero successo a base di slogans e di luoghi comuni», bensì di «svolgere in profondità un’opera di educazione e di preparazione alla vita civile e politica»128. Presa la parola, Olivetti puntualizzò anche la posizione di collaborazione che il movimento avrebbe dovuto assumere nei riguardi dell’Unione dei Socialisti, «organismo ricco di fermenti spirituali non già insteriliti in una struttura di partito quanto sinceramente aperti sul comune terreno di lavoro». Preannunciò, inoltre, che il Comitato per la Comunità del Canavese aveva pensato di costituirsi in comitato promotore del primo Comitato Centrale della Comunità, a fare parte del quale sarebbero state invitate «quelle persone che in questi anni hanno dimostrato tangibilmente la loro simpatia per il Movimento»129. Prima di questo importante incontro si tenne a Ivrea il 22 giugno la seconda Assemblea generale della Comunità del Canavese130, durante la quale a proposito dell’Unione dei Socialisti emergeva che, se il successivo congresso socialista avesse portato alla «costituzione di un partito social-democratico unitario, a statuto centralizzato, in cui tutti i movimenti confluitivi fossero del tutto assorbiti», il Movimento Comunità avrebbe declinato ogni «impegno di collaborazione», perché ciò era contrario ai fini da esso perseguiti131.
Nella sede delle Edizioni di Comunità, in via Giardini 7 a Milano, domenica 10 luglio del 1949 alle ore 10.30, si svolse la prima riunione del Comitato Centrale delle Comuni-tà132. Dopo la relazione di Adriano Olivetti sull’attività realizzata fino ad allora dal movimento, e quella di Renzo Zorzi sui rapporti con i partiti socialisti, si era aperta una discussione alla quale aveva partecipato, tra gli altri, in qualità di osservatore, Ignazio Silone, con un discorso che fu poi pubblicato su «Comunità»133. Si era quindi proceduto all’elezione del segretario del Comitato Centrale delle Comunità e della Direzione politica esecutiva provvisoria del movimento, che infine risultò composta da Lodovico Belgioioso, Adriano Olivetti, Geno Pampaloni, Giorgio Trossarelli, Tullo Tulli e Renzo Zorzi, eletto altresì segretario del comitato134. Come precisato nello statuto provvisorio, nella fase iniziale il Comitato Centrale delle Comunità rappresentava «l’organo nazionale promotore e propulsore del movimento»135.
A chiusura dei lavori erano state diramate e approvate due mozioni su questioni differenti, proposte rispettivamente da Adriano Olivetti e Giorgio Trossarelli e da Aldo Morandi, Adriano Olivetti, Paolo Santarcangeli e Tullio Tulli. Nella prima, il Comitato Centrale delle Comunità si espresse convinto della «necessità di operare anche al di fuori e oltre l’azione politica immediata, cioè l’azione nei partiti politici affini la cui mediazione fra società e stato ha perso ogni funzionalità»136. Come Olivetti aveva già osservato in altra sede, i partiti politici sembravano contraddistinti soprattutto dal «conformismo all’interno» e dalla «prepotente intransigenza nei rapporti con gli altri partiti»137. Si indicava, pertanto, «quale possibile via di azione concreta per il Movimento Comunità», quella «metapolitica di corpi, associazioni o enti autonomi ad azione comunitaria», che si sarebbero espressi nella società per quanto competeva a ciascuno e avrebbero influenzato conseguentemente la struttura dello Stato138. Con la seconda mozione, il Movimento Comunità definì la propria posizione riguardo al problema dell’unificazione socialista. Pur essendosi allontanato da un’Unione Socialista che si era dotata di una struttura accentrata (contraddicendo quella federale iniziale), esso appoggiava «l’iniziativa attualmente in corso per unificare tutte le forze di democrazia socialista del Paese». In altre parole, il movimento sosteneva la formazione di un’entità politica, alternativa «all’attuale guida politico-economica», della quale avrebbe potuto far parte solo all’interno di una struttura federale che permettesse di svolgere un’azione feconda, a differenti «gruppi organici» non partitici e con fini particolari. Il Movimento Comunità considerava ogni altra soluzione solo un «provvisorio palliativo», ma lasciava «liberi i propri iscritti di partecipare alla vita del nuovo partito»139.
Per quanto in calce alle disposizioni transitorie dello statuto fosse precisato che esso andava «sottoposto all’approvazione del primo Comitato Centrale delle Comunità»140, nessuna menzione in merito veniva espressa nella cronaca pur dettagliata della riunione svoltasi a Milano il 10 luglio del 1949141. I tempi forse non erano ancora maturi perché il Movimento Comunità dovesse considerarlo definitivo. «Nato per attuare progressivamente lo Stato delle Comunità e il suo regime sociale»142, descritto in L’ordine politico delle Comunità143, il movimento era preoccupato semmai di dar luogo a un dibattito politico interno alimentato da «una sinistra e una destra» contrapposte, «secondo il naturale temperamento delle persone e il loro apprezzamento della situazione politica generale»144. L’organizzazione si stava sviluppando lentamente e progressivamente, in particolare nel Canavese. L’azione metapolitica sul piano nazionale era affidata soprattutto alla pubblicazione della rivista «Comunità» e ai libri editi dalle Edizioni di Comunità145. I punti programmatici, stilati da Olivetti, sembravano contenere «sufficienti enunciazioni ideologiche e programmatiche per garantire al Movimento lunghi anni di lavoro»146. Già nel 1953, tuttavia, si sentì necessaria la redazione di una vera e propria dichiarazione politica comunitaria: Tempi nuovi metodi nuovi147. Essa affrontava i problemi della vita internazionale e italiana con una «prospettiva molto ampia», in un senso che definivano «strategico o radicale». Ciò dipendeva segnatamente dal fatto che il Movimento Comunità non desiderava impegnarsi «al modo dei partiti, nella tattica del giorno per giorno». Era volto, bensì, «al riesame e al rinnovamento delle strutture stesse del regime democratico» attraverso i suoi «organi di studio» e «quelli più propriamente politici»148. Tra i nemici capitali della democrazia veniva individuata, in effetti, proprio la macchina-partito: in nome di «princìpi autonomistici e concretamente liberali», il movimento rivolgeva esplicitamente la propria opposizione contro quella che denominava «partitocrazia»149. Ne conseguiva una presa di posizione che riecheggiava l’anatema-profezia espresso da Adriano Olivetti nel ’49 in Fini e fine della politica: «Il còmpito dei partiti politici sarà esaurito e la politica avrà un fine quando sarà annullata la distanza fra i mezzi e i fini, quando cioè la struttura dello Stato e della società giungeranno ad un’integrazione, a un equilibrio per cui sarà la società e non i partiti a creare lo Stato»150. Lo scopo che si era assunto il Movimento Comunità era, infatti, quello ambizioso di «tracciare una via atta a dimostrare che è possibile uno Stato senza partiti» ed è altrettanto possibile che «nell’ambito dello Stato vivano ugualmente dei dualismi creativi, quella contrapposizione di forze, quel contrasto fra tradizione e progresso» senza cui «la società e la vita sarebbero esaurite nell’immobilità»151. Il contesto storico degli anni cinquanta si dimostrò poco propizio152, ma senz’altro seminali furono i suggerimenti dispersi dal Movimento Comunità nel mondo culturale e politico italiano153, generando un’eredità ideale che solo in parte è stata raccolta.






NOTE
1 Movimento comunitario, in «Comunità» (Torino), a. II, n. 4, 10 maggio 1947, p. 6.^
2 Il movimento cristiano sociale nel Canavese (all’interno della rubrica «Movimento comunitario»), in «Comunità» (Torino), a. II, n. 2, 26 aprile 1947, p. 6. Durante la riunione del 23 marzo (cfr. Conversazione dell’ing. A. Olivetti, in «La Sentinella del Canavese» (Ivrea), a. XXXVII, n. 13, 28 marzo 1947, p. 2), «in un referendum posto agli iscritti alla Comunità di Ivrea si è rivelata a maggioranza del 95% la richiesta di cambiare il nome del Partito Cristiano Sociale in Partito della Comunità Cristiana». Sulla questione, che ancora non considerava il problema teorico della denominazione ‘partito’, si sarebbe dovuto pronunciare il congresso del Partito cristiano-sociale indetto a Livorno per il 15, 16 e 17 maggio (cfr. Il movimento cristiano sociale, cit., p. 6).^
3 Presa di contatto a Verona (all’interno della rubrica «Movimento comunitario»), in «Comunità» (Torino), a. II, n. 2, 26 aprile 1947, p. 6. Si veda Che cosa sono i liberi lavoratori di Verona, in «Comunità» (Torino), a. II, n. 4, 10 maggio 1947, p. 6.^
4 L’ordine politico delle Comunità. Le garanzie di libertà in uno stato socialista, [Ivrea,] Nuove Edizioni Ivrea, 1945; ristampato, con correzioni formali e il sottotitolo mutato in Dello Stato secondo le leggi dello spirito, dalle Edizioni di Comunità, Roma, 1946.^
5 Si veda in merito D. Cadeddu, L’autonomia locale di Massimo Severo Giannini, in «Storia Amministrazione Costituzione», a. 13/2005, pp. 31-64; e Id., Gli Olivetti e il socialismo, in «Le scienze dell’Uomo – I Quaderni», a. VI, n. 3, giugno 2006, pp. 39-54. Per un sintetico quadro biografico, si veda Id., «Humana Civilitas». Profilo intellettuale di Adriano Olivetti, in G. Sapelli, D. Cadeddu, Adriano Olivetti. Lo Spirito nell’impresa, Trento, Il Margine, 2007, pp. 67-111.^
6 Presa di contatto a Verona, cit., p. 6.^
7 Cfr. V. Ochetto, Il difficile rapporto con Adriano Olivetti, in Gerardo Bruni e i cristiano-sociali, a cura di A. Parisella, Roma, Edizioni Lavoro, 1984, p. 275.^
8 Cfr. Movimento comunitario, in «Comunità» (Torino), a. II, n. 6, 24 maggio 1947, p. 6. Per un quadro generale si veda G. Campanini, Fede e politica.1943-1951, Brescia, Morcelliana, 1976.^
9 Cfr. V. Ochetto, Il difficile rapporto, cit., p. 280.^
10 Movimento comunitario, in «Comunità» (Torino), a. II, n. 4, 10 maggio 1947, p. 6. Questo nuovo ordine comunitario si sarebbe dovuto caratterizzare sotto il profilo economico attraverso «la trasformazione delle maggiori aziende industriali in Enti di diritto pubblico e la creazione di speciali cooperative agricole, nonché la istituzione di cooperative di consumo saldamente ancorate alle Comunità». Ciascuna di esse avrebbe dovuto assumere «il carattere di una entità economica associata in cui la produzione sarà diretta all’interesse esclusivo della collettività, intesa come complesso di produttori e di consumatori» (ibidem).^
11 Comunità, L’ora critica della democrazia, in «Comunità» (Torino), a. II, n. 1, 19 aprile 1947, p. 1. Come ha osservato Franco Ferrarotti, «il nucleo essenziale della costruzione olivettana» va cercato in «una prospettiva culturale e politica» riassunta nell’«idea di “democrazia compensata” o anche, per usare una formula polemica, “democrazia senza partiti politici”» (Prefazione a D. Ronci, Olivetti, anni ’50. Patronalsocialismo, lotte operaie e Movimento Comunità, prefazione di F. Ferrarotti, Milano, FrancoAngeli, 1980, p. 13). Per l’attribuzione a Olivetti degli articoli anonimi o pubblicati con pseudonimi, si veda la Bibliografia degli scritti di Adriano Olivetti, a cura di Giovanni Maggia, Siena, Facoltà di Scienze Economiche e Bancarie, Università degli Studi, 1983.^
12 Cfr. ibidem.^
13 [Sono propri della nostra epoca,] ivi, p. 1.^
14 Comunità, L’ora critica, cit., p. 1. Per ‘spirituali’, secondo l’accezione dell’autore, si deve qui intendere ‘culturali’ o ‘scientifiche’.^
15 Cfr. a.o., Democrazia anarchica o regime delle comunità? A proposito dei Centri di Orientamento Sociale, in «Movimento Comunità» (Ivrea), a. I, n. 2, 15 novembre 1948, p. 35.^
16 Cfr. R. Chiarini, Socializzare senza statizzare, in «Ideazione», a. VIII, n. 5, settembre-ottobre 2001, p. 202.^
17 [Adriano Olivetti,] Fascismo, nazismo ebbero idee, in «Comunità» (Torino), a. II, n. 4, 10 maggio 1947, p. 6. ^
18 Cfr. [Id.,] Esperienza dei Cln, in «Comunità», a. II, n. 5, 17 maggio 1947, p. 1.^
19 Cfr. [Id., 25 aprile, in «Comunità», a. II, n. 2, 26 aprile 1947, p. 1.^
20 Cfr. [Id.,] Dai Cln alle Comunità, in «Comunità», a. II, n. 4, 10 maggio 1947, p. 1. Sul rapporto tra Cln e autonomie locali, si veda sempre E. Rotelli, L’avvento della Regione in Italia. Dalla caduta del regime fascista alla Costituzione repubblicana (1943-1947), Milano, Giuffrè, 1967.^
21 Cfr. [Id.,] L’idea fondamentale, in «Comunità», a. II, n. 5, 17 maggio 1947, p. 6. Si ricordi, per inciso, che la Comunità è un ente alternativo alla Provincia. Roberto Chiarini, invece, attento soprattutto alla critica del Movimento Comunità alla partitocrazia, afferma che nella prospettiva olivettiana «restano le istituzioni – provincia, regione, Stato – a fungere da interlocutori della comunità» (La sfida di Comunità alla partitocrazia, in «MondOperaio», a. 45, n. 12, dicembre 1992, pp. 122b; rist. ampliata [e con varianti] con il titolo Una critica democratica al centralismo e alla partitocrazia: il comunitarismo di Adriano Olivetti, in La costruzione dello stato in Italia e Germania, Introduzione di R. Chiarini, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1993, p. 217).^
22 Cfr. [Id.,] La famiglia modello della Comunità, in «Comunità», a. II, n. 6, 24 maggio 1947, p. 6.^
23 Invito al colloquio, in «Comunità» (Torino), a. II, n. 3, 3 maggio 1947, p. 1.^
24 Norberto Bobbio ha definito L’ordine politico delle Comunità come il «progetto illuministico di una mente illuminata ma privo di riferimenti ai soggetti politici cui rivolgersi per incarnarsi» (testimonianza pubblicata in V. Ochetto, Adriano Olivetti, Milano, Mondadori, 1985, p. 129; rist. anast. Ivrea, Cossavella, 2000). È possibile replicare, tuttavia, che elaborare un progetto di riforma costituzionale non implica la necessità di contemplare anche una forza politica che lo promuova. Sono due piani ben distinti in origine, che possono poi anche intersecarsi. L’ordine politico delle Comunità è un progetto organico e perfettibile, che garantisce all’autore chiarezza concettuale e un preciso, non dogmatico orientamento strategico dell’azione politica, la quale, com’è noto, procede segnatamente attraverso suggerimenti e proposte.^
25 Ibidem.^
26 [Sono propri della nostra epoca,] cit., p. 1.^
27 Movimento comunitario, cit., p. 6. Si veda anche V. Ochetto, Il difficile rapporto con Adriano Olivetti, cit., pp. 281-282.^
28 Cfr. la copia della lettera conservata in Archivio della Fondazione Lelio e Lisli Basso Issoco, Roma, fondo Gerardo Bruni, serie 05, fasc. 44, sottofasc. 7 «Ivrea. Adriano Olivetti e Comunità».^
29 Lettera di Olivetti a Bruni, Ivrea 3 giugno 1947, c. 2, ibidem. Il corsivo è nell’originale.^
30 Cfr. [Molti lettori ci hanno espresso,] in «Comunità», a. II, n. 10, 21 giugno 1947, p. 3.^
31 Cfr. ibidem. I tre punti programmatici furono ristampati (con il terzo anteposto agli altri due), in «Comunità» (Torino), a. II, n. 20, 4 ottobre 1947, p. 8. Replicando ad alcune osservazioni di Massimo Salvadori, Olivetti precisò di non porre «l’alternativa fra uno stato diretto politicamente dai partiti e uno stato in cui, per difendere la libertà, i partiti sono paradossalmente vietati», bensì di essere preoccupato dello «stato di innegabile precarietà dell’attuale democrazia», a cui additava «come rimedio l’organizzazione comunitaria e l’adozione di una democrazia differenziata, su basi funzionali» (Nota, in «Comunità» (Torino), a. II, n. 18, 6 settembre 1947, p. 6).^
32 Cfr. Movimento comunitario, in «Comunità» (Torino), a. II, n. 21, 18 ottobre 1947, p. 8.^
33 Cfr. [A. Olivetti, La relazione al Comitato Centrale delle Comunità (Milano, 10 luglio 1949),] in Archivio Storico Olivetti, Ivrea, fondo Adriano Olivetti, sez. 22.12, b. «647-660», fasc. «n. 647».^
34 Cfr. La riunione comunitaria alla Casa della Cultura di Milano, in «Comunità» (To-rino), a. II, n. 22, 1 novembre 1947, p. 8. Alla riunione erano presenti, tra gli altri, Andrea Biraghi, Roberto Cesati, Luigi Nebuloni, Guido Rollier, Dino Luzzatto, Arialdo Banfi, Carlo Bassi, Pietro Barbieri, Ludovico di Belgioioso, Guido Bergmann, Antonio Bernasconi, Carlo Brizzolara, Vittorio Cavallotti, Umberto Campagnolo, Luigi Figini, Lu-ciano Foà, Eugenio Gentili, Alberto Mortara, Cesare Musatti, Marcello Nizzoli, Piero Parri, Enrico Perressutti, Gio-vanni Pintori, Silvio Pozzani, Giovanni Rossi, Ernesto Rogers, Alberto Zevi (cfr. ibidem).^
35 Cfr. ibidem. Nell’organizzazione dei Centri comunitari sembra di poter ravvisare la volontà da parte di Olivetti di raccogliere l’esperienza dei Centri di orientamento sociale, fondati a Perugia il 17 luglio 1944 da Aldo Capitini, e di precisarne i compiti e l’organizzazione giuridica in relazione agli enti territoriali locali (cfr. a.o., Democrazia anarchica o regime delle comunità?, cit., pp. 31, 35). Come ha osservato Giovanni Russo, certamente i Centri comunitari erano costituiti anche «a somiglianza dei “community centers”, numerosi in Inghilterra e negli Stati Uniti» (Gli eretici di Comunità, in «Il Mondo», a. I, n. 39, 12 novembre 1949, p. 8).^
36 Cfr. [A. Olivetti,] Nota, in «Comunità», a. II, n. 8, 7 giugno 1947, p. 3.^
37 Cfr. Deliberazioni del Comitato centrale comunitario, ivi, p. 8. Per un quadro della lotta politica locale di questi anni, si veda R. Chiarini, Nella «Città dell’uomo». Il governo locale e la sfida del Movimento Comunità, in G. Sapelli, R. Chiarini, Fini e fine della politica. La sfida di Adriano Olivetti, introduzione di Luciano Gallino, Milano, Edizioni di Comunità, 1990, pp. 161-172 e passim.^
38 Ibidem.^
39 Cfr. Per un blocco elettorale socialista, in «Comunità», a. II, n. 24, 29 novembre 1947, p. 8. L’Unione dei Socialisti nacque durante il primo Convegno nazionale dei socialisti indipendenti, tenutosi a Milano il 7-8 febbraio 1948, su iniziativa di «Europa Socialista», diretta da Ignazio Silone. Vi furono invitati «1) socialisti indipendenti e rappresentanti di correnti socialiste e democratiche che si trovino sullo stesso piano programmatico e politico. 2) Europa socialista. 3) Movimento di azione socialista (ex partito d’azione). 4) Gruppi di comunità. 5) Sindacalisti indipendenti. 6) Tecnici socialisti. 7) Associazione partigiana “Giustizia e libertà”, associazione “Matteotti”, rappresentanti delle formazioni “Autonome”, rappresentanti di formazioni garibaldine» (si veda il programma dei lavori in Archivio dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Milano [d’ora in poi: Insmli], fondo Rollier Mario Alberto, b. 3, fasc. 28). Durante il convegno Olivetti precisò che il Movimento Comunità aderiva all’iniziativa, ma non avrebbe potuto «impegnare tutto il proprio patrimonio ideale in una lotta che è in parte contingente» (cfr. Lombardo segretario dell’Unione dei Socialisti, in «L’Italia Socialista», a. VI [nuova serie], n. 35, 10 febbraio 1948, p. 1). Al secondo convegno dell’Unione dei Socialisti, svoltosi a Roma dal 6 al 9 maggio ’48, Olivetti presentò, insieme ad altri, una mozione sul rispetto delle esigenze religiose dei socialisti-cristiani che fu approvata (cfr. Approvata al Convegno dell’U.d.S. la mozione dei cristiano-sociali, in «L’Italia Socialista», a. VI [nuova serie], n. 110, 12 maggio 1948, p. 1).^
40 Cfr. Deliberazioni del Comitato centrale comunitario, ivi, p. 8.^
41 Cfr. La conferenza dell’ing. Adriano Olivetti, in «La Sentinella del Canavese» (Ivrea), a. XXXIX, n. 6, 11 febbraio 1949, p. 3.^
42 Cfr. Cronaca del movimento, in «Movimento Comunità» (Ivrea), a. I, n. 1, 1 settembre 1948, p. 24; e ivi, n. 2, 15 novembre 1948, pp. 7, 48.^
43 Cfr. [A. Olivetti, La relazione al Comitato Centrale delle Comunità,] cit.^
44 Cfr. ivi, p. 93.^
45 A. Olivetti, Decadenza delle ideologie, in «Movimento Comunità» (Ivrea), a. I, n. 1, 1 settembre 1948, pp. 1-2; Id., Vera e falsa competenza politica, ivi, n. 2, 15 novembre 1948, pp. 1-2. Nel 1955, Olivetti ricordò che «il Movimento Comunità nacque a Torino nell’autunno 1948 quando insieme a due amici scomparsi che avevano appartenuto a correnti della sinistra cristiana, Giuseppe Rovero e Giovanni Cairola, decidemmo di costituire un nuovo organismo – una nuova forza – che fosse ad un tempo una protesta e una testimonianza. Protesta contro il regime dei partiti, ma insieme una testimonianza atta a dimostrare che è possibile dar vita ad un nuovo sistema capace di dar finalmente libertà e benessere a tutti gli italiani, di interpretare le più profonde, naturali, umane aspirazioni del nostro popolo» (Il cammino della Comunità [1955], in A. Olivetti, Città dell’uomo, prefazione di G. Pampaloni, Milano, Edizioni di Comunità, 1960, p. 53). Se la data di fondazione del Movimento Comunità va evidentemente retrodatata, questo ricordo è significativo perché esprime la percezione, da parte di Olivetti, di una sorta di diaframma o momento critico nella storia del movimento.^
46A. Olivetti, Decadenza delle ideologie, cit., p. 1.^
47Tra gli altri, Umberto Serafini ha ricordato che «il Movimento Comunità è stato il frutto dell’incontro di persone di formazione diversa: una delle caratteristiche più singolari di Adriano Olivetti mi sembra sia da considerare quella di non aver preso le mosse da posizioni pragmatiche, anzi di tener ben fermo il suo “Ordine politico delle comunità”, ma nello stesso tempo di restare sempre aperto al dialogo e disponibile a lasciarsi persuadere» (Adriano Olivetti e il Movimento Comunità. Una anticipazione scomoda, un discorso aperto, Roma, Officina Edizioni, 1982, p. 15).^
48Ivi, p. 2. Si consulti in merito D. Cadeddu, Sulla sfortuna della «Comunità» olivettiana, in «Storia Amministrazione Costituzione», a. 11, 2003, pp. 39-71.^
49Cfr. ivi, p. 1.^
50Per un sintetico profilo complessivo, si veda la prefazione di R. Zorzi, in Catalogo generale delle Edizioni di Comunità. 1946-1982, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, pp. VII-XXI.^
51Ivi, p. 2. Questa consapevolezza delle difficoltà che sarebbero scaturite entrando in aperta polemica con il regime dei partiti erano chiare (e non poteva essere altrimenti) a Olivetti e al Movimento Comunità fin dalla sua fondazione. Chiarini ha affermato al contrario che essi sottovalutarono «nell’immediato le difficoltà – gravosissime – di un’inevitabile rotta d collisione con il sistema dei partiti in una fase, peraltro, di sostanziale monopolio della delega politica da parte di questi» (R. Chiarini, La sfida di Comunità alla partitocrazia, cit., p. 123a; rist. Una critica democratica, cit., p. 218).^
52Cfr. ibidem. L’Unione dei Socialisti era «un movimento federativo per il coordinamento e il potenziamento di tutte le forze politiche che si propongono di ricostruire in Italia un partito socialista unitario, democratico e indipendente» (cfr. l’art. 1 dello statuto provvisorio pubblicato in Unione dei Socialisti, Programma e statuto, s.i.e., in Archivio dell’Insmli, fondo Rollier Mario Alberto, b. 4, fasc. 32 ). A Roma tra il 6 e il 9 maggio 1948, si era tenuto il II Convegno nazionale dell’Unione dei Socialisti (cfr. il programma dei lavori, in Archivio dell’Insmli, fondo Rollier Mario Alberto, b. 4, fasc. 39).^
53 Per l’unità socialista in Italia, in «L’Italia Socialista», (n.s.) a. VI, n. 269, 14 novembre 1948, p. 4 (rist. in «Panorama Socialista», a. I, n. 1-2, 1-16 gennaio 1949, pp. 13-14). Cfr. Numerosi parlamentari aderiscono al documento di unificazione socialista, in «L’Italia Socialista», (n.s.) a. VI, n. 288, 7 dicembre 1948, p. 1. Altre adesioni sono indicate nell’articolo Posizione di centro della mozione Mondolfo. Cauta accettazione del documento di unificazione, in «L’Italia Socialista», (n.s.) a. VI, n. 294, 14 dicembre 1948, p. 1.^
54 Cfr. La lotta degli autonomisti del Psi non cesserà dopo la “scomunica”, in «L’Italia Socialista», (n.s.) a. VI, n. 263, 7 novembre 1948, p. 1. Più in generale si veda M. Degl’Innocenti, Storia del Psi, vol. III, Dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1993.^
55 Cfr. Per l’unità socialista in Italia, cit., passim.^
56 B. Croce, Il ricorso ai “competenti” nelle crisi storiche, in «Il Corriere della Sera», a. 73, n. 244, 17 ottobre 1948, p. 1.^
57 Id., Etica e Politica, Bari, Laterza, 1931.^
58 A. Olivetti, Vera e falsa competenza politica, cit., p. 1.^
59 Ivi, p. 2.^
60 Ibidem.^
61 A. Olivetti, Dopo nove anni, in 116 Spille d’oro, Ivrea, Reparto tipografico Olivetti, s.d. [1947], p. 2.^
62 Id., Vera e falsa competenza politica, cit., p. 2. Roberto Chiarini ha osservato che «il movimento di Comunità postula il passaggio da un sistema in cui la classe dirigente si seleziona e si regge su un’identità ideologica – ne sono strutture portanti i partiti con le loro subculture – a uno costruito su un’identità funzionale: strutture portanti diventano in tal caso le istituzioni» (La sfida di Comunità alla partitocrazia, cit., p. 122b; rist. Una critica democratica, cit., p. 217).^
63 Una lettera di Benedetto Croce, in «Comunità», a. III, n. 1, gennaio-febbraio 1949, p. 7.^
64 A.O., Dell’Istituto politico, in «Comunità», a. III, n. 1, gennaio-febbraio 1949, p. 7.^
65 Ivi, p. 8.^
66 Ivi, p. 7.^
67 Ivi, p. 8. Il corsivo è nell’originale. «Nel definire l’“ordine politico delle Comunità”» – ha osservato Giovanni Russo – «l’Olivetti si è servito di tutta la sua esperienza di organizzatore industriale e nello stesso tempo ha tenuto conto delle critiche più vive mosse al funzionamento della democrazia parlamentare e al sistema del suffragio universale da politici generosi come il Gobetti o da studiosi come il Mosca» (Gli eretici di Comunità, cit., p. 8).^
68 Cfr. A. Olivetti, Quarant’anni, in «Rivista Olivetti» (Milano-Ivrea), n. 3, marzo 1949, p. 53. Su Camillo Olivetti, si veda almeno B. Caizzi, Camillo e Adriano Olivetti, Torino, Utet, 1962; e D.A. Garino, Camillo Olivetti e il Canavese tra Ottocento e Novecento, Aosta, Le Château Edizioni, 2004.^
69 Ivi, p. 57.^
70 [A. Olivetti, La relazione al Comitato Centrale delle Comunità,] cit.^
71 Dell’Istituto politico, in «Comunità», a. III, n. 1, gennaio-febbraio 1949, pp. 7-8; Stato Sindacati Comunità, ivi, pp. 18-19.^
72 «Comunità», a. III, n. 1, gennaio-febbraio 1949, pp. 1-2.^
73 «Il Socialista Moderno» (Torino), a. I, n. 1-2, gennaio-febbraio 1949, p. 2.^
74 A. Olivetti, Società e Stato, cit., p. 1.^
75 Ivi, p. 2.^
76 Ibidem. Il corsivo è nell’originale.^
77 A. Olivetti, Stato Sindacati Comunità, cit., p. 19. Il corsivo è nell’originale.^
78 Ibidem. I corsivi sono nell’originale.^
79 Ivi, p. 18. Nell’originale, il brano «dualistico...libertà sia sociale» è in corsivo.^
80 La conferenza dell’ing. Adriano Olivetti, cit., p. 3. Si noti che nell’opuscolo pubblicitario allegato al libro di A. Olivetti, Società Stato Comunità. Per una economia e politica comunitaria, Milano, Edizioni di Comunità, 1952, viene affermato che il testo Fini e fine della politica fu «letto agli iscritti del “Movimento Comunità” in Ivrea il 6 Febbraio 1949».^
81 Cfr. anche il risvolto di copertina di A. Olivetti, Fini e fine della politica, a cura del Comitato Centrale delle Comunità, Ivrea, Movimento Comunità, 1953.^
82 «Comunità», a. III, n. 2, marzo-aprile 1949, pp. 1-3, 10.^
83 A. Olivetti, Per una civiltà cristiana. Fini e fine della politica, a cura del Comitato Centrale delle Comunità, Ivrea, Movimento Comunità, 1949. L’editoriale costituisce l’anticipazione (con varianti) dei capitoli 2, 3, 4 e di alcuni brani dei capitoli 6 e 7; il secondo articolo, firmato «Comunità», lo è (con varianti) dei capitoli 12 e 13.^
84 A. Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, XIV, 4.^
85 A. Olivetti, Fini e fine della politica, cit., p. 43. Roberto Chiarini, tra gli altri, ha invece affermato che «pur puntando anzitutto a una riscrittura delle procedure della democrazia rappresentativa», il Movimento Comunità, nel suo complesso, nutriva «l’illusione di riuscir risolutivo di tutte le contraddizioni della vita collettiva contemporanea» (La sfida di Comunità alla partitocrazia, cit., p. 123a; rist. Una critica democratica, cit., p. 218).^
86 [A. Olivetti,] Punti programmatici del «Movimento Comunità», in «Comunità», a. III, n. 2, marzo-aprile 1949, p. II. Si veda Bibliografia degli scritti di Adriano Olivetti, cit., tomo I, n. 133. Prova della paternità del testo è senz’altro la ristampa in A. Olivetti, Società Stato Comunità, cit., pp. 177-180 (con la correzione di alcuni refusi e la soppressione dei riferimenti conclusivi ad altre pubblicazioni).^
87 Ivi, I.^
88 Ivi, V, 13. Quasi a rappresentare tutto un filone interpretativo, Luciano Gruppi osservò che «il fatto che a questo movimento possano aderire uomini di ogni partito, non sta ad altro che ad indicare che si vuol far presa in un raggio il più largo possibile e che le dichiarazioni di “metapoliticità” non servono che ad allargare la presa. È il caso di dire che ci troviamo di fronte a una nuova sorta di... qualunquismo, seppure molto più raffinato e... metafisicizzato di quello a cui ci ha abituati la scuola di Giannini» (Movimento “Comunità”. Terza forza meta politica, in «Rinascita», a. VII, n. 2, febbraio 1950, p. 107. Il corsivo è nell’originale).^
89 Ivi, II, premessa.^
90 Ivi, II, 5.^
91 Ivi, II, 7.^
92 Ivi, II, 4.^
93 Ivi, IV, 12.^
94 Ivi, II, 2.^
95 Ivi, II, 4.^
96 Ivi, II, 7.^
97 Ivi, II, 6.^
98 Ivi, II, 8.^
99 Ivi, II, 2.^
100 Ivi, II, 9.^
101 Ivi, III, 10.^
102 Cfr. D. Cadeddu, Il valore della politica in Adriano Olivetti, Roma, Fondazione Adriano Olivetti, 2007, p. 107.^
103 [A. Olivetti,] Punti programmatici del «Movimento Comunità», III, 10. Il corsivo è nell’originale.^
104 Ivi, III, 11. Il corsivo è nell’originale. Secondo la visione marxista, «un ordinamento del tipo delle Comunità costituirebbe, invece, la struttura amministrativa e politica ideale per la vita e il dominio – poiché di questo si tratta! – di un’industria del tipo Olivetti», senza considerare che «creare tante comunità significa spezzare l’unità della classe operaia (L. Gruppi, Movimento “Comunità”, cit., p. 108). Si veda, a riguardo, la risposta di Adriano Olivetti, Le Comunità sono strumenti organizzati di lotta per un ordine nuovo. Commento a un articolo di Luciano Gruppi su «Rinascita», in «Comunità», a. IV, n. 7, marzo-aprile 1950, pp. VI-VII.^
105 Ivi, II, 3.^
106 Ivi, II, 1.^
107 Cfr. A. Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, I, 17.^
108 Cfr. [A. Olivetti,] Punti programmatici del «Movimento Comunità», II, 1.^
109 Olivetti faceva riferimento a opuscoli in corso di stampa o di stesura (non realizzato il secondo e pubblicato con titolo corretto il quarto): A. Olivetti, L’idea di una Comunità concreta, Milano, Edizioni di Comunità, 1946; Id., Per una civiltà cristiana. Fini e fine della politica, cit.; Id., Tecnica delle riforme, a cura del Movimento Comunità, Torino, 1950.^
110 Movimento Comunità, Linee e mezzi d’azione. Punti programmatici e statuto (provvisorio), a cura del Comitato Centrale delle Comunità, Ivrea, Tipografia Giglio Tos, 1949.^
111 Cfr. Cronaca del Movimento, in «Comunità», a. III, n. 2, marzo-aprile 1949, p. IV.^
112 [A. Olivetti, La relazione al Comitato Centrale delle Comunità,] cit.^
113 Si noti per inciso che esso è, per diversi aspetti, differente dall’«Allegato A. Elenco provvisorio indicativo delle Comunità del Piemonte», stilato alla fine del 1944 (cfr. A. Olivetti, Stato Federale delle Comunità. La riforma politica e sociale negli scritti inediti (1942-1945), a cura di D. Cadeddu, Milano, Franco-Angeli, 2004, pp. 231-233.^
114 Movimento Comunità, Linee e mezzi d’azione, cit., pp. 13-32.^
115 Cfr. ivi, p. 15.^
116 Ivi, p. 16. Si precisava che «nelle correnti sindacali gli iscritti al Movimento Comunità dovranno lottare per l’unità sindacale e l’apoliticità del Sindacato» (ivi, p. 17).^
117 Ivi, pp. 17-18. Il corsivo è nell’originale.^
118 Ivi, p. 18.^
119 Ivi, p. 23.^
120 Cfr. ivi, p. 26. In un commento al programma politico del Movimento Comunità (esposto in Per una civiltà cristiana, L’idea di una Comunità concreta e Linee e mezzi d’azione), apparso su «Cronache sociali», si obiettava, «per tutto l’assieme, un eccesso di particolarismo e di tecnicismo» e si criticava il fatto di poter edificare una realtà istituzionale nuova fondata su valori cristiani e su un’economia socializzata e non statizzata, all’interno di una società pluralista: «le deficienze degli ordinamenti consentiti oggi alla democrazia sono inspiegabili e insanabili se non si tien conto propio di questo dato di fatto, e cioè che la società odierna non accetta più una base etica comune» (Il programma del «Movimento Comunità», in «Cronache Sociali», a. III, n. 15, 1 settembre 1949, p. 18).^
121 Su «Cronache Sociali», invece, si accusava Olivetti di trascurare il fatto che la società a lui coeva fosse «dilaniata non tanto da questioni concrete quanto da questioni ideologiche». Ne conseguiva l’individuazione da parte sua di «un ottimo di organizzazione, ove la libertà è incanalata nella massima razionalità», ma si replicava che «la stessa razionalità, per essere valida, discende proprio da una ideologia, e che quando agiscono più ideologie ciò che è razionale per gli uni è irrazionale per gli altri» (Il programma del «Movimento Comunità», cit.).^
122 Cfr. Movimento Comunità, Tempi nuovi metodi nuovi, a cura della Direzione Politica Esecutiva, Milano, Edizioni di Comunità, 1953, p. 28. Il limite di una responsabilità dell’azione degli intellettuali «solo di fronte alla società locale», individuato da Giuseppe Berta, non corrisponde affatto ai contenuti della dichiarazione (Le idee al potere. Adriano Olivetti tra la fabbrica e la Comunità, Edizioni di Comunità, Milano 1980, pp. 57-58).^
123 Cfr. U. Campagnolo, Vers une prise de coscience du rôle politique de la culture, in «Comprendre», 1952, n. 5-6, pp. 23-32. Si veda in merito anche U. Campagnolo, Petit dictionnaire pour une poli-tique de la culture, Neuchâtel, La Baconnière, 1969. Il concetto di «politica della cultura» (e la sua differenza dalle politiche culturali) fu condiviso e poi divulgato da Norberto Bobbio, Politica culturale e politica della cultura, in «Rivista di Filosofia», vol. XLIII, n. 1, gennaio 1952, pp. 61-74 (rist. in Id., Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955, pp. 32-46), peraltro senza fare menzione di Campagnolo, ma solo dell’occasione in cui fu proferita l’espressione e comunicato il concetto a essa sotteso.^
124 Cfr. Movimento Comunità, Tempi nuovi metodi nuovi, cit., p. 29.^
125 «Premessa redazionale» a A. Olivetti, Socializzare senza statizzare, in «Il Socialista Moderno» (Torino), a. I, n. 1-2, gennaio-febbraio 1949, p. 2.^
126 Cfr. Assemblea del Consiglio Generale. La relazione del segretario per il Canavese Tulli, in «Comunità», a. III, n. 3, maggio-giugno 1949, pp. II, V-VI.^
127 Cfr. Elezione del comitato e del Consiglio Generale della Comunità del Canavese, ivi, p. II. Il Comitato risultava composto da Giuliano Bergaglio (organizzazione e sviluppo), Virginio Debenedetti (igiene sociale), Tullio Fazi (ricreazione, sport), Annibale Fiocchi (urbanismo), Adriano Olivetti (politica e amministrazione), Geno Pampaloni (stampa e propaganda), Giorgio Trossarelli (enti locali), Tullo Tulli (segretario) e Ignazio Weiss (ufficio finanziario). Il Consiglio generale invece era formato da quarantatre persone, oltre a Egidio Bonfante e Giorgio Soavi inclusi di diritto «in quanto redattori di “Comunità”», tra le quali figuravano nuovamente Giuliano Bergaglio, Adriano Olivetti, Giorgio Trossarelli e Ignazio Weiss (cfr. ibidem).^
128 Cfr. Assemblea del Consiglio Generale, cit., p. II. Si era proceduto quindi alle vota-zioni a scrutinio segreto delle cariche del consiglio, dalle quali erano risultati eletti Ignazio Weiss (presidente), Genesio Berghino e Maggiorino Getto (vicepresidenti), Franco Scaletti (segretario) e Renato Tamietti (vicesegretario) (cfr. ibidem).^
129 Ivi, p. VI. La prima riunione veniva preannunciata per mercoledì 29 giugno a Milano in via Giardini 7. Si era proceduto quindi alla nomina di Giorgio Trossarelli come presidente del Comitato per la Comunità del Canavese (cfr. ibidem).^
130 Cfr. Seconda Assemblea Generale della Comunità del Canavese – Seduta del 22 Giugno 1949, in «Comunità», a. III, n. 4, luglio-agosto 1949, p. V. Sempre durante il mese di giugno, in diversi Centri comunitari del Canavese si erano svolte le elezioni dei rispettivi presidenti: Aventino Tarpino a Castellamonte, Matteo Balla a Tavagnasco, Genesio Berghino a Palazzo Canavese, Coda Zabetta Alfonso a Chiaverano, Giovan Battista Enrico a Pavone Canavese e Emilio Marra ad Alice Superiore (Elezione Presidenti dei Centri Comunitari, in «Comunità», a. III, n. 4, luglio-agosto 1949, p. III).^
131 Cfr. ivi, p. VI. A questo proposito veniva anche formulata dal Consiglio generale per la Comunità del Canavese una dichiarazione rivolta al Consiglio Centrale della Comunità (cfr. ibidem).^
132 Cfr. A Milano: prima riunione del Comitato Centrale delle Comunità, in «Comunità», a. III, n. 4, luglio-agosto 1949, p. I. Intervennero Giovanni Astengo, Emilio Azzaretti, Lodovico Belgioioso, Giuliano Bergaglio, Alberto Cabella, Anna Castelli Ferrieri, Andrea Chiti-Batelli, Virginio Debenedetti, Enzo Enriques Agnoletti, Tullio Fazi, Franco Ferrarotti, Luigi Figini, Annibale Fiocchi, Enzo Forcella, Eugenio Gentili, Vittorio Libera, Aldo Morandi, Alberto Mortara, Marcello Nizzoli, Giacomo Noventa, Adriano Olivetti, Geno Pampaloni, Enrico Peressutti, M. Reynaud, Ernesto Rogers, Paolo Santarcangeli, Giorgio Trossarelli, Tullio Tulli, Ignazio Weiss, Renzo Zorzi. Tra gli assenti giustificati, c’erano Rosario Assunto, Riccardo Drago, Ignazio Gardella, Massimo Severo Giannini, Gino Martinoli, Fausto Penati, Marco Zanuso. Presenti in qualità di osservatori, oltre ai rappresentanti della stampa, Ignazio Silone, Giuliano Pischel, Franco Momigliano e Franco Fortini (cfr. ibidem).^
133 Il discorso di Ignazio Silone, in «Comunità», a. III, n. 4, luglio-agosto 1949, pp. II-III. In particolare, Silone definì l’esistenza di un forte partito socialista democratico essere di una qualche utilità, anche se di «limitata autorità democratica», a causa di una «pesantezza nella politica di massa alla quale non si sfugge». Era, pertanto, vitale la presenza di formazioni come il Movimento Comunità, che egli implicitamente riconosceva composto da «uomini liberi i quali nelle loro critiche verso l’organizzazione politica della società non conoscono limiti op-portunistici, ma al presente stato di cose, che è tirannico anche se con denominazione democratica, oppongono un ideale libertario, umano, di organizzazione politica aderente alla complessità della società» (ivi, p. II).^
134 Cfr. ibidem. La prima riunione della Direzione politica esecutiva si tenne a Ivrea il 23 ottobre 1949 e deliberò, tra l’altro, la cooptazione di Franco Ferrarotti (allora responsabile dell’Ufficio studi sindacali del Movimento Comunità), che, alla fine degli anni cinquanta, subentrò ad Adriano Olivetti come deputato in Parlamento (cfr. Riunione della Direzione Politica Esecutiva, in «Comunità», a. III, n. 5, settembre-ottobre 1949, pp. IV-V). Si veda F. Ferrarotti, Nelle fumose stanze. La stagione politica di un «cane sciolto», Milano, Guerini, 2006.^
135 Movimento Comunità, Linee e mezzi d’azione, cit., p. 25.^
136 Cfr. Mozione n. 1, in «Comunità», a. III, n. 4, luglio-agosto 1949, p. II.^
137 A. Olivetti, Scarse prove, in «Comunità», a. III, n. 3, maggio-giugno 1949, p. VI.^
138 Cfr. Mozione n. 1, cit., p. II. A questo proposito, Giovanni Russo precisò che «la linea di demarcazione tra attività politica e metapolitica è del resto così labile che non si può certo tracciarne i limiti con precisione. Si può però dire con precisione che il punto centrale degli interessi dei comunitari è costituito dal problema della libertà spirituale dell’uomo nella società moderna, libertà delimitata e condizionata dal rapporto che lega l’uomo allo Stato» (Gli eretici di Comunità, cit., p. 8)^
139 Cfr. Mozione n. 2, ibidem. Per un commento al convegno si veda Franco Briatico, Fisionomia di un movimento, in «Il Popolo», a. VII, n. 165, 12 luglio 1949, p. 3. Come ha precisato Giuseppe Berta, «il comunitarismo olivettiano non è […] assimilabile all’ideologia dei gruppi laici che hanno lasciato qualche segno, pur se spesso sottovalutato, nel dibattito politico degli anni cinquanta, poiché il suo orizzonte era già costituito per intero dalla prospettiva dell’“unificazione socialista”» (Le idee al potere, cit., p. 21).^
140 Movimento Comunità, Linee e mezzi d’azione, cit., p. 29.^
141 Cfr. A Milano: prima riunione del Comitato Centrale delle Comunità, in «Comunità», a. III, n. 4, luglio-agosto 1949, pp. I-II.^
142 Movimento Comunità, Linee e mezzi d’azione, cit., p. 26.^
143 Cfr. Assemblea del Consiglio Generale, cit., p. II. Lamentandosi dell’assenza di proposte concrete per correggere i difetti della democrazia rappresentativa fondata sui partiti, nel luglio del 1950 Ernesto Rossi scrisse che «l’unico contributo serio che io conosco, di questi ultimi anni, per il nostro paese, è quello dato da Adriano Olivetti col suo “Ordine politico delle comunità”» (Occhiali per la democrazia, in «Il Mondo», a. II, n. 28, 15 luglio 1950, p. 3).^
144 Movimento Comunità, Linee e mezzi d’azione, cit., p. 26. Il corsivo è nell’originale.^
145 Si veda, in merito, B. de’ Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960), Roma, Fondazione Adriano Olivetti, 2008.^
146 Movimento Comunità, Linee e mezzi d’azione, cit., p. 26.^
147 Movimento Comunità, Tempi nuovi metodi nuovi, cit. (pubblicata anche con il titolo Dichiarazione politica; rist. in U. Serafini, Adriano Olivetti e il Movimento Comunità, cit., pp. 362-397). Membri della Direzione Politica Esecutiva, e firmatari del documento (in data «Roma, gennaio 1953»), risultano essere Rosario Assunto, Ludovico B. Belgiojoso, Rigo Innocenti, Alberto Mortara, Riccardo Musatti, Adriano Olivetti, Geno Pampaloni, Ludovico Quaroni, Umberto Serafini, Giorgio Trossarelli, Renzo Zorzi. Si noti, per inciso, l’eco che il titolo sembra offrire all’articolo di Co. [Camillo Olivetti], Metodi nuovi Uomini nuovi, in «L’azione riformista» [sic], a. I, n. 1, 14 agosto 1919, p. 1.^
148 Ivi, p. 7.^
149 Ivi, p. 22. A distanza di anni, Umberto Serafini ha definito la dichiarazione politica come «la più tempestiva e più dura requisitoria italiana della partitocrazia» (La nascita della partitocrazia italiana e il Movimento Comunità, in «Queste istituzioni», a. XX, n. 92, ottobre-dicembre 1992, p. 88). Il Movimento Comunità – ha osservato Sergio Ristuccia – espresse un rifiuto alla democrazia dei partiti che «muoveva da una critica radicale dell’adeguatezza e proprietà della democrazia per partiti e che partiva da una riflessione sui fondamenti stessi, in termini concettuali ed etici, della democrazia» (Democrazia e merito. Sull’attualità dell’esperienza politica e culturale di Adriano Olivetti e del Movimento Comunità, in «Queste istituzioni», a. XXII, n. 97, gennaio-marzo 1994, p. 37).^
150 A. Olivetti, Fini e fine della politica, a cura del Comitato Centrale delle Comunità, Ivrea, Movimento Comunità, 1949 p. 25.^
151 Ibidem. Con tutti i limiti che si possono individuare, la storia del Movimento Comunità resta quella della «prima e unica “provocazione” condotta nel nostro paese da posizioni democratiche nei confronti del sistema politico per ridisegnarne l’architettura con il fine dichiarato di spodestare i partiti dal ruolo di mediazione politica tra società civile e istituzioni da tutti riconosciuto come assai pronunciato, ma cionondimeno da tutti considerato come vitale in una democrazia funzionalmente articolata» (R. Chiarini, Socializzare senza statizzare, cit., pp. 201-202).^
152 Si consulti G. Sapelli, R. Chiarini, Fini e fine della politica, cit., passim. Per la riflessione di un protagonista, si veda G. Pampaloni, Adriano Olivetti: un’idea di democrazia, Milano, Edizioni di Comunità, 1980, e anche A. Mortara, Adriano Olivetti (1901-1960), in I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, a cura di A. Mortara, Milano, FrancoAngeli, 1984, pp. 666-682. Più in generale, sul mondo che ruotò intorno ad Adriano Olivetti, e sui suoi polifonici interessi, si veda E. Renzi, Comunità concreta. Le opere e il pensiero di Adriano Olivetti, prefazione di Giuseppe Galasso, Napoli, Guida, 2008.^
153 Secondo Roberto Chiarini, «su due fronti in particolare pare corretto pensare ad una riattualizzazione del pensiero e della pratica del Movimento Comunità: la progettazione di un superamento della deriva partitocratica della democrazia e la ricerca di un’alternativa alla rappresentanza politica congelata nelle subculture» (Socializzare senza statizzare, cit., pp. 200-201).^
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