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Le comunità concrete di Adriano Olivetti
di Davide Cadeddu
Negli anni Cinquanta, in Italia, ci fu tutto un mondo che ruotò intorno alle Edizioni di Comunità, alla rivista «Comunità», al Movimento Comunità e, almeno indirettamente, al libro L’ordine politico delle Comunità. ‘Comunità’ fu la parola scelta da Adriano Olivetti per rappresentare segnatamente una radicale proposta di riforma del sistema politico rappresentativo, che implicava la progressiva esautorazione del potere dei partiti politici. ‘Comunità’ costituì l’idea forza che corroborava e riconduceva a sintesi una pluralità di tensioni ideali, scaturite dall’animo di Olivetti e, com’è naturale, non condivise completamente neppure dagli stessi membri del movimento da lui fondato. Sulla proposta istituzionale delle Comunità si trovarono d’accordo, in luoghi e momenti differenti, Luigi Einaudi, Oliviero Zuccarini, Massimo Severo Giannini, Alessandro Levi, Gerardo Bruni, Ignazio Silone, Aldo Capitini, Ernesto Rossi, e tante altre personalità dal differente orientamento politico. Cosa fossero queste Comunità è risultato, però, di difficile comprensione ai più, sia negli anni in cui Olivetti si sforzava di spiegarlo sia, a maggior ragione, nei decenni successivi.
«La Comunità è innanzitutto uno spazio» ha scritto correttamente Emilio Renzi in un recente lavoro (Comunità concreta. Le opere e il pensiero di Adriano Olivetti, prefazione di G. Galasso, Napoli, Guida, 2008, p. 49), che offre, dopo e, per certi versi, meglio della tanto documentata quanto prevenuta biografia di Valerio Ochetto, un quadro dei proteiformi interessi di Adriano Olivetti e del complesso panorama da lui generato. Messe al bando lunghe e complesse (talvolta scolastiche, talaltra fumose) spiegazioni, occorre fermarsi, in effetti, soprattutto su due aspetti, correlati alla menzionata asserzione: le Comunità sono i luoghi – definibili facilmente attraverso l’analisi sociologica e un preliminare parametro numerico – in cui si manifesta il maggiore movimento diurno della popolazione; queste porzioni di territorio dovrebbero costituire le circoscrizioni elettorali di un sistema uninominale (integrato) e, nel contempo, lo spazio governato da un nuovo ente territoriale locale, che Olivetti chiamava appunto Comunità. Tutte le principali e ulteriori considerazioni che si trovano espresse in merito dall’autore di L’ordine politico delle Comunità – circa le radici storiche e culturali, l’approssimativa omogeneità economica o le caratteristiche geografiche – derivano non meccanicamente da queste due preoccupazioni fondamentali, desunte anche da riflessioni su realtà politiche internazionali. Ciò che gli interessava era l’efficacia e l’efficienza dell’azione pubblica espressa da una compiuta partecipazione democratica a livello locale. Le Comunità altro non erano che piccole Province o, all’interno delle grandi città, enti simili, tra l’altro, ai Municipi oggi presenti a Roma, con una differente riarticolazione della loro capacità di politiche pubbliche, di pianificazione urbanistica e di intervento nell’economia. A fronte di quanto è stato scritto circa l’astrattezza della proposta di Olivetti (e la sua indebita generalizzazione di osservazioni riguardanti solo il territorio del Canavese), la più avanzata scienza dell’amministrazione pubblica odierna, con interesse alle autonomie locali, denuncia che la razionalizzazione territoriale degli enti locali, condotta tra il 1945 e la fine del secolo scorso da tutti i paesi dell’Europa occidentale, è ancora oggi il prodromo necessario alla efficienza dell’amministrazione pubblica in Italia, dove, paradossalmente, si manifesta una controtendenza. Il nuovo ordinamento italiano, varato con la legge del 1990, in effetti non ha ritenuto necessario quel riassetto delle circoscrizioni locali che invece è indispensabile all’efficacia e all’efficienza delle decisioni politiche e a un ottimale impiego delle risorse. Un riassetto che dovrebbe cercare di far coincidere le circoscrizioni amministrative con le circoscrizioni degli interessi economici e sociali, al fine di agevolare il controllo, da parte degli amministrati, delle decisioni di loro diretto interesse.
A questo innanzitutto pensava Adriano Olivetti quando parlava delle sue Comunità, con espressioni talvolta venate di una tensione religiosa che ha contribuito a rendere ostica la comprensione del messaggio politico sotteso. Nel marzo del 1945, Ernesto Rossi gli rimproverò proprio tale inopportuna commistione: «quello che lei scrive sulla morale cristiana che dovrebbe informare tutta l’attività degli organi amministrativi apparirà al comune lettore eccessivamente ingenuo». Sostenere, in effetti, che «senza un completo rivolgimento morale – per cui lo spirito di carità completi la giustizia sociale – l’organizzazione delle Comunità vivrebbe senza anima», significava, secondo l’economista, «diminuire il valore delle sue proposte», perché molti avrebbero potuto pensare che un tale rivolgimento non si sarebbe verificato: era pacifico che «i motivi morali all’azione non cambiano, o cambiano ben poco, per il fatto che viene mutato l’ordinamento politico amministrativo».
Vicenda complessa quella di Adriano Olivetti e dell’impresa culturale sorta intorno a lui, che, come ha osservato Giuseppe Galasso nella prefazione al libro, ha bisogno «di uno sguardo dall’interno, di uno sguardo partecipe e solidale perché essa parli non solo nel ricordo, bensì anche in una dimensione più oggettiva, di chiarezza retrospettiva, se non di storia» (ivi, p. XII). Di questa vicenda pregna di fermenti ideali, e pressoché trascurata dalla storiografia di partito dell’Italia contemporanea, offre un’agile e critica ricostruzione Emilio Renzi, che si avvale di una prosa elegante e di una ricca e aggiornata bibliografia. La narrazione sembra seguire eccessivamente l’alveo tracciato dalla menzionata biografia di Ochetto, ma la sensibilità che la anima è senz’altro di qualità differente. Il profilo tracciato incorre talvolta in piccoli errori, come quando si confonde il simbolo delle Nuove Edizioni Ivrea con quello delle Edizioni di Comunità (p. 32) o quando si individua in Cesare Musatti (e non in Guglielmo Usellini) l’intermediario che, nel marzo del 1945, permise a Olivetti di iscriversi al Partito socialista (p. 44). Sembra esagerato indicare Luciano Foà come «ghostwriter» di L’ordine politico delle Comunità (p. 38), avendo solamente reso scorrevole la prosa dell’autore (si veda in merito la testimonianza dello stesso Foà raccolta da Giorgio Soavi in Italiani anche questi, pp. 135-140), così come affermare, a proposito della proposta politica contenuta nell’opera dell’imprenditore di Ivrea, che «l’unico – possiamo ben dirlo – che lo ascolta sul serio è Luigi Einaudi» (p. 79). Tra le personalità ricordate da Renzi, Massimo Severo Giannini e Ignazio Silone (o Gerardo Bruni o Costantino Mortati o Giuseppe Maranini) non “ascoltarono” Olivetti a Roma meno di quanto abbia fatto Einaudi, per quanto di quest’ultimo sia rimasta maggiore documentazione in merito. In generale, di fronte alle contraddizioni che emergono dalla storiografia, egli talvolta accoglie opinioni che studi successivi hanno confutato o precisato. Finora senza pari è, invece, la ricchezza con cui ricorda le vicende legate al design “olivettiano” e l’equilibrio nella scelta degli argomenti utili a descrivere i diversi aspetti della variegata attività di Adriano Olivetti.
Il capitolo più originale è senza dubbio l’ultimo, «Il resto della storia. L’olivetticidio, il legato di Adriano Olivetti», ma interessante anche la lettura data a L’ordine politico delle Comunità. A parte alcune imprecisioni [e.g. la “Vicinanza” non è un altro possibile nome della Comunità (p. 49), ma la denominazione di un organo di decentramento intermedio tra Comune e Comunità], meritoria è un’analisi condotta fuori da stereotipi e sinceramente interessata a quanto Olivetti aveva da dire. Dopo le tante considerazioni espresse dalla letteratura memorialistica e aneddotica sulla presunta astrattezza o idiosincrasia olivettiana per la storia, Renzi rileva opportunamente nell’opera riferimenti a fatti politici coevi e a vicende europee del primo dopoguerra e degli anni trenta. Suscita qualche perplessità, invece, il discorso sul personalismo francese, che, secondo cliché, continua a essere sopravvalutato. Sicuramente eccessivo è ritenere l’espressione “terza via” attinta da Emmanuel Mounier, che nel primo numero della rivista «Esprit» usò la formula troisième force (p. 63), così come affermare che da Jacques Maritain, «ma non solo da lui», Olivetti prese il motivo della critica ai partiti politici (p. 65): essa, infatti, nacque e maturò nel giovane eporediese a partire dalla sua vicinanza al Gaetano Salvemini del primo dopoguerra. C’entra poco anche la lettura degli Appunti sulla soppressione dei partiti politici di Simone Weil (p. 65, n. 106), che furono scritti sì nel ’43, ma divulgati nel ’50, quando l’atteggiamento antipartitocratico di Olivetti si era già manifestato sia attraverso la pubblicazione di L’ordine politico delle Comunità, sia con la fondazione del Movimento Comunità. Dimostra, per contro, una sensibilità inedita la comparazione dell’opera olivettiana con altri scritti federalisti coevi: il Manifesto di Ventotene di Spinelli e Rossi, Repubblica federale europea di Campagnolo e Libérer et fédérer di Trentin. Come osserva Renzi, «il presente paragrafo ambisce ad avere una propria giustificazione storiografica in quanto negli scritti degli studiosi del federalismo comunque inteso Adriano Olivetti e i suoi scritti teorici e l’iniziativa politica del Movimento Comunità non sono stati studiati neanche un po’ – a malapena citati» (p. 68, n. 108). Concordare con Bruno Caizzi sul fatto che l’autore non abbia ceduto «di un pollice alla propria ambizione totale, senza ricercare compromesso alcuno, né di forma né di contenuto» (p. 75), significa però trascurare, almeno in parte, proprio quella storia della prassi politica del Movimento Comunità che si voleva invece rivalutare. Differente è parlare di una certa intransigenza da parte di Olivetti nel sostenere i principi in cui credeva.
Con la schiettezza che si esprime verso un lavoro di cui si apprezza nel complesso sia l’intenzione sia il risultato, dopo averne indicato sommariamente alcuni pregi e probabili difetti, non si può che concordare con Galasso nel ricordare che «una componente essenziale della personalità di Olivetti era quella di discutere e di essere discusso» (p. XII): questo libro contribuisce senz’altro ad alimentare un fecondo dialogo su ciò che essa fu in grado di suscitare. Sia permesso, per inciso, osservare infine una nota di vanità ‘letteraria’ che traspare nell’attenzione contro-filologica con cui Emilio Renzi, in ogni propria riflessione su temi olivettiani, pur consapevole, si ostina a perpetuare l’errore di citare il titolo della principale opera di Adriano Olivetti con la ‘O’ di ‘ordine’ maiuscola e la ‘c’ di ‘Comunità’ minuscola, giungendo persino (in forma un po’ maniacale, forse complice l’uniformazione redazionale) a correggere i titoli dei saggi di altri studiosi. Amichevolmente gli vorrei suggerire di rassegnarsi al fatto che, per motivi non solo estetici, il titolo scelto dall’Autore fu L’ordine politico delle Comunità.
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