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1796, o il Direttorio in Italia
di Antonino De Francesco
È un luogo comune, nella nostra tradizione storico-politica, sottolineare il ruolo determinante della Francia rivoluzionaria circa la genesi dell’Italia moderna. Tuttavia, il pieno riconoscimento del ruolo esercitato dalle truppe del giovane Bonaparte è stato puntualmente accompagnato anche da profonde critiche. Nella descrizione del Triennio – la breve stagione che muove dalla discesa di Bonaparte in Italia nel 1796 al crollo delle repubbliche sorelle nel 1799 – sono infatti ripetuti i riferimenti ad una preponderanza francese che nella penisola avrebbe assunto dei tratti largamente oppressivi: e perché i soldati di Francia avrebbero introdotto un durissimo sistema fiscale, abbandonandosi a tasse inusitate, requisizioni e saccheggi d’opere d’arte e perché avrebbero sottoposto l’Italia ad un autentico servaggio politico, sempre ostacolando i tentativi dei patrioti italiani di giungere all’unità e all’indipendenza e dunque puntualmente anticipando i caratteri più autoritari della immediatamente successiva dominazione napoleonica.
E tuttavia, merita anche di ricordare come queste due accuse abbiano ascendenze tra sé diverse, quando non addirittura contrapposte: le denunce della spoliazione della penisola perpetrata dalle truppe di Francia nascono nel quadro della polemica di parte contro-rivoluzionaria, si sarebbero poi molto rafforzate lungo l’Ottocento innervando la polemica di parte cattolica verso gli effetti del 1789 in Italia, ma non avrebbero mai avuto alcun tratto dominante, solo riemergendo, durante il Novecento, dapprima nelle critiche ultranazionaliste verso la politica egemonica della vicina latina e assai più di recente nel campo di chi ancora contesta la legittimità stessa dello stato unitario ricordando come esso sia sorto da un movimento nazionale destinato a giusto scimmiottare l’esempio autoritario di Francia.
Di assai maggiore rilievo, nella tradizione culturale italiana, è invece l’altro capo di accusa sopra ricordato, che ha informato tutta la polemica risorgimentale sino a divenire autentica vulgata all’indomani dell’unità della penisola, quando, nel corso della stagione liberale, a destra come a sinistra, tutte le parti politiche del giovane Stato nazionale avrebbero denunciato negli anni del Direttorio un momento di inaccettabile minorità a fronte dell’ingombrante (benché inevitabile) alleato1. Questa unanimità di vedute, che accompagna la costruzione di un immaginario nazionale da sempre orientato alla piena autonomia sulla scena internazionale (dove per molti avrebbe presto dovuto avviare anche una politica di grande potenza), era il riflesso di un percorso obbligato che le famiglie politiche dell’Italia unita si trovavano a compiere, perché il rifiuto di una diretta discendenza dall’esempio rivoluzionario consentiva loro di legittimare, da un punto di vista storico oltre che culturale, la pretesa dimensione autoctona, e dunque pienamente originale, del Risorgimento2. In altre parole, la difesa della natura intimamente nazionale dell’Ottocento politico, acutissima anche sulla sinistra dello schieramento favorevole alla causa italiana, sta alla base di quel presunto misogallismo attorno al quale si sarebbero articolate (e spesso attorcigliate) le vicende dell’Italia liberale.
Di conseguenza, non sia qui superfluo ricordare come, per le motivazioni ora addotte, la storiografia nazionale, da subito improntata al riconoscimento e all’avallo della dimensione progressiva insita nell’unità statuale, abbia a sua volta trovato utile ed opportuno recuperare una lettura siffatta, la cui genesi – giova sempre ricordarlo – era e rimaneva tutta politica, perché si proponeva di individuare una Sonderweg italiana altrimenti irrecuperabile nel grande quadro europeo dell’espansione rivoluzionaria del modello di Francia. Gli esiti di questo nesso strettissimo erano un insistito ricorso al Settecento d’Italia, letto sia nei termini, tutti sabaudi, di un autonomo risveglio della penisola sulla fine del Settecento, sia in quello, più pronunciatamene democratico, che tentava di proporre in modo più equilibrato rispetto alla semplice invasione l’incontro dell’Italia con Bonaparte e rivendicava di conseguenza al patriottismo italiano una particolarità che gli avrebbe permesso di non esser raffigurato quale una mera copia del modello d’Oltralpe3.
Ecco perché, a cavallo dei secoli XIX e XX, proprio quando le rivalità commerciali e la pretesa di una politica di potenza avevano avviato una stagione dalle note molto conflittuali con la Francia, i riferimenti alle origini dell’unità italiana presero tratti vieppiù nazionalisti, col risultato di favorire la crescita degli interventi critici verso il Direttorio, puntualmente definito quale un sistema autoritario e straniero, la cui politica repressiva verso le aspirazioni unitarie dei patrioti non solo era acclarata, ma doveva al tempo stesso venire puntualmente denunciata. Questa impostazione, tutta volta a porre il Triennio sotto l’egida di un potere di Francia disposto a far strame delle aspettative dei suoi alleati pur di evitare ogni alterazione del quadro internazionale nel quale esercitava la propria egemonia, si sarebbe poi ulteriormente rafforzata negli anni tra le due guerre mondiali, quando d’un lato l’esasperato clima nazionalista seguito alla cocente delusione dell’immediato dopoguerra, dall’altro le grandi fortune del fascismo strinsero a tenaglia la storiografia italiana, che prese ad impastare – con risultati talvolta anche felici – le frustrazioni mai nascoste (e le mostre di muscoli spesso invocate) in un insieme di luoghi comuni dove ad eccellere, sotto la più sinistra luce, era sempre e comunque il Direttorio: con un procedimento a ritroso dai sicuri effetti, il tradimento di Versailles veniva così storicizzato e i suoi prodromi erano largamente ravvisabili nella stagione rivoluzionaria di fine Settecento, che diveniva la prova provata della costante e profonda inimicizia di parte francese verso ogni aspirazione nazionale della penisola4.
Questa insistenza sui tratti anti-italiani nella politica del Direttorio, cui non faceva da puntuale corrispettivo (et pour cause) la figura di Napoleone imperatore, si sarebbe ovviamente inabissata, all’indomani della seconda guerra mondiale, assieme al fascismo: quando, con il tracollo del regime, venne drammaticamente disvelandosi la fragilità, sino ad allora sempre occultata, dell’unità nazionale, logica conseguenza fu l’abiura nei confronti di letture storiografiche improntate a un tratto comunque progressivo della storia italiana e la risorgimentistica, dopo l’estate indiana degli anni di guerra, d’improvviso cambiò pelle: essa rimase ancora al centro degli interessi della storiografia uscita dal naufragio bellico (né poteva esser diversamente, atteso che quanti raccolsero il testimone di Clio, anche quando avevano assunto posizioni politiche improntate al dissenso, si erano comunque tutti formati nella precedente stagione culturale), ma divenne l’ambito all’interno del quale andare a cercare le ragioni della crisi anziché del trionfo, i motivi della fragilità in luogo di quelli della vitalità. E fu il tempo – a lungo protrattosi, sino a trascinarsi seppur sotto mutate vesti financo a questi stessi giorni – della serrata critica al processo di formazione dell’unità italiana, immancabilmente ritratto quale un fenomeno minoritario, frutto dell’abile manovra con la quale ristrette clientele, in nome del conservatorismo sociale e del moderatismo politico, avrebbero raccolto i frutti caduti dalla pianta che i democratici avevano a gran fatica scosso.
In questa prospettiva gli anni rivoluzionari assumevano una posizione centrale, perché proprio all’epoca del Direttorio era comparsa una contrapposizione tra la logica conservatrice che animava il governo di Parigi e quanti – i patrioti italiani – avevano invece tutto tentato per rilanciare, sotto il segno della democrazia, al tavolo della nazionalità: in tal modo, la stagione del Triennio conosceva una prima, significativa rivalutazione, perché se nessuno contestava che gli affari italiani fossero rimasti sotto stretta tutela altrui, pure diveniva incontrovertibile come quel frangente costituisse una straordinaria occasione di rinnovamento politico-civile, perché per la prima volta era comparsa sulla scena una classe dirigente nazionale che, pur vinta, aveva posto il problema dell’unità politica della penisola nei termini di un preliminare, clamoroso rivolgimento sociale5.
E tuttavia, non deve passar sotto silenzio come in questa nuova lettura dell’incontro della penisola con la rivoluzione fosse una contraddizione evidente, dettata dalla pretesa di proporre come un elemento dai tratti oggettivamente progressivi un sistema politico, il Direttorio appunto, che la storiografia rivoluzionaria d’Oltralpe aveva invece collocato (e avrebbe a lungo continuato a fare) sotto il registro di un regime autoritario, perché nato da quella costituzione del 1795 che aveva posto fine alla breve stagione della democrazia dell’anno II. E si trattava di una incongruenza di non poco conto, qualora si abbia la cura di ricordare (e sottolineare) come la storiografia dell’Italia repubblicana puntasse da subito tutto sull’accostamento delle proprie direttrici di ricerca all’esempio storiografico di Francia, dove tuttavia, giova ripeterlo, la stagione del Direttorio veniva interpretata come l’irreversibile scivolamento della vicenda rivoluzionaria per la china del bonapartismo. Ecco perché, da questo lato delle Alpi, si tentò di eliminare una tanto stridente contraddizione, proponendo – per la via di uno stretto, seppur implicito, legame tra le origini del Risorgimento e la rivoluzione francese – la somiglianza dei patrioti unitari italiani ai giacobini dell’anno II, dei quali si prese a sottolineare la profonda affinità nei termini dell’adesione all’universo ideologico del robespierrismo. In tal modo, l’incongruenza di cui si è sopra detto, veniva a sciogliersi e consentiva di prospettare, seppure sul versante italiano soltanto, la dimensione rivoluzionaria di una stagione politica che il governo di Parigi avrebbe invece tentato di orientare nella direzione opposta6.
In questo accostamento ad effetto era tuttavia anche altro: separando i patrioti italiani da ogni contatto con le logiche dell’esecutivo d’Oltralpe, sganciandoli da quelli che erano gli indirizzi politici allora prevalenti in Francia ed accostandoli a quel poco che restava dell’opposizione robespierrista al Direttorio, la storiografia italiana poteva anche spiegare perché il giacobinismo italiano fosse sempre stato minoritario ed avesse subìto una cocente sconfitta da quei circoli moderati che, subito al servizio del governo di Parigi, avevano tutto messo in opera perché nella penisola non avesse luogo la rivoluzione sociale dagli altri posta a premessa d’ogni rinnovamento politico7.
Per questa via, sembra però giocoforza concludere come le tradizionali critiche rivolte dalla storiografia nazionalista all’ordine giunto di Francia avessero, anche dopo il 1945, facile gioco a mantenersi nel loro tratto più scopertamente polemico e non incontrassero poi soverchie difficoltà a riproporsi in un contesto interpretativo che si voleva opposto a quello che le aveva invece tenute a battesimo: in altre parole, spostando sul terreno dello slancio rivoluzionario i dissensi tra i patrioti italiani e il Direttorio, ne conseguiva che la loro opposizione all’esecutivo di Parigi poteva ormai esser proposta non più nei semplicistici termini del nascente nazionalismo, quanto in quelli assai più articolati di un radicalismo sociale e politico largamente improntato alla tradizione rivoluzionaria dell’anno II: e tuttavia, pur cambiando profondamente di motivazioni e segno, l’animosità nei confronti del Direttorio restava inalterata.
La sopravvivenza di riserve e pregiudizi sul ruolo della Francia molto doveva, di rimbalzo, anche alla rilettura complessiva della recente storia nazionale che proprio la scoperta del radicalismo dei patrioti finiva per consentire: poiché i giacobini italiani erano l’espressione di una Italia nuova e migliore, non di meno largamente minoritaria, la loro sconfitta avrebbe impedito ogni progresso democratico della penisola, aprendo la via alla nascita di un movimento nazionale destinato, sin dalle sue prime prove, a dar mostra di una dimensione politico-culturale molto arretrata, aggressiva e guerrafondaia, di cui il fascismo avrebbe subito preteso di costituire la traduzione nei termini di una concreta pratica politica8. In questo quadro, non di meno, la denuncia dell’influenza nefasta svolta dal Direttorio consentiva il mantenimento dei tradizionali risentimenti contro la politica francese in Italia. E tuttavia, proprio l’insistita eco di questo pregiudizio sfavorevole, seppur nell’ambito di una scelta interpretativa che si voleva in tutto alternativa a quella nazionalista, fa problema, perché suggerisce come nel corso del Novecento l’interpretazione degli anni francesi abbia conosciuto sì una clamorosa inversione di tendenza, portandosi dall’iniziale denuncia della minorità politica alla dispiaciuta considerazione circa l’occasione rivoluzionaria andata purtroppo perduta, ma non abbia comportato alcuna revisione critica del ruolo svolto in un contesto siffatto dal Direttorio. Il governo di Parigi resta, ancor oggi, nel quadro a suo tempo fissato di un potere occupante e repressore, animato da una politica, per altro autoritaria e corrotta, tutta volta alla guerra di conquista e alle ruberie.
È quanto, giusto a titolo d’esempio, rivela la parabola interpretativa delle opere di Carlo Zaghi, lo storico che più ha approfondito i rapporti tra il Direttorio e le repubbliche sorelle in Italia. Agli inizi, negli anni Trenta, egli affrontò la questione dei rapporti tra la penisola e il Direttorio di Francia in ossequio allo schema nazionalista che gli suggeriva di sottolineare i grandi meriti dei patrioti italiani, tutti battutisi per la libertà e l’indipendenza del loro paese contro la preponderanza francese. All’indomani del crollo del fascismo, Zaghi sarebbe poi passato a far propria la lettura in chiave giacobina del movimento patriottico per concludere le sue ricerche, frutto di decenni interi di studio negli archivi d’Italia e d’Europa, nel 1992, in due voluminosi tomi consacrati ai rapporti tra la Cisalpina e Parigi, dove magnifica l’azione unitaria dei patrioti italiani, tutti collocati nel quadro politico-ideologico dell’anno II, di fronte a un Direttorio che è proposto quale un sistema di potere semplicemente reazionario9.
Nel caso Zaghi possiamo pertanto cogliere un itinerario che riassume in maniera esemplare le molteplici interpretazioni della stagione giacobina in Italia nel corso del secolo XX: ma proprio per questo motivo possiamo sottolineare come, lungo tutto il Novecento, il Direttorio non sia mai stato oggetto di significativa attenzione, perché la sua concreta azione politica è sempre stata piegata alla dimensione di prova provata della profonda ostilità sempre nutrita verso i patrioti italiani. Sotto questo profilo, poco importa, a ben vedere, che Zaghi, negli anni del fascismo, proponga il sistema politico di Francia uscito dalla costituzione dell’anno III come un blocco di potere animato dalla diffidenza verso le aspettative nazionali dei patrioti italiani e che, all’indomani del 1945, allineandosi agli indirizzi della storiografia rivoluzionaria d’Oltralpe, lo abbia classificato, in termini ancor più semplicistici, come un esecutivo puramente antidemocratico: perché al fondo di queste rappresentazioni, dell’una come dell’altra, è una idea del Direttorio che, tutta ancorata a motivazioni intieramente collocate in un contesto politico e culturale dai forti tratti nazionali, fa un grave torto alla complessità dell’azione politica del governo di Parigi e porta a molto svalutare sia il suo contributo alla nascita e agli sviluppi delle pratiche rivoluzionarie nella penisola, sia le ragioni di un diverso atteggiamento che nei suoi confronti tennero i patrioti italiani stessi10. I risultati di questa lettura del Direttorio dai tratti largamente stereotipati hanno pertanto finito per fare da alto ostacolo alla possibilità di misurare il concreto significato dell’invasione francese, portando a molto sottovalutare che l’allargamento del processo rivoluzionario alla penisola e la sua specifica politicizzazione presero comunque forma sul calco della Francia del tempo11.
Appare pertanto opportuno, soprattutto in una stagione dove le storiografie nazionali hanno largamente esaurito il loro pur meritorio tragitto, ritornare sulla stagione rivoluzionaria in Italia per sottolineare quanto avrebbe unito i patrioti italiani alla politica della Francia direttoriale e non – come invece si è sin qui fatto – ciò che li avrebbe puntualmente differenziati. In altri termini, tempo è venuto perché si torni sugli effetti dell’invasione proponendola come una stagione centrale nel processo di democratizzazione della penisola e largamente sminuendo, di conseguenza, il peso delle precedenti esperienze culturali nella formazione rivoluzionaria dei patrioti italiani. Si tratta, in breve, di sottolineare quanto l’irruzione di nuove pratiche politiche dominate dal ricorso al riconosciuto potere dell’opinione pubblica abbia rappresentato un passaggio destinato a molto cancellare le tracce del ruolo precedentemente avuto dalla politica dei Lumi.
Per questo motivo, sembra ancora importante insistere sull’anno 1796 quale discrimine nella vicenda politica dell’Italia moderna, ricomprendendo sotto questa periodizzazione, certamente tranchante, gli effetti concreti dell’invasione della penisola e puntualizzare in quali termini nuove categorie e nuove pratiche politiche venissero dapprima poste a disposizione di quanti nella penisola si dissero favorevoli ai francesi e in quali termini questi ultimi, subito appropriandosene, giungessero anche a farne un utilizzo originale. Si tratta, insomma, di porre in rilievo come l’improvvisa disponibilità di un armamentario rivoluzionario originasse, in primo luogo, dalle pratiche istituzionali delle truppe stesse di Francia e quanto, di conseguenza, l’invasione militare contribuisse in maniera determinante a produrre delle solidarietà da un lato all’altro delle Alpi che possono essere colte, nella loro piena articolazione, solo se vengono posizionate nell’orizzonte concreto delle pratiche politiche definite dal modello costituzionale dell’anno III12. Insomma, non sia inutile sottolineare come una pluralità di prospettive politiche, e soprattutto le loro fortune successive, siano nate dall’incontro – non sempre felice, ma neppure necessariamente conflittuale – tra le necessità degli occupanti e le aspirazioni dei loro alleati in luogo e quanto, di conseguenza, sia opportuno ricordare come solo in un contesto siffatto andrebbe letto l’atteggiamento dei patrioti italiani rispetto al Direttorio.
Il significato dell’occupazione militare è dunque a questo riguardo fondamentale, perché sin dagli inizi furono le truppe francesi, ancor più degli agenti civili presto alle loro calcagna, ad organizzare la vita politica nelle regioni italiane conquistate, di cui fanno prova il rilievo e il significato degli eserciti transalpini nella diffusione di una stampa patriottica, nell’apertura dei circoli costituzionali destinati a formare lo spirito pubblico, nella creazione di un sistema culturale (vedi in modo particolare le tipografie) chiamato a sostenere con la forza delle idee le ragioni del nuovo ordine in Italia13. Inutile aggiungere, perché ben noto, che gli agenti civili avrebbero spesso solo sopportato questo attivismo dei militari, tentando, anche su precise indicazioni che nel frattempo giungevano dal centro, di limitare il loro raggio d’influenza mediante la ricerca di contatti diretti con le prime classi dirigenti locali comparse sulla scena: ma l’antinomia di questi due poteri, che condizionerà tutta la vicenda del Triennio, anziché costituire un elemento destabilizzante dei fragili equilibri rivoluzionari nella penisola, li avrebbe al contrario rilanciati, contribuendo in modo determinante alla creazione di differenti partiti politici in tutte le repubbliche sorelle venutesi a costituire tra il 1797 e il 1799.
La dinamica, in ogni singola realtà statuale della penisola modellata sull’esempio di Francia, appare infatti sempre la stessa: da un lato gli agenti civili del governo centrale nulla risparmiarono per raccogliere le linee politiche delle nuove autorità locali nel quadro tracciato dall’esecutivo di Parigi e dall’altro i generali, spesso (e non a torto) in odor di giacobinismo, nella loro pretesa di aver mano libera sul territorio, nulla lasciarono di intentato per sostenere quanti fossero stati esclusi dal potere locale e nutrissero quindi più d’un risentimento verso gli equilibri datisi dal nuovo ordine14. Da questa conflittualità avrebbe tratto largo vantaggio proprio il processo di politicizzazione della penisola: se è noto come non solo Bonaparte, ma anche tutti gli altri generali che gli succedettero nel comando dell’Armée d’Italie sempre mantenessero un rapporto competitivo con le autorità parigine, mai disdegnando, alla bisogna, di fare leva sugli oppositori del Direttorio, in Francia come in Italia, per arrivare ad imporre all’esecutivo centrale una politica dai tratti vieppiù bellicistici, uguale attenzione dovrebbe essere allora riservata alle conseguenze di queste linee di tensione sulla concreta vicenda politica nei territori occupati15.
È in un quadro siffatto che l’azione dei patrioti italiani, dei moderati come degli estremisti, merita di esser presa in conto e che diviene conseguentemente possibile misurare in termini più precisi le modalità del loro rispettivo confronto con il Direttorio. Tutto questo comporta però la necessità di tenere sempre sotto uno stretto riferimento alle parallele vicende di Francia gli sviluppi della politica rivoluzionaria nell’Italia nel frattempo occupata. A tal riguardo, sia sufficiente ricordare, come quadro introduttivo alle argomentazioni successive, che la democratizzazione della penisola muove i primi passi durante la congiuntura politica che in Francia si snoda dall’arresto di Babeuf (Bonaparte arriva a Milano nello stesso momento in cui a Parigi viene scoperta la cospirazione) sino alla rivoluzione del Fruttidoro anno V (che ebbe luogo giusto qualche settimana dopo l’estensione alla Cisalpina e alla Ligure della carta dell’anno III sotto la forma di costituzioni che di quella sono una semplice traduzione).
La fase dell’invasione militare della penisola, prima che le amministrazioni sotto diretta tutela delle armi francesi cedessero formalmente il passo ad altrettanti governi costituzionali, corrisponde dunque al momento più difficile conosciuto dalla sinistra francese, che non aveva inizialmente voluto riconoscere il sistema politico uscito dalla costituzione dell’anno III e che nel tentativo di guadagnare margini di manovra aveva tentato la via cospirativa e non aveva disdegnato neppure di stringere contatti con taluni settori dell’esercito che reputavano come l’unico bastione in grado di impedire uno scivolamento reazionario nella politica del Direttorio16. In un quadro siffatto, tuttavia, l’Italia, d’improvviso occupata da Bonaparte, sembrava fornire più d’una conferma alle aspettative della sinistra francese, perché l’Armée d’Italie, mediante la spregiudicatezza del proprio comandante, poteva imporre, contro la stessa volontà del governo di Parigi, la centralità della guerra nel quadro di una ripresa rivoluzionaria della politica francese. Originano da qui le molteplici prese di contatto e la nascita di una intesa politica tra i democratici di Francia e i patrioti italiani che la storiografia ha puntualmente posto in rilievo e sono proprio gli sviluppi delle operazioni militari lungo la penisola che avrebbero, di lì a breve, contribuito a prepotentemente saldare quell’asse tra anarchistes italiani e democratici francesi sovente denunciato dagli agenti civili al Direttorio17.
Questo scenario consente di rileggere con maggiore precisione i concreti termini mediante i quali i democratici nella penisola si confrontarono con la congiuntura politica di Francia. Un brillante esempio viene al riguardo offerto dal modo con il quale i patrioti italiani guardarono alla costituzione dell’anno III: gli elementi più radicali mantennero profonde riserve sino al Fruttidoro, per poi mutare di atteggiamento a seguito di quel passaggio, che parve loro un’ulteriore ripresa rivoluzionaria, perché comportò una ricomposizione del Direttorio in termini assai più favorevoli alla sinistra e, seppur di rimbalzo, sancì l’irreversibilità della scelta di Bonaparte di estendere alle repubbliche sorelle della penisola la carta del 179518. La circostanza che i rilievi alla costituzione dell’anno III cedessero presto il passo a considerazioni d’ordine affatto differente, tutte volte a fare della carta solo qualche tempo prima aborrita un sicuro trampolino di lancio per la ripresa della democrazia politica, è stata a lungo sottovalutata dalla storiografia italiana, salvo essere ripresa in tempi più recenti per essere tuttavia incapsulata nel quadro di un opportunismo politico, fatto di prudenza e di accorgimenti, che tutto dovrebbe tenere in equilibrio e nulla invece finisce per spiegare.
A fare problema, tuttavia, è stato per molto tempo un approccio, puntualmente circoscritto alla dimensione italiana soltanto, che ha impedito di verificare come il rapido rovesciamento delle posizioni riguardo alla costituzione dell’anno III fosse parte integrante di un dibattito politico che nasceva in Francia, dove, non a caso, il movimento democratico sopravvissuto al crollo del governo rivoluzionario aveva preso a confrontarsi sul terreno del concreto esercizio della libertà politica con gli avversari e ne aveva tratto, soprattutto sul terreno elettorale, confortanti conferme. Se non si tiene conto di quanto quel nuovo indirizzo politico fosse forte Oltralpe e oltremodo condizionasse la pratica politica delle repubbliche sorelle, diventa difficile spiegare perché, anche nella penisola, all’indomani del Fruttidoro, la costituzione dell’anno III divenisse un punto di riferimento importante per la nascita di gruppi politici radicali, i quali, proprio perché puntavano al rivoluzionamento complessivo della società italiana sull’esempio di Francia, molto facevano perno sull’elogio del suo specifico ordine costituzionale.
Questo spiega perché, già sul finire del 1797, il cambio di prospettiva politica sia largamente compiuto e i patrioti italiani appaiano pienamente inseriti nella strategia politica dei democratici di Francia, i quali tutto puntano sulla sacralità della carta dell’anno III per garantirsi una possibilità di ritorno in forze grazie allo strumento delle ripetute elezioni politiche previste dal dettato costituzionale19. Non è dunque da dimenticare come nei principali centri patriottici della penisola, la sociabilità rivoluzionaria si traduca presto nella creazione di uno spazio politico fondato sull’affermazione di principi democratici che restano tutti nel quadro dell’ordine costituzionale vigente: lungo questa direttrice merita di ricordare la comparsa, alla fine del 1797, delle lezioni di diritto costituzionale di Giuseppe Compagnoni, dove, nelle pagine conclusive, non a caso è un ripetuto elogio della democrazia rappresentativa, reputata la sola in grado di garantire concretamente la difesa delle prerogative inalienabili del popolo sovrano20. Né va dimenticato di sottolineare come l’opera sia dedicata al Direttorio cisalpino, chiamato – secondo le parole stesse di Compagnoni – alla difesa della libertà e alla garanzia dell’ordine costituzionale. Una dedica che la dice lunga sull’atteggiamento presto tenuto dai patrioti italiani nei confronti di un sistema politico del quale avrebbero invece dovuto diffidare e che suggerisce come, tenendosi lontani da ogni approccio d’ordine rigidamente ideologico, non sia proprio possibile sostenere l’esistenza, lungo tutto il Triennio, di un accanito conflitto tra i patrioti italiani e il Direttorio.
Piuttosto, l’attenzione dei patrioti italiani verso la lotta politica che si svolgeva in Francia, il sostegno che sempre ricercarono presso i militari francesi di stanza nella penisola per reclamare la continuazione delle ostilità, la loro stessa collocazione sul versante democratico al fianco dei neo-giacobini d’Oltralpe in ragione del dissenso di questi ultimi verso una politica improntata alla mera guerra di conquista, sono elementi che, dimostrando tutto il rilievo della questione italiana sugli equilibri complessivi parigini, consentono anche di fissare in modo più preciso la dinamica concreta dei rapporti tra i patrioti italiani e il Direttorio.
Al riguardo, sia il caso di sottolineare come proprio la dinamica politica dell’Italia di quegli anni imponga di differenziare il Direttorio stesso, quale sistema politico espressione della costituzione dell’anno III, dai vari Direttori di volta in volta al potere, i quali non solo erano a loro volta espressione di linee di governo sempre differenti e talvolta contrapposte, ma finivano anche, data la loro dimensione plurale, per contenere al loro stesso interno sfumature e sensibilità largamente diverse. Ora, sono le differenti composizioni politiche del Direttorio il soggetto con il quale i patrioti italiani vennero concretamente chiamati a confrontarsi e va da sé che la loro opposizione o il loro allineamento nei confronti del governo di Parigi erano tali sempre e soltanto rispetto a specifiche linee politiche che si facessero volta a volta maggioritarie all’interno di quell’organo collegiale. Questa premessa non mi sembra solo di mero buon senso, perché consente di leggere diversamente le tradizionali differenze che avrebbero attraversato lo schieramento patriottico della penisola, per distinguerlo e ridefinirlo sulla base delle posizioni che i singoli gruppi politici presenti nelle repubbliche sorelle ritennero di assumere nei riguardi di Parigi.
Per questa via, infatti, le differenti famiglie del patriottismo italiano ritrovano una specificità che è spesso andata confusa quando, per misurare il tasso rivoluzionario, si è proceduto col solo metro dell’opposizione (o meno) nei riguardi del Direttorio. Così, d’un lato i moderati sarebbero tali non tanto per la paura di una rivoluzione sociale, quanto perché, più prosaicamente, invero favorevoli a una politica di pace che confermasse il potere acquisito sotto gli auspici delle autorità civili francesi; per questo motivo saranno i più zelanti sostenitori della linea politica contraria alla ripresa delle ostilità sino al 1799 puntualmente maggioritaria nei differenti Direttori; l’interessata lealtà verso il potere centrale, che varrà loro l’accusa di servile subordinazione, sarebbe stata inoltre largamente compensata dai governi parigini, che non certo a caso avrebbero mostrato sempre più insofferenza verso i circoli unitari che denunciavano l’acquiescenza delle repubbliche sorelle verso il potere di Francia.
Sull’altro versante dello schieramento politico, i radicali sarebbero invece tali perché, esclusi dal potere locale, consci che la loro sconfitta fosse opera dei sapienti maneggi del Direttorio, avrebbero presto cercato sostegno presso i militari francesi di stanza nella penisola o presso gli stessi circoli d’opposizione in Francia per contestare la tutela di Parigi sugli equilibri politici italiani. Per questo motivo, non soltanto sarebbero stati i più convinti sostenitori dell’estensione della Cisalpina (o dell’annessione delle altre repubbliche alla stessa), ma avrebbero molto insistito perché il partito della guerra rivoluzionaria prendesse le sue rivincite in Francia. La ripresa delle ostilità avrebbe infatti aperto nuovi scenari politici e assicurato loro la possibilità di un diretto concorso ai nuovi equilibri di governo che il rivoluzionamento della penisola lasciava intendere.
In breve: se il Direttorio non voleva muovere un solo passo per alterare gli equilibri italiani sanciti a Campoformio e soltanto il fatto compiuto, ossia l’intraprendenza dei generali, lo portò dapprima a fondare la Repubblica romana e in seguito a solo subire, obtorto collo, la fondazione di quella napoletana, i suoi alleati nella penisola lo assecondavano con premura pari alla preoccupazione, perché consci che ogni ripresa delle ostilità fosse l’occasione per ridiscutere gli equilibri politici tanto fragilmente stabilizzatisi all’indomani della fortunata impresa di Bonaparte. Specularmene, non vi è dubbio alcuno che la profonda diffidenza del Direttorio verso l’Armée d’Italie, popolata di antichi giacobini e irreversibilmente segnata, anche dopo la partenza per l’Egitto, dalla dimensione patriottica che il giovane generale le aveva impresso, fosse più che fondata: i militari di stanza nella penisola mai rinunciarono a muovere in proprio, acquisendo un ruolo politico che li avrebbe portati a confrontarsi polemicamente con gli agenti civili e a tutto procurare perché la fragile tregua con l’Austria avesse presto termine. Su questo terreno incontravano ed erano sostenuti dagli estremisti italiani, per i quali la guerra sarebbe stato il solvente di una minorità politica che il Direttorio aveva imposto loro.
Se teniamo conto di questa dinamica, le ragioni dei molteplici motivi di tensione fra i patrioti italiani e il Direttorio vanno al di là della questione nazionale per fare centro, in primo luogo, sulla priorità di una pratica politica improntata alla guerra quale unico, ma straordinario, strumento di eversione dell’antico regime. La prova è offerta dalle linee di politica estera cui sempre si informò la Cisalpina: ufficialmente sempre rispettoso delle indicazioni del Direttorio, nei fatti il governo di Milano chiuse spesso entrambi gli occhi nei riguardi dei tentativi insurrezionali animati da taluni patrioti a Genova come nel Ticino, a Lucca come in Piemonte21. Era quanto più si temeva a Parigi, dove il Direttorio, di per sé niente affatto ostile all’ingrandimento della Cisalpina a danno di altri antichi stati italiani, temeva che le ambizioni territoriali di Milano si nutrissero del dissenso politico-militare parallelamente in larga crescita in Francia. In altre parole, era proprio lo spettro di un asse franco-italiano – dominato dai democratici e dai militari, tutti raccolti attorno alla parola d’ordine della guerra rivoluzionaria – a turbare i sonni del governo di Parigi, il quale era ben conscio che il deragliamento degli equilibri a fatica acquisiti avrebbe a lungo impedito la stabilizzazione dell’egemonia di Francia nel vecchio continente22.
Non è pertanto un mero caso che la crisi, violentissima, dei rapporti tra Parigi e Milano si manifesti proprio nella primavera del 1798, quando il Direttorio, appunto per negare le ambizioni territoriali della intraprendente repubblica sorella, si affrettò a creare una Repubblica romana dalla costituzione assai più restrittiva di quella dell’anno III; e non è da passare sotto silenzio come quel passaggio, che portava alla creazione di una repubblica che a differenza della Cisalpina e della Ligure non era più, nemmeno formalmente, sorella, bensì solo subordinata, fosse preliminare ad un giro di vite nei riguardi di Milano. Nella primavera del 1798, nel giro di qualche settimana appena, Parigi arrivò ad imporre alla Cisalpina dapprima un umiliante trattato d’alleanza e quindi, mediante il proprio ambasciatore Trouvé, organizzò un autentico colpo di stato che comportò, non a caso, una revisione della costituzione sullo schema sperimentato nella Romana23.
È proprio a partire da questo momento che una geometria di strette corrispondenze prende a pesare nelle ricostruzioni storiografiche del Triennio, col risultato di presto informare l’intiera vicenda dell’Italia di Bonaparte sotto il segno di un potere autoritario, il Direttorio, i cui interessi sarebbero sempre stati inconciliabili e contrapposti a quelli dei veri patrioti italiani. Questa divergenza spiegherebbe poi perché i patrioti italiani si sarebbero, di conseguenza, risolutamente collocati dalla parte dell’Armée d’Italie, i cui comandanti, avviando da parte loro una clamorosa offensiva contro lo statu quo nella penisola, avrebbero risposto positivamente loro, confermando la dimensione politica della presenza delle armi francesi nella penisola. Nel mese di ottobre 1798, Brune, allora comandante in capo in sostituzione di Bonaparte, segretamente accordatosi con il nuovo ambasciatore di Francia a Milano, quel Fouché che aveva già dato brillanti prove di radicalismo politico nell’anno II, avviò altro colpo di stato ancora, che restituì al governo della repubblica sorella gli uomini che precedentemente Trouvé aveva invece allontanato dal potere; di lì a breve, nel mese di dicembre, Joubert, che nel frattempo era subentrato a Brune nel comando dell’Armée d’Italie, intervenne contro il re sabaudo, costringendolo alla fuga in Sardegna e ponendo le basi per la democratizzazione del Piemonte; Championnet, il secondo di Joubert, avrebbe a sua volta sfidato gli ordini del Direttorio reagendo all’offensiva napoletana di fine anno con una marcia trionfale che lo portò a fondare a Napoli, nel gennaio del 1799, altra repubblica ancora senza il consenso dell’esecutivo di Parigi.
L’ampiezza della manovra politica dei militari francesi in Italia spiega perché il Direttorio, molto temendo che in Italia i suoi avversari politici prendessero una clamorosa rivincita, rispondesse con durezza alla sfida e continuasse il suo brutale commercio della nazione alleata: nel Piemonte, subito osteggiò ogni tentativo unitario a favore della Cisalpina o della Liguria e molto si adoperò perché si giungesse alla creazione di altra, ennesima repubblica ancora; a Milano inviò invece un altro ambasciatore ancora, il presto noto Rivaud, con l’incarico di destituire il governo cisalpino insediato da Fouché e di ricomporlo escludendo quanti fossero stati dapprima vicini a Brune e mostrassero ora attenzione verso Joubert. Gli ordini, d’altronde, erano tassativi: togliere spazio politico a quanti fossero «impatiens de secouer ce qu’ils appellent le joug des français»24 per sostituirli negli incarichi di governo con chi si proponesse di sicuro affidamento per gli indirizzi del governo parigino25.
Proprio le scelte politiche di tardo 1798, che sono la risposta dell’esecutivo di Parigi alla politica del fatto compiuto avviata da Joubert e dal suo secondo Championnet, sono valse al Direttorio l’accusa di avere infine gettato la maschera e nelle ricostruzioni storiografiche ancor oggi più accreditate non v’è dubbio alcuno che i fatti di tardo 1798 segnino un discrimine interpretativo: a far data da quei frangenti appare a tutti evidente quanto il Direttorio volesse farla finita con delle repubbliche sorelle che si reputavano alleate della Francia, mentre invece avrebbero dovuto comprendere di essere solo dei soggetti subordinati26.
E tuttavia, su questa interpretazione classica del ruolo del Direttorio in Italia fanno ricasco in modo evidente gli avvenimenti successivi, ossia le sconfitte militari che nella primavera del 1799 obbligarono i francesi ad abbandonare al loro tristo destino le repubbliche sorelle, la fuga di numerosi patrioti in Francia (dove si accostarono subito all’offensiva dei neo-giacobini contro un Direttorio accusato di esser responsabile del disastro italiano) e il loro conseguente grande entusiasmo quando Bonaparte, appositamente rientrato dall’Egitto, liquidò con la forza della spada un regime che egli stesso accusava di avere perduto tutte le sue più brillanti conquiste27. Insomma, a ben vedere, sono proprio le note polemiche della stagione consolare ad avere definitivamente fissato l’immagine di un Direttorio gravemente responsabile della tragedia italiana e ad avere quindi trasmesso, nella cultura politica nazionale, la vulgata di un sistema politico che aveva fatto, assai prima dello stesso Napoleone, largo commercio della libertà dei popoli in nome di un gretto ed avido egoismo.
Non di meno, mai si dovrebbe scordare che l’infausto esito della campagna militare del 1799 e l’ancor più scialbo destino politico del Direttorio fossero affatto inimmaginabili alcuni mesi prima soltanto, perché agli inizi di quello stesso anno 1799 le cose sembravano caratterizzarsi in modo sostanzialmente opposto. Il fallimento dei colloqui di pace di Rastadt e la ripresa a quel punto obbligata della guerra all’Austria avevano portato a un profondo rovesciamento degli equilibri politici italiani, rilanciando le ragioni del partito della guerra nei confronti di quello che con ogni mezzo tentava di consolidare la pace: al riguardo, la creazione del governo provvisorio a Torino, la nascita della repubblica napoletana, l’occupazione militare della Toscana sono episodi destinati a marcare altrettanti punti di vantaggio per il partito italiano, che si trovava, d’improvviso, arbitro di una situazione politica affatto nuova, nella quale l’ipotesi unitaria avanzava a larghi passi perché l’avvio delle ostilità impediva al Direttorio di mostrarglisi ostile e lo obbligava, anzi, a rispolverare il tema della comune guerra rivoluzionaria quale cemento delle repubbliche sorelle.
La prova di questo improvviso cambiamento di fronte è offerta dagli avvenimenti politici che conosce la Cisalpina proprio all’indomani del colpo di stato di Rivaud, perpetrato, come si ricorderà, nel mese di dicembre del 1798 con il chiaro proposito di riallineare la classe dirigente della giovane repubblica ai desiderata di Parigi. Al riguardo, mai si è avuto cura di sottolineare come a quell’episodio, sempre proposto quale il culmine della politica anti-italiana condotta dalla Francia direttoriale, tenesse presto dietro un’autentica inversione di tendenza della linea di governo di Rivaud, il quale, dopo avere epurato i quadri di governo cisalpini, dovette ritornare su più d’una delle decisioni assunte. La ragione di questo atteggiamento contraddittorio sta nella levata di scudi del partito uscito sulle prime sconfitto, il quale fece appello presso il generale Joubert, che a sua volta prontamente intervenne presso Rivaud perché il nuovo esecutivo non apparisse dominato da una fazione soltanto28.
Il risultato fu la creazione di un Direttorio cisalpino che continuò, nonostante le resistenze di Rivaud stesso, a porre con forza la questione di un allargamento della Repubblica in direzione del Piemonte. Il 17 gennaio 1799, alla vigilia dunque dell’ingresso dei francesi a Napoli, Rivaud, sempre più preoccupato, indirizzava al governo di Parigi una memoria consegnatagli dal nuovo governo cisalpino che reclamava i territori piemontesi a suo tempo sottratti dai Savoia allo stato di Milano. In tal modo, l’esecutivo voluto da Rivaud, quell’ultimo Direttorio che nella storiografia ha sempre avuto il volto della marionetta politica le cui fila Parigi avrebbe abilmente tirato, arrivava ad esercitare, grazie alle operazioni militari che il fallimento dei colloqui di Rastadt lasciava intendere ormai inevitabili ed imminenti, una significativa pressione sul potentissimo alleato. In effetti, in data 18 marzo 1799, una convenzione segreta stipulata tra il governo francese e quello cisalpino, ratificava una prima significativa concessione nei confronti delle richieste di allargamento territoriale avanzate dalla repubblica sorella: l’accordo prevedeva che la Cisalpina si impegnasse a mantenere le truppe francesi impegnate nella guerra d’Italia mediante il versamento di 6 milioni di lire italiane nelle casse dell’Armée d’Italie, ma Parigi si faceva carico di intercedere presso il governo provvisorio piemontese per assicurare a Milano la cessione di una quantità di beni nazionali di equivalente valore tutti situati nei reclamati territori della Lomellina e del Novarese29.
Secondo questo accordo segreto, sarebbe insomma stato il Piemonte – che aveva appena rifiutato, certo su istigazione del Direttorio, la richiesta di una pronta annessione alla Cisalpina – il destinatario del conto al tavolo della guerra rivoluzionaria e non è difficile d’altro canto prevedere che le vittorie militari, date per imminenti, avrebbero molto rafforzato le ambizioni autonomistiche della Cisalpina, perché la futura pace, ovviamente vittoriosa, avrebbe per un verso allontanato l’Austria dalla penisola e per altro assicurato, tramite i conseguenti ingrandimenti territoriali, la nascita di una repubblica italiana su larga parte del Settentrione, che inevitabilmente avrebbe posto sul tappeto la necessità di stabilire su ben altre basi la sua naturale alleanza con la Francia.
Ovviamente, la sconfitta della primavera del 1799, con gli austro-russi pronti a rovesciarsi sul Milanese e il Direttorio cisalpino lesto a seguire in ignominiosa fuga l’ambasciatore Rivaud fino a Chambery, avrebbe tutto annullato. In luogo dei possibili allargamenti territoriali fu invece il tempo delle critiche e dei feroci rimproveri di quanti accusarono il governo di Parigi e i suoi pavidi satelliti milanesi di una dissennata politica: da qui le molteplici agitazioni dei fuorusciti cisalpini a Grenoble, che molto concorsero ad alimentare la polemica della sinistra francese contro il Direttorio. Non certo a caso, dal Pratile anno VII – che portò a un rimpasto del governo d’Oltralpe in senso favorevole ai neo-giacobini (e alla guerra ad oltranza) – sino allo stesso Brumaio di Bonaparte, la questione italiana rimase al centro del dibattito politico di Francia e sarà proprio l’odio nei confronti del Direttorio a svolgere un ruolo determinante nell’entusiasmo subito manifestato dai fuorusciti italiani verso la presa del potere da parte del generale corso.
Per questa via, prendeva insomma forma quell’immagine del Direttorio, le cui conseguenze sul piano storico-politico e storiografico sono state riassunte agli inizi di questo breve intervento. E tuttavia, mi sembra evidente come le considerazioni sin qui addotte suggeriscano di rivedere il rapporto tra il governo di Parigi e i patrioti italiani in termini assai più complessi rispetto a quelli che si limitano a circoscriverlo ad una risoluta contrapposizione. Meglio varrebbe, invece, tener fermo sulle considerazioni che sin dal 1798 il generale Dumouriez – gran specialista di febbri rivoluzionarie, benché passato al campo della controrivoluzione – consegnava alle stampe in terra di Germania. Collocando la polemica di parte cisalpina nei confronti della repubblica madre nei termini di una discorde concordia, egli ricordava che la nuova repubblica
entretient une armée, déjà elle avance une dette de 63 millions, déjà elle montre l’inquiétude des peuples libres, déjà elle a besoin de la guerre pour subsister, déjà elle a besoin de piller et de s’agrandir […] les Français semblent avoir dit aux cisalpins: nous voulons que vous soyez libres, nous vous l’ordonnons, mais nous vous défendons de vous arroger le droit d’incorporation réservé à la république mère. La sévérité de cette loi diminuit beaucoup la reconnaissance des cisalpins, qui s’émanciperont dès qu’ils le pourront, et deviendront un jour les ennemis des fondateurs de leur liberté30.

Sono considerazioni, queste, che confermano, contro la prospettiva di matrice nazionalista sovente ricordata, quanto le tensioni di parte italiana fossero la diretta conseguenza dell’applicazione delle regole del gioco rivoluzionario alla penisola. Per questa traccia, meriterebbe a mio avviso di riprendere in mano il dossier dei rapporti tra Direttorio e repubbliche sorelle nella penisola del Triennio per suggerire quanto le divergenze fossero in primo luogo il prodotto di uno spirito di emulazione e non la semplice conseguenza di un atteggiamento d’opposizione i cui motori verrebbero volta a volta individuati nelle aspirazioni nazionali o nelle pretese di rigenerazione sociale e politica sulla base dell’esempio dell’anno II.
Non di meno, ricordiamolo in sede di conclusione, si tratta di una prospettiva che ha ricevuto, nel corso di questi anni, non pochi rilievi e critiche, perché in controtendenza rispetto ad un quadro storiografico per ampi tratti ancora imperniato sulle interpretazioni tradizionali di cui si è dato sopra conto. Non è certo un caso che a molto differenziare queste note dalle più recenti proposte sia il valore risolutamente tranchant del 1796 nella storia italiana, perché da più parti si continua ad insistere circa l’opportunità di ricercare non tanto nella fortunata discesa di Bonaparte, quanto nella sicura avanzata del moto riformatore dei Lumi una ineliminabile premessa per la successiva scelta rivoluzionaria di molti patrioti italiani. Questa considerazione, che riecheggia, certo involontariamente, l’assunto di tanta storiografia nazionalista, secondo la quale il terreno era già stato dissodato prima che le truppe di Francia procurassero altra semente, ripercorre infatti i più recenti lavori dedicati alla vicenda politico-ideologica del Triennio: sia qui giusto il caso di ricordare d’un lato le prese di posizione di Vincenzo Ferrone, per il quale l’invasione francese avrebbe violentemente interrotto i progressi di una cultura politica, radicale e costituzionale, che i Lumi italiani avevano promosso in piena autonomia31 e dall’altro gli interventi di Luciano Guerci e Vittorio Criscuolo, per i quali la rivoluzione d’Oltralpe dette sì un contributo decisivo alla politicizzazione della penisola, ma solo perché permise ai democratici italiani, che non avevano atteso l’arrivo di Bonaparte per esser tali, di correre subito a raccolta, contro il modello conservatore del Direttorio, sotto le insegne della costituzione montagnarda del 179332.
Son posizioni che sembrano ormai tra sé punto conciliabili: e tuttavia, non è mancato chi abbia tentato di avvicinarle, sottolineando come, in definitiva, un punto d’incontro potrebbe darsi nel riconoscimento che il costituzionalismo italiano di fine Settecento, nell’opera di Filangieri, si rivelasse comunque più creativo del pur importante contributo comunque al riguardo offerto dal successivo Triennio. Ed è un’operazione, quest’ultima, che reclama un non piccolo fondamento nella circostanza che le due letture, solo apparentemente tra sé ormai tanto lontane, troverebbero però il modo di saldarsi proprio nella presa di distanze dalla prospettiva qui indicata, cui si risponde puntigliosamente negando una dimensione pienamente rivoluzionaria agli sviluppi politici seguiti all’invasione della penisola33. Non è un caso, d’altronde, che tutte le voci sin qui ricordate rifiutin il valore fondante del regime direttoriale, diretta espressione della costituzione dell’anno IV, nella formazione della nuova identità politica italiana: per Ferrone l’arrivo di Bonaparte altro non è che un autentico flagello, destinato a elidere una pur possibile via autonoma, tutta italiana, alla democrazia, che grazie alla riflessione di Filangieri e dei suoi discepoli, era invece già largamente tracciata; per Guerci, come per Criscuolo, all’indomani del 1796, la nascita delle repubbliche sorelle sull’esempio della costituzione dell’anno III avrebbe ugualmente molto indebolito le possibilità dei democratici italiani, i quali, proprio per contrastare la deriva moderata che il nuovo ordine sembrò subito assumere, tentarono (seppur fallendo) quel progetto di rigenerazione sociale e politica che molto li distinguerebbe dalla pedissequa riproposizione del modello di Francia.
Così facendo, non di meno, ambedue le interpretazioni sembrano dimenticare che fino all’invasione di Bonaparte l’autonomia di azione politica dei (futuri) patrioti italiani era pressoché nulla, che i molteplici (e tutti abortiti) tentativi insurrezionali degli anni precedenti erano stati portati a conoscenza degli agenti di Parigi e discretamente approvati Oltralpe e che solo i trionfi dell’Armée d’Italie aprirono, per la prima volta, uno spazio politico rivoluzionario nel quale nuove pratiche potessero davvero essere sperimentate34. E d’altronde il 1796 rappresentò tutto questo: la clamorosa irruzione sulla scena pubblica di un movimento politico che era rimasto sì impressionato entusiasticamente dagli avvenimenti di Francia, ma la cui dimensione sino ad allora segreta aveva costantemente posto sotto l’egida dell’esempio d’Oltralpe. Questo spiega perché, sin dall’arrivo dei francesi, per i patrioti italiani la questione del modello politico di Francia non fosse sostanzialmente in discussione. Certo, come Oltralpe, ci si sarebbe divisi tra chi intieramente accettava la costituzione dell’anno III e chi avrebbe voluto in taluni punti correggerla, ma anche in quest’ultimo caso la convergenza dell’estremismo italiano con i repubblicani democratici di Francia era in linea di continuità con gli atteggiamenti precedentemente assunti di fronte ai progressi della rivoluzione. Così, non si dimentichi che i più pronunciati patrioti della penisola erano stati brissotini in occasione della dichiarazione di guerra all’Imperatore, erano rimasti vicini alla Gironda in ragione del suo bellicismo cosmopolita ancora all’indomani della caduta della monarchia per transitare poi sotto le insegne della Montagna quando parve evidente che i robespierristi erano divenuti padroni della situazione rivoluzionaria. Fan testimonianza di quanto ora detto le vicende d’un Giovan Battista Ranza, rifugiato in Francia nel 1793, dove diresse, a Monaco, un giornale in lingua italiana che condivise dapprima le ragioni della Gironda per passare poi a sostenere una politica marattista quando parve chiaro che il testimone rivoluzionario era passato nelle mani della Montagna35. E per continuare su questa linea sia sufficiente spostarsi ad un patriota francese di lingua italiana, quale il nizzardo Vincenzo Gianelli, il quale, ormai nel 1798, ancora rammentando le benemerenze del governo rivoluzionario dell’anno II trovava in pari tempo il modo di enumerare i molti meriti della costituzione dell’anno III e del Direttorio36. E uguale parabola possiamo rintracciare dall’altra parte d’Italia, perché la politicizzazine delle nuove generazioni meridionali sempre si iscrisse nel quadro della piena adesione agli sviluppi rivoluzionari di Francia: Carlo Lauberg era favorevole alla Gironda nel 1792 per passare poi alla Montagna e sostenere poi una politica antiterrorista, quando nel 1794 venne costretto alla fuga37. Pari traiettoria avrebbe conosciuto altro esule in Francia a seguito dello scompaginamento della rete insurrezionale napoletana: Francesco Saverio Salfi a Parigi si accostò a quanto restava della sinistra termidoriana per seguirne le successive vicende di avvicinamento alla costituzione dell’anno III sino ad esprimere, ormai a Milano al seguito delle truppe di Francia, una dura critica circa gli esiti politici della cospirazione di Babeuf38.
Resta allora da chiedersi perché questi esempi non solo mai siano stati valorizzati, ma addirittura impiegati in una chiave di lettura sostanzialmente opposta39 e la risposta, a questo punto, non sembra poi così difficile: quanto fa da ostacolo nel senso qui indicato è il presupposto dell’impossibilità che, in Italia almeno, la stagione del Direttorio abbia potuto costituire una stagione di democrazia. E questo convincimento, che abbiam visto esser di antica data e di significati molteplici, va di pari passo con l’assunto circa la complessiva immaturità politica e sociale dell’Italia moderna, che induce a risalire il gran fiume della storia nazionale per scorgervi sorgenti di acqua cristallina presto inquinata dalla sconfitta del movimento giacobino a fronte dell’aggressiva resistenza del mondo tradizionale. Non sembri tuttavia inutile concludere insistendo circa il grave danno che un presupposto interpretativo siffatto finisce per arrecare ad una lettura più misurata della modernità italiana, il cui Ottocento politico è ridotto al luogo dove un movimento democratico inquinato dallo spiritualismo mazziniano (e dunque distantissimo dal modello di Francia) avrebbe per un verso ceduto il passo ad un finto liberalismo e per altro alimentato le correnti antimoderate destinate a confluire nel gran fiume del fascismo. Anche per questo motivo sembra pertanto opportuno tornare al 1796 in stretta connessione alle parallele vicende del democratismo d’Oltralpe: perché il recupero delle vicende del Triennio senza preoccuparsi di una loro possibile riduzione a ventriloquo del discorso politico di Francia non significa svilire la vicenda nazionale a mero duplicato dell’originalità altrui e suggerisce piuttosto di verificare come, proprio nel modo di interagire con le forze politiche d’Oltralpe, cominciasse contestualmente a prendere forma una autonoma vicenda politica.





NOTE
1 G. Sorge, Interpretazioni italiane della rivoluzione francese nel secolo decimonono, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1973.^
2 Vedi a questo proposito G. Galasso, La Rivoluzione incompresa? Storiografia italiana e rivoluzione francese, in «Prospettive Settanta», 12 (1990), pp. 27-39, che molto ridimensiona la lettura di F. Diaz, L’incomprensione italiana della Rivoluzione francese, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, che sottolinea invece un deficit d’ordine conservatore nella cultura politica dell’Italia risorgimentale.^
3 Si veda, a mero titolo di esempio, A. Franchetti, Storia d’Italia dal 1789 al 1799, Milano, Vallardi, 1878; C. Tivaroni, L’Italia durante il dominio francese, Torino, Roux, 1889; A. Solmi, L’idea dell’unità italiana nell’età napoleonica, Modena, Società tipografica modenese, 1934; E. Rota, Le origini del Risorgimento, Milano, Vallardi, 1938 e R. Soriga, Le società segrete, l’emigrazione politica e i primi moti per l’indipendenza, Modena, Tipografia modenese, 1942.^
4 Rinvio a questo proposito al mio A. De Francesco, Mito e storiografia della Grande Rivoluzione. La rivoluzione francese nella cultura politica italiana del ’900, Napoli, Guida, 2006, pp. 171-286.^
5 Sul punto, si veda la messa a punto circa le tendenze della storiografia italiana tra le due guerre di P. Onnis, Les études italiennes sur l’histoire de la révolution française de 1940 à 1949, in «Annales historiques de la Révolution Française», 22 (1950), pp. 358-61.^
6 Le fortune di questa linea interpretativa possono essere seguite mediante la grande attenzione riservata dagli storici italiani alla figura di Filippo Buonarroti. Si veda al riguardo P. Onnis Rosa, Filippo Buonarroti e altri studi, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1971 (ma taluni articoli ivi raccolti risalgono alla stagione degli anni Trenta); F. Buonarroti, La congiura per l’uguaglianza o di Babeuf, a cura di G. Manacorda, Torino, Einaudi, 1946; A. Saitta, Filippo Buonarroti: contributi alla storia della sua vita e del suo pensiero, Roma, edizioni di storia e letteratura, 1950-51; A. Galante Garrone, Buonarroti e Babeuf, Torino, Da Silva, 1948; Id., Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento, 1828-1837, Torino, Einaudi, 1951.^
7 Sul tema, le ricerche più significative rimangono quelle di G. Vaccarino, I patrioti “anarchistes” e l’idea dell’unità italiana, 1796-1799, Torino, Einaudi, 1955.^
8 Al riguardo il rinvio vada alle note considerazioni di D. Cantimori in Giacobini italiani, Bari, Laterza, 1956, vol. I, pp. 407-16. Circa il percorso storico di queste argomentazioni rinvio poi al mio A. De Francesco, Crises politiques et changements d’opinion dans l’Italie contemporaine: l’exemple de l’historiographie sur le jacobinisme, 1943-1956, in «Politix», 2001, n. 56, pp. 123-33.^
9 Il percorso storiografico di Carlo Zaghi può essere rintracciato mediante la lettura di La rivoluzione francese e l’Italia, Napoli, Cymba, 1966 (dove sono articoli pubblicati sin dal 1934) e attraverso la sua opera complessiva Il Direttorio francese e la Repubblica cisalpina, Roma, Istituto storico per l’età moderna e contemporanea, 1992, 2 voll. Per l’analisi della sua interpretazione del giacobinismo italiano vedi invece A.M. Rao, Il giacobinismo italiano nell’opera di Carlo Zaghi, in «Studi storici», 45 (2004), pp. 47-82.^
10 A questo proposito il rinvio sia a P. Serna, Le Directoire … Un non lieu de mémoire à revisiter, in La Rèpublique directoriale, a cura di P. Bourdin e B. Gainot, Paris, Société d’études robespierristes, 1998, t. I, pp. 37-64. Ma sempre di P. Serna meritano attenta lettura talune pagine di La République des girouettes, Paris, Champ Vallon, 2005, pp. 414-66.^
11 A tal proposito, il rinvio è all’ormai classico F. Venturi, La circolazione delle idee, in Atti del XXIII Congresso di storia del Risorgimento (Firenze, 9-12 settembre 1953), Roma, Vittoriano, 1954, pp. 33-42. Circa il dibattito che seguì alla sua considerazione della non applicabilità della categoria del robespierrismo ai patrioti italiani rinvio al mio A. De Francesco, Aux origines du mouvement démocratique italien: quelques perspectives de recherche d’après l’exemple de la période révolutionnaire, 1796-1801, in «Annales historiques de la Révolution française», 1997, pp. 336-7 nonché a E. Di Rienzo, L’“histoire de si” et l’“histoire des faits”. Quelques perspectives de recherche à propos de l’historiographie italienne sur la période révolutionnaire, 1948-2000, ivi, 2003, pp. 119-38.^
12 Va da sé che questa lettura si differenzia da quella di Anna Maria Rao, che prendendo le mosse dal già citato testo di Venturi, suggerisce di studiare il Triennio non tanto nei termini dell’esportazione rivoluzionaria quanto in quelli della circolazione di uomini e idee. Vedi a tal riguardo A.M. Rao, Les républicains démocrates italiens et le Directoire, in La Rèpublique directoriale cit., t. II, pp. 1057-90.^
13 Due esempi di grande rilievo a tal proposito sono i saggi di E. Di Rienzo, Néo-jacobinisme et question italienne à travers les manuscrits de Marc Antoine Jullien de Paris (1796-1801), in «Annales historiques de la Révolution française», 1998, n. 313, pp. 493-514 e quello di B. Gainot, I rapporti franco-italiani nel 1799: tra confederazione democratica e congiura politico-militare, in «Società e storia», 1997, n. 76, pp. 345-76.^
14 Si veda ancora B. Gainot, I paradossi della democratizzazione delle repubbliche sorelle, in La democrazia alla prova della spada. Esperienza e memoria del 1799 in Europa, a cura di A. De Francesco, Milano, Guerini, 2003, pp. 33-43.^
15 Su tutto questo d’obbligo il rinvio a B. Gainot, 1799, un nouveau jacobinisme?, Paris, CTHS, 2001, pp. 400-48.^
16 A tal proposito, fondamentale il lavoro di P. Serna, Antonelle, aristocrate revolutionnaire, 1747-1817, Paris, Editions du Félin, 1997, pp. 241-388.^
17 Si veda sul punto in questione B. Gainot, Être républicain et démocrate entre Thermidor et Brumaire, in «Annales historiques de la Révolution française», 1997, n. 308, pp. 193-198.^
18 Ho già sviluppato talune considerazioni in tal senso in A. De Francesco, La constitution de l’an III et les républiques jacobines italiennes, in «Mededelingen van het Nederlands Instituut te Rome», 1998, n. 57, pp. 100-4.^
19 Affronta sin dal 1989 questo tema B. Gainot, La notion de démocratie représentative: le legs neo-jacobin de 1799, in L’image de la Révolution française, Congrès mondial du bi-centanaire, Oxford, Pergamon Press, 1989, vol. I, pp. 523-9; ma vedi anche la sua ripresa e conferma in P. Serna, Antonelle cit., pp. 343-85.^
20 Si veda G. Compagnoni, Elementi di diritto costituzionale democratico, ossia principi di giuspubblico universale, Venezia, Curti, 1797, il capitolo 14.^
21 Sull’intraprendenza rivoluzionaria cisalpina nel corso del 1798, rinvio al mio A. De Francesco, Rivoluzione e costituzioni: saggi sul democratismo politico nell’Italia napoleonica, 1796-1821, Napoli, Esi, 1996, pp. 29-50.^
22 A. De Francesco, 1799. Una storia d’Italia, Milano, Guerini, pp. 45-57.^
23 Si veda il classico lavoro di B. Peroni, La Costituzione o la morte! Il colpo di stato dell’ambasciatore Trouvé nella repubblica cisalpina, in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1958, vol. II, pp. 503-16.^
24 Archives Nationales, AF III 71, d. 290, lettera di Rivaud al Direttorio esecutivo del 10 dicembre 1798.^
25 Circa la pretesa, travolgente offensiva del Direttorio nei riguardi della democrazia cisalpina il rinvio sia a Zaghi, Il Direttorio francese cit., vol. II, pp. 473-536.^
26 Sul punto si veda A.M. Rao, Républiques et monarchies à l’époque révolutionnaire: une diplomarie nouvelle?, in «Annales historiques de la Révolution Française», 1994, n. 296, pp. 267-78.^
27 Al riguardo il rinvio d’obbligo è a A.M. Rao, Esuli. L’Emigrazione politica italiana in Francia, 1792-1802, Napoli, Guida, 1992, cui giova aggiungere della stessa per un intervento di dettaglio Les exilés italiens et Brumaire, in «Annales historiques de la Révolution Française», 1999, n. 318, pp. 713-725.28 Archives Nationales, AF III 71, d. 290, lettera di Rivaud al Direttorio esecutivo del 20 dicembre 1798.^
28 Archives Nationales, AF III 71, d. 290, lettera di Rivaud al Direttorio esecutivo del 20 dicembre 1798.^
29 Archivio di stato di Milano, Fondo Testi, b. 308, Convention entre la République française et la République cisalpine (18 mars 1799).^
30 C.-F. Dumouriez, Tableau speculatif de l’Europe, Hambourg, s.n.t., 1798, pp. 72 et 75.^
31 V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari, Laterza, 2003. La prospettiva di Ferrone, che sembra puntualmente recuperare le tesi di F. Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli. L’Europa tra illuminismo e rivoluzione, Bologna, il Mulino, 1986, ha aperto un interessante dibattito di cui son parte le considerazioni di C. Capra, Repubblicanesimo dei moderni e costituzionalismo illuministico: riflessioni sull’uso di nuove categorie storiografiche, in «Società e storia», 2003, nn. 100-101, pp. 355-71, volte a confermare il preteso equilibrio tra Lumi e Rivoluzione («come non è possibile ridurre i Lumi a prologo o annuncio della Rivoluzione, così non è giusto ridurre la Rivoluzione ad appendice o ad antitesi dei Lumi»). Sul punto, oltre alla risposta di Vincenzo Ferrone, Risposta a Carlo Capra, in «Società e storia», 2004, n. 104, pp. 401-7, vedi le note di V. Criscuolo, Albori di democrazia nell’Italia in rivoluzione, 1792-1802, Milano, Angeli, 2006, che recupera intieramente le posizioni dello stesso Capra.^
32 Si veda L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane: la letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione, 1796-1799, Bologna, il Mulino, 1999 et V. Criscuolo, Albori di democrazia cit. I due lavori si collocano in un dibattito che a lungo animò la storiografia italiana (vedi a tal riguardo il lavoro di sintesi in lingua francese di A.M. Rao, Lumières et révolution dans l’historiographie italienne, in «Annales historiques de la révolution française», 2003, n. 334, pp. 83-104) e che ancora intieramente informa il numero speciale dedicato al Triennio comparso ancora nelle «Annales historiques de la Révolution Française», 1998, n. 313: molto importanti a tal riguardo le note della stessa Rao che nelle pagine introduttive (L’expérience révolutionnaire italienne, ivi, pp. 387-407), suggerisce come l’esperienza dei Lumi non fosse cancellata dalla frattura rivoluzionaria, perché all’originalità delle pratiche politiche corrisponderebbe una innegabile continuità culturale. Resta tuttavia da ribadire che se il Triennio fu una stagione rivoluzionaria – e nessuno, escluso forse Ferrone, sembra ancora negarlo – allora la storia delle pratiche dovrebbe costituire un elemento probante di maggior rilievo rispetto alla storia delle idee.^
33 Né va sottovalutato come in questa operazione trovino pure il conforto e l’assenso di quanti, nel Mezzogiorno, miscelando amor di patria (napoletana) e sacralità dell’identità liberale di Vincenzo Cuoco si affrettino a fare del democratismo ancora largamente presente nella stagione napoleonica (in Italia come in Francia come altrove) l’infondato risultato delle pur minuziose ricerche di chi scrive.^
34 Si veda al riguardo P. Villani, Rivoluzione e diplomazia: agenti francesi in Italia (1792-1798), Napoli, Vivarium, 2002, pp. 1-51.^
35 Si veda V. Criscuolo, L’idée de république chez les jacobins italiens, in «Annales Historiques de la Révolution Française», 1994, n. 296, pp. 279-296 poi ripreso in Albori di democrazia cit., pp. 239-41.^
36 «La costituzione chiamata del 1793 contribuì molto a fare quasi levare il popolo in massa, senza la quale sarebbe forse restato spettatore tranquillo alla gran lotta della filosofia e del dispotismo; ma con tale costituzione era impossibile di consolidare la repubblica in Francia, perché non era eseguibile che in una repubblica simile a quelle di Lucca e di San Marino. Qualche grand’uomo propose l’ammirabile costituzione dell’anno terzo, che parmi la più conveniente ai Francesi, ai popoli grandi e colti del mio tempo, che mi sembra il vero termine medio fra l’anarchia e l’aristocrazia, bene immenso che indennizza ampiamente l’umanità dei gran mali, che produsse la giornata del 9 termidoro». E ancora: «La Francia dal giorno 10 agosto 1792 fino al dì 15 brumajo anno quarto repubblicano fu simile a una nave senza timone in mezzo al mare. Come tal nave in balia de’ venti e delle correnti impetuose può sommergersi facilissimamente, così la Francia senza costituzione stabile, col governo rivoluzionario in preda a tutte le fazioni, a tutti li partiti, era esposta a perdersi a ogni istante; ma poiché riuscì ai marinaj di mettere il timone alla nave, il gran perielio svanisce ed il pilota la dirige a suo talento a scherno de’ venti e delle correnti rapidissime. Del pari poiché riuscì agli uomini di mettere in attività la costituzione dell’anno terzo, allora la Francia fu simile alla nave che ha il timone; quelli che siedono al governo, ad onta di tutti li faziosi e di tutte le fazioni dirigeranno lo stato secondo il loro talento repubblicano». V. Gianelli, L’uomo dei sensi. Soliloquj morali, politici e filosofici, Milano, Stamperia italiana e francese, 1798, rispettivamente alle pp. 97 e 99-100. Per una lettura del testo di Granelli quale ardente sostenitore della costituzione del 1793 vedi invece Guerci cit., pp. 203-5.^
37 R. De Lorenzo, Un regno in bilico. Uomini, eventi e luoghi nel Mezzogiorno preunitario, Roma, Carocci, 2001, pp. 17-37 e A. De Francesco, 1799..., cit., pp. 29-31.^
38 «Giornale de’ patrioti d’Italia», n. 18, 28 febbraio 1797, riprodotto in «Giornale de’ patrioti d’Italia», a cura di P. Zanoli, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, 1988, vol. I, p. 227.^
39 Vedi per il caso di Gianelli le considerazioni di Guerci cit., pp. 203-5, mentre per quello di Salfi le obiezioni a quanto qui ricordato di Criscuolo, Albori di democrazia..., cit.^
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