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Dalla «patria» alla «nazione». La costruzione dell’identità regionale nella letteratura storica calabrese del XVI e XVII secolo*
di Francesco Campennì
L’uso dei termini «patria», «provincia», «nazione» rinviano a modalità della scrittura storica e del linguaggio politico comunemente espresse nell’esperienza dell’Umanesimo e del Rinascimento italiano1. Nel Mezzogiorno del tardo Quattrocento, la poesia lirica e la prosa in volgare esprimono in più luoghi un sentimento che si nutre di questi concetti2. Se nel contesto dell’Italia dei molti stati e popoli, ovvero delle plurime “identità” socio-politiche, la patria individua tradizionalmente il senso di appartenenza alla comunità cittadina o alla terra natale, il concetto di nazione si definisce, in ambienti diversi della penisola nel corso del Cinquecento, in riferimento a una dimensione provinciale o regionale, percepita o auspicata sulla base di elementi soprattutto culturali, antropologici e politico-territoriali3. Tra questi, i confini geografici, le economie, i costumi, le caratteristiche della lingua, le comuni memorie municipali delle lotte per la libertà, il modello dell’antica Roma e, in genere, l’individuazione di miti delle origini talvolta derivati dalla lunga persistenza di più larghe entità giurisdizionali cittadine e provinciali, se non proprio statuali4. È questo il caso dell’esperienza intellettuale calabrese che si inaugura a metà del XVI secolo e che, come vedremo, inizia con l’utilizzare il mito dei Bruzi per costruire, per via negativa, una identità regionale da contrapporre agli “illustri” esempi e alle tradizioni civiche e letterarie dell’Italia dei comuni5.
Nel contesto meridionale, di patria cittadina si nutre l’orgoglio intellettuale e cetuale di ogni scrittore che nei secoli moderni pone mano alla descrizione fisica o alla cronaca événementielle del proprio luogo natale6; e di questa storia letteraria, di interesse e di matrice prettamente locale, mi sono negli anni scorsi occupato in riferimento al territorio calabrese7. Il passaggio ulteriore di molte tra le esperienze intellettuali legate alle cittadine e ai paesi del Mezzogiorno moderno, si compie con la contestuale assunzione di una consapevole appartenenza alla «nazione napoletana»8. Su questo terreno si gioca, ad esempio, la gara di valori, coraggio e onore, che piccoli e grandi nobili napoletani (della capitale e delle province) militanti nei tercios degli eserciti di Sua Maestà Cattolica, ingaggiano con gli spagnoli9. Sono numerosi, a tal proposito, gli spunti che si ricaverebbero da un’analisi delle biografie militari (tali appaiono, a volte, richieste di promozione e papeles de servicios)10. Ma se questo è soprattutto l’atteggiamento dei grandi nobili e delle élites che vivono nella capitale, o in contatto con i suoi ambienti e con la vita politica dello Stato napoletano, le realtà provinciali possono elaborare, per mezzo dei loro gruppi dirigenti colti, un sentimento di appartenenza intermedio, che si colloca tra la dimensione statuale e la piccola patria cittadina11. La Calabria è forse tra le prime aree regionali del Mezzogiorno a dar vita a una simile esperienza intellettuale: identità regionale è un concetto che non si usa qui a caso, dal momento che il discorso storico che nasce dalla penna degli eruditi calabresi del Cinquecento non fa tanto (o soltanto) perno sui confini amministrativi delle due province calabre, ma su un’unità umana e geografica del territorio che dal presente – così si vuole – rintraccia le sue origini e legittima i suoi confini identitari nella più remota antichità.


1. La ricostruzione delle vicende degli antichi Bruzi o Brutti, popolazione italica stanziata almeno dal IV secolo a. C. nella terra corrispondente all’odierna Calabria, discende con poche varianti, fino al presente12, dalla lezione di quei classici che li descrissero, con notazioni di costume, riferendone la storia di conquiste e il loro comportamento verso i Romani ai tempi della seconda guerra punica (218-202 a.C.), quando il cartaginese Annibale invase l’Italia. Tra gli altri autori dell’antichità, un passo di Aulo Gellio ebbe particolare fortuna in età umanistica e rappresentò, presso gli scrittori tre-quattrocenteschi che si occuparono dei Bruzi, la maggiore riprova del comportamento infedele e “ribelle” di questi ultimi nei confronti della potenza romana. Nelle Noctes Atticae Gellio spiega l’espressione «Decemviros Bruttiani verberavere», presente in un’orazione di Catone (In Q. Minucium Thermum de falsis pugnis), con questo racconto:
Quum Hannibal Poenus cum exercitu in Italia esset, et aliquot pugnas populus Romanus adversas pugnavisset, primi totius Italiae Bruttii ad Hannibalem desciverunt. Id Romani aegre passi, postquam Hannibal Italia decessit superatique Poeni sunt, Bruttios ignominiae causa non milites scribebant, nec pro sociis habebant, sed magistratibus in provincias euntibus parere et praeministrare, servorum vicem, jusserunt. Itaque hi sequebantur magistratus, tamquam in scenicis fabulis qui dicebantur lorarii; et, quos erant iussi, vinciebant aut verberabant; quod autem ex Bruttiis erant, appellati sunt Bruttiani13.

Nel Quattrocento dunque, sulla scorta degli antichi auctores, l’articolazione di un giudizio stereotipo sul popolo bruzio, attraverso la precisazione di particolari caratteri etno-antropologici, è già definita e operante. Niccolò Perotto e Ambrogio Calepino sono due fra i molti nomi contro cui più tardi si solleveranno gli strali degli scrittori calabresi. Lessicografi, grammatici, traduttori di classici, i loro dizionari della lingua latina (sorta di compendi della scienza universale) rappresentano un documento – oltre che uno strumento – della diffusione del pensiero corrente, della formazione del luogo comune. Dai Dictionum interpretamenta (1502), Calepino diffonde sui Bruzi una vulgata ormai consolidata, arricchita di nuovi particolari nelle successive edizioni del suo dizionario:
Brutii [...] dicti, quasi bruti & obscoeni sint. Fuerunt autem Brutij servi & pastores Lucanorum, qui inde aufugere, & furtim in regione consederunt, ubi Consentia est, quae fuit eorum metropolis [...]. Hi multo post tempore, & ab Annibale et à Romanis propter eorum perfidiam penè deleti fuere, sine dignitate, sine honore, ad servilia opera semper coacti14.

Quanto fosse, in particolare, infamante e degradante il ruolo di carnefici o di boia attribuito ai Bruzi, lo rivela il giudizio comunemente diffuso di questo mestiere, che trovava efficace espressione in un fortunato testo cinquecentesco di Tommaso Garzoni: tal professione – vi si legge – era dagli antichi Romani considerata indegna non pure della cittadinanza, ma dell’abitazione stessa dell’Urbe, nonché «vituperata per tutti i secoli, e di mille vergogne accompagnata»15.
Lo stereotipo sui Bruzi (che per immediata proiezione culturale, tipica della mentalità erudita umanistica, si rovescia sui moderni Calabresi) viaggia dunque per i dizionari, cioè attraverso un genere di letteratura al sommo grado divulgativa ed espressione/ sussidio di una “opinione pubblica” colta. Come osservava Giuseppe Galasso, nella basso-medievale costruzione di una tipologia del napoletano-meridionale, lo stereotipo del calabrese si consolida precocemente e a tinte più forti, assegnando nei secoli moderni alle due province di Calabria una fisionomia socio-culturale meglio definita e individualizzata rispetto alle altre province del Regno16.
Ma non è soltanto attraverso una letteratura enciclopedica, ovvero le «cornucopie» del sapere e della storia universale del Quattro e Cinquecento, che si condensa il mito, complessivamente negativo, del calabrese. Una precisa caratterizzazione di un tipo umano feroce, ardimentoso, indolente e ozioso, astuto e per natura portato al desiderio di novità e dunque alla ribellione, ripropone la consueta immagine della Calabria e dei suoi abitanti anche sul terreno dell’osservazione politica17. Viaggiatori e informatori governativi, nella secolare congiuntura della lotta franco-spagnola per il possesso del Napoletano, registrano sul campo l’esperienza della regione e la strategia migliore per conservarne il controllo. I diari di Marin Sanuto testimoniano le espressioni più usate in riferimento alla Calabria nella corrispondenza di sier Zuan Vitturi, proveditor zeneral della Serenissima al tempo della spedizione di monsignor Lautrec (1528-1529): i Calabresi «hanno fatto tanto per la liga, et certo il forzo di la provintia si subleverà», si confida sul fatto che in ogni momento l’intera regione «si volzeria contra ispani», e ancora: «queste terre hanno gran nome ma sono di poche facende»18. Qualche decennio più tardi, nella sua relazione sul Regno di Napoli indirizzata al viceré marchese di Mondejar (1577-1579), Camillo Porzio fa dei Calabresi il seguente ritratto: «sono acuti d’ingegno e pieni di astuzia, forti e nervosi, atti a patir sete e fame, coraggiosi e destri nel maneggiar le armi, e sarebbono senza dubio i migliori soldati d’Italia, se non fussero instabili e sediziosi»19. E questa fisionomia regionale trasmette inalterati i suoi caratteri ai secoli successivi. In una relazione manoscritta della metà del XVII secolo, redatta probabilmente da un lombardo o un piemontese al servizio della Santa Sede, l’indole dei Calabresi è fotografata da chi sembra aver visto quel paese: gli abitanti sono «di natura feroce, di costumi rozzi, vaghi di novità, precipitosi all’ira, [...] crudeli nelle vendette, artificiosi nelle falsità [...]. Hanno gran genio all’arme, e per la vivacità dell’ingegno sono capaci di ogni buon’arte, se loro vi s’aggiugne coltura o disciplina»; ma a questo fine sarebbe necessaria «o mutazione di cielo, o ammaestramento straniero», dal momento che l’«infelicità del governo sepelisce nell’ozio miserabile della patria più d’uno»20. Serpeggia, dunque, tra le righe un sentimento antispagnolo, che traspare anche da alcune pagine della letteratura storiografica locale, come vedremo. Tuttavia si tratta di una tara ormai connaturata all’indole degli uomini e al loro ambiente di vita, segnato da una carenza di spirito civico e di mode urbane. Un esponente di spicco della cultura illuministica meridionale come Galanti, ancora alla fine del Settecento, riporta nei suoi resoconti di viaggio, in qualità di emissario del governo napoletano, una realtà provinciale immutata nel suo grigiore primitivo: i Calabresi «sono divenuti facinorosi per essere mal governati; il loro carattere generale è quello de’ servi degradati; sono rozzi, queruli, di mala fede, spergiuri, denunzianti, calunniatori; naturalmente sono indocili, ostinati nelle loro idee, rissosi e vendicativi»21.
Inchieste e memoriali rilevano, inoltre, un importante dato strategico connesso alla natura instabile e malfida delle calabre popolazioni: quello, cioè, che porta le valutazioni degli osservatori politici ad ammonire i governanti sull’importanza del controllo della regione. Come al tempo del Lautrec, la Calabria, spesso assieme alla Puglia, viene considerata per tutto il Seicento – secolo di rivolte in Italia – come la «chiave del Regno», e pertanto l’indole del calabrese diventa per chi governa Napoli un problema tattico da non trascurare. Fabio Frezza, scrivendo nel 1623 Intorno ai rimedi d’alcuni mali ai quali soggiace la Città e il Regno di Napoli, indica nel problema degli alloggiamenti militari «la principal causa perché quelli di Calabria sono stati facili a ricevere le vane persuasioni di alcuni pazzi di sollevarsi»22 (il riferimento è alla sventata congiura di Campanella). La valutazione degli intellettuali regnicoli appare confermata se, con un rovesciamento prospettico, confrontiamo la testimonianza resa, in quegli stessi anni, nell’autobiografia di un esponente della nazione dominante, un soldato spagnolo che attraversa con la sua compagnia una Calabria popolata da contadini ostili alla Spagna, i quali non esitano ad attaccare le truppe iberiche: l’episodio narrato è ricondotto esplicitamente nel clima “eccentrico” creato dal moto campanelliano tra i popoli della regione: «era a tiempo que el astrólogo Campanela y su compañero les habían puesto en cabeza que habían de ser conquistados de nuevo rey»23. Qualche decennio più tardi, intorno al 1660, il dottore cosentino Domenico Arena, nella sua Istoria delli disturbi e Revolutioni accaduti nella Città di Cosenza e Provincia nelli anni 1647 e 1648, osserva acutamente come
si ingannino a mio giudizio molto coloro che credono che la briglia di tutto il Regno sia in mano di Napoli.
Poiché gli Normanni s’impegnarono prima a guadagnare la Puglia, e le Calabrie che le altre Provincie per ottenere con più faciltà, come seguì, Napoli e ’l remanente del Regno. Il Gran Capitano con poche forze esterne, e con quelle della Calabria, cacciò dall’intutto gli Franzesi dal Regno. Dal che per questi esempi ed altri (appare) che se in queste revoluzioni avesse girato in questa Provincia un esperto e prode Capitano con due mila soldati di Milizia, si saria in brieve accresciuto tanto, che né il Popolo Napoletano, né il Baronaggio, né gli Regj averiano potuto ostarli [...]24.

Giudizio nel quale si ravvisa, evidentemente, il consueto tratto del calabrese prode in armi unito a una quasi statistica considerazione della Calabria come principale riserva umana del Regno.
Il dato ricorrente registrato da queste fonti, dal XVI al XVIII secolo, è la percezione politica del popolo calabrese come sedizioso, pronto alle mutazioni, potenzialmente ribelle. Se pure, nel Cinque e Seicento, questa condizione viene attribuita, in ambito non spagnolo, alla causa contingente del malgoverno vicereale nel Sud (per tramutarsi più tardi, in epoca di costruzione della leggenda nera sul dominio della Spagna in Italia, in connaturata rusticità, in incolmabile carenza di statualità), all’interno del Regno essa costituisce una preoccupante emergenza. Per il governo centrale le Calabrie rappresentano il più difficile banco di prova dell’azione amministrativa regia nel Mezzogiorno25, e viceversa, per le élites urbane della regione, lo stereotipo del calabrese ribelle rappresenta un grave limite culturale da rimuovere assolutamente. Sul fronte interno, come su quello esterno, lo sguardo alla Calabria rivela dunque, ancora una volta, quella stretta interconnessione tra forme del pensiero politico e del pensiero storico che è stata studiata in relazione ad altri più rilevanti contesti e momenti della formazione dello Stato moderno in Italia26.
Il problema storico, dicevamo, è già formulato negli ambienti dell’umanesimo italiano; ed è pertanto tra i conservatori locali della tradizione umanistica in Calabria che si sviluppa, dalla metà del Cinquecento circa, la scrittura di una storia apologetica regionale. Negli ambienti ecclesiastici dei capitoli cattedrali e degli studia conventuali, come nei patriziati di seggio e nelle accademie dei principali centri della Calabria, emergono figure di cronisti, eruditi cultori della classicità, che rispondono alle accuse esterne con l’intento di rovesciare il modello antropologico negativo e di ribaltare, soprattutto sul piano politico della tradizione municipale, l’immagine dell’anticittadino come espressione dell’ozio e della povertà della patria. A ben vedere, la stessa operazione culturale aveva contraddistinto gli umanisti napoletani, come Tristano Caracciolo e Francesco Elio Marchese, che difendevano la nobiltà partenopea contro i colleghi toscani Poggio Bracciolini, Cristoforo Landino, i quali avevano accusato quei patrizi di essere «oziosi signorotti, sprezzanti ogni pratica di vita civile»27. La classe dirigente e colta della provincia mostra chiaramente di seguire, in questi casi, i modelli culturali della capitale, ma anche di condividere la formazione intellettuale dell’élite napoletana e di replicarne le reazioni sul terreno ideologico e politico.
In Calabria, i luoghi di questa elaborazione storiografica non sono, tuttavia, soltanto quelli cittadini, legati agli apparati istituzionali dei seggi, delle accademie, degli studi generali delle province monastiche; sono anche le piccole e spesso isolate comunità conventuali della regione, dove si scoprono libri e figure di eruditi, eredi di una tradizione antiquaria medievale. Più in generale la carriera ecclesiastica consente, anche a partire da centri minori, periodi di formazione e di lavoro presso le università e le corti di molte città italiane, dove troviamo figure di calabresi pubblici lettori o precettori in case aristocratiche (la biografia di Campanella è fra gli esempi più noti)28. Questa circostanza apre la passione “patriottica” dei calabresi colti al confronto con altre tradizioni erudite, ma accentua al tempo stesso la sua dimensione apologetica e il suo carattere acremente polemico.
Lo scontro “calabrese” è tutto giocato sul terreno della storia antica del Bruzio. Gli eruditi locali si assumono il compito di ritrovare la versione “autentica” delle origini della propria «patria» e «nazione» – secondo i termini da loro stessi usati – nella migliore tradizione del sapere storico-geografico classico (“invenzione dell’antico”, potremmo così definire lo smantellamento di una verità storica, comunque scomoda, che si vuole travisata, la quale pertanto diventa oggetto di una ricomposizione). Due punti di questa operazione vanno evidenziati. 1°) Il suo oggetto, ovvero la percezione storiografica di un’identità territoriale calabrese, culturalmente legittimata, già a metà del XVI secolo, sulla base di una millenaria configurazione amministrativa (l’antica provincia romana del Bruzio, articolata nelle due preesistenti aree etnico-geografiche della Magna Grecia, a sud-est, e delle terre bruzie a nordovest, viene ritrovata nella moderna suddivisione della Calabria in Val di Crati e Terra Giordana e poi in Citeriore e Ulteriore). 2°) Il procedimento seguito, che configura la costruzione di una identità di popolo in negativo, una costruzione, cioè, in risposta e in difesa, dunque, come dicevamo, una apologia. Dalla metà del Cinquecento alla fine del Seicento la costruzione storica di questa identità subregionale si arricchisce di elementi nuovi e diventa matura, aggiungendo alla polemica contro gli scrittori dell’Italia centro-settentrionale del XV e XVI secolo, quella contro gli stessi eruditi napoletani. Tra questi ultimi, più spesso chiamati in causa sono il giureconsulto Alessandro d’Alessandro e il poligrafo Giuseppe Campanile, «accademico Umorista e Ozioso»29.


2. Alla metropoli dei Bruzi, Cosenza, chiamata «patria carissima», è dedicata la più antica delle cronache regionali che ci apprestiamo a esaminare: i Commentaria Brutiorum antiquitatum, composti intorno alla metà del 1500 dal giureconsulto Bernardino Bombini, patrizio cosentino30. L’autore offre la sua opera alla città «sicuti Mater, quae a filio nepotem habet»31, mostrando come già pienamente affermata quell’identificazione ideologica tra classe dirigente nobiliare e istituzioni cittadine che caratterizzerà la retorica patrizia nei due secoli successivi. Divisi in due parti, la prima incentrata sulle «antichità» del popolo bruzio e la seconda sulle «calamità» che ne segnarono la storia, i commentari di Bombini ripercorrono cronologicamente il racconto delle dominazioni che si avvicendarono sulla regione, dall’età preromana all’impero, al regno gotico, alla conquista bizantina, e poi normanna, per arrivare, attraverso le successive dinastie sveva, angioina, aragonese, alla contemporaneità dello scrittore, fedele suddito della casa imperiale d’Austria. Ma l’opera è soprattutto strutturata in modo da tracciare un parallelismo perfetto tra contemporaneità e antichità, disponendo il racconto delle vicende calabresi lungo due tronchi temporali specularmente giustapposti. La storia del Bruzio negli anni che precedono la definitiva conquista romana sembra anticipare, nelle sue movenze, la storia della Calabria del Quattro e Cinquecento, dilaniata da congiure, fazioni e guerre tra angioini e aragonesi, tra francesi e spagnoli, prima del definitivo assoggettamento del Mezzogiorno alla Spagna nel 1504. Le due fasi salienti della cronologia calabra – tra le quali, pure, scorre il racconto, a tratti più veloce, di altri eventi – sono immediatamente accostate attraverso una sovrapposizione didascalica di congiunture e fatti moderni ad avvenimenti e circostanze antiche, che si somigliano tra loro e quasi, ciclicamente, si ripetono.
Dei Bruzi, discendenti dei Lucani e del loro modo spartano di crescere i figli nelle selve, lontano dalle mollezze della vita cittadina (secondo la citazione di Trogo-Giustino)32, Bombini mette in rilievo la natura bellicosa e impavida e il valore delle armi, geneticamente trasmesso al moderno popolo calabrese, di cui egli, in altrettanti medaglioni, elogia i numerosi milites33. Episodi paralleli tra antico e moderno, congiunti dal tratto della calabra indomitas, ricorrono lungo il racconto: da Pandolfo Collenuccio e da altri moderni autori, si ricorda come Salerno fosse stata edificata e fortificata dai Romani «ut contra Lucanorum, et Brutiorum rebellationes persisteret»; così come la moderna città, confiscata al principe Ferrante Sanseverino, di famiglia potente in Calabria, che si era ribellato a Carlo re di Spagna e imperatore dei Romani ed era passato al servizio di Enrico re di Francia per i suoi rancori contro il viceré Pietro de Toledo ispano, veniva nel 1552 posta dallo stesso Carlo a capo della provincia un tempo dei Lucani, ora detta Principato, e munita di forti difese34. Evidente il parallelismo cronologico e il senso politico che ne deriva: tanto Carlo imperatore dei Romani quanto gli antichi Romani avevano fatto di Salerno un argine contro i tentativi di ribellione, che spesso dall’interno favorivano l’avvento di nemici esterni. Allo stesso modo Bombini ricorda Crotone, città greca assediata al tempo della guerra annibalica da Bruzi e Cartaginesi alleati, città che si divide al suo interno per la politica «discordia» tra magnati e plebei e che viene presa infine per la vile alleanza della parte plebea con i Bruzi assedianti, mentre i magnati si trasferiscono a Locri per non mescolare il loro nobile sangue e i loro raffinati costumi a quelli meno gentili del popolo bruzio; la stessa Crotone che adesso – scrive Bombini – Carlo V munisce di possenti opere murarie, seguendo il consiglio del suo ammiraglio Andrea Doria che gliela segnalava come luogo essenziale «pro statu conferendo», perché non cadesse in mano di pirati turcheschi o di chi – come il Sanseverino ed altri baroni pronti a sfruttare l’endemico ribellismo calabrese – esponeva la regione al rischio di empie alleanze35.
La linea di continuità tra la storia degli antichi e dei moderni Bruzi è tracciata sul filo delle calamitates, secondo una visione che Bombini riprende dalle sue principali fonti sulla storia del Regno, Pandolfo Collenuccio e Giovanni Gioviano Pontano36, ma che sembra ancor prima mutuata da Strabone, più volte citato, il quale sottolinea nella sua Geografia le «tante sventure» capitate alla stirpe lucana e bruzia37. Un concetto affermato da Bombini fin dalla dedica dei Commentaria è quello della massima volubilità della fortuna che segna la storia del Bruzio38. Nell’età antica come nella moderna, guerre di fazione, assalti di eserciti stranieri, che usano e dividono le stesse forze calabresi, si abbattono sulla regione. Al tempo dei Romani, le guerre contro Pirro re dell’Epiro e contro Annibale investono delle loro tragiche conseguenze la terra bruzia, le cui comunità sono quasi costrette, pena la distruzione e la morte, all’inesorabile scelta della defezione dall’alleanza romana. La storia si ripete nell’epoca più recente delle guerre interne al regno di Ferrante I d’Aragona, ricostruite soprattutto sulla scorta del De bello neapolitano di Pontano: «grande calamità» toccò ai Bruzi/Calabresi quando in più di 20.000 si radunarono al comando del ribelle Nicola Tosto e attaccarono l’esercito regio comandato da Alfonso d’Avalos, dal quale furono con grave perdita sconfitti tra Mayda e Nicastro e messi in fuga sui monti, nelle selve; o quando, nel gennaio del 1461, Roberto Sanseverino e Roberto Orsino, che tenevano le parti di Ferdinando, assalirono una Cosenza filoangioina, difesa con scarsa esperienza dal patrizio Nicola Carolei, e la presero «cum magno clamore magnoque stridore gentium, quod caelum, et terram de magno mugitu sonabat, virgines stuprando, sacrilegia committendo, totamque urbem spoliando»39. Il racconto di Bombini procede anche per testimonianze dirette, apprese per bocca di più anziani cultori delle patrie memorie, come i nobili cosentini Geronimo de Matera e Antonio de Modio (Mollo), «antiquissimi nostrae civitatis». Fresca è la memoria, presso la nobiltà di Cosenza, della devozione angioina, che piegò alle trame antispagnole la fedeltà di molte comunità e personalità calabresi; e questa animosità politica, non da molti anni sopita, lascia profonda traccia nella scrittura storica di Bombini. Più volte nella regione, seguendo l’altalenante gioco delle lotte fazionali, «multe civitates et terrae [...] ad Angioi devotiones reverse sunt»: così con la venuta in Calabria di Battista Grimaldi, fautore della successione di Giovanni d’Angiò al trono di Napoli, il quale vuole occupare il contado di Cosenza – «cui partim Ferdinandus partim etiam Ioannes favebat» – ma, respinto dalla città in armi, si rifugia nei boschi della Sila con un esercito di rustici e pastori, dove distrugge la nobile cavalleria regia svantaggiata dall’asperità dei luoghi; così ancora il 25 novembre 1503, quando nottetempo Salisse ispano, con truppe aragonesi e banditi bruzi, assale Cosenza scacciandone il filoangioino conte di Mileto di casa Sanseverino, che a sua volta assediava il castello; così, infine, nel 1527, quando Simon Romano, a capo di forze francesi, prende Cosenza a nome del Lautrec, e poi scende nella ulteriore Calabria dove, nei pressi di Montesoro, viene da ultimo rotto dai cinquecento uomini del conte di Borrello e dai quattrocento Bruzi filoaragonesi al comando di Pietro Siscar40.
Dai calabri Commentaria di Bombini emerge dunque, non celato, l’elemento del “ribellismo” come un carattere quasi cronico, che le antichità dei Bruzi restituiscono con ciclica ricorrenza. Nelle calamità che segnano per secoli la storia della Calabria, la fedeltà e la ribellione sono praticate con la stessa tenacia e bellicosità che caratterizza l’elemento etnico al centro del discorso, ma l’ago della bilancia è fatto pendere verso la prima o la seconda delle due opzioni (fedeltà/ribellione) da un destino avverso che caratterizza la nazione calabrese fin dalle sue origini. Questa filosofia della storia, elaborata alla metà del Cinquecento da un aristocratico umanista che vive in un’epoca di transizione e di riassetto del potere statuale in Italia e nel Mezzogiorno, attribuisce il fattore di instabilità intrinseco nella natura e nella storia della regione, alle minacce e ai condizionamenti sempre provenienti dall’esterno. Sullo sfondo campeggia una cronologia parallela, segnata da due potenze imperiali forti, alla cui fedeltà il Bruzio viene ogni volta recuperato non senza il suo tributo di lotta armata e di sangue: Roma e Spagna, fra le quali il potere imperiale trasmigra, giungendo dalla prima alla seconda attraverso una serie di ciclici passaggi41.
Altro elemento cardine nella storia regionale di Bombini è la dimensione urbanocentrica che caratterizza lo sguardo erudito dell’autore, esponente di quella che, a quest’epoca, può considerarsi la più influente élite municipale della Calabria. Bombini enfatizza l’ampiezza del demanio cosentino come un significativo indicatore di “civiltà urbana”: «propter suam maximam civilitatem» la città dei Bruzi domina su «nonaginta oppida»42. Fattori di civiltà sono altresì l’amenità del sito: Cosenza sorge al confluire di due fiumi, Crati e Busento, ed è circondata da sette «priscissimis montibus» (come non ravvisare un parallelo con Roma?) – e la dimensione architettonica della città, con le sue mura, le porte e il castello e «cum egregijs, et quam plurimis palatijs»43. L’elemento della civiltà va unito a quello dell’antichità: un capitolo dell’opera, in particolare, esamina i testi di Strabone, Trogo-Giustino, Solino, Catone, per concludere «rationaliter [...] quod Cosentiae magnopere per longissimum tempus ad Urbem Romanam de antiquitate procedit»44. Alla civiltà della sua patria Bombini fa concorrere, infine, un fattore eminentemente politico, come la «concordia civium». Citando i carmi del patrizio Antonio Telesio («Perpetuoque tuis Mavors sit finibus exul / Seditione relegata, pia, condita, simplex, / Unanimesque meos teneat concordia Cives»)45, l’autore ravvisa l’armonia delle forme istituzionali nell’etimologia del nome di Cosenza, dal “consenso”, appunto, che legherebbe le componenti sociali urbane. È un’immagine utopica, soprattutto se proiettata sul periodo di lotte cetuali che seguirà, qualche anno più tardi, la serrata del 1565. È un “teatro” messo in scena nella rappresentazione ideale della letteratura aristocratica cinquecentesca. Ma esso è un potente strumento simbolico di quella identificazione del ceto nobiliare con le istituzioni municipali che a quest’epoca già circola nel pensiero giuridico e politico delle élites provinciali.
La storia di Bombini descrive tutta la regione, la sua fertilità provvidenziale e l’abbondanza dei suoi prodotti, le sue città, soprattutto quelle demaniali, poste in rilievo per numero di fuochi, per dignità ecclesiastica e temporale, per il loro ruolo strategico di luoghi «artificio et natura munitissimi». Ma l’ampiezza e l’eccezionalità della descrizione vanno appunto nella direzione di mostrare che Cosenza è «metropoli» dell’intera regione, dell’intero circuito territoriale, lambito da due mari, delle due province di Calabria Citeriore e Ulteriore, e non soltanto della sua parte settentrionale.


3. Della descrizione geografica e antiquaria di tutta la Calabria si occupa, circa un trentennio dopo, la più famosa e fortunata opera di Gabriele Barrio, prete originario di Francica, presso Mileto, nella Calabria Ulteriore, studioso per molti anni nella Biblioteca Vaticana a contatto con Guglielmo Sirleto, che dal 1570 ne è il prefetto46. I De antiquitate et situ Calabriae libri quinque, pubblicati a Roma nel 157147, costituiscono una sistematica esposizione delle «laudes» spettanti alla terra dei Bruzi. La motivazione che spinge l’autore, «patria charitate devinctus», e il tema delle «Calabriae laudes, quae itidem ad Italiae gloriam pertinent», sono chiaramente enunciati nel Proemio dell’opera: in maniera più nitida si fa strada l’idea di una patria calabrese, sentimento di appartenenza regionale o sub-regionale come parte, a sua volta, di un contesto culturale e di costume più ampio, dato dall’Italia piuttosto che dal Regno napoletano. Non a caso le lodi alla Calabria sono presentate come parte delle lodi all’Italia (Barrio aveva già composto uno scritto De laudibus Italiae e un altro De aeternitate Urbis). Tra le motivazioni alla carità e all’amor di patria pare emergere, nelle parole di Barrio, il servizio alla comune «repubblica delle lettere», all’Italia unificata dalla lingua latina, lingua del Lazio e dell’Urbe eterna: in definitiva – egli afferma – l’hanno indotto a scrivere «communis omnium studiosorum utilitas & delectatio, non tantum patriae charitas & amor»48. E in questo approccio, un condizionamento decisivo deriva dagli anni di studio alla Vaticana, a fianco di eruditi cardinali (oltre al Sirleto, Iacopo Sadoleto e Giulio Antonio Santoro), tra i codici e l’edizione dei classici che si prepara sotto l’auspicio dei romani pontefici, da Paolo III a Pio V.
Tuttavia, il tratto di «una ϕιλοπατρια molto condannabile» – per usare le più tarde parole di Lorenzo Giustiniani49 – diventa dominante, e il contributo alle lodi italiche si precisa subito nel motivo della «Calabria gloria d’Italia» (per ubertà della terra, varietà dei prodotti, ingegnosità e forza dei suoi abitanti in ogni epoca, la Calabria «nulli Italiae regioni cedit», anzi «omnium Italiae regionum est nobilissima»)50. L’elemento della maggiore antichità prorompe nella esaltazione della «calabra regione» come prima antichissima abitazione degli Ausoni in Europa, abitata dai Greci prima e dopo la rovina di Troia, celebrata da scrittori greci e latini. Questa di Barrio è, nondimeno, una storia apologetica, la più compiuta nel suo genere. L’autore difende la regione natia nel novero delle regioni d’Italia, onde smentire gli errori commessi, nel descriverla, da molti moderni cronisti, come Guido Ravennate, Biondo da Forlì, Raffaele Volterrano, Pandolfo Pisano51. Contro costoro, come contro Boccaccio, Paolo e Aldo Manuzio, Machiavelli, Leandro Alberti, Francesco Maurolico ed altri, la sua censura si colora di «troppo stizza» e di «epiteti insultanti»: questo, appunto, sarà il secondo rilievo mosso al Barrio dai commentatori sette-ottocenteschi52. Barrio accusa tutti di plagiare i testi classici, e mettere così in cattiva luce i Bruzi, o di defraudare la Calabria della paternità di tanti uomini illustri53.
A parte il folto armamentario polemico, i due versanti della ricerca erudita si riconfermano, in quest’opera, la ricostruzione filologica delle fonti classiche, nei luoghi riguardanti il Bruzio, e la moderna corografia della Calabria, immediato specchio del raffronto antiquario («omnes & Latinos & Graecos auctores diurna nocturnaque versavi manu», scrive l’autore; investigando gli antichi nomi dei luoghi e, corrispondentemente, l’attuale stato dell’intera geografia ed economia regionale, «nova veteribus junxi»)54. Come appare evidente, l’importanza del Proemio dell’opera barriana deriva dal sintetizzare attorno a tre nuclei tematici l’idea della Calabria, che d’ora innanzi si afferma, come eredità intangibile, per la storiografia regionale del XVII e XVIII secolo: 1°) la Calabria è parte d’Italia, all’interno delle coordinate del discorso umanistico; 2°) è regione d’Italia, sul versante filologico dello studio della geografia e dell’etnografia del mondo antico; 3°) è gloria d’Italia, nel contesto più ampio della narrazione apologetica.
Il primo libro dell’opera, in particolare, consente una riflessione sui temi della ricerca delle origini e della reinvenzione dell’antico. In 22 capitoli, Barrio ripercorre la protostoria calabra e i caratteri essenziali della storia regionale: dalle prime abitazioni e colonizzazioni e dall’etimologia dei diversi nomi dati alla Calabria (capitoli I-VIII), alle difficili vicende degli “antenati” Bruzi (capitoli IX-XVI), fino alla descrizione del tempo immobile, ovvero di quei fattori storici di lunghissima durata (come la profonda cristianizzazione, le devastazioni piratesche, le “felicità” e le “infelicità” naturali della regione) che consentono di presentare unitariamente la storia calabra dalla tarda antichità alla contemporaneità della scrittura storica. Su alcuni di questi aspetti ci soffermiamo con più attenzione.
Barrio inizia la sua descrizione del sito della Calabria («omnium Italiae regionum vetustissima, a diluvio primum inhabitari coepta») riprendendo dal Genesi, da Giuseppe Flavio e da san Girolamo la genealogia noachica del primogenito Aschenaz figlio di Gomer, figlio di Japhet, figlio di Noè, il quale venne dall’Asia in Italia fissando dimora nel luogo più ameno che gli si presentò al primo sbarco, dove i suoi discendenti Aschenezei fondarono Reggio55. Il racconto della successiva venuta in Calabria del re Enotro e dei suoi Arcadi – che per virtù superano tutti gli altri Greci e che si divisero nelle due stirpi di Ausones e Chones, colonizzatrici rispettivamente del versante tirrenico e di quello ionico della regione – serve a Barrio per attestare (sulla scorta di una faticosa cronologia desunta da Aristotele, Dionigi d’Alicarnasso, Polibio) la presenza pervetusta di istituzioni civili nella regione, molto tempo prima della fondazione delle colonie magnogreche, 567 anni prima della rovina di Troia, 1000 anni prima della fondazione di Roma, 1751 anni prima della nascita di Cristo. Il principale requisito del prestigio regionale, che si conferma quello dell’antichità di leggi e di civiche istituzioni, è accompagnato dal motivo della trasmissione ai moderni calabresi, con il sangue, delle virtù arcadiche (benignità di natura, ospitalità, pietà, religione). Per questa via Barrio smentisce quella che reputa calunnia di moderni plagiari dei testi classici, ovvero l’etimologia del nome bruzio dalla natura «bruta, rustica, bestiale» delle calabre popolazioni56. Una duplice radice etnica sembra delinearsi nel racconto barriano delle originarie abitazioni: una noachica, ausonica e poi brezia; l’altra arcadica, enotria, greca. Il tema dei «due popoli» o delle due anime della calabra nazione, che qui pare accennato, troverà negli anni seguenti, come vedremo, più articolati sviluppi sul terreno della costruzione storiografica dell’appartenenza cittadina, con quella «ricorrente interferenza tra i momenti etnici e quelli sociali del processo di definizione»57 del giudizio socio-antropologico, che caratterizzerà molto più tardi il pensiero di Cuoco.
Ai Bruzi Barrio dedica otto capitoli, preferendo chiamarli Bretti, secondo la greca voce delle monete antiche. Commenta il passo del XXIII libro di Giustino, dove si narrano le prime guerre dei Bruzi contro i progenitori Lucani, da cui in cinquanta si erano separati per fondare una nuova città; e poi contro le colonie magnogreche, contro Dionisio di Siracusa che inviava truppe in soccorso dei soci, contro Alessandro re d’Epiro e infine contro Agatocle, tutti ricacciati dalla regione58. Ma ben più antica di quella voluta da Giustino doveva risultare l’origine di questi antenati, i quali, «fortissimi & opulentissimi», assai prima dell’epoca di Dionisio avevano fondato la loro Repubblica nella parte settentrionale e tirrenica della regione: Barrio sembra volerla riportare a tutti i costi all’interno della progenie noachica. Con Stefano Bizantino ed Eustazio, egli attesta la discendenza dei Bretti dall’eponimo Brento, figlio di Ercole, o da Brettia regina, come legge in Jordanes59. Neppure da credersi, egli scrive, è ciò che vaneggia Giustino, il quale vorrebbe che da una «muliercula» traditrice, chiamata Brettia, che aprì loro le porte di un castello tenuto dai soci di Dionisio, i calabri guerrieri avessero tratto nome e fortuna: ai traditori infatti, conclude, non tocca né fiducia né onore60.
È così introdotto il cruciale tema della fedeltà e della ribellione. A questo proposito netta, subito dopo, è la presa di posizione contro il passo di Gellio, che per di più Barrio ritiene a bella posta corrotto da moderni «perversis» calunniatori dei Calabresi. Il racconto del X libro delle Notti Attiche accusa i Bruzi di essere primi tra i popoli italici a tradire Roma in favore di Annibale, e di scontare successivamente la dura punizione dei Romani con l’esclusione dalla loro società, dalla milizia, e con l’impiego in mansioni servili al seguito dei magistrati nelle province. Ma – denuncia Barrio – Brutiani sta per Bojani, ed infatti furono i Boi, con Insubri e Liguri, tra i popoli transpadani, e i Campani, tra quelli cispadani, ad accogliere per primi Annibale e a rifornirlo di mezzi, a motivo delle loro «antiche ire» contro i Romani. Sulla scorta di Polibio, Plutarco e soprattutto di Livio, Barrio ricostruisce le successive tappe dell’avanzata cartaginese in Italia, sottolineando come l’invasione avvenne dalle Alpi, e dunque i Bruzi non poterono che essere tra gli ultimi ad entrare in contatto col nemico. Livio e Polibio, in particolare, invocati come somme autorità, stavano a dimostrare che, trovandosi Annibale a Piacenza, la flotta cartaginese al comando di Amilcare devastava sui due versanti calabri l’agro locrese e quello vibonese, che dunque non potevano aver lasciato le parti dei Romani, dal momento che venivano assaliti. I Locresi munivano la loro città per resistere all’assalto punico, e lo stesso faceva tra i Bretti Petelia, che cedette per fame dopo undici mesi d’assedio, e Cosenza, caduta dopo fiera difesa, e Crotone e Reggio, assediata da Annone, fino all’ultimo rimasta fedele a Roma. I Bruzi, dunque, conclude Barrio, non tradirono il loro patto di fedeltà, pagando il prezzo della resistenza e dei danni subiti, e quando cedettero al nemico lo fecero perché costretti, disperando del soccorso romano, e comunque tornarono tutti nella fede di Roma prima che Annibale lasciasse l’Italia, alcuni entro un anno dalla defezione, altri poco più tardi, ma tutti quattro anni prima della partenza del duce cartaginese61.
Su altri popoli italici va rovesciata, prosegue Barrio, l’onta della ribellione («voluntariam defectionem, infidelitatem, & perfidiam in Romanos»). Dopo la sconfitta di Canne, tutti i Galli cisalpini, Boi, Picenti, Vestini, Marsi, Peligni, Marrucini, Umbri, Sanniti, Irpini tradirono l’alleanza con Roma e non vi tornarono finché Annibale stette in Italia e, alcuni, neppure molto dopo il suo ritiro dalla penisola. Per molti di essi l’odio contro Roma costituiva una tara secolare: Tarentini, Campani, Apuli, Sanniti, Lucani, Messapi avevano chiamato Pirro contro i Romani. Quanto alle punizioni, furono piuttosto i Boi a pagare per il loro tradimento: i Romani attribuirono loro l’ufficio di littori e di carnefici (Barrio rovescia così l’accusa mossa ai Bruzi/Calabresi sugli antenati dei Bolognesi), ed anzi essi derivano il nome, vergognoso retaggio, dalla boja, la gogna di legno o di ferro che usavano mettere al collo dei carcerati. Mentre i senatori campani, che dopo l’assedio romano di Capua avevano spedito Annibale contro la stessa Roma, furono incatenati al palo e frustati, privati delle terre «ut rebelles & obstinati, atque infidi», privati finanche del nome romano e latino62. Altri passi di Livio e del Bellum civile di Cesare sono poi citati per dimostrare che i Bruzi, al contrario, rimasero nella società di Roma. In proposito Barrio ricorre a quattro principali argomentazioni che riassumono altrettanti codificati giudizi di valore: 1) l’impossibilità dei Romani di privarsi della più potente riserva umana d’Italia – dove ricorre il tema della bellicosità e della naturale attitudine alle armi del popolo calabrese; 2) il maggior numero di colonie dedotte dai Romani in terra bruzia e la fondazione di municipi; 3) un argomento prettamente giuridico: l’adozione da parte di nobili romani e l’accesso di cittadini temsani e thurini alle magistrature dell’Urbe; 4) la costruzione nelle città bruzie di edifici e monumenti sontuosi, come la statua ed ara di Proserpina innalzate a Ipponio con molta spesa63.
Barrio termina il suo discorso sui Bruzi ritornando al tema da cui era partito: il primato della Calabria fra le regioni d’Italia. Ma lo fa, stavolta, inserendo, con un salto cronologico, la figura della regione nel contesto del Regnum Siciliae. Egli improvvisamente ricorda l’avvento, nel 1070, della dominazione normanna in Calabria; e la circostanza che la regione degli avi è subito riconosciuta, per antichità e abbondanza di ogni risorsa, la più «nobile» del nuovo stato monarchico: la prova è individuata nel fatto che fin da allora il primogenito dei re, erede al trono, riceve il titolo di Duca di Calabria. Questo fondamentale requisito della “primogenitura regia” viene ulteriormente antichizzato sulla base di un precedente protostorico: furono i primi abitanti della regione (Barrio lo aveva già ricordato nel sesto capitolo con le parole di Strabone, Dionigi d’Alicarnasso, Tucidide) che, passati dalla Calabria alla Sicilia, diedero a quest’isola il nome, che fu poi di tutto il regno meridionale64. Alla Calabria, in origine chiamata Sicilia, spetta dunque anche la “primogenitura onomastica” del Regno.
Il De antiquitate et situ Calabriae è dedicato al primo signore della regione, Bernardino Sanseverino, quinto principe di Bisignano: così si conviene alla grandezza dell’argomento e, per questa via, Barrio spera di ottenere ai suoi concittadini francicani un aumento di «cittadinanza e immunità». A congiungere questa dedica col famoso capitolo XXII, De Calabriae planctu, è un evidente antispagnolismo, che segna l’opera barriana più di ogni altro testo calabrese del tempo. L’esaltazione degli avi di casa Bisignano, definiti vero modello di principi clementi e magnanimi, nemici della tirannide e coltivatori della giustizia65, non può non suonare come una dissimulata condanna del dominio spagnolo. Ciò soprattutto se si considera che i fratelli Geronimo, secondo principe di Bisignano, e Carlo Sanseverino, conte di Mileto, furono arrestati nel 1487 per il loro coinvolgimento nella congiura antiaragonese, con i figli del primo riparati in Francia e poi reintegrati nei domini paterni nel 1495, alla discesa di Carlo VIII; e se tra questi ultimi si ricorda la sorte toccata al secondogenito Jacopo, prozio del dedicatario, nel 1505 definitivamente privato dal re Cattolico del dominio su Mileto (e su Francica, tra le dipendenze di quel feudo) per la condotta ribelle mantenuta nella guerra franco-spagnola, mentre la sua contea veniva assegnata a un fido ispano, Diego Hurtado de Mendoza, figlio del cardinal Pedro, primate di Spagna66.
Il «pianto della Calabria» (che comunque tiene dietro alle benedizioni e alle lodi per le provvidenziali risorse naturali e umane di cui la regione è ricolma)67 prorompe sul tema caldo del fiscalismo – oltre che sulla costante minaccia degli assalti pirateschi – e sulla piaga di un baronaggio sconsideratamente rafforzato nei suoi poteri e numericamente rinfoltito da un’errata politica di amministrazione del Regno. Barrio vede un Mezzogiorno sottoposto a «barbarica servitute»: senza alcuna necessità di guerra che tocchi il paese – scrive a chiare lettere –, ogni tre lustri si fa il censimento della popolazione, per esigere tributi dai poverissimi, i quali in molti han già reciso le proprie vigne per sottrarsi all’estimo. In aggiunta, la Calabria abbonda di mostruosi «tiranni», i quali esercitano una vile e indegna mercatura, e che con sete inesausta hanno usurpato i diritti delle comunità su selve, campi, pascoli, fiumi, caccia e uccellagione, chiamando i popoli loro soggetti «vassalli», cioè «vessati». Tutto questo – prosegue – non accadeva presso i virtuosi Romani, che, «modestiae causa», chiamavano le popolazioni governate non «subjectos» ma «socios». Qui il consueto richiamo all’epoca d’oro dell’imperio di Roma si carica di un segno opposto, costruisce, cioè, un parallelo chiaroscurale col dominio di Spagna sul Mezzogiorno, e sulla Calabria in particolare, considerata come la terra più colpita dai mali politici del secolo. Quanto al fisco, nella Roma antica un solo denarius «in singula capita» era ogni anno versato all’Impero, e al tempo di Porsenna la plebe indigente, o dotata di scarsi mezzi di fortuna, era esentata dalle tasse. La distanza letteraria marcata tra vecchia e nuova feudalità si misura sull’elogio della clemenza degli antichi casati, come i Sanseverino (continuatori della Romana virtus), contrapposta alla rapace avidità dei più recenti «regoli», rapidamente arricchitisi coi traffici o venuti di fresco nel Regno al servizio della monarchia. Ma l’esame della congiuntura storica del XVI secolo è attento, e Barrio ricorda non a caso le numerose rivolte antifeudali scoppiate nella sua terra d’origine, come in altre province del Regno68. L’altro motivo dell’asfissiante prelievo fiscale, capestro dell’economia regionale e causa di spopolamento, trova presto fortuna nella produzione seicentesca di storie cittadine: un esempio è nella Cronica di Reggio di Marc’Antonio Politi, medico e sindaco nobile di quella città, che pone il fisco viceregnale tra i disastri naturali, come i terremoti, che avevano fatto la rovina della «patria», un tempo fiorente metropoli della Magna Grecia69.
Il problema della valutazione del tratto maggiormente divulgato della “calabresità”, quello cioè del potenziale ribellismo insito nella complessa e confliggente società calabrese, approda con l’analisi di Barrio ad una soluzione bifronte, ovvero perfettamente capovolgibile rispetto alle premesse da cui era partita, ma senza alterare l’assunto di fondo. La vicenda dei Bruzi nella guerra annibalica, ristabilita nella sua verità, ha dimostrato la natura lealista del popolo calabrese. L’elemento ribellistico, laddove emerso, è comunque assimilato e digerito entro una logica artificiosa, di tipo giurisprudenziale: se pur presente nella storia della Calabria, l’infedeltà viene negata in quanto marchio infamante e la sua dinamica diversamente riaffermata come difesa e ristabilimento del «giusto patto». La narrazione barriana di alcuni episodi della guerra annibalica mette in moto questo meccanismo di legittimazione ideologica ricorrendo alle citazioni di Livio, somma autorità storiografica dell’umanesimo cristiano e garanzia di equilibrio politico: i Thurini, federati e soci di Roma, cedettero ad Annibale per ira contro i Romani, che assieme ad alcuni Bretti di bassa condizione e banditi («agrestes & tumultuarios, & exules latrociniis addictos») si davano al saccheggio di templi e città. In altra occasione, la «temerità» del prefetto romano Lucio Pomponio Veientano aveva di fatto rallentato il ritorno di molte città brezie all’alleanza di Roma, dal momento che questi aveva dato battaglia ad Annone con una truppa disordinata, composta in gran parte di tumultuari ed agresti, venendo egli stesso catturato dal nemico70. Il Bruzio – come la Calabria sua discendente diretta – è dunque terra fedele, semmai la responsabilità di circoscritti episodi di ribellione ricade sulla stessa autorità sovrana quando manca al patto di buongoverno dei sudditi, o compie scelte politiche e strategiche contrarie al supremo interesse della «repubblica»71.


4. Per spiegare il coinvolgimento di alcuni Bruzi nella «fazione» cartaginese – circostanza che gli autori classici attestavano con tutta evidenza – le argomentazioni della storiografia apologetica si spostano con decisione sul campo della classificazione e della lotta sociale. Che l’infedeltà fosse con più frequenza praticata, tra i Bruzi, dalle masse rurali del contado cosentino, provenienti «a pastoribus coetu»72, è una visione già affermata nel racconto di Bombini delle guerre tra angioini e aragonesi. Sertorio Quattromani accentua questa prospettiva nella sua Istoria della Città di Cosenza, composta tra il 1571 e il 1588 e rimasta manoscritta73. Patrizio e accademico cosentino, autore di traduzioni e commenti dei classici, studioso di Petrarca, poeta e storiografo, Quattromani trascorre a Roma gli anni tra il 1560 e il 1569, a studiare nella Vaticana, e in seguito si trasferisce a Napoli, coltivando un’estesa rete di rapporti epistolari e di amicizia (tra gli altri, con Annibal Caro, Torquato Tasso, Torquato Bembo, Paolo Manuzio, Fulvio Orsini, oltre ai numerosi accademici di ogni centro della Calabria). La sua polemica difesa della patria Cosenza e dei Bruzi, di cui la città è dichiarata Metropoli, dovette circolare per gli ambienti colti napoletani, sebbene l’autore non riuscisse a dare l’opera alle stampe74.
La defezione bruzia, spiegata da Quattromani, utilizza la categoria sociologica della contrapposizione tra città e campagna e, all’interno del mondo urbano, tra ceto nobiliare e masse plebee: «dice Livio, che una infermità grande avea assalito, ed infetto tutte le città dell’Italia, che la plebbe era partita, e discordante da i nobili, e che il senato favoreggiava à Romani, e la plebe si accostava à Cartagginesi. [Cita Livio, XXIV, 2, 8-11]. Io sono di parere, che quei Brutij, che seguivano le parti di Annibale fussero plebe, e gente minuta, ed huomini di malo affare, e scherani, e banditi, e che la nobiltà, e le Città, e la parte maggiore, e migliore fusse tutta in servigio de’ Romani». In questa logica la parte plebea, discordante dal senato degli ottimati, alimenta il fuoriuscitismo: quei Bruzi che assalirono Petelia assieme ai Cartaginesi, attesta ancora Livio, erano «banditi dalle loro città, i quali procacciavano di entrare nelle loro case con l’aiuto di Annibale»75, e allo stesso modo quelli che insieme ai Punici presero Crotone «erano della feccia del Popolo, e scherani, ed huomini di malo affare, [...] perché la nobiltà, e gli huomini onorati teneano le parti de’ Romani»76. Infine, ancora «della fazione plebea» erano quei Bruzi che passarono con Annibale in Africa, ma – come testifica Livio – furono pur sempre «tratti per forza»77. La frattura (affidata a una definizione medica del corpo sociale e del dissenso politico come sua patologia) è tutta tra la civiltà urbana, garante della salus publica e della fedeltà a un ordinato «imperio», e il mondo rurale ancora barbaro, luogo contagioso di “rovesciamento” sociale, dove la «fazione» popolare esiliata somma le sue forze alle pulsioni della massa contadina. Sul fronte interno, le parole così animate di Quattromani rivelano una lettura dell’antico modulata sulla contingenza presente degli equilibri politici locali. Le dinamiche cetuali per la spartizione del potere urbano e i meccanismi di inclusione/esclusione dalle strutture rappresentative municipali (che vanno irrigidendosi, com’è noto, negli ultimi decenni del XVI secolo), spingono all’affermazione di una teoria politica di parte aristocratica, suffragata dall’autorità dell’esempio antico, che trova eco nella successiva produzione cronachistica locale, ad esempio a Crotone78. Nei tempi moderni l’assedio di Cosenza, ribellatasi a re Ferrante, conferma una conflittualità storica che è nella natura delle cose: il patrizio di casa Carolei, di parte angioina, si fa «capo di fazione», ma questi rappresenta per Quattromani un esempio eccentrico: «costui non potendo incitare la nobiltà di Cosenza a prender l’armi contra il suo Re, mosse in ciò i popoli, e la gente minuta», cioè – si potrebbe aggiungere – quella parte della società urbana naturalmente predisposta alla sedizione79.
L’etimologia è terreno privilegiato della guerra erudita, e su questo campo occorre difendere i Bruzi dall’accusa infamante di ribellione. Servendosi di questo strumento, Quattromani opera una prima selezione tra autori classici più e meno autorevoli, procedendo successivamente a una critica della tradizione filologica medievale e moderna. Tra i classici, Strabone (VI, 4) indicava l’etimologia del nome dei Bretti nella parola lucana significante «ribelli», e accreditava così il racconto della ribellione dei figli di questo popolo dall’originaria condizione di pastori cui erano costretti dai propri padri e della conseguente loro fuga «in campagna a procacciarsi nove abitazioni»80; e poi ancora sosteneva che i Romani avessero escluso dal servizio militare Picentini, Lucani e Bruzi per aver fatto causa comune con Annibale, e di impiegarli nelle basse mansioni di corrieri e cavallari (V, 13). Ma Strabone non conosce bene i fatti dei Bruzi: egli è greco e perciò «assai malamente informato delle cose d’Italia, e degli andamenti de’ Romani, e dice cosa, che è contra tutte le istorie», e soprattutto «avea molto odio in tutte quelle nazioni, che aveano distrutte le città Greche»81.
Come Strabone, anche Giustino e Diodoro Siculo, pur essendo «valenti homini», cadono nello stesso errore: il problema di Quattromani (e già di Barrio) è un’origine troppo recente dei Bruzi attestata da questi autori (l’epoca di Dionisio di Siracusa, o dei consoli M. Popilio Lenate e Gn. Manlio Capitolino) e l’errata etimologia dalla «gran moltitudine di gente rubella» uscita dalla Basilicata, e venuta a fondare Cosenza dal «consenso» con la nazione indigena guidata da una «donzella» di nome Bruzia. Il nome, e con esso la repubblica bruzia, deve essere al contrario più antico di «molte centinaia d’anni»: lo attestano, scrive Quattromani, alcuni «antichissimi» comici, anteriori ad Aristofane, Alessi di Turio (che scrive una commedia intitolata Brettia) e Antioco, scrittore citato da Dionigi d’Alicarnasso. In particolare Quattromani affida la sua rettifica dei classici malcerti ad altri due scrittori antichi e a tre moderni: con le stesse fonti di Barrio, Stefano Bizantino ed Eustazio sopra Dionisio Afro (il Periegète), e, sul fronte moderno, con un «Tedesco di molta autorità» (autore di un trattato delle Città illustri d’Europa), con Tideo Acciarini e Andrea Alciato, egli riafferma decisamente l’etimologia erculea da Bretto, figlio d’Ercole e della ninfa Baletia. Da qui la giusta versione dei fatti: Brettia, in origine, la città fondata in tempi immemorabili da una stirpe greca, dove solo più tardi concorsero i cinquecento nobilissimi giovani Lucani che, col consenso degli antichi abitatori, si unirono a ingrandire la città, così ribattezzata Cosenza, dal nome della sua regina andata in sposa al duce lucano Erennio Puluillo, ovvero dal consensus fra le due nazioni82. Quattromani non manca a questo punto di sottolineare come la storia delle origini di Cosenza, «metropoli» dei Bruzi, rientri in un modello genealogico consolidato nell’archeologia delle città: il concorso di nuovi abitatori è causa dell’accrescimento e della rifondazione etnico-politica, nonché della mutazione di nome, come si può agevolmente leggere nella storia di Roma, che accolse gli Albani, o di Bologna, di Napoli, di Costantinopoli83. Inoltre, il concorso di pastori e di gente rustica, di cui le fonti citate parlano, non rappresenta una nota di disonore; al contrario, Quattromani vi legittima l’ordine gerarchico della Cosenza contemporanea (in epoca di accesa contestazione dei capitoli del 1565, cui il concittadino Agostino Caputo dedica in questi anni un trattato), notando come ad ogni comunità servano le classi lavoratrici e come questa struttura sociale, lungi dal rappresentare un arbitrio, trovi piena giustificazione legale perché risalente ai tempi della fondazione84.
Tanto la contrapposizione politica che la classificazione cetuale, quindi, trovano la loro ragion d’essere nel passato arcaico della storia urbana, che assegna un fondamento di necessaria immutabilità alla struttura comunitaria del presente. Come sottolineava Jean-Pierre Labatut nel descrivere la visione del passato delle società aristocratiche europee, anche in questo caso ci troviamo di fronte alla rappresentazione di una comunità di uomini che «non hanno una sola storia, ma due», e dove «la nobiltà discende dagli elementi migliori dell’umanità, mentre i non nobili vengono fatti discendere dagli elementi peggiori»85. (È altrettanto evidente, d’altronde, ma pur sempre utile ricordare, che se duplice è la visione storico-genealogica di questa società, la scrittura della storia costituisce ancora una funzione “singola”, ovvero appannaggio soltanto dell’élite).
Quattromani conferma il tutto con quella che chiama la «testimonianza viva» dei reperti archeologici: monete, iscrizioni, monumenti, probabilmente collezionati e sicuramente registrati e studiati dal momento del loro rinvenimento. Delle «medaglie antiche» – scrive – «se ne trovano i sacchi pieni per ogni contrada» ed esse provano più di ogni altra testimonianza l’etimologia erculea delle fonti letterarie: i Bruzi, infatti, non avrebbero impresso su tutte le loro monete le parole twn brettiwn, se il proprio nome fosse derivato dal lucano «rubelli» (argomentazione che dimostra, ancora una volta, come sia inconcepibile non rifiutare una qualifica così infamante); inoltre queste monete rappresentano il fondatore eponimo, Brettio, figlio di Ercole, e sul rovescio la folgore, insegna di Giove, padre di Ercole86. Di «brettiam arcem» parla poi un’iscrizione su un «sasso antico», scavato nelle fondamenta della chiesa di Santa Croce delle Donne Cappuccine in Cosenza, e per «inavertenza» risotterrato87. La conclusione della ricerca antiquaria sembra inappellabile: il sangue di valorosi guerrieri, per linea paterna, e l’origine divina e greca, per linea materna, sono i principali titoli nobilitanti ascritti alla nazione bruzia, e non a caso la sua discendenza ne perpetuerà i caratteri. Tra i cosentini illustri, cui Quattromani dedica le pagine finali della sua Istoria, l’eccellenza è ribadita nei due campi delle «armi» e delle «lettere» (categoria comprendente poesia e diritto). L’associazione del riscontro erudito sui reperti con lo studio filologico della letteratura greca e latina, rappresenta un elemento innovatore e ricorrente, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, nella tradizione della ricerca antiquaria in Calabria88.
Il problema della tradizione dei classici occupa un posto centrale nella storia di Quattromani89. Lo studio dei codici consultati nella «libraria Vaticana» e nelle biblioteche napoletane90 fornisce all’accademico cosentino l’occasione per introdurre una querelle tra antichi e moderni, che costituisce un altro topos di questa storiografia apologetica. Eccone un esempio. Una tradizione risalente ad Ennio, e riferita dall’erudito latino Pompeo Festo91, autore di un compendio di Verrio Flacco, definisce i Bruzi bilingues. Ma il senso di quella espressione – che cioè i Bruzi parlavano e l’osco e il greco – era stato «guasto» da successivi epitomatori medievali e moderni, per la loro «vaghezza di dir male», e tradotto in un vizio di mente: nella convinzione, cioè, che gli antichi considerassero i Bruzi mentitori, ovvero «fallaci» e «traditori»92. Il longobardo Paolo Diacono, che al servizio di Carlo Magno abbreviò e compendiò testi antichi, è descritto da Quattromani come barbaro corruttore di classici: in particolare, facendo l’epitome di Verrio-Festo, «ne trasse tutto l’oro, e tutte le gemme, e v’introdusse non vo’ dir piombo, e rame, ma arena, e fango, e direi cosa peggiore se io non fussi rattenuto da qualche modestia»93. Altro grande accusato è Niccolò Perotto, professore nello Studio di Bologna e autore dei Cornucopiae seu Latinae Linguae commentarii94, per controbattere al quale Quattromani rovescia sui Boi, antenati diretti dei moderni Bolognesi, l’accusa di Gellio ai Bruzi – dallo stesso Perotto aggravata95 – di essere stati i primi a passare con Annibale. Sull’opera di Perotto, in quanto maggior corruttore di Festo rispetto al Diacono, Quattromani ricorre alle critiche di «valenti huomini» del suo tempo, come Girolamo Colonna, Giusto Lipsio, Giuseppe Scaligero, Mario Gilprando, cui aggiunge la propria esperienza di filologo: Fulvio Orsini – racconta – «mi ha mostrato un Festo scritto a penna, che fu trascritto prima che vi mettesse mano il Perotto, e che fu tratto da quello istesso, che fu compilato dal Diacono, ed in questo non vi è pur una sola parola di quelle tante, che vi si dicono in biasmo de’ Brutij, e perciò abbiamo a credere, che siano tutte farina del Perotto»96.
Dunque l’antico rappresenta l’autorità, e il moderno, che spesso non è all’altezza del suo modello, è tanto più autorevole e nobile quanto più segue fedelmente e indaga con scrupolo gli autori antichi. Neppure la lettura di Livio, che si riconferma la più alta autorità della storiografia classica, è esente dalle passioni mistificatrici dei moderni: «Se costoro leggessero con diligenza quel che dice dicciò Livio, tutto quello biasimo, che danno a i Brutij, il rivolgerebbono in lode, o in scusa loro»97. E quanto al castigo che i Romani avrebbero inflitto ai Bruzi per il voluto tradimento, «se pur si dice da alcuni moderni, non abbiamo a prestar lor fede, perché sparlano senza autorità, e contradicono al vero, ed a quello, che ci hanno lasciato scritto gli antichi»98.
L’Istoria di Quattromani è insieme un’apologia dei Bruzi e della loro metropoli, Cosenza. Alla patria cittadina e all’intera sua regione (considerata fino all’estremità meridionale, con Reggio) l’autore rivendica uno specifico codice di «honori et dignità», che sono oggetto di una serrata trattazione nel terzo capitolo. I principali titoli di cui è fregiata Cosenza sono: 1) L’origine e le insegne erculee. 2) L’estensione del dominio, da Scalea a Locri, di una città che è Capo di più repubbliche bruzie. 3) Il valore bruzio, esaltato nel racconto dell’uccisione di Alessandro il Molosso, re d’Epiro, e contrapposto alla fiacchezza degli «effeminati Asiatici», contro cui ebbe più tardi a combattere, riportandone ciononostante maggior fama, il nipote Alessandro Magno (su questo argomento le autorità sono Livio e Petrarca, nella Vita di Alessandro Magno). 4) Cosenza e la Calabria primo fronte nella lotta all’espansione turchesca, come nel medioevo lo erano state contro l’avanzata saracena: Quattromani cita in proposito «una cronica antica scritta a penna, e che fu portata dalla lingua Provenzale nella Toscana, e che si conserva in Cosenza in poter di Quattromani», dove si narrava del soccorso divino dispensato alla metropoli dei Bruzi nell’anno 900, quando un fulmine aveva stroncato alla porta di San Pancrazio il re dei Saraceni Habraam, venuto dall’Africa ad assediarla, e dal quale «si temea la roina dell’Italia tutta, anzi della Cristianità tutta»99. 5) La primogenitura onomastica del «Paese de’ Brutij», il primo che diede «il nome di Italia a tutta Italia» (e su questo tema sono invocati Antioco di Siracusa, Strabone, la Politica di Aristotele). 6) Cosenza «capo di un Regno»: così al tempo della guerra tra il Re Cattolico e Ludovico di Francia, quando la città è sede del viceré ed è capitale della parte spagnola del Regno (secondo il racconto di Pietro Gravina), come al tempo della repubblica romana, quando Consentia è retta da un console (si cita Livio). Una testimonianza a riguardo è scoperta da Quattromani a Roma, in casa del cardinal della Valle: «una statua, la quale fu inalzata da Cosentini a Giulio Agrio gentile huomo Romano, per essere stata governata rettamente, e con cortesia, su la quale vi fu intagliata questa iscrizione: Iulio Agrio Nobilissimus Ordo Cosentinus. Non metto tutta la iscrizione, perché il sasso è rotto, e vi mancano molte lettere [...]. Restaci, che è dato un titolo grande al Regimento di Cosenza». 7) Il primato nella fede: «I Bruzij furono i primi fra tutti gl’Italiani a ricevere la dottrina di Cristo, perché S. Paolo capitò a Reggio, e predicovvi, e battezzovvi di molta gente», e perché «l’Arcivescovo di Cosenza è antichissimo» e a questa dignità furono sempre eletti «personaggi grandi, [...] e signori di Famiglia reale»100.


5. Sul finire del secolo è Tommaso Campanella a riepilogare, in una sua vibrante pagina, i principali temi dell’apologia calabra cinquecentesca. Rivisitati dal filosofo stilese, all’età di 20 anni, quegli argomenti riacquistano vigore entro una rappresentazione al positivo: la difesa della natura dei Calabresi, cioè, si tramuta in un attacco alla mediocrità dei denigratori; e le caratteristiche ataviche attribuite da questi ultimi agli abitanti della regione, soprattutto ferocia e malafede, sono rivendicate come virtù positive e rivolte in supreme qualità del corpo e della mente: «vigoria» e «sottigliezza d’ingegno». Lo scritto in questione è la prefazione alla Philosophia sensibus demonstrata101, opera composta tra il gennaio e l’agosto del 1589 per controbattere la precedente dissertazione di un detrattore di Bernardino Telesio, il giurista napoletano Giacomo Antonio Marta, strenuo difensore dell’aristotelismo scolastico102, il quale si era riferito a Telesio chiamandolo sprezzantemente «un tale Bruzio». L’elogio che Campanella fa della sua regione ripercorre molti dei luoghi di Barrio e Quattromani. Eccone un passaggio:
Poiché dunque questo saccente chiama con disprezzo Telesio ora Bruzio ed ora Calabrese, sappia che la Calabria è la migliore e la più antica di quasi tutte le regioni. Questa regione incominciò ad essere abitata dopo il diluvio per la fertilità del suolo da Aschenaz, nipote di Noè, nei pressi di Reggio. Fu chiamata Ausonia per essere fertile di ogni bene, come ora è detta Calabria, il cui nome significa quasi «regione abbondante»; fu detta anche Enotria, Morgezia, Sicilia, Magna Grecia, per distinguerla dall’altra Grecia, la quale veniva superata da essa in tutte le cose. E fu detta anche Italia, da cui ora è derivato il nome a tutta l’Italia, che è una parte dell’Europa. [...] Presso i Calabresi vigoreggiano anche tutte le discipline e l’intera scienza umana, e quella che ora s’insegna nelle scuole trae origine dalla Calabria. Platone infatti ed il suo discepolo Aristotele furono allievi di Calabresi [...]. E Pitagora, che con unanime consenso Cicerone chiama principe dei filosofi nel libro «De Senectute», fu calabrese; da lui derivarono tutte le discipline e le sette dei filosofi [...]. Tralascio di ricordare gli innumerevoli filosofi calabresi e gli inventori di arte. Queste cose infatti io le ho dette, affinché questo saputello e gli altri cani latranti sappiano che i nostri antenati non furono bruti, come lo è lui stesso [...]; ed il nome Calabrese per la sottigliezza dell’ingegno non deve essere infesto e molesto agli altri; e dato che i nostri uomini eccellono per vigoria e sottigliezza di ingegno, essi sono infesti agli altri come gli animali più generosi ai peggiori. Sarebbe meglio perciò che costoro venerassero la verità e coloro che la natura ha creato superiori a loro.

Una superiorità di natura, nella forza e nel pensiero, dunque. E il dovere morale di adoperarla per diradare le tenebre dell’illogico, nel campo scientifico, e dell’ingiusto, nel politico. Questo l’alto destino che, nonostante le storiche avversità, il ciclo naturale del mondo avrebbe assegnato alla Calabria103. Si è voluto riportare questo brano, anche a costo di ripetere concetti già argomentati dai precedenti scrittori, per far vedere quanto un personaggio eccentrico e un teorico del rinnovamento gnoseologico come Campanella sia in realtà partecipe di una forma mentis “regionale” – cui appartengono le categorie dell’attaccamento filiale e del dovere verso la terra d’origine – condivisa dall’intera classe colta calabrese; e soprattutto per mostrare come ciò accada anche al prezzo di far proprio, acriticamente e in toto, l’armamentario erudito dell’apologia storica tradizionale.
Al tempo stesso, però, vibra in questa pagina l’istanza di rinnovamento del pensiero campanelliano (nel caso particolare l’abbattimento del vecchio edificio dell’aristotelismo) che sembra qui molto contare, tra gli stilemi della rappresentazione dialettica cui si affida, sul motivo delle fresche e naturali qualità originarie del popolo bruzio (di cui la filosofia del cosentino Telesio rappresentava, nella fattispecie della contesa, un fulgido esempio). Campanella elabora fin dagli anni giovanili, e in scritti successivi, una teoria dell’ordine sociale che in realtà rispecchia appieno i motivi politici sottesi alle opere storiografiche dei conterranei del suo tempo, nobili o ecclesiastici. Nel De Politica (terza parte della Philosophia realis) si fa il caso delle nazioni “ingannate” dai governi e si affermano i seguenti principi: «Non è tiranno chi domina su chi non vuole di fatto, ma chi [domina] su chi non vuole in base al diritto»; «Il popolo [...] deve al principe due cose, cioè rispetto e obbedienza, purché ordini cose buone»; e sui rapporti interni ai governi cittadini: «Le contese tra plebe e nobili accrescono lo stato, se dipendono da una gara d’onore, e la plebe vince così da poter raggiungere gli onori dei nobili, e partecipare ai loro valori; come avvenne felicemente a Roma. Ma se la plebe vince in modo da attirare i nobili ai propri costumi, lo stato si indebolisce fortemente, come accadde tristemente a Firenze»104. Si tratta, come appare evidente, della teorizzazione di un ordine politico “aristocratico” (nel senso etimologico del termine) e dalla natura “pattizia”, già emersa in molti luoghi della letteratura cronistorica locale105.
Ma, soprattutto, Campanella incarnerà di lì a pochi anni, con la sua vita e le sue sventure, l’esperienza di una storia già narrata. Di un calabrese ribelle, accusato di lesa maestà per essersi posto a capo di una congiura contro l’impero di Spagna nel Mezzogiorno. Non a caso egli diventa protagonista, dopo che dei fatti, della narrazione di essi, venendo a costituire argomento vivo di un ulteriore capitolo della storia apologetica dei Calabresi sulla Calabria. La storiografia regionale, fino all’Ottocento inoltrato, esalterà la figura del filosofo di Stilo come «gloria nazionale» e lo difenderà come altro eloquente capro espiatorio della congiura anticalabrese ordita dall’intellighenzia «forestiera». L’erudito Vito Capialbi, con la sua ormai nota teoria innocentista del complotto antiecclesiastico tramato dalla magistratura regia giurisdizionalista106, rappresenta il momento più avanzato e maturo di una tradizione culturale che, senza soluzione di continuità, ripropone molto oltre la prima età moderna – sebbene in un contesto problematico profondamente modificato dagli eventi storici – i suoi modelli ideologici e autorappresentativi.


6. Il Seicento riutilizza ampiamente, e in parte sviluppa, l’armamentario erudito di temi e argomentazioni che riceve in eredità dalla storiografia del secolo precedente. Tra la fine del XVI secolo e la seconda metà del XVII sono due le grandi opere, composte in Calabria, che accostano antiquaria e corografia nello studio del territorio regionale: le Croniche, et Antichità di Calabria di fra’ Girolamo Marafioti da Polistena, corposo volume pubblicato in due successive edizioni, a Napoli nel 1595 e a Padova nel 1601, e la Calabria illustrata del padre cappuccino Giovanni Fiore da Cropani, composta tra il 1672 e il 1683 e pubblicata postuma in due tomi a Napoli nel 1691 e nel 1743, restandone un terzo tomo inedito.
Della prima diremo soltanto che, in linea con la suggestione intellettuale già diffusa nella storiografia rinascimentale, accentua il tema della continuità delle repubbliche: lo spazio geografico presente, materia della corografia e della cronografia, viene suddiviso, e quindi “narrato”, secondo la circoscrizione e l’età delle quattro antiche repubbliche esistite nella regione: Reggio, la «più antica Republica d’Italia», Locri, Crotone e Turi107. L’opera di fra’ Girolamo, teologo dell’ordine dei minori osservanti, è un tipico esempio degli studi di indirizzo antiquario che continuano, ancora nel XVII secolo, a prosperare nei conventi, all’ombra di influenti casate feudali della regione. La seconda edizione della cronaca di Marafioti è dedicata a Baldassarre Milano, marchese di San Giorgio Morgeto, nei pressi di Polistena, esponente di una famiglia baronale con attitudini mecenatesche, già protettrice di Campanella e imparentata con i napoletani del Tufo. Al feudatario, di cui si professa «humilissimo servitore» e vassallo, l’autore offre le sue cronache, miste di argomento secolare («gli uomini, le scienze e l’arme») e spirituale («i santi»). In questo come già nel caso dell’opera di Barrio, i signori della regione, soprattutto se liberali e illuminati protettori delle lettere, vengono investiti del ruolo di difensori del prestigio calabrese (Calabrorum decus): ad essi gli scrittori eruditi si rivolgono come a custodi delle virtù morali, marziali e spirituali della terra degli avi, di cui, tra l’altro, le loro storie personali offrono concreto esempio.
Nella Calabria illustrata di padre Fiore trionfa, a partire dal lungo sottotitolo del primo tomo, il concetto della terra «madre». L’identità della regione si esprime – come avviene anche per le storie di città – nella duplice direzione del lustro che essa dà ai suoi abitanti per i suoi numerosi pregi, e del prestigio che essa, viceversa, riceve dagli uomini virtuosi nati dal suo seno (lunga la schiera dei «Personaggi Illustri in Santità, Dignità, e Lettere» che i tomi di Fiore «restituiscono alla Calabria loro Madre»)108. Su tutto si impone la «carità di Patria», ovvero la restituzione degli splendori offuscati dal tempo o dalle calunnie, dovere morale di ogni scrittore verso la terra degli avi; a proposito del quale, tuttavia, Fiore (come già Barrio) critica i Calabresi per esserne in difetto: «tanto è accaduto alla mia Calabria, di merito più ricca, che di Fortuna, di fatti più gloriosa, che di Scrittori sù le proprie Glorie»109. Mosso in principio allo studio delle sole storie «Sagre», che riteneva più consone a un religioso, l’autore spiega di essersi presto convinto (anche per le insistenze degli «Amici») della necessità di trattare della Calabria «à tutta penna», ovvero di allargare la propria ricostruzione anche alle «Storie Secolari». I motivi dell’opera sono dunque quelli della tradizione erudita, ma con una più particolare consapevolezza della finalità divulgativa del testo (evidenziata, ancora, dall’adozione del volgare, ormai – si argomenta – ammesso nelle principali corti, in luogo del grave e dotto latino)110.
Il preambolo al lettore affronta questioni di metodo; leggendolo, ci si accorge di come la storiografia apologetica abbia compiuto una sistemazione organica delle sue tecniche e dei suoi strumenti logici. Nella scelta delle fonti, Fiore afferma schiettamente di aver preferito gli «Scrittori nostrali», che «meglio intesero la disposizione della Provincia», rispetto agli «Esteri, à quali sovvente la lontananza ha travolta l’intiera notizia delle cose» (come dice di Leandro Alberti e di Paolo Merola). Si dichiara consapevole dell’obiezione che i cronisti calabresi, come Anania, Barrio, Marafioti, possano rivelarsi «violentemente travolti dall’affetto alla Nazione», ma egli ha inteso comunque scegliere la via del più «noto», e dunque del maggior «vero». Fra gli storici calabresi, Fiore è il primo a riportare note a margine con l’indicazione di titoli, libri, e pagine dei testi volta a volta citati. Egli, inoltre, specifica le proprie scelte in materia di cronologia: a questo proposito, dichiara di fondare il «ritrovamento della Verità», all’interno della sua opera, sulla corrispondenza delle storie calabresi con le date della storia universale (indicate in una tabella per i principali eventi della storia del mondo dal diluvio alla nascita di Cristo) fissate secondo la cronologia «Ebrea Latina volgata», ritenuta più precisa rispetto alla «Greca»111.
Fin dal principio, Fiore sottolinea la divisione della Calabria in Bruzio e Magna Grecia, ripresa, di seguito, in più luoghi dell’opera. Egli sente questa partizione regionale più degli altri cronisti e ne deriva una distinzione di carattere fra due popoli calabresi diversi per origine, costume e abitazione: più impavidi e forti i discendenti dei Bruzi, più raffinati e colti i rampolli dei Magnogreci. Nell’insieme, le due componenti etniche della Calabria moderna ripetono l’eredità antica rispettivamente nei due principali campi – già da altri autori misurati – delle civiche virtù: le armi (l’eminenza dei gradi), le lettere (che, in Fiore, abbracciano altresì il gusto, l’ostentazione del lusso, l’ospitalità). La moda rappresenta un altro elemento di discrimine sociale e territoriale: la foggia del vestire muta da campagna a città: panni ruvidi per i contadini, di seta e «di prezzo», con finiture in oro e argento – soprattutto negli abiti femminili – per nobili, civili e maestranze delle città. Da Napoli, «la Metropoli» del Regno, la moda passa ai capoluoghi calabresi residenze del regio tribunale: Cosenza e Catanzaro, da dove si diffonde nel resto della provincia112.
Il confronto della realtà periferica con Napoli capitale risalta, con tratti polemici, nel Discorso IV dell’Apparato dell’Opera, dedicato ai «Biasimi calunniosi, dati da alcuni Scrittori alla Calabria, con le loro difese». Qui ritroviamo una tecnica espositiva ricorrente nel genere delle storie apologetiche, quella, cioè, che indica nell’odio e nella vendetta personale le motivazioni della calunnia contro la regione o la città patria del cronista. Sertorio Quattromani aveva usato tali argomentazioni nell’attaccare Girolamo Ruscelli e Pietro Crinito: il primo, a suo dire, aveva calunniato i Bruzi per una lite violenta avuta nelle carceri della Vicaria con il barone di Belmonte Galeazzo di Tarsia e, ancora, per una disputa col giovane cosentino Giovan Tomaso Martirano (il quale «raccolse in una lettera una buona parte degli errori, che commette il Ruscello nella conduzione di Tolomeo»); il secondo, perché sdegnato col giovane Aulo Giano Parrasio, compilatore di una raccolta degli errori commessi da Crinito nel suo trattato Della onesta disciplina113. Allo stesso modo procede il padre Fiore nella sua lunga disamina delle Notizie di nobiltà di Giuseppe Campanile (Napoli, 1672), che egli vede traboccanti di odio contro i Calabresi. In particolare nella Notizia decima quarta, intitolata Meraviglie Prodigiose di Valle di Crate, e Terra Giordana, Campanile calunniava la Calabria per le «amarezze» ricevute da alcuni «Nazionali» di quella terra, rei di averlo ostacolato nell’ottenimento di un’alta onorificenza del Regno. Onde, argomenta Fiore, «non potendo vendicar la pretesa ingiuria contro de’ Figliuoli, fabri del suo male, si portò à vendicarla contro della madre, già innocente»114. L’apologia calabra di Fiore ha comunque gioco facile nel dipingere come falsario il suo rivale, il quale, denunciato per diffamazione da famiglie della nobiltà di seggio della capitale, finiva i suoi giorni nelle carceri della Vicaria115.
Campanile intende dissuadere il suo amico Niccolò di Costanzo dal ritirarsi a vivere in Calabria, sostenendo con varie argomentazioni – che Fiore una ad una ribatte – come quella regione fosse piuttosto «da fugirsi». La polemica coinvolge, immancabilmente, la lettura dei classici: Campanile travisa il senso dei versi di Virgilio, poiché vi intende che Eleno sconsigliasse Enea dall’approdare alle calabre spiagge in quanto «abitate da gente mala»; ma il significato di quelle parole, ribatte Fiore, era di «gente inimica al nome Trojano», non di popolazione in assoluto malvagia116. Campanile accusava inoltre i Calabresi di essere gente tumultuosa: «glorie moderne calavresesche» – scriveva sarcastico – erano «l’esser riottoso», il «muovere le città a subuglio», l’«esser sempre novizzo à termini civili», insomma il consueto armamentario di opinioni stereotipe. A questo complesso di biasimi Fiore replica rinfacciando all’accademico napoletano i tumulti del 1647-48, partiti dalla sua Napoli e «suscitati dalla vile plebaglia»: «e non ancora ci è svanito dalla mente – scrive –, da qual Aquilone sboccate fossero le tempeste. Io non soscrivo, mà solo rapporto ciò, che di Napoli rapportò Nicolò Linda (Relaz. univers., lib. 6, fol. 464), cioè ch’ei fosse un Paradiso abitato da’ demonij». Per di più Campanile (come già un secolo prima Leandro Alberti)117 descriveva le case dei Calabresi annerite dalle fuliggini per la mancanza dei camini, costruendo così un parallelo psicologico con le caligini dei «calabri cervelli»; denunciava il lezzo maleodorante delle abitazioni, prive della «commodità di depositare gl’escrementi naturali». La fiera reazione di Fiore ricorre nuovamente al confronto con Napoli: dopo aver osservato che i lamentati difetti nelle abitazioni potevano riguardare la condizione «di pochi Contadini» (e che comunque anche Greci e Romani usavano riscaldare gli ambienti con «legna cotte», senza camini), egli rovescia il complimento sulla patria del Campanile, dicendo: «Stravagante suo Naso, qual di lontano si offende, degl’escrementi nostrali, e punto non si altera di quelli della sua Patria, dove non è da entrar in palazzo, ò Tribunale, che non s’incontrino somiglianti lezzi»118.
Ci si rende finalmente conto di come una disputa erudita potesse facilmente tramutarsi in guerra di insulti e disonore. E in effetti, rovesciando i termini di questa constatazione, si ottiene quale fosse il reale oggetto del contendere: l’onore, appunto, contro il rischio della sua perdita; ovvero il lustro della propria «nazione», presentata al «teatro del Mondo», a fronte del pericolo di essere pubblicamente screditati su quella stessa scena. Il ricorso all’antico accentua, con la profondità del tempo e dell’immemorabile, tanto le glorie quanto le macchie d’infamia, qualora si voglia rintracciarne l’origine nella notte dei primordi. La più infamante delle accuse mosse da Campanile ai Calabresi/Bruzi accreditava la notizia che Ponzio Pilato fosse stato «Preside» di Calabria prima di diventare procuratore romano della Giudea, e che di conseguenza soldati della sua stessa «razza», venuti al suo seguito, avessero eseguito la crocifissione di Cristo e fossero stati poi i divisori delle «beatissime spoglie» del Redentore. Gli Annales ecclesiastici del cardinal Baronio, chiamati in causa da Campanile, avrebbero attestato l’ampia circolazione della notizia come ludibrij causa in Brutios, sebbene il dotto porporato negasse attendibilità al fatto. L’accusa, com’è evidente, rappresentava un corollario del racconto di Gellio (che voleva i Bruzi condannati al vile ministero di carnefici al seguito dei magistrati nelle province romane) e da questo momento, per alcuni decenni a seguire, sarà al centro del dibattito erudito sulla regione119. Il mito negativo dei Calabresi come discendenti dei tortores Christi e come malfattori, era comunque già diffuso fuori d’Italia tra XVI e XVII secolo, come dimostrano, ad esempio, alcuni luoghi di Cervantes e Lope de Vega120. L’apologia di Fiore risponde, su questo punto, affidandosi al tema dei «miracoli del Calvario», dove l’attenzione è tutta posta sul potere salvifico della Croce che per primi investì, chiunque fossero, quei soldati carnefici, convertendoli alla vera fede e purificandoli col martirio. Dopo aver constatato la reale discordanza degli autori sulla «nazione» di provenienza del Centurione e dei suoi commilitoni ai piedi della Croce (Simone Metafraste li dice ebrei, spagnuoli Livio Destro, bruzi secondo il gesuita Alfonso Salmeron e altri scrittori), Fiore aggira l’ostacolo, trasformando l’infamia in possibile titolo di gloria: sullo stesso terreno delle accuse di Gellio, egli si riferisce ai detrattori della Calabria concludendo: «Ci vogliono Primi à mancar di fede à Roma Idolatra, e con ciò ci mostrano Primi nella confessione della fede à Roma Christiana»121.
A tratti la storia sacra viene a prevalere sull’eredità storica della Roma pagana e dei suoi scrittori, e il Vangelo di Matteo prende in questo caso il sopravvento tra le fonti dell’erudito. Ma sacro e profano, come premesso dallo stesso Fiore, si intrecciano fittamente nella trama. Circa l’origine dei Bruzi, l’autore rimarca la condizione nobiliare dei «Cinquecento Giovani» lucani che, quinta, nel suo racconto, delle migrazioni che popolarono la Calabria antica, giunsero a Cosenza, allora chiamata «Brezzia», dove furono «ammessi non pur alla Cittadinanza, mà alle parentele, giusta il grado della nascita». Su questo argomento, la narrazione accreditata dai precedenti cronisti è complicata con ulteriori articolazioni etniche e di nomenclatura. All’interno del gruppo dei Calabresi/Bruzi, ad esempio, Fiore introduce una distinzione tra i Brezi «più antichi», abitatori di una città dalle immemorabili origini enotrie ed erculee, e i «Brezij nuovi», ovvero i «Figliuoli» dei Lucani venuti a incrementare le vecchie abitazioni «senza contrasto» e ad ampliare la repubblica bruzia «oltrepassando armati» gli antichi confini122.
Nella ricostruzione della guerra annibalica la Calabria illustrata ripropone la lettura di Barrio, sintetizzandone i maggiori argomenti in difesa dei Bruzi contro il «racconto ignominioso» di Gellio. Maggior enfasi è posta sulla identificazione tra antiche città bruzie e moderni centri urbani calabresi, e sul tratto unificante della costanza nella fedeltà all’«imperio»: così, ad esempio, si parla di «Ippone, oggidì Montelione», e di «Petilia, oggigiorno Belcastro», la quale «per non darsi à Cartaginesi, si diede al fuoco» rinascendo poi, se non per bellezza, «per sua gloria maggiore, Fenice di Fedeltà»123. La stessa continuità vale nell’identificare i veri traditori dell’ordine romano: per Fiore, come per Barrio e Quattromani, l’accusa di «rubelli» va rovesciata sui «Boy, oggidì Romagnuoli, Bolognesi, e Ferraresi»124.
La visione dell’ordine imperiale, fondata sul modello romano-ispanico, approda con la Calabria illustrata di Fiore a una nitidezza compiuta e priva delle ombre del filofrancesismo o dell’antispagnolismo di molte cronache calabresi del medio e tardo Cinquecento. La dedica del primo tomo a D. Carlo Maria Carafa Branciforte, principe di Butera e della Roccella, marchese di Castelvetere, conte di Condojanni, principe del Sacro Romano Impero e Grande di Spagna del primo ordine, propone un esempio calabrese nelle virtù di governo, di milizia, di «penna» al servizio di Carlo II monarca delle Spagne. L’esaltazione dei «Gloriosi Antenati» di casa Carafa – i quali «in tutti i tempi col loro sangue difesero (la Calabria) da i nemici della Real Corona»: dai baroni ribelli a Ferrante I, dalle «Armi Francesi» di Obignì e poi di Lautrec, dagli assalti dell’armata turchesca di Dragut e di Sinam Cigala, dagli sbarchi dei «Ribelli Messinesi» – lega alla Calabria una lunga storia di fedeltà e servizio125. In un contesto di soggezione alla Spagna e di partecipazione passiva al suo sistema di potere e di impero, la provincia più meridionale del Regno napoletano sembra rivendicare, attraverso la sua classe colta e quest’opera, la più alta della produzione storiografica locale del XVII secolo, un ruolo dinamico nella difesa di se stessa e della Monarchia Cattolica.
L’opera di Fiore è tutta protesa a illustrare le risorse delle due Calabrie, definite come l’«India» d’Italia126. La potenza di questa idea indica con chiarezza che le antiche accuse di infedeltà stanno ormai per esser lasciate alle spalle, mentre dalla scrittura storica emerge con urgenza nuova la rivendicazione, con la difesa armata della regione, di un posto non marginale nell’economia e nella strategia complessiva del sistema italiano e imperiale spagnolo127.
Il Settecento calabrese riproporrà con inalterato interesse il tema letterario della difesa dei Bruzi dall’infamia del tradimento, soprattutto dibattendo, in diversi testi, la più recente e non meno terribile accusa della “nazionalità” bruzia dei crocifissori di Cristo128. La trattazione di queste opere più tarde non rientra nell’economia del presente lavoro; tuttavia la loro stessa esistenza conferma il dato di fondo che è stato al centro della riflessione sulle storie della Calabria del XVI e XVII secolo: la “lunga durata”, cioè, dei temi dell’eccellenza e della difesa della patria, come parte insostituibile della costruzione di un’identità regionale; come elementi focali di uno sguardo dall’interno. La lunga parabola della storiografia regionale, d’altro canto, vede mutare, come si è osservato in queste pagine, nel corso di due secoli i quadri metodologici e ideologici della descrizione territoriale. Dalla prima metà del Cinquecento a quella del secolo successivo la corografia e l’archeologia della regione passano sempre più da una originaria prospettiva d’osservazione urbanocentrica, metropolitana, ancora segnata da lotte tra lignaggi e fazioni (lo abbiamo visto con gli storici cosentini), a una visione più ampia, a dimensione provinciale e centrifuga, più spesso di matrice monastica ovvero legata al potere rurale delle corti feudali. L’antispagnolismo, il ribellismo e le lotte di contrapposte fedeltà, tipiche delle comunità demaniali del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento, vanno scomparendo tra XVI e XVII secolo come categorie della scrittura storica. Le nuove storie e cronache regionali calabresi accentuano, da questo momento, la visione provvidenzialistica delle risorse del territorio già presente nelle prime storie ma che adesso viene utilizzata piuttosto per magnificare la regione nel suo complesso e non per esaltare il capoluogo che domina su di essa. Di conseguenza, si accentua ancora la tendenza a una ricognizione esaustiva di casali, terre, castelli, città e delle rispettive istituzioni ecclesiastiche e nomenclature nobiliari.
Queste produzioni tardo-cinquecentesche e seicentesche, non a caso, si legano al rinnovato protagonismo delle fiorenti comunità monastiche e agli ambienti delle clientele feudali: il loro investimento ideologico, come la fortuna dei loro autori (monaci, preti e fedeli vassalli), è nella direzione dei grandi capitali militari e religiosi della regione, cui viene affidato il riscatto morale e politico della travagliata terra degli avi. I patriziati cittadini, dal canto loro, continuano ad alimentare una piccola storiografia municipalista, talvolta antifeudale o perlomeno concorrente nell’affermazione dei valori di una nobiltà consiliare o da repubblica, ma essi non dominano più il campo della scrittura storica regionale, finiscono anzi per inserire e riannodare il proprio racconto particolare nel contesto del più generale quadro geostorico tracciato, spesso, fuori dei confini delle patrie mura. Il retroterra erudito, non ultimo tra i fattori rilevanti nel mutamento delle pratiche della rappresentazione e della scrittura storica regionali, complica il suo bagaglio tematico e mitico: accanto ai rudi e valorosi Bruzi della tradizione cosentina, i più raffinati Magnogreci conquistano maggiore spazio nelle storie antiche e nelle descrizioni moderne delle città. Alla fine del Seicento, dunque, il paesaggio calabrese appare quantomai ricco di protagonisti, policentrico e la prospettiva storica che lo abbraccia si apre, potenzialmente, a una pluralità nuova di usi del passato.





NOTE
* Si presenta in questa sede, in una versione più ampia e con titolo mutato, il testo della mia relazione Guerre annibaliche e «calabra nazione». L’invenzione dell’antico in una provincia del Mezzogiorno spagnolo, tenuta al convegno di Maiori del 18-19 maggio 2006 sul tema «Uso e reinvenzione dell’antico nella politica di età moderna (secoli XVI-XIX)», ora in F. Benigno e N. Bazzano, a cura di, Uso e reinvenzione dell’antico nella politica di età moderna (secoli XVI-XIX), Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2006, pp. 95-137. Sono aggiunti, in questa versione, l’introduzione, il paragrafo 5 e le conclusioni, accanto ad altri passi e citazioni di fonti inseriti nei restanti paragrafi.^
1 F. Chabod, L’idea di nazione, (Bari, 1961), a cura di A. Saitta ed E. Sestan, Bari, Laterza, 19724, pp. 21, 63-64, 95-97, 116-119, con in appendice, dello stesso autore, Alcune questioni di terminologia: stato, nazione, patria nel linguaggio del Cinquecento, pp. 139-190. Cfr. anche Id., Scritti su Machiavelli, Torino, Einaudi, 1964; Id., Storia dell’idea d’Europa, Bari, Laterza, 1961, pp. 31, 36, 45-46 e passim; F. Gilbert, The Concept of Nationalism in Machiavelli’s Prince, in «Studies in the Renaissance», I (1954), pp. 38-48; L. Russo, Machiavelli, Bari, Laterza, 1983, pp. 203-214. Una storia della lenta identificazione dell’Italia come autonomo spazio culturale, storico e politico rispetto al contesto europeo, in G. Galasso, L’Italia come problema storiografico, (Storia d’Italia, diretta dallo stesso, Introduzione), Torino, UTET, 1979, in particolare pp. 115-133; cfr. anche, dello stesso autore, la voce Nazione, in Enciclopedia del Novecento, XI, II supplemento (Roma, 1998), pp. 309-334; Id., L’Italia s’è desta. Tradizione storica e identità nazionale dal Risorgimento alla Repubblica, Firenze, Le Monnier, 2002; F. Braudel, L’Italia fuori d’Italia. Due secoli e tre Italie, in Storia d’Italia, vol. 2. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, t. 2, Torino, Einaudi, 1974, pp. 2089-2248, poi riedito in volume autonomo, Il secondo Rinascimento. Due secoli e tre Italie, Presentazione di M. Aymard, Torino, Einaudi, 1986. Si veda, inoltre, R. Colapietra, La storiografia napoletana del secondo Cinquecento, in «Belfagor», XV (1960), pp. 415-436; C. De Frede, «Guicciardini come storico di Napoli», in Id., La crisi del Regno di Napoli nella riflessione politica di Machiavelli e Guicciardini, Napoli, Liguori, 2006, pp. 61-107.^
2 Il concetto di patria, in cui confluiscono l’idea del territorio italiano funestato dalle armi straniere e il rimpianto per la patria Partenope, città illustre macchiata dal sangue e dai lutti delle guerre, è al centro, ad esempio, dell’ode «alla patria» dell’umanista Michele Marullo (1453-1500): F. Tateo, L’umanesimo meridionale, (Letteratura Italiana Laterza, 16), Bari, Laterza, 1972, pp. 64-67. Le Cronache e ricordi del puteolano Loise de Rosa (1385-1475) registrano alcune «lodi di Napoli» in cui al sentimento patrio (la «nazione [...] de chiste nostre napoletane») si arriva per gradi successivi di autoidentificazione, prima con l’occidente europeo, poi con l’Italia, poi col reame di Napoli, quindi con la Terra di Lavoro, infine con la città capitale: cfr. L. De Rosa, Cronache e ricordi, in Masuccio Salernitano, Il Novellino, Con appendice di prosatori napoletani del ’400, a cura di G. Petrocchi, Firenze, Sansoni, 1957, pp. 531-583, p. 549. E gli esempi potrebbero continuare.^
3 Sul rapporto tra «piccola patria» (cittadina) e «grande patria» (regionale o statuale) in Italia, e in una comparazione europea, cfr. L. Gambi, L’«invenzione» delle regioni italiane, in M. Bellabarba, R. Stauber (a cura di/hrsg. von), Identità territoriali e cultura politica nella prima età moderna, Territoriale Identität und politische Kultur in der Frühen Neuzeit, Bologna-Berlin, il Mulino-Duncker & Humblot, 1998, pp. 375-380, in particolare pp. 376-377, e gli altri contributi ivi raccolti.^
4 Per un particolare esempio, la tradizione storiografica che dal Cinquecento descrive la «provincia» friulana nell’ambito dello stato territoriale veneto, cfr. L. Casella, Scritti sulla città, scritti sulla nobiltà. Tradizione e memoria civica a Udine nel settecento, in «Annali di Storia moderna e contemporanea», XII (2006), pp. 351-371. Sugli scrittori fiorentini cinquecenteschi e la loro rivendicazione patriottica dell’antico primato della Tuscia nella storia della civilizzazione, sotto l’impulso della politica cosimiana di unificazione dell’intera regione toscana, si veda R. Bizzocchi, Genealogie incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 189-193. Sulla «identità» della Campania, a partire dalle descrizioni cinquecentesche, A. Musi, «Le province storiche», in Id., Storia sociale e politica. La regione della capitale, Napoli, Alfredo Guida, 2006, pp. 47-68. Per la Puglia, e in particolare la Terra d’Otranto descritta nel De situ Japygiae dell’umanista e accademico pontaniano Antonio de Ferrariis detto il Galateo («precoce operetta di corografia regionale» pubblicata postuma nel 1558 a Basilea e nel 1624 a Napoli) e di cui dal XVI secolo si va definendo la configurazione naturale e culturale come «terra di frontiera», cfr. M.A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età moderna, Napoli, Guida, 1988, pp. 21-22 e segg.; T. Pedìo, Storia della storiografia del Regno di Napoli nei secoli XVI e XVII. (Note ed appunti), Chiaravalle Centrale, Edizioni Frama’s, 1973, p. 15; D. Defilippis, Un’inedita ‘edizione’ settecentesca del De situ Iapygiae di Antonio Galateo, in Confini dell’umanesimo letterario. Studi in onore di Francesco Tateo, a cura di M. de Nichilo, G. Distaso, A. Iurilli, Roma, Roma nel Rinascimento, 2003, pp. 503-521.^
5 Sull’esperienza “civica” dell’Umanesimo in Calabria, T. Cornacchioli, Nobili, borghesi e intellettuali nella Cosenza del Quattrocento. L’academia parrasiana e l’Umanesimo cosentino, Cosenza, Edizioni Periferia, 1990. Per una storia dell’immagine regionale e della caratterizzazione socio-culturale dei Bruzi-Calabresi, A. Placanica, I caratteri originali, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, Torino, Einaudi, 1985, pp. 3-114, e in particolare, su biasimi e lodi alla Calabria, pp. 8-10, 71-75; e Id., Calabria in idea, ivi, pp. 585-650, in particolare pp. 590-593; si veda, inoltre, Id., L’immagine della Calabria: realtà e fortuna di uno stereotipo, in P. Bevilacqua (a cura di), Storie regionali. Storia della Calabria, vol. 3. Dal 1350 al 1650, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 88-107.^
6 A. Spagnoletti, Ceti dirigenti cittadini e costruzione dell’identità urbana nelle città pugliesi tra XVI e XVII secolo, in A. Musi (a cura di), Le città del Mezzogiorno nell’età moderna, Napoli, ESI, 2000, pp. 25-40; A. Lerra (a cura di), Il libro e la piazza. Le storie locali dei regni di Napoli e di Sicilia in età moderna, Atti del Convegno nazionale (Maratea, 6-7 giugno 2003), Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2004.^
7 F. Campennì, La Patria e il sangue. La rappresentazione dell’identità patrizia nella Calabria moderna attraverso le cronistorie cittadine, in «Miscellanea di studi storici», XI (1998-2001), pp. 107-149; Id., Le storie di città: lignaggio e territorio, in A. Lerra, a cura di, Il libro e la piazza..., cit., pp. 69-107.^
8 Un momento significativo di questa costruzione culturale è presentato da R. Villari, Per il re o per la patria. La fedeltà nel Seicento, Roma-Bari, Laterza, 1994. Rilievi critici a quest’opera in A. Musi, L’Italia dei Viceré. Integrazione e resistenza nel sistema imperiale spagnolo, Cava de’ Tirreni, Avagliano Editore, 2000, pp. 149-164. Si veda, su questi temi, il più recente contributo di G. Muto, Fedeltà e patria nel lessico politico napoletano della prima età moderna, in A. Merola, G. Muto, E. Valeri, M.A. Visceglia (a cura di), Storia sociale e politica. Omaggio a Rosario Villari, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 495-522.^
9 Sull’identità della nobiltà napoletana e la pratica delle armi, cfr. G. Muto, I trattati napoletani cinquecenteschi in tema di nobiltà, in Sapere e / è potere. Discipline, dispute e professioni nell’Università medievale e moderna. Il caso bolognese a confronto, vol. III. Dalle discipline ai ruoli sociali, a cura di A. De Benedictis, Bologna, Comune di Bologna - Istituto per la storia di Bologna, 1990, pp. 321-343; Id., «I segni d’honore». Rappresentazioni delle dinamiche nobiliari a Napoli in età moderna, in M.A. Visceglia (a cura di), Signori, patrizi, cavalieri in Italia centro-meridionale nell’Età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 171-192; Id., La “disciplina dell’arme”. Testi cinquecenteschi napoletani sull’educazione militare e sull’arte della guerra, in B. Anatra, F. Manconi (a cura di), Sardegna, Spagna e Stati italiani nell’età di Carlo V, Roma, Carocci, 2001, pp. 117-130; G. Galasso, L’immagine della nobiltà napoletana nella Istoria di Angelo di Costanzo, in Medioevo Mezzogiorno Mediterraneo. Studi in onore di Mario Del Treppo, a cura di G. Rossetti e G. Vitolo, vol. II, Pisa-Napoli, GISEM-Liguori, 2000, pp. 189-198; A. Spagnoletti, La nobiltà napoletana del ’500: tra corte e corti, in C. Mozzarelli (a cura di), «Familia» del principe e famiglia aristocratica, 2 tomi, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 375-390; Id., L’aristocrazia napoletana nelle guerre del primo Seicento: tra pratica delle armi e integrazione dinastica, in A. Bilotto, P. Del Negro, C. Mozzarelli (a cura di), I Farnese. Corti, guerra e nobiltà in antico regime, Atti del convegno di studi (Piacenza, 24-26 novembre 1994), Roma, Bulzoni, 1997, pp. 445-468; Id., Prìncipi italiani e Spagna nell’età barocca, Milano, Bruno Mondadori, 1996; F. Campennì, La patria e il sangue. Città, patriziati e potere nella Calabria moderna, con prefazione di M. Petrusewicz, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2004, pp. 197, 202.^
10 G. Signorotto, Guerre spagnole, ufficiali lombardi, in A. Bilotto, P. Del Negro, C. Mozzarelli, I Farnese..., cit., pp. 367-396. Rinvio, sull’argomento, alla relazione di J. Amelang, Popular Autobiography in Early Modern Spain, tenuta al seminario internazionale di studi su Memoria, famiglia, identità tra Italia ed Europa nell’età moderna, svoltosi il 4-5 ottobre 2007 a Trento, i cui atti sono in corso di stampa.^
11 Su un processo di «provincializzazione» che, tra xvi e xvii secolo, segna lo stadio culminante del costituirsi della «nazione napoletana», come progressivo adeguamento del momento etico e culturale al quadro politico-istituzionale nel Mezzogiorno, si veda G. Galasso, Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino, Einaudi, 1994, pp. 389-421.^
12 Cfr. Enciclopedia Universale Rizzoli Larousse, vol. III, Milano, 1967, alla voce Bruzi o Brutti.^
13 Gellio, X, 3, 19, che qui si cita dall’edizione Auli Gellii. Noctes Atticae. Editio nova et prioribus omnibus docti hominis cura multo castigtior, Amstelodami, Apud Ioannem Ianßonium, 1651, p. 234. Il passo dell’orazione di Catone, databile al 190 a. C., è in Gellio, X, 3, 14.^
14 Tra edizioni del dizionario di Ambrogio Calepino (1435-1511), numerose nel periodo di cui ci occupiamo, cito da Ambrosii Calepini Dictionarium, In quo restituendo atque exornando haec praestitimus, Venetiis, Apud Aldi Filios, MDXLVIII (1548), alla voce Brutii.^
15 T. Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, e nobili et ignobili. Nuovamente formata, e posta in luce da Tomaso Garzoni da Bagnacavallo. Al Sereniss.mo et Invittiss.mo Alfonso secondo da Este duca di Ferrara, In Venetia, Appresso Gio. Battista Somascho, MDLXXXVI (1586), p. 668. Cfr. anche la più recente edizione di T. Garzoni, Opere, a cura di P. Cherchi, Napoli, Fulvio Rossi, 1972.^
16 G. Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Nuova edizione accresciuta, Lecce, Argo, 1997, pp. 171-225. Di una identità forte e ampia, a dimensione regionale, del calabrese parlano, inoltre, diversi contributi di A. Placanica oggi raccolti in Id., Scritti, t. III, a cura di M. Mafrici e S. Martelli, (Università degli Studi di Salerno, Collana Scientifica), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004.^
17 La caratterizzazione del calabrese va assumendo in maniera rimarcata i tratti che già erano riconosciuti come distintivi della natura dei popoli meridionali in genere. Sulla mutevolezza e l’instabilità degli abitanti del Regno di Napoli si era soffermato il pesarese Pandolfo Collenuccio; cfr. Id., Compendio de le istorie del Regno di Napoli, a cura di A. Saviotti, Bari, Laterza, 1929. Nel racconto di Guicciardini, di fronte alle truppe francesi di Carlo VIII il Regno fu presto perduto per la poca «fede» dimostrata dai Napoletani alla causa aragonese, e subito dopo anche i Francesi divennero odiosi agli «abitatori del regno di Napoli, i quali tra tutti i popoli d’Italia sono notati di instabilità e di cupidità di cose nuove» (Storia d’Italia, lib. I, cap. XIX e lib. II, cap. IV, che cito nell’edizione a cura di S. Seidel Menchi, Torino, Einaudi, 1971). Lo stesso giudizio sui Meridionali come «più sottili, e più vehementi» (che è come dire più insidiosi e bellicosi) rispetto agli abitatori delle regioni settentrionali tra l’Appennino e le Alpi, «più temperati, & quieti», sarà espresso più tardi da G. Botero, Le Relationi universali di Giovanni Botero Benese in tre Parti, e cinque volumi divise, con Tavole di Geografia, & Indici copiosi & par ticolari à ciascuno di loro: Et in questa nova editione dal proprio Autore accresciute, et megliorate d’assai, Bergamo, Per Comin Ventura, 1596, t. I, p. 63; il carattere, poi, ha secondo Botero un corrispettivo nel colore della pelle, «più fosco, e più bruno» negli abitanti del Sud, chiaro e vermiglio al Nord. Lo stesso autore esprime della Calabria un giudizio ricorrente nella trattatistica sulla regione, che la indica come concentrato tanto dei “beni” quanto dei “mali” d’Italia: «[...] ma tutto ciò, di che l’Italia è producevole, par che sia raccolto nella Calabria» (ibidem).^
18 I Diarii di Marino Sanuto, a cura di F. Stefani, G. Berchet, N. Barozzi, Venezia, Fratelli Visentini Tipografi Editori, 1897-1898, tomo I, p. 530, tomo XLIX, p. 116, tomo XLVIII, p. 293, rispettivamente per le tre citazioni riportate.^
19 C. Porzio, La congiura de’ baroni del Regno di Napoli contra il re Ferdinando primo e gli altri scritti, a cura di E. Pontieri, seconda edizione riveduta, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, MCMLXIV (1964), pp. 307-340, p. 319.^
20 S.G. Mercati, Calabria e Calabresi in un manoscritto del XVII sec. (Dal manoscritto Barberino Latino 5392), in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», XII (1942), fasc. II, pp. 113-119, fasc. III, pp. 163-172, fasc. IV, pp. 229-240 (cit. pp. 115-116).^
21 G.M. Galanti, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a cura di F. Assante e D. Demarco, Napoli, 1969, vol. II, p. 577, cit. da G. Galasso, L’altra Europa..., cit., pp. 196-197.^
22 F. Frezza, Discorsi intorno a i rimedii d’alcuni mali, a i quali soggiace la Città, & il Regno di Napoli. Con altre scritture, concernenti il servitio, & l’utile di Sua Maestà Cattolica. Di Fabio Frezza cavaliere napolitano et dell’Habito di Calatrava, In Napoli, Per li Heredi di Tarquinio Longo, 1623, p. 5.^
23 J. de Pasamonte, Autobiografía, Prólogos de M.A. de Bunes Ibarra y J.Mª de Cossío, Sevilla, Espuela de Plata, 2006, pp. 128-133 (la citazione a p. 128). Ringrazio il professor James Amelang per avermi segnalato questa fonte. Alla luce di queste testimonianze la lettura che del moto campanelliano ha dato Rosario Villari si rafforza, sebbene la reazione antifeudale vada più marcatamente scomposta nelle sue diverse anime (distinguendo in fronti separati, e spesso contrapposti, come ho già avuto modo di osservare, le reazioni del mondo contadino, da un lato, e le lotte della piccola nobiltà e borghesia cittadina, dall’altro): R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), (Bari, 1967), Roma-Bari, Laterza, 19873, pp. 100-104, 220-223; F. Campennì, La patria e il sangue. Città, patriziati..., cit., p. 114.^
24 D. Arena, Istoria delli disturbi e Revolutioni accaduti nella Città di Cosenza e Provincia nelli anni 1647 e 1648, a cura di Giuseppe de Blasiis, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», III (1878), fasc. II, pp. 259-290, fasc. III, pp. 427-469, fasc. IV, pp. 645-676; IV (1879), fasc. I, pp. 3-32 (la citazione a p. 431).^
25 Cfr. le corrispondenze dei governatori di Calabria nei primi decenni del xvii secolo, su cui rinvio a F. Campennì, La patria e il sangue. Città, patriziati..., cit., pp. 241 e segg.^
26 F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Torino, Einaudi, 1970.^
27 R. Bizzocchi, Genealogie incredibili..., cit., p. 249. La medesima accusa ai nobili feudatari napoletani sarà, com’è noto, più tardi “canonizzata” da Machiavelli nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (I, 55, 2), dove essi sono definiti, assieme ai signori romani, romagnoli, lombardi, «gentiluomini [...] che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni abbondantemente, sanza avere cura alcuna o di coltivazione o di altra necessaria fatica a vivere», «perniziosi in ogni republica ed in ogni provincia» e «al tutto inimici d’ogni civiltà». Sulla condizione sociale degli umanisti, cfr. P. Burke, Cultura e società nell’Italia del Rinascimento, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 87-91. Sull’umanesimo come programma delle classi dirigenti urbane, L. Martines, Power and Imagination. City-States in Renaissance Italy, (New York, 1979; trad. it., Potere e fantasia. Le città-stato nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1981), London, Pimlico, 20025, pp. 191-217; M. Viroli, Dalla politica alla ragion di stato. La scienza del governo tra xiii e xvii secolo, Roma, Donzelli, 1994, pp. 49-81. Una rassegna della letteratura politica umanistica e delle sue fonti classiche, in D. Canfora, Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica, Roma-Bari, Laterza, 2005. In tema di comunicazione politica al principio dell’età moderna cfr., inoltre, A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo. Bologna 1506, Bologna, il Mulino, 2004.^
28 Su un umanesimo monastico produttore di trattati enciclopedici e cronache, erede della tradizione erudita medievale, cfr. R. Bizzocchi, Genealogie incredibili..., cit., pp. 159-161. Per il VII e XVIII secolo, A. Barzazi, Una cultura per gli ordini religiosi: l’erudizione, in «Quaderni storici», n. 119, XL (2005), pp. 485-517. Un esempio calabrese di storiografia monastica, oltre quello più noto di Fiore (su cui vedi infra), è la cronaca del domenicano di Squillace Giuseppe Lottelli (1632ca.-1703), recentemente pubblicata: A. Vaccaro (a cura di), Squillace dall’età antica all’età moderna ossia “Squillacii redivivi libri IV.” di Giuseppe Lottelli, Rende, Centro Editoriale e Librario, Università degli Studi della Calabria, 1999. Altro esempio è nell’opera erudita del cappuccino di Reggio padre Bernardo Molizzi, morto nel 1536, autore, oltre che di opere filosofiche e teologiche, di un Chronicon Rhegii: cfr. D. Spanò Bolani, Storia di Reggio di Calabria da’ tempi primitivi sino all’anno di Cristo 1797, 2 voll., Napoli, Stamperia e Cartiere del Fibreno, 1857, che cito nella 2ª ed., con note e bibliografia di D. De Giorgio, Reggio Calabria, Stab. Tip. «La Voce di Calabria», 1979, pp. 366, 541. Per una biografia di Campanella, L. Firpo, Campanella, Tommaso, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XVII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1974, pp. 372-401.^
29 Alessandro d’Alessandro, umanista e giureconsulto napoletano (1461-1523), è autore dei Dies geniales, Romae, In aedibus Iacobi Mazochii, MDXXII (1522), in cui narra, fra l’altro, la caduta degli Aragonesi di Napoli e la conquista del Regno da parte del Cattolico. Cfr. M. Cataudella, Napoli e Roma nei Dies Geniales di Alessandro d’Alessandro, in Confini dell’umanesimo..., cit., pp. 259-268. Giuseppe Campanile da Diano, in Principato Citeriore, si dedica a Napoli agli studi letterari; vi pubblica nel 1666 i Dialoghi morali, dove si detestano le usanze non buone di questo corrotto secolo, dal contenuto adulatorio e ingiurioso, e nel 1672 le falsificanti Notizie di nobiltà, sulle origini e i costumi dei nobili napoletani: i Seggi ottengono l’arresto dell’autore, che muore nelle carceri della Vicaria nel 1674. Del personaggio, su cui torneremo, si veda il profilo biografico di G. De Caro, Campanile, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XVII, cit., pp. 409-411.^
30 Su Bombini cfr. S. Spiriti, Memorie degli scrittori cosentini raccolte da Salvatore Spiriti de’ Marchesi di Casabona Patrizio ed Accademico Cosentino dedicate all’Eccellentissimo Signor Marchese D. Bernardo Tanucci, Napoli, Nella Stamperia de’ Muzj, mdccl (1750), pp. 82-83; A. Zavarroni, Bibliotheca Calabra sive illustrium virorum Calabriae qui Literis claruerunt Elenchus ad Illustriss. et Excellentiss. Dom. Jacobum Salutium Coriolani Ducem, Neapoli, Ex Typographia Johannis de Simone, MDCCLIII (1753), p. 97; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, tomo I, Napoli, Nella Stamperia Simoniana, MDCCLXXXVII (1787), pp. 128-130. L’opera più nota del giureconsulto cosentino sono i Discorsi intorno il governo della guerra et governo domestico, Theorica dell’Agricoltura, Regimento regio, Il Tiranno et l’Eccellentia dell’humano genu, Napoli, Appresso Raimondo Amato, & Giovan du Boy compagni, 1566, poi Venetia, Appresso Francesco de Franceschi, 1583, su cui si veda S. Rota Ghibaudi, Considerazioni sul pensiero politico dei cosentini Bernardino Bombini, Giovanni Antonio Palazzo, Agostino Caputi e Flavio Fieschi, in «Calabria Nobilissima», XIX (1965), n. 49-50, pp. 1-10.^
31 Archivio di Stato di Cosenza, Fondo manoscritti, ms. B1, Commentaria Brutiorum Antiquitatum Bernardini Bombini U. J. D. Cosentinj, fol. 1r, dedica a Cosenza. La composizione del manoscritto è certamente posteriore al 1552 (data di un evento riportato nel testo) e anteriore al 1560, come si evince in particolare dal fatto che l’autore, parlando di Fra’ Gaspare del Fosso, teologo e predicatore dell’Ordine dei Minimi, lo dice soltanto vescovo di Cava, evidentemente non essendo ancora il religioso passato a ricoprire la cattedra di Reggio, di cui sarà arcivescovo, e riformatore, appunto dal 1560.^
32 Giustino, XXIII, 1, 6-9. Un’edizione coeva di Bombini: Ivstini ex Trogi Pompeii Historiis Externis Libri XXXXIIII. Veteris exemplaris beneficio repurgati, Parisiis, Ex officina Rob. Stephani Typographi Regij, MDXLIII (1543), pp. 168 segg. il passo sui Brutij.^
33 B. Bombini, Commentaria..., fol. 17r: «dico tamen Calaber populus ferocissimus bellicosusque persistit, et maxime Cosentinus cum indomitas, crudelesque gentes habeat».^
34 Ivi, foll. 3v-4v.^
35 Ivi, foll. 14v-15r. Per una storia del filofrancesismo meridionale, cfr. R. Colapietra, I Sanseverino di Salerno. Mito e realtà del barone ribelle, (Società Salernitana di Storia Patria, Collana di Studi storici salernitani, n. 1), Salerno, Pietro Laveglia Editore, 1985.^
36 Sul motivo delle «calamità», oggetto di meditazione delle cronache e storie d’Italia tra xv e xvi secolo, si veda C. De Frede, La crisi del Regno di Napoli..., cit., p. 62 e segg.^
37 Strabone, VI, 2.^
38 Un altro tema, quello della mutabilità della fortuna, comune alla riflessione degli umanisti napoletani, come Tristano Caracciolo, autore del trattato De varietate fortunae: cfr. T. Caracciolo, Opuscoli storici editi e inediti, a cura di G. Paladino, in Rerum Italicarum Scriptores, Nuova edizione riveduta ampliata e corretta con la direzione di G. Carducci, V. Fiorini, P. Fedele, t. XXII, parte I, Bologna, Nicola Zanichelli, s. a., pp. 71-105.^
39 B. Bombini, Commentaria..., foll. 49v-51r. Il testo di Pontano fu probabilmente noto a Bombini nell’edizione Ioannis Ioviani Pontani De bello neapolitano, Neapoli, ex officina Sigismundi Mayr, MDVIIII (1509). Su quest’opera di Pontano, cfr. F. Senatore, Pontano e la guerra di Napoli, in Condottieri e uomini d’arme nell’Italia del Rinascimento, a cura e con un saggio introduttivo di M. Del Treppo, («Europa Mediterranea», Quaderni 18), Napoli, Liguori, 2001, pp. 279-309, con accenni alla cupiditas rerum novarum dei contadini ribelli di Calabria.^
40 Ivi, foll. 51r-55r. La narrazione di Bombini comprende anche ricordi personali, come quello della venuta di Carlo v a Cosenza, il 7 novembre 1535: «Ego vero recordor, quod cum puer eram anno 1535 die 7 novembris vidi Carolum de Austria Romanorum Imperatorem maximum, qui per triduum cum maximo populi triumpho in Civitate Cosentina commoratus est, dum Tunisae ab expugnatione veniret, magnamque etiam Affricae partem debellavit, et quamplurimos Christianos captivos à Barbarussae manibus liberavit» (ivi, fol. 55r).^
41 La teoria della translatio imperii, da Oriente a Occidente, sarà di lì a qualche decennio oggetto di più compiuta riflessione del pensiero politico calabrese ne La monarchia di Spagna di Tommaso Campanella (1598), di cui cfr. l’edizione francese T. Campanella, Monarchie d’Espagne, Texte inédit. Traduction française par S. Waldbaum, Monarchie de France, Traduction française par N. Fabry, Textes originaux introduits, édités et annotés par G. Ernst, Paris, Presses Universitaires de France, 1997, p. 2. Sull’eredità romana nelle moderne ideologie dell’impero, si veda F.A. Yates, Astrea. The Imperial Theme in the Sixteenth Century, (London & Boston, 1975), trad. it., Astrea. L’idea di impero nel Cinquecento, Torino, Einaudi, 1978, e A. Pagden, Lords of all the World. Ideologies of Empire in Spain, Britain and France c. 1500-c. 1800, (New Haven-London, 1995), trad. it., Signori del mondo. Ideologie dell’impero in Spagna, Gran Bretagna e Francia, 1500-1800, Bologna, il Mulino, 2005.^
42 B. Bombini, Commentaria..., fol. 8v.^
43 Ivi, fol. 9v.^
44 Ivi, fol. 36r.^
45 Ivi, fol. 10v.^
46 Cfr. T. Pedìo, Storia della storiografia..., cit., pp. 375-377; A. Zavarroni, Bibliotheca Calabra..., cit., pp. 101-102; G. Lombardi, Libri e istituzioni a Roma: diffusione e organizzazione, in A. Pinelli, a cura di, Roma del Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 267-290.^
47 Gab. Barrii Francicani De Antiquitate et Situ Calabriae. Libri quinque, Cum privilegio Pii V. Pont. Max., Romae, Apud Iosephum de Angelis, 1571. Sull’opera e sul suo autore, con la pubblicazione di alcuni documenti, cfr. B. Cianflone, Gabriele Barrio storiografo calabrese del sec. XVI, in «Historica», XVI (1963), pp. 84-91.^
48 Queste e le successive citazioni sono tratte dall’edizione di T. Aceti, Thomae Aceti Academici Consentini, et Vaticanae Basilicae clerici beneficiati in Gabrielis Barrii Francicani De antiquitate et situ Calabriae libros quinque, nunc primum ex autographo restitutos ac per Capita distributos, prolegomena, additiones, & notae. Quibus accesserunt animadversiones Sertorii Quattrimani Patricii Consentini, Romae, ex Tipographia S. Michaelis ad Ripam, sumptibus Hieronymi Mainardi, MDCCXXXVII (1737), (d’ora in poi G. Barrio), p. 1: Prooemium. Sul senso di appartenenza alla comunità degli studiosi, cfr. H. Bots, F. Waquet, La République des Lettres, Paris, Belin, 1997, trad. it. La Repubblica delle lettere, Bologna, il Mulino, 2005.^
49 L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli di Lorenzo Giustiniani a Sua Maestà Ferdinando IV Re delle Due Sicilie, tomo II, Napoli, presso Vincenzo Manfredi, 1797, p. 231.^
50 G. Barrio, p. 2: Prooemium.^
51 Sulla storiografia italiana del Quattrocento, cfr. R. Black, Benedetto Accolti and the beginnings of humanist historiography, in «English Historical Review», vol. XCVI, n. 378 (January 1981), pp. 36-58; P. Burke, The Renaissance Sense of the Past, London, E. Arnold, 1969; R. Fubini, L’umanesimo italiano e i suoi storici. Origini rinascimentali – critica moderna, Milano, Franco Angeli, 2001. Pandolfo Pisano è autore di una Vita di papa Gelasio II, Roma, 1638.^
52 V. Capialbi, Gabriello Barri, in Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli ornata de loro rispettivi ritratti, compilata da diversi letterati nazionali, tomo ottavo, Napoli, Da Nicola Gervasi, MDCCCXXII (1822), che cita le critiche mosse al testo barriano dall’erudito olandese Pieter Burman (1668-1741), in Johann Georg Graevius, Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, Mari Ligustico et Alpibus vicinae; quo continentur optimi quique scriptores, qui Ligurum et Insubrum, seu Genuensium et Mediolanensium, confiniumque populorum ac civitatum res antiquas, aliasque vario tempore gestas, memoriae prodiderunt. Collectus cura et studio Joannis Georgii Graevii. Accesserunt variae et accuratae tabulae geographicae, aliaeque, ut et Indices ad singulos tomos locupletissimi, Leyden, excudit Petrus Vander, 1704-1723, t. IX, Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, quo continentur optimi quique scriptores, qui Campaniae, Neapolis, Magnae Graeciae..., p. V.^
53 G. Barrio, lib. I, cap. XVI, p. 34: «quicquid contumeliae in priscis auctoribus Brettiis aliisque Calabris attributum legitur, a falsariis maledicentissimis obtrectatoribus adscriptum, aut immutatum esse haerendum non est». Circa le accuse ai personaggi citati, cfr. lib. I, cap. XVI (Leandro Alberti, «lusciosus vulgaris scriptor Leander, qui quod Latine scribere nescisset, ingens volumen conviciis & mendaciis refertum sibi suique similibus dignum scripsit»); lib. I, cap. XX (Boccaccio, a proposito del calabro dialetto: «si Buccatius Florentinus Latinam & Graecam linguam probe calluisset, nunquam dixisset Calabros Teutonice loqui, agnovissetque Tuscos suos pessime omnium Italorum Latina lingua abuti, ac semibarbare loqui»); lib. II, cap. VII (Paolo e Aldo Manuzio, accusati di plagio nell’attribuirsi opere del cosentino Aulo Giano Parrasio); lib. III, cap. III (Francesco Maurolico, «homo Siculus, neotericus scriptor, atqui bonarum literarum nescius, Sicula vanitate ac crassitudine delibutus, infans & jejunus», il quale «blaterat» attribuendo alla Sicilia la patria di molti calabresi illustri); lib. I, cap. XVII (Raffaele Volterrano, che «divum Franciscum Paulitanum Siculum scribit»), ecc.^
54 Id., pp. 1-2: Prooemium.^
55 Id., lib. I, cap. I, pp. 3-4. Di Askenaz si fa menzione nella genealogia di Noè, Genesi, X, 3.^
56 Id., lib. I, cap. XI, p. 22.^
57 G. Galasso, L’altra Europa, cit., p. 171. Del tema, d’altronde, è rintracciabile una precisa matrice nella storiografia d’età classica, che con Appiano, Livio, Strabone, Dionigi d’Alicarnasso, Plinio il Vecchio, riprende l’idea, proveniente dalla tradizione annalistica, degli Appennini dividenti due Italie, una propriamente etrusco-latina, sul versante occidentale tirrenico, e l’altra greco-gallica, su quello adriatico-ionico, e sviluppa il topos di una «ripartizione» regionale dell’Italia: cfr. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, vol. ii, Bari, Laterza, 1966, pp. 212 segg.^
58 Sarà Sertorio Quattromani, nelle sue animadversiones al testo, a notare che non cinquecento, come scrive Barrio, ma cinquanta erano i giovani Lucani menzionati nella corretta lezione dell'epitome di Giustino, «ex antiquissimo Japini codice»: cfr. T. Aceti, T. Aceti, Thomae Aceti Academici Consentini..., p. 20.^
59 Per le fonti utilizzate da Barrio si veda Stefano Bizantino, Ethniká, sotto la voce Βρέττος; Eustazio, Commentarii in Dionysium Periegeten, 362; Jordanes, De Getarum sive Gothorum origine et rebus gestis, xxx(chiamato nel testo barriano Jernandes).^
60 G. Barrio, lib. I, cap. IX, pp. 19-20.^
61 Id., lib. I, cap. XII, p. 25, e ancora nel cap. xv. Sugli assedi alle città bruzie, fra le fonti di Barrio, cfr. Livio, Ab urbe condita, XXIII, 30; sul ritorno dei Bruzi alla sottomissione romana cita Livio, XXVII, 15, ed Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, III, 19.^
62 G. Barrio, lib. I, cap. XIII (in particolare sul tema «de Campanorum ignominia») e cap. XV, pp. 25-30.^
63 Id., lib. I, cap. XVI, pp. 31-35.^
64 Id., lib. I, cap. VI, pp. 13-14.^
65 Id., Prooemium, p. 2: «tyrannidem veris Principibus prorsus exosam semper abhorruerunt: & justitia, clementia, & liberalitate, quibus virtutibus tu quoque praestas, polluerunt». Il dedicatario dell’opera è Nicolò Bernardino Sanseverino (1541-1606), quinto principe di Bisignano, che fu interdetto dall’amministrazione dei suoi feudi per indebitamento. Suo padre Pietro Antonio, al servizio di Carlo V, aveva ospitato nel 1535 l’imperatore nel suo palazzo e tenuta di caccia di Santo Mauro presso Corigliano, quando questi risaliva il Regno dopo la presa di Tunisi. Cfr. in proposito il resoconto del cronista seicentesco D. Martire, Calabria sacra e profana di Domenico Martire Cosentino, in Archivio di Stato di Cosenza, ms. C1, vol. II, tomo I, fol. 196r e v.^
66 Sulle vicende dei Sanseverino di Bisignano, cfr. M. Pellicano Castagna, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calabria, vol. I, Chiaravelle Centrale, Edizioni Frama Sud, 1984, pp. 222-229 (Bisignano), vol. II, Catanzaro Lido, Editrice C.B.C., 1996, pp. 252-254 (Francica); G. Galasso, Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Napoli, Guida, 19923, p. 33.^
67 G. Barrio, lib. I, cap. XXI. De Calabriae ubertate, ac felicitate, pp. 42-46: il motivo della «Calabria optima» viene declinato a partire dall’etimologia (Calabria, da calo, cioè bono, e da brio, scaturio: scaturigine di ogni bene), poi attraverso l’argomentazione che Messina non può vivere senza gli approvvigionamenti calabresi, proseguendo con la magnificazione della «cerealium inaudita fecunditas», delle selve boschive dei monti, delle valli di pascoli, perenni corsi d’acqua, greggi ed armenti, delle acque termali, del mare pescoso, delle manifatture, della seta e del vino, dell’olio e dei giardini, fino alla celebrazione degli ingegni calabresi in ogni campo dello scibile, per i quali la regione supera ogni altra d’Italia, «Latio excepto ob Romae majestatem».^
68 Id., lib. I, cap. XII, p. 49: «enimvero multae clarae Urbes molestissimas excussere e cervice bipennes, quod durae servitutis jugum ferre non valerent». Tra le rivolte antifeudali del Cinquecento studiate da C. De Frede, Rivolte antifeudali nel Mezzogiorno d’Italia durante il Cinquecento, in Studi in onore di Amintore Fanfani, vol. V. Evi moderno e contemporaneo, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 1-42, alcune investono i nuovi feudatari subentrati ai Sanseverino sulle terre vendute dello stato di Bisignano.^
69 M.A. Politi, Cronica della nobil’e fedelissima Città di Reggio. Composta da Marc’Antonio Politi della detta Città filosofo, e medico, Messina, appresso Pietro Brea, MDCXVII (1617), su cui rinvio a F. Campennì, Le storie di città..., cit., pp. 79-80.^
70 G. Barrio, lib. I, cap. XIV, pp. 27-28.^
71 Sui temi della filosofia del buon governo si veda la raccolta di saggi a cura di C. Continisio, C. Mozzarelli, Repubblica e virtù. Pensiero politico e Monarchia Cattolica fra xvi e xvii secolo, Atti del Convegno (Milano, 4-6 ottobre 1993), Roma, Bulzoni, 1995.^
72 B. Bombini, Commentaria..., fol. 51v.^
73 S. Quattromani, Istoria della città di Cosenza di Sertorio Quattromani, Biblioteca Civica di Cosenza, ms. 20187 (miscellanea di scritture storiche). Si tratta di copia tardo-settecentesca e non si ha notizia di precedenti esemplari. L’attribuzione a Quattromani del testo contenuto nel ms. è convalidata dalla tradizione (dal titolo stesso sul frontespizio) e da diversi riferimenti interni (a libri della biblioteca di famiglia, a biblioteche e amicizie frequentate a Roma e Napoli). Nella trattazione finale dei cosentini illustri, l’autore parla di se stesso, e di suo padre Bartolo Quattromani, in terza persona. Per ulteriori approfondimenti dei vari temi trattati in quest’opera, rinvio a F. Campennì, Le storie di città..., cit., pp. 87-91. Alla sua storia di Cosenza, Quattromani fa riferimento nell’epistolario: cfr. S. Quattromani, Scritti, a cura di F.W. Lupi, Rende, Centro Editoriale e Librario, Università degli Studi della Calabria, 1999, p. 44, e la bibliografia di riferimento, pp. LXIX-LXXVII. La datazione da me proposta per la composizione dell’opera dipende dalla citazione del libro di Barrio (edito nel 1571) e dalla menzione che Quattromani fa del suo lavoro scrivendo al concittadino Fabrizio di Gaeta, il 23 gennaio 1588.^
74 Per la biografia di Quattromani cfr. S. Spiriti, Memorie degli scrittori..., cit., pp. 108-112.^
75 S. Quattromani, Istoria..., fol. 29r e v.^
76 Ivi, fol. 40r (nel par. «Perché i Cotronesi non vollero imparentarsi co’ i Brutij»).^
77 Ivi, fol. 32v (nel par. «Che i Brutij non ricevettero volentieri Annibale ne i loro paesi, e che alcuni Brutij non passarono in Africa con lui di lor volere»).^
78 Su questo caso, rappresentato dall’opera di G.B. di Nola Molisi, Cronica dell’Antichissima, e Nobilissima Città di Crotone, e della Magna Grecia, Napoli, per Francesco Savio, 1649, pp. 191-206, cfr. F. Campennì, La patria e il sangue. Città, patriziati..., cit., p. 152.^
79 S. Quattromani, Istoria..., fol. 64r. Sull’uso di una terminologia del corpo sociale e politico e delle sue componenti, cfr. P. Burke, Cultura e società..., cit., pp. 191-194. Le raffigurazioni stereotipe cittadine degli abitanti della campagna, che si diffondo in molti paesi europei a partire dal Tre e Quattrocento con l’aumento dell’urbanizzazione, identificano nel «villano» un tipo umano grottesco, negativo, dai tratti e dai gesti volgari e incivili: cfr. Id., Eyewitnessing. The Uses of Images as Historical Evidence, London, Reaktion Books, 2001, trad. it., Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Roma, Carocci, 2002, pp. 159-161. Sulla reazione aristocratica e borghese ai movimenti contadini e alle sollevazioni della plebe urbana nella Francia del xvi e xvii secolo, B.F. Porchnev, Lotte contadine e urbane nel grand siècle, (Paris, 1972), Milano, Jaca Book, 1976.^
80 S. Quattromani, Istoria..., fol. 2v.^
81 Ivi, fol. 35r.^
82 Ivi, foll. 1r-5v.^
83 Ivi, fol. 7r.^
84 Sul trattato di Agostino Caputo, De regimine Reipublicae. Tractatus fertilis, quo omnia ferè, quae Politicam Nobilitatis, Immunitatis, Statutorum, Gabellarum, Collectarum, Annonae, aliarumvè rerum ad Universitatum Gubernium materiam congerunt, continetur authore Augustino Caputo Viro Patritio, et I. C. Consentino, Neapoli, Apud Lazarum Scorriggium, 1622, cfr. F. Campennì, La patria e il sangue. Città, patriziati..., cit., pp. 444-451.^
85 J.-P. Labatut, Les noblesses européennes de la fin du XVe à la fin du XVIIIe siècle, Paris, Presses Universitaires de France, 1978, trad. it., Le nobiltà europee dal XV al XVIII secolo, Bologna, il Mulino, 1982, p. 84.^
86 S. Quattromani, Istoria..., fol. 5r-6v.^
87 Ivi, fol. 7v.^
88 Alcuni casi di collezionismo antiquario unito al possesso di ricche biblioteche domestiche, sono riscontrabili in questo periodo, ad esempio, a Monteleone: cfr. G. Namia, Formazione e consistenza della biblioteca Capialbi di Vibo Valentia, in N. Provenzano (a cura di), Per il decennale della Biblioteca Calabrese di Soriano Calabro. 1981-1991, Reggio Calabria, Jason Editrice, 1991, pp. 125-140. Sull’uso delle «anticaglie» (tesrimonianze materiali, reperti e monete del mondo antico) come fonti del discorso antiquario e delle moderne ricostruzioni genealogiche, cfr. R. Bizzocchi, Genealogie incredibili..., cit., pp. 142-143.^
89 Sulla conoscenza dei classici e della moderna letteratura classicista, cfr. A. Grafton, L’umanista come lettore, in G. Cavallo e R. Chartier, a cura di, Storia della lettura nel mondo occidentale, Roma-Bari, Laterza, 20043, pp. 199-242. In particolare sulla ricca biblioteca di Quattromani, C. De Frede, I libri di un letterato calabrese del Cinquecento: Sertorio Quattromani. 1541-1603, (Quaderni dell’Accademia Pontaniana, 26), Napoli, Accademia Pontaniana, 1999.^
90 Tra cui cita quella di S. Giovanni a Carbonara.^
91 Nel De verborum significatione, XV, 3. Vissuto probabilmente nel ii secolo d. C., Festo è autore di un compendio in venti libri dell’opera di Verrio Flacco De verborum significatione, compendio di cui a sua volta farà un’epitome Paolo Diacono. Un’edizione di Festo dell’epoca di Quattromani (peraltro presente in alcune biblioteche di famiglie calabresi) è Sex. Pompei Festi de verborum significatione fragmentum ex vetustissimo exemplari Bibliotecae Farnesianae Descriptum, Florentiae, Apud Iunctas, MDLXXXII (1582).^
92 S. Quattromani, Istoria..., fol. 22r (nel par. «Che non è vero, che furono chiamati Bilingues perché sono Traditori»).^
93 Ivi, fol. 41v.^
94 Dell’opera di Niccolò Perotto (Fano, 1429 - Sassoferrato, 1480), un commento a Marziale comparato che si traduce in una trattazione minuziosa della lingua latina, le numerose edizioni, per tutto il ’500, testimoniano la grande fortuna. Sui Bruzi bilingues, cfr. Nicolai Perotti Cornucopiae: sive Commentariorum linguae latinae, Venetiis, per Magistrum Paganinum de Paganinis brixiensem, MCCCCLXXXVIIII (1489), p. 85r e v: «Bilingues etiam pro fallaci accipimus hoc vitium ad mentem referentes. [...] Brutii appellati: quod quasi Bruti, & obscoeni sunt. Brutum enim dicitur, quod tardum stolidum & sine sensu est [...]. A Brutiis Brutiani dicti: qui officia servilia magistratibus praestabant eo quod hi primum se Annibali tradiderunt, & cum eo perseveraverunt, quousque ex Italia recederet».^
95 S. Quattromani, Istoria..., fol. 29v e segg. (nel par. «Che non è vero, che i Brutij siano stati sempre fermi nell’amicizia de Cartagginesi, mentre Annibale stette in Italia»). Di Gellio, in particolare, Quattromani non ritiene, al contrario di Barrio, che il suo testo sia giunto corrotto, «perché – scrive – egli (si) mostra molto odioso verso i Brutij, e non solo procaccia di spogliarli de i proprj pregi, ma tenta anco di addossar loro di quelle macchie, che non possano (lavarsi) con tutte l’acque di Chrati. Ed alla fine, egli non fu altro, che un Grammatico, e per la poca sua dottrina non ha potuto far di meno, che in quelle sue notti non abbia spesso dormito, e sonnacchiato»; e poi, a proposito della condanna dei Bruzi a mestieri vili: «Et (in) un Gellio di Pietro Bembo, che mi mostrò a Roma Torquato Bembo degno figliuolo d’un tanto Padre, vi è scritto su questo luogo, e di man propria del Bembo [...], che questo era un sogno di Gellio» (ivi, fol. 34r e v, nel par. «Che non è vero, che i Brutij siano stati dannati in mistieri vili, ed abominevoli»).^
96 Ivi, foll. 22r (Colonna), 42r-43r (Lipsio, Scaligero, Gilprando), 43r (Orsini). Altri luoghi della querelle filologica: circa la cattiva interpretazione di un passo del De finibus di Cicerone, nel par. «Che non è vero, che i Cosentini siano ignoranti e di poche lettere», ivi, foll. 38r-40r; contro il tedesco Simon Bosio, commentatore delle epistole di Cicerone ad Attico, fol. 48r. Accusato di plagio e di non conoscere il greco è Girolamo Ruscelli, curatore di un’edizione dell’Annibalica di Appiano (fol. 43r); nel par. «Difesa contra il Ruscelli delle calunnie, che apporta contra i Brutij» (foll. 50r-51v) si attacca la sua traduzione della Geografia di Tolomeo. Della Storia romana di Appiano, tradotta da Ruscelli, e delle epistole ciceroniane emendate da Bosio, segnalo le seguenti edizioni, molto probabilmente consultate da Quattromani: Tre libri d’Appiano Alessandrino cioè della guerra che i romani fecero in Ispagna, tradotto già da M. Alessandro Braccio secretario Fiorentino. Et della guerra fatta da Romani contra gl’Illirij, con quella che Annibale fece in Italia. Novamente tradotti di greco in italiano dal signor Girolamo Ruscelli, In Vinegia, appresso Camillo Franceschini, 1575; e poi, In Vinegia, appresso Giacomo Bendolo, 1584; M. Tullii Ciceronis Epistolae ad T. Pomponium Atticum ex fide vetustissimorum codicum emendatae, studio & opera Simeonis Bosii Praetoris Lemouicensis. Eiusdem Animadversiones..., Ratiasti Lemouicum, Apud Hugonem Barboum, 1580; Animadversiones Simeonis Bosii Praetoris Lemouicensis, in Epistolas M.T. Ciceronis ad T. Pomponium Atticum..., Antuerpiae, Apud Christophorum Plantinum, 1585.^
97 S. Quattromani, Istoria..., fol. 32v.^
98 Ivi, fol. 40v.^
99 Questo tema è anche in Barrio, nel De Calabriae planctu; in particolare, l’episodio dell’assedio saraceno di Cosenza è ripreso da Quattromani dal poema Rhodo del patrizio Antonio Telesio (zio del filosofo Bernardino).^
100 S. Quattromani, Istoria..., cap. 3: «Degli honori, et dignità di Brutij, et Cosenza», foll. 8r-20v, e in particolare per le citazioni, foll. 13r e segg. (asiatici effeminati), 17v (cronaca antica e assedio saraceno), 18v (nome di Italia), 19v-20r (capo del Regno, statua), 20r (san Paolo e arcivescovi).^
101 F. Thomae Campanellae Calabri de Stylo, Ordinis Praedicatorum Philosophia, sensibus demonstrata, in Octo Disputationes distincta, Neapoli, Apud Horatium Salvianum, 1591.^
102 G.A. Marta, Pugnaculum Aristotelis adversus principia Berardini Telesii, Romae, Typis Bartholomaei Bonfandini, 1587.^
103 Nel De Politica, cap. III, 1-3, Campanella, discutendo delle «varie specie di stati e di regimi», avrà modo di scrivere: «Per natura comanda chi eccelle in virtù; per natura serve chi è inferiore per virtù oppure ne è privo. Dove avviene il contrario, il dominio è violento», e subito dopo: «La precedenza nelle cose politiche o è in riferimento al valore dell’animo, o del corpo, o di entrambi. [...] Meglio domina chi è eccellente in entrambi, come Cesare»; cfr. T. Campanella, De Politica, (Parisiis, 1637), a cura e con traduzione di A. Cesaro, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2001, p. 59.^
104 Ivi, cap. III, 9, 10, 12, pp. 63, 67, e cap. XIV, 2, pp. 207-209. Sull’antimachiavellismo di Campanella, cfr. G. Ernst, «Bene e naturalmente domina solo la sapienza». Natura e politica nel pensiero di Campanella, in C. Continisio, C. Mozzarelli, Repubblica e virtù..., cit., pp. 227-241; M. Viroli, Dalla politica..., cit., pp. 173-175.^
105 Per una riflessione sulla vasta letteratura europea, prodotta tra la fine del ’500 e la seconda metà del ’600, sul tema della ribellione e della sua possibile legittimità, cfr. R. Villari, Il ribelle, in Id., a cura di, L’uomo barocco, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 109-137. Sul diritto di resistenza, A. De Benedictis, Identità comunitarie e diritto di resistere, in T. Prodi e W. Reinhard, Identità collettive tra Medioevo ed Età Moderna. Convegno internazionale di studio, Bologna, CLUEB, 2002, pp. 265-294; Ead., Resistere: nello Stato di diritto secondo il diritto “antico”, nell’Europa del “diritto al presente”, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XXXI (2002), pp. 273-321.^
106 V. Capialbi, Documenti inediti circa la voluta ribellione di F. Tommaso Campanella, Napoli, dalla Tipografia di Porcelli, 1845, rist. anast., Cosenza, Brenner, 1987.^
107 G. Marafioti, i edizione: Opera del R. P. Fra Girolamo Marafioti di Polistina, dell’Ordine de’ Min. Oss. Delle croniche, et antichità di Calabria, secondo le città, habitationi, luoghi, monti, fiumi, e fonti di quella, con l’historie di tutti gli huomini illustri Calabresi, quali in diverse scienze, & arti fiorirno, col Catalogo de gli Beati, e Santi. All’Illustriss. et Eccellentissimo Signore Don Hettore Pignatello, Duca di Monteleone &c., Napoli, Nella Stamperia dello Stigliola a Porta Regale, MDXCV (1595); ii edizione, che fu più nota e diffusa: Croniche, et Antichità di Calabria. Conforme all’ordine de’ Testi Greco; & Latino, raccolte da’ più famosi Scrittori Antichi, & Moderni, ove regolatamente sono poste le Città, Castelli, Ville, Monti, Fiumi, Fonti, et altri luoghi degni di sapersi di quella Provincia. Et si dichiarano i luoghi delle Miniere, Tesori, e natività delle Piante: Per l’autorità di Timeo, Liconio, e Plinio: Et anco di Gabriello Barrio Francicano. Dal R. P. F. Girolamo Marafioti da Polistina Teologo, dell’Ord. de’ Min. Osservanti, Padova, appresso Lorenzo Pasquati, ad Instanza de gl’Uniti, MDCI (1601).^
108 G. Fiore, Della Calabria Illustrata Opera varia istorica del R. P. Giovanni Fiore da Cropani... Tomo Primo. In cui, non solo regolatamente si descrive con perfetta Corografia la Situazione, Promontorj, Porti, Seni di Mare, Città, Castella, Fortezze, Nomi delle medesime, e lor Origine, mà anche con esatta Cronologia si registrano i Dominanti, l’antiche Republiche, e fatti di Armi in esse accaduti, dagli anni del Mondo 306. sin al corrente di Cristo 1690. Con i racconti delle vicendevoli mutazioni, e fatti di armi successi, trà l’uno, e l’altro Impero. E di più molti Personaggi Illustri in Santità, Dignità, e Lettere si restituiscono alla Calabria loro Madre, con l’Iscrizzioni Greche, Latine, Medaglie, e loro esplicazioni, tratte da più Classici Scrittori, Antichi, e Moderni, (a cura e con aggiornamenti di Fra’ Giovanni da Castelvetere Predicatore cappuccino), Napoli, per li Socij Dom. Ant. Parrino e Michele Luigi Mutij, MDCXXXXI (1691). Per una biografia di Fiore, cfr. V. Capialbi, F. Giovanni Fiore da Cropani, in Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, cit., tomo duedecimo, Napoli, Da Nicola Gervasi, MDCCCXXVII (1827). Il terzo tomo di Fiore è edito a cura di U. Ferrari, Chiaravalle Centrale, Frama Sud, 1977. Per una riflessione complessiva sull’opera, F. Cozzetto, Territorio, istituzioni e società nella Calabria moderna, Napoli, Guida, 1987, pp. 127-146.^
109 G. Fiore, Della Calabria Illustrata... Tomo Primo..., cit., preambolo: «L’Auttore a chi legge».^
110 Ibidem: l’autore ha come fine «sopra tutto il profitto de’ Prossimi, per animarli colla lettura di questi Libri; al maneggio onorato delle Armi, se Cavalieri; allo studio delle buone lettere, se Studiosi; al buon servizio delle Chiese, se Ecclesiastici; alla Santità della Vita, se Religiosi».^
111 Ibidem.^
112 Ivi, p. 49 (nel Discorso v dell’Apparato dell’Opera: «Descrizzione della Naturalezza del costume, e qualità dell’Idioma nella Calabria», par. I: «Costumi, & Inclinazioni Naturali de’ Calabresi»).^
113 S. Quattromani, Istoria..., foll. 51r (Ruscelli) e 52r (Crinito). Per l’opera di Crinito, Petri Criniti Commentarii de honesta disciplina, Florentie, opera & impensa Philippi de Giunta bibliopole Florentini, 1504, pubblicato in numerose successive edizioni (Firenze, 1505; Parigi, 1510, 1513, 1518; Lione, 1543, 1554, 1561, 1585); cfr. la più recente edizione, De honesta disciplina, a cura di C. Angeleri, Roma, Bocca, 1955.^
114 G. Fiore, Della Calabria Illustrata... Tomo Primo..., p. 54 (nel Discorso iv dell’Apparato dell’Opera: «Biasimi calunniosi...», cit.). Dell’opera di G. Campanile, Notizie di nobiltà, Lettere di Giuseppe Campanile Accademico Vmorista, & Ozioso. Dirizzate, all’Illustris., et Eccell. Sig. D. Bartolomeo di Capova Principe della Riccia, e Gran Conte di Altavilla &c., Napoli, Per Luc’Antonio di Fusco, 1672, contestate da Fiore sono le pp. 286-320: «Notizia decima quarta. Meraviglie Prodigiose di Valle di Crate, e Terra Giordana, con le notizie di tutte le Famiglie nobili della Città di ambo le Provincie. All’Illustrissimo Signore Don Niccolò di Costanzo».^
115 Fiore lo definisce «Uomo di varia letteratura [...] mà poco felice, essendo il disastroso suo caso à tutti ben noto, qual potrebbe bastare per difesa delle sue, ò maldicenze, ò calunnie» (Della Calabria Illustrata... Tomo Primo..., p. 54).^
116 Oggetto della disputa i versi di Virgilio, Aeneidos, III, 396-398.^
117 L. Alberti, Descrittione di tutta Italia di F. Leandro Alberti Bolognese, nella quale si contiene il Sito di essa, l’Origine, & le Signorie delle Città, & delle Castella, co i Nomi Antichi & Moderni, i Costumi de Popoli, le Condicioni de Paesi: et più gli Huomini Famosi che l’hanno illustrata, i Monti, i Laghi, i Fiumi, le Fontane, i Bagni, le Miniere, con tutte l’Opre maravigliose in lei dalla Natura prodotte, In Bologna, per Anselmo Giaccarelli, MDL (1550), p. 180r.^
118 G. Fiore, Della Calabria Illustrata... Tomo Primo..., pp. 55 (versi virgiliani), 58 (tumulti napoletani), 60-61 (case annerite e maleodoranti). Per un riscontro dei passi “incriminati”, cfr. G. Campanile, Notizie di nobiltà..., cit., pp. 288-289.^
119 Contrasterà questa accusa, dedicandole un’ampia trattazione sul finire del XVII o al principio del XVIII secolo, l’opera, rimasta manoscritta, di Domenico Martire, Calabria sacra e profana, cit., vol. II, tomo II, fol. 687v e segg. (nel Libro ultimo, Capo terzo e ultimo: «Di quanto a torto s’imputa alla Natione Calavrese», par. 2°: «I Calavresi non intervennero nella Passione di Cristo Signor nostro»). Su questo autore, decano del capitolo cattedrale di Cosenza, vivente nel 1688, cfr. S. Spiriti, Memorie degli scrittori..., cit., p. 166.^
120 Cfr. A. Placanica, Calabria in idea, cit., p. 592 e note 16 e 17.^
121 G. Fiore, Della Calabria Illustrata... Tomo Primo..., pp. 58-59 (Bruzi crocifissori e miracoli del Calvario).^
122 Ivi, p. 72 (Libro I: «Calabria abitata», cap. III: «Popolazioni più principali della Calabria», par. V: «Popolazione quinta di Calabria», dove Fiore si basa soprattutto sui Fragmenta Etruscarum Antiquitatum di Curzio Inghiramo), e anche a p. 34 (Discorso III dell’Apparato: «Descrizzione de’ Nomi della Calabria, lor origine, e tempo», par. VIII: «Del Nome di Brettia»). Fiore preferisce, come già gli autori che lo hanno preceduto nell’argomento, il nome Brezi, che riscontra nelle antiche monete, a quello di Bruzi, che ritiene frutto della successiva corruzione dei detrattori dei Calabresi. Sulla distinzione tra Brezi antichi e nuovi introdotta da Fiore si sofferma, nel quadro di una puntuale rassegna sugli scrittori d’età moderna che si occuparono dei Bruzi, M. Intrieri, I Brettii negli eruditi calabresi fra ’500 e ’700, in G. De Sensi Sestito, a cura di, I Brettii, Tomo I. Cultura, lingua e documentazione storico-archeologica, Atti del 1° Corso seminariale (Rossano, 20-26 febbraio 1992), Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995, pp. 299-310, p. 309.^
123 G. Fiore, Della Calabria Illustrata... Tomo Primo..., p. 74 (Appendice II).^
124 Ivi, p. 75.^
125 Ivi, prime pp. non numerate dopo il frontespizio: Dedica di Fra’ Giovanni da Belvedere, ministro provinciale dei Cappuccini della provincia di Napoli.^
126 Ivi, p. 5, dove Fiore cita un passo di Giovan Battista di Nola Molisi: «che questa Magna Grecia, anzi tutta la Calabria sia la migliore Reggione del mondo, non solo di tutta Italia, e come un’altra India di ogni cosa ricchissimamente abbondante»; p. 51 e pp. 251-290, corrispondenti al Libro secondo: «Della Calabria Fortunata».^
127 Il rapporto tra “locale” e “globale” nel contesto della planetaria dominazione spagnola, è oggetto della riflessione di S. Gruzinski, La mescolanza dei mondi della Monarchia Cattolica o le origini iberiche della mondializzazione, in O. Lentini, a cura di, Pensare il mondo, Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 33-52.^
128 Le principali trattazioni apologetiche, storico-antiquarie e descrittive sulla regione, prodotte tra la fine del Seicento e il Settecento, sono quelle di D. Martire, Calabria sacra e profana, cit.; T. Aceti, Prolegomena. Dissertatio de Primis Calabriae Coloniis, preposti all’edizione Thomae Aceti... in Gabrielis Barrii Francicani De antiquitate et situ Calabriae..., cit., pp. XV-XLV; P. Polidoro, Bruttii a calumnia de inlatis Jesu Christo Domino Nostro tormentis et morte vindicati Dissertatio Petri Polidori Frentani, Romae, ex Tipographia S. Michaelis ad Ripam, sumptibus Hieronymi Mainardi, MDCCXXXVII (1737); G. Pulicicchio (il cui nome è tuttavia omesso nell’edizione curata dal nipote Geniale Posterario), De tortoribus Christi Domini quinam fuerint, & undegentium extiterint. Liber industria sacerdotis Genialis Posterarj in lucem editus, et Illustrissimo Domino D. Claudio Civitate dicatus, Neapoli, Ex nova Typographia Angeli Vocola, MDCCXXXI (1731); A. Zavarroni, Angeli Zavarroni J. C. Montaltini inter Incultos Aridaldi Epistolae Duae apologetico-criticae quibus pro Veritate, pro Patria, proq; Calabris Autoribus, aliisque nuperrimae Dissertationes Anonymi Scriptoris: De tortoribus Christi &c. in lucem editae industria cujusdam Genialis Posterarj examinantur. Ad Reverendiss. Dom. Angelum Cairo Sac. Theol., & Canon. Jur. Professorem, Prothonotarium Apostol. &c. inter Incultos Philoëunomium, Venetiis, Apud Joannis Manfrè, MDCCXXXIV (1734); il canonico reggino Giuseppe Morisani lascia manoscritto, nella seconda metà del secolo, un libro di Antiquitatum Veterum Bruttiorum che riepiloga eruditamente gli antichi dibattiti sulle origini e le gesta del popolo bruzio (una copia è custodita nella Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III» di Napoli, Manoscritti Brancacciani, Ms. IX G 39, comprendente il liber primus, suddiviso in dieci diatribae; un’altra è in Biblioteca Comunale «Pietro De Nava» di Reggio Calabria, Sezione manoscritti, ms. 9/A).^
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