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Verso il 13 aprile: l’Italia dopo Spagna e Francia
di G. G.
A un mese dalle elezioni italiane del 13 aprile si sono svolte le elezioni per il nuovo Parlamento in Spagna e quelle amministrative in Francia. Il risultato è stato diverso e uguale al tempo stesso. Diverso perché nelle elezioni spagnole è stato premiato il governo di Zapatero laddove in Francia lo schieramento al governo appare punito dagli elettori, e il presidente Sarkozy esce dal verdetto delle urne con un po’ di penne bagnate. Uguale, perché nell’uno e nell’altro caso è la sinistra meno estremista a essere stata confortata dai risultati elettorali.
I commentatori hanno insistito sulla politica fortemente innovatrice del governo Zapatero, in un paese delle tradizioni della Spagna, in materia di diritti civili, con il riconoscimento, in pratica, del matrimonio fra omosessuali e, in ultimo, con un notevole ampliamento dei diritti delle donne nello stesso campo del diritto di famiglia. Sono stati atti coraggiosi, realizzati con una decisione che non è troppo consueta nei governi dei paesi a regime parlamentare con maggioranze di coalizione, quale appunto era quello di Zapatero che si è presentato al giudizio degli elettori.
Non appare, però, per nulla da sottovalutare l’importanza che sull’orientamento del corpo elettorale ha sicuramente avuto la fase di prosperità economica e di alquanto sostenuto sviluppo che la Spagna sta attraversando da alcuni anni, e il cui merito – nella misura in cui di merito del governo si tratta – va ampiamente riconosciuto all’azione del precedente governo a maggioranza popolare. Quel governo era guidato da Aznar e che appariva saldamente in sella e destinato a rinnovare la sua prevalenza nelle precedenti elezioni, e fu invece travolto da un esito elettorale imprevisto, fortemente condizionato dall’attentato dei terroristi islamici nella metropolitana di Madrid quasi alla vigilia di quelle elezioni e dal non saggio comportamento dello stesso Aznar e del suo governo in quella drammatica occasione. Ben più: la fase tanto positiva dell’economia spagnola risale nei suoi inizi anche al di là del periodo di governo di Aznar; risale addirittura agli ultimi anni del regime di Francisco Franco, quando il vecchio
caudillo preparò il ritorno della monarchia e cominciò ad aprire il paese a nuovi contatti e rapporti col mondo esterno, ossia col mondo occidentale, che nel lungo esercizio della sua dittatura aveva severamente ostacolato. La regola delle elezioni è, però, sempre (o dovrebbe essere sempre) la stessa: se le cose vanno bene, i risultati favoriscono il governo in carica, e viceversa. E, poiché in Spagna le cose sono andate in questi anni indubbiamente bene, non sorprende che le urne abbiano favorito l’uscente governo di Zapatero. A nostro parere, questo elemento ha giocato nelle elezioni spagnole un ruolo alquanto più determinante di quello attribuito alla politica dello stesso Zapatero in materia di diritto di famiglia.
Per la Francia, la battuta d’arresto fatta registrare dalla maggioranza del presidente Sarkozy è stata altrettanto generalmente attribuita non alla politica, bensì alla condotta personale del Presidente nelle sue questioni matrimoniali. Può darsi che sia così, e che, effettivamente, molti francesi siano stati sensibilia quello che è apparso un, in verità, non troppo
dolce stil novo del capo dello Stato per quanto riguarda i suoi affari privati. Non saremmo troppo disposti, però, ad attribuire a questo elemento un peso eccessivo. In alcune grandi città la vittoria è toccata al primo turno sia alla destra che alla sinistra: così a Bordeaux e a Lione. Ma si trattava, nell’uno e nell’altro caso di conferme. In nessun altro caso di rilievo l’opposizione si è imposta clamorosamente al primo turno. Pensiamo, perciò, che anche in Francia siamo di fronte a una situazione più complessa di quella della semplice ripercussione del gossip su monsieur le Président. In Francia, infatti, non meno che in altri paesi europei, non si naviga nella migliore stagione dell’economia e delle questioni sociali. Non avrà avuto, questo elemento, un peso maggiore del gossip?
Quel che, tuttavia, merita di essere sottolineato come indicazione generale di questa domenica elettorale in due paesi dell’importanza della Francia e della Spagna è che in entrambi, e in Spagna molto più chiaramente che nel caso francese, si è potuta registrare una netta tendenza a una concentrazione del voto sui due partiti maggiori. Si è, quindi, avuto, di conseguenza, un certo ridimensionamento dei partiti minori, che in Spagna ha colpito anche il “terribile” partito indipendentista basco e in Catalogna gli autonomistiestremisti, risparmiando appena gli autonomisti moderati, mentre la
Izquierda Unida ha subìto uno scacco tale che il suo leader ha senz’altro parlato di fallimento.
Vuol dire, questo, che i paesi latini si vanno allineando al tipo di regime bipartitico prevalente in Inghilterra e in Germania? Così sembrerebbe di dover pensare, se anche in Italia il 13 aprile si dovesse registrare un’analoga concentrazione degli elettori sui due partiti maggiori. E sarebbe, senza alcuna possibilità di dubbio un grande passo avanti verso una omogeneizzazione del comportamento elettorale nei maggiori paesi europei almeno per quanto riguarda quell’elemento, fondamentale del gioco politico in ogni tipo di regime, ma in un libero regime parlamentare ancor più importante, che è l’alternativa tra un prevalente bipartitismo e un deciso multipartitismo. Una molteplicità di partiti quale, per intenderci, soprattutto nei paesi latini si ritrova per antica tradizione storica e per una forza di permanenza dimostratasi finora invincibile da qualsiasi sviluppo del contesto storico-politico.
Non occorre, forse, dire quanto una tale modificazione dei comportamenti elettorali, con le relative conseguenze nella dialettica politica che fatalmente lo accompagnerebbero, sarebbe per l’Italia di un’ancor più immediata e sconvolgente novità e importanza. Qui non è in gioco, come troppo spesso conformisticamente si ripete, una modernizzazione del regime politico italiano. Vi sono paesi modernissimi ed efficienti nella loro consolidata struttura politico-istituzionale, in cui il multipartitismo è stato ed è presente, e perdura sostanzialmente indiscusso. Così è in Svizzera, così è in Olanda. È in gioco, invece, una necessità funzionale che il sistema politico italiano ha sempre lamentato come una sua ragione di problematicità, di incertezza, e addirittura di precarietà, oltre che, con certezza, di instabilità.
Già altre volte questa rivista ha parlato del problema, deprecando, in particolare, che una tale fin troppo evidente necessità funzionale fosse avversata e la sua soddisfazione indefinitamente procrastinata in nome di una causa dall’apparenza innocente, anzi nobile, qual è quella della difesa dell’innegabile varietà e molteplicità delle culture politiche che caratterizza l’Italia come un po’ tutti i paesi europei, ma l’Italia alquanto di più. E la deprecazione era (ed è) dovuta al fatto che troppo spesso sotto il manto delle culture da difendere si celavano (e, per lo più, mal si celavano) interessi che in nessun modo si potevano definire di ampia portata e, per lo più, neppure di buona qualità. Se ora vi si fosse giunti, sarebbe senz’altro da riconoscere pure che vi si arriva per una iniziativa politica determinata dalla formazione di due nuove grandi formazioni politiche, l’una sulla destra e l’altra sulla sinistra dello schieramento politico nazionale. Il merito viene dato da tutti ai due
leaders che oggi capeggiano le due formazioni, cioè Veltroni e Berlusconi. Non bisogna, tuttavia, dimenticare che l’iniziativa di un più largo raggruppamento delle forze politiche italiane nacque a sinistra con Prodi e con Fassino e a destra con Berlusconi, il quale fu, anzi, il primo a lanciare l’idea, nel suo settore politico, del partito unico del centro-destra (per cui allora fu osteggiato e quasi deriso non solo da Casini, ma anche da Fini, che parlò di «comiche finali»). In altri termini, si resta un po’ incerti se nell’eventuale avvio a un effettivo bipartitismo in Italia abbia giocato di più l’interesse di determinati gruppi politici a egemonizzare più strettamente un certo spazio politico, oppure davvero l’esigenza di una maggiore funzionalità del sistema politico. Naturalmente, quel che più conta non è poi questo, ma l’affermarsi o non affermarsi del bipartitismo anche in Italia. Il nostro auspicio è che una tale affermazione vi sia, anche se sia Veltroni che Berlusconi non hanno rispettato come avrebbero dovuto la loro petizione di una forte concentrazione unitaria delle forze politiche italiane. Veltroni, che aveva lanciato lo slogan del «soli alle urne!», ha imbarcato nelle liste del neonato Partito Democratico il partitino personale di Antonio Di Pietro e un certo numero di esponenti radicali. Berlusconi ha fatto altrettanto, anche se può vantare il non piccolo successo di aver fatto accettare appieno il suo progetto politico da Fini e da Alleanza Nazionale.
Neppure la composizione delle liste appare particolarmente commendevole. Il rinnovamento è stato – non c’è dubbio – alquanto largo, ma i criteri con cui lo si è attuato non appaiono affatto ispirati a una soddisfacente chiarezza e alle esigenze funzionali imposte da un programmatico superamento dell’invecchiata composizione della classe politico-amministrativa del paese che tutti lamentano. Inoltre, ci si è molto concentrati, sebbene senza sufficiente coerenza, sul fatto anagrafico e sul numero delle legislature finora fatte. Lo svecchiamento consisteva soltanto in questo campo dell’anagrafe naturale e parlamentare? Amiamo credere di no. E, infine, una larga insoddisfazione hanno anche lasciato i programmi dei partiti, che, pur contenendo molte indicazioni pregevoli, hanno dato l’impressione di essere, ancora una volta, troppo generalisti e troppo “fatti per tutti”, sicché non se ne trae una indicazione netta e chiara su quel che sarà poi l’effettiva linea di condotta della forza politica che prevarrà, e questo forse – bisogna riconoscerlo – per la sinistra ancora più che per la destra.
Soltanto all’indomani delle elezioni sarà possibile un bilancio completo di questi varii elementi di cui si compone la problematica politica che passa ora al vaglio dell’esame elettorale di una quarantina di milioni di votanti (a meno che non vi siano fenomeni di astensionismo particolarmente consistenti). Una volta tanto, può dirsi, però, già prima delle elezioni che la posta in gioco è senz’altro degna di considerazione, se non da ogni punto di vista, almeno su un piano di primaria importanza qual è quello della determinazione di una maggiore e più leggibile e praticabile funzionalità del sistema politico nazionale. E già questo – come ognuno facilmente può intendere – non è poco.
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