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Che fretta c’era? Maledetta primavera!
di Massimo Lo Cicero
Nelle pagine che seguono si propone una cronaca parallela della progressiva decomposizione della maggioranza che sosteneva il Governo Prodi e della precipitosa ed improvvida china, nella quale è precipitata la decisione di chiudere la legislatura ed aprire una campagna elettorale, prematura rispetto al destino possibile del neonate Partito Democratico ed alle sorti del Popolo delle Libertà, altrettanto recente.
La cronaca non tiene conto del tempo quanto dei problemi che avrebbero richiesto, e non hanno avuto, l' attenzione necessaria per essere affrontati - una crisi dei mercati finanziari che interagisce, grazie alla globalizzazione dell' economia, con una profonda crisi congiunturale del ciclo economico - proprio per il troppo rapido materializzarsi di un clima agonisticamente elettorale ma abbastanza vuoto di strategie economiche e politiche adeguate alle difficoltà da fronteggiare.
La narrazione potrebbe apparire frammentaria, e ce ne scusiamo con i lettori, ma è certamente tempestiva ed, ovviamente, anche precedente, all'esito stesso delle elezioni appena trascorse.


1.    L’alba della crisi

Ma dove sta andando l'Italia? - Prodi vs la cultura economica del centrosinistra - Un caso singolare di dissonanza cognitiva: come mai coesistono cambiamento ed assenza di fiducia?

Nel suo discorso, in occasione della conferenza stampa di fine anno, Romano Prodi ha parlato di un paese che «si è rimesso a camminare» perché la «crescita si attesta intorno al 2% da due anni ... diminuisce sotto il 2% la dimensione del deficit e questo ci permetterà, a fine legislatura, di scendere sotto il 100% di debito rispetto al pil».
Scende la disoccupazione e ripartono le esportazioni, nonostante l'euro forte ed il rincaro di tasse e tariffe. Una descrizione meno euforica avrebbe offerto elementi per spiegare un singolare interrogativo che viene formulato dal presidente del consiglio: perché, «accanto ad una Italia che vuole essere bella, vivace e solidale, esiste una mancanza di fiducia così diffusa nella società»1?
Una rappresentazione avvertita, ma non faziosa, che giustifica il deficit diffuso di fiducia era stata formulata, poche settimane prima, dal Fondo Monetario Internazionale (outlook del settembre 2007). In quella data, e secondo gli analisti di Washington, il tasso di crescita del pil italiano era stato, in termini percentuali, 1,9 nel 2006, 1,7 nel 2007 ed era previsto in una misura dell' l,3 nel 2008. Negli ultimi due anni andiamo vicini, ma sotto il 2%. Tre informazioni erano molto negative: il 2007 e peggio del 2006 e la previsione per il 2008 sarà in discesa ulteriore. La media del decennio 1999/2008 è 1,4 e quella del decennio precedente era 1,6. Il quarto trimestre del 2007 , rispetto a quello del 2006, e 0,9 contro 2,8. Insomma esiste un rallentamento della crescita modesta, rispetto ad Europa e Stati Uniti, che avevamo sperimentato uscendo dall'anno orribile, il 2005, e dal torpore dei primi cinque anni del ventunesimo secolo.
Questa uscita fiacca dal secolo scorso si era accompagnata ad una accentuazione della varianza interna del paese. Il reddito procapite della provincia italiana più ricca è pari quasi a due volte e mezzo quello della più povera. Il divario interno è cresciuto, sfiorando quote che ricordano quelle di trenta anni prima e spiegano molti dei problemi legati alla criminalità e al degrado, che investono la parte più debole del paese. Come afferma anche Prodi. Che l'Italia si muovesse comunque, ma senza entusiasmare gli osservatori avvertiti, lo aveva detto, in termini che sembrano più realistici, Giuseppe De Rita rilevando «la crescita di schegge vitali, il riorientamento strategico del nostro sistema di impresa, per arrivare, l'anno scorso a parlare di silenzioso piccolo boom». Ma bilanciando questo tratto positivo «di nicchia, di offerta sul mercato del lusso, di lavoro su commessa» con un giudizio drasticamente negativo. E ricordando la impossibilita di «attribuire al sociale un primato rispetto all'economia come rispetto al politico»2.
Una bocciatura che rappresenta un vero e proprio ripudio, rispetto alla così detta società civile. Nel mese precedente, il 26 di novembre, dalle colonne del «Corriere della Sera», Michele Salvati parlava delle «spine dei riformisti» confrontando Italia e Germania. Dando al nostro paese un primato negativo: su «reddito, produttività, debito pubblico, Mezzogiorno, pubblica amministrazione, confusione istituzionale, criminalità organizzata, e chi più ne ha più ne metta». Ci piace meno, ma lo ricordiamo per essere oggettivi nel riportare lo stato di una discussione endogena alla cultura del centrosinistra, il giudizio di Marco Vitale su una Italia che ha «cinque ragioni per essere ottimisti». Essendo quelle ragioni «la rimonta contro la mafia, la tenuta della media impresa, il recupero della grande industria, lo spirito di impresa che guadagna terreno, la politica che fa passi avanti». Si tratta, come si vede chiaramente, di una sorta di trailer dei contenuti che giustificavano l'ottimismo di Prodi nella conferenza stampa di fine anno. Ma il quinto, purtroppo, è dissonante con le opinioni del presidente. Dato che il passo avanti sarebbe la possibilità di avviare un diverso regime elettorale, e una concentrazione interna dei due schieramenti, che li renda meno condizionabili dai loro alleati, troppo frantumati. Dunque, secondo Vitale, le tendenze positive non sono l'effetto dell'azione di Governo ma di una spinta che viene dalle nicchie, come dice De Rita, mentre la politica dovrebbe ribaltare l'humus da cui nasce la maggioranza che sostiene il Governo: se vuole concorrere al cambiamento. Che cosa ci dice questa rassegna di opinioni, maturate nell'area culturale che sostiene lo schieramento nel quale affondava le proprie radici il Governo Prodi? Ci dice che il cambiamento, che si intravede nella svolta di fine anno, si realizza nonostante si manifestino chiaramente tre circostanze negative: un assetto politico, un metodo di Governo e una pubblica amministrazione che rallentano la crescita del paese. Esistono forze piccole, ma potenti, che sono frenate da una mucillagine, dice De Rita: una melassa, diciamo noi, che si legge anche nella lentezza con cui, durante la stagione di Prodi, il parlamento, e lo stesso governo, hanno costruito norme e decisioni, importanti ma meno numerose di quello che si sperasse, e in un contesto che le presentava come un compromesso che rendeva irriconoscibili, o difficilmente rintracciabili, le ragioni e gli scopi che ne avevano determinato la nascita. Prodi conclude il suo intervento di fine anno con una sorta di appello alla politica dei redditi e a una spinta keynesiana sulla domanda interna: una evocazione, crediamo involontaria, dello spirito della Nota aggiuntiva di la Malfa negli anni Sessanta. Sostenere la capacità di produrre per distribuire un reddito maggiore che, una volta tassato meno, sia fonte di nuova domanda interna e alimento per la crescita. Si poteva fare, negli anni del primo centrosinistra, quando la grande impresa era la parte dominante e trainante del sistema. Più difficile oggi: le nicchie e le polarizzazioni dominano il paesaggio produttivo. Mentre è impossibile fare convivere, ai giorni nostri, la parte del paese che funziona, la media impresa privata, e quella che ne ostacola il cammino potenziale: la pubblica amministrazione. Difficile da fare se sul paese incombe un dualismo che rende torbida, oltre che inaffidabile, la società meridionale. Bene avrebbe fatto, dunque, Romano Prodi a considerare la caduta della fiducia in atto e a rivedere, di conseguenza, le sue opinioni sul futuro prossimo, sulla efficacia della politica economica realizzata dal suo Governo, sulle modalità di una diversa politica, davvero amica della crescita oggi, per potere, nel "secondo tempo", distribuire benessere. In fondo anche Ugo La Malfa chiedeva proprio una politica dei due tempi!
Divergenze parallele - turbolenza mondiale e destini nazionali - l'Italia divorzia dall'Europa ed il Nord divorzia dal Sud in Italia

L'incerta condizione italiana si colloca in un contesto assai diverso dagli ultimi anni del ventesimo secolo. I dati Eurostat sulla dinamica relativa del reddito procapite in Europa rivelano che le dimensioni relative del benessere, tra le economie degli Stati che aderiscono all'Unione, hanno ribaltato radicalmente la gerarchia esistente nel 19973.
Gli ultimi dieci anni hanno cambiato la geografia economica del vecchio continente.
La misura del cambiamento include anche le modificazioni generate dalla diversa dinamica dei prezzi, per settori o per ambiti nazionali: perche le elaborazioni offerte da Eurostat sono costruite a parità di potere di acquisto. Fatto 100, nel 1997, il reddito procapite dell'Europa a 27 paesi, la Spagna era a quota 94; l'Italia a 119; la Germania a 125 ed il Regno Unito a 117. L'insieme dei paesi che utilizzava l'euro si spingeva a 116. Sotto questa quota stava la Spagna ma non l'Italia. La Germania svettava sopra il Regno Unito ed il nostro paese. Gli Stati Uniti toccavano quota 161. I commenti sono superflui. La gerarchia del benessere è chiaramente individuata dalle cifre. Se si ripete questo monitoraggio nel 2000 le cifre ritornano sui medesimi livelli: senza particolari variazioni e la gerarchia relativa rimane stabile. Un segnale inquietante, a proposito del recente sorpasso tra Spagna ed Italia si sarebbe dovuto leggere, tuttavia, nel fatto che la prima passava a 98, in crescendo, e la seconda, a 117, discendendo di poco.
Anche la Germania scendeva, a 119, ma restava sempre più in alto del Regno Unito, che rimaneva a 117. II paesaggio di questa mappa del benessere economico cambia molto nel corso del ventunesimo secolo. Le turbolenze finanziarie e la variegata manifestazione dei tassi di crescita del prodotto, dei prezzi e della demografia, alimentano curiose divergenze ed un profondo rimescolamento della graduatoria originaria nel reddito procapite. L'Europa a ventisette rappresenta sempre il nostro punto di riferimento, ed il suo reddito procapite rimane pari a 100, come termine di paragone, ma, nel 2006, le posizioni delle varie economie risultano molto diverse. L'area dell' euro scende a 110, ed il forecast per i1 2007 indica una ulteriore lieve flessione, a 109,7. Nel 2006 il Regno Unito si quota a 118, e viene dato a 119 per il 2007. Gli Stati Uniti sono a 157 nel 2006 ed a 151 nella previsione dell'anno successivo. La Germania, nel 2006, scende a 114, supera l'Italia, che arriva a 103, e la Spagna, che rimonta sull'Italia passando a 105.
Le due economie mediterranee sono sotto la quota media dell'area euro, la Germania è schiacciata verso quella media, il Regno Unito è più avanti e continua a crescere.
Il dollaro sarà anche debole verso l'euro ma le economie del dollaro sono quelle dove si fanno profitti crescenti nelle banche e nella finanza. Profitti, salari e stipendi alimentano comunque il livello del reddito mentre i cambi aiutano le esportazioni, favorendo le componenti industriali e commerciali del processo di formazione della ricchezza nazionale. Rimane una divergenza corposa tra Europa e Stati Uniti, nei dieci anni che stiamo osservando, ma certamente si riduce, di poco, la forbice tra le due medie di sistema: da 100 a 161 si passa a 157 rispetto a 100.
Converge, invece, l'Europa come sistema di economie nazionali.
Lo scarto tra la media, dei paesi che utilizzano l'euro, e quelli che fanno solo parte del club commerciale si riduce. Nel 1997 quello scarto era tra 100 e 116; oggi l’area euro si ferma a 110. Peggiorando rispetto agli Stati Uniti, dai quali era meno lontana nel 1997. Regno Unito, Germania, Italia e Spagna si avvicinano tra loro e si avvicinano alla media. L'Europa converge, sia tra i paesi del club monetario che tra i due club, in cui e divisa. Ed i paesi new comers aumentano il proprio tenore di vita, promettendo una Europa più omogenea e, dunque, in futuro, anche più forte e, finalmente, capace di manifestare gli effetti iperadditivi della unificazione tra i suoi singoli mercati nazionali. Come annunciava il rapporto Delors.
Potremmo dire la medesima cosa dell'Italia? E possiamo dire, come ha affermato Prodi, durante una delle note trasmissioni di Fabio Fazio (Che tempo che fa?), che la «Germania e mezza Italia (quella del Nord ndr) vanno bene»?
Dopo aver letto i dati di Eurostat la risposta alla seconda domanda deve essere che Germania e mezza Italia non vanno bene ma solo meno male; e peggio del Regno Unito. La Germania oggi converge verso la Spagna, in discesa, mentre la seconda è in salita.
Ma veniamo all'Italia e al riconoscimento esplicito del suo dualismo interno anche nel dialogo tra Fabio Fazio e Romano Prodi. Durante il quale, ancora una volta, il Sud e stato identificato con la criminalità ed il sottosviluppo. Lo Stato, da solo, non ce la può fare, diceva Prodi. E ha ragione, perché solo lo Stato, senza una società coesa e strutturata, non ce la può davvero fare.
Il dualismo territoriale italiano esiste. E per superarlo, come «per pulire i cessi», secondo una azzeccata espressione proprio di Prodi, «non c'e un modo democratico o un modo repubblicano». Serve una politica economica credibile e una pubblica amministrazione efficace. Che il divario esista ce lo dicono anche i numeri del reddito procapite, pubblicati alla fine del dicembre 2007 da «Il Sole 24 ore». Le prime due province italiane, per dimensione del reddito, sono Milano e Bologna. Con trentaquattromila e trentunomila euro, rispettivamente. Le ultime due sono Agrigento e Crotone, con dodicimila euro. Dati relativi al 2006. Eurostat dice che, nel medesimo anno, la media dell'Europa a ventisette era di ventiquattromila euro. Dunque, nel nostro paese, la "testa" della metà che va bene, il Nord, si trova a quota 133, rispetto alla media Europea. La coda, della metà che non va bene e nella quale criminalità, latitanza dello Stato e sottosviluppo si rincorrono, rimane a quota 50. Sotto i paesi new comers in Europa. Un paese tanto divaricato quanto potrà resistere in una Europa che converge, anche se rimane lontana dagli Stati Uniti?
Navigare tra scilla e cariddi - Una nave che potrebbe farcela: un uomo su quattro è molto abile - Ufficiali e piloti cercasi per una opzione liberale di politica economica - Corporazioni vs. Elezioni

Chiuso il 2007, insomma, sarebbe stato necessario capire, come sarebbe andato il 2008. Nel mondo contemporaneo, il Governo, con la politica economica, gioca per secondo. Prima vengono le forze che agitano e condizionano la scena internazionale del mercato globale. Dalla qualità delle repliche, prodotte dalla politica economica, dipendono gli effetti dell'impatto che le forze del mercato generano sulle strutture economiche nazionali. Ovviamente esiste anche un vincolo interno, non meno stringente di quello esterno, i patti siglati per avere accesso all'isola felice dell'euro. Il vincolo interno è il punto da cui parte il Governo: la base oggettiva, lo stato delle cose sul quale il governo poggia la propria politica economica. Nel 2007 il deficit di cassa si era ridotto di 7,6 miliardi di euro rispetto al 2006. Questa performance si realizzava nonostante le maggiori spese che, tra legge finanziaria e decreto "milleproroghe", il governo ed il parlamento approvavano in chiusura di esercizio. Romano Prodi, intervistato da «la Stampa» del 3 gennaio 2008, commenta con entusiasmo i risultati sul fabbisogno dello Stato che si è ridotto: «D' altra parte il 2008 non sarà un anno facile ed era bene mettere fieno in cascina». Ma una parte del fieno era stato già distribuito con le scelte di finanza pubblica di fine anno. Lo spiegava bene Vincenzo Visco all' «Unità», il 31 dicembre 2007: «la lotta all'evasione ha dato frutti inaspettati. Ma si è creata anche una aspettativa sul fatto che questo maggiore gettito continuerà ... Fosse dipeso da me, una volta riportato il disavanzo pubblico in ordine, l' extragettito l' avrei già destinato tutto all'abbassamento della pressione fiscale».
Emerge la fragilità, finanziaria, delle intenzioni redistributive del Governo: prelevare per spendere può dare risultati eccellenti sul tavolo della concertazione ma non su quello del riequilibrio strutturale tra crescita ed equità. Il trade off nasce dall'impatto tra il consenso immediato degli stakeholders, che partecipano alla concertazione, e quello, determinante per l'esito elettorale, degli interessi diffusi nel paese.
Ma gli stakeholders, che non votano, pretendono di rappresentare il secondo ma non lo possono garantire, se e quando esso si dovrà manifestare. La data delle elezioni, allora potenzialmente lontane, diventa una variabile decisiva per capire se e come risolvere questo puzzle. Ma la finanza pubblica è solo un esempio di come sia difficile risolvere una equazione a quattro incognite: composizione del parlamento, nomina del governo, interessi degli stakeholders e decisioni degli elettori. L'ultima incognita dipende in maniera molto stretta dalle condizioni materiali della intera popolazione. Queste condizioni, nella Italia di oggi, non sono molto confortevoli. Il mercato internazionale è scosso dalla crescita rapida di molti paesi. Questa crescita spinge la domanda di energia, di materie prime e di prodotti alimentari e mette in tensione i prezzi di queste merci. La medesima crescita mette in subbuglio i mercati finanziari che eccitano, anche oltre il dovuto, la propria creatività e la combinano con qualche dose di opportunismo. La crisi dei mutui americani ne è una conseguenza. Ma i prezzi del petrolio aumentano ed aumentano il reddito delle (ristrette) classi dirigenti dei paesi produttori che, grazie a questa disponibilità aggiuntiva, fanno shopping rilevando il capitale delle banche più spericolate, che accusano i colpi della crisi. II mercato, non meno delle politiche promosse dai governi, ritrova sempre equilibri possibili, ancorché subottimali.
In questa scena si colloca il nostro paese: un sistema produttore e creativo a 125 % mentre la quota rimanente frena questa minoranza di intraprendenti. Lo dice, ancora una volta, Giuseppe De Rita sulle colonne del «Corriere della Sera» del 2 gennaio, parlando dell'Italia contemporanea. Un simile paese - lo ha spiegato magistralmente anche Luigi Spaventa, su «la Repubblica» del 31 dicembre - subisce il maggior costo dell'energia come una imposta regressiva. In queste condizioni, dice Spaventa, allargare solo i redditi nominali accende le fiamme dell'inflazione: butti domanda effettiva su una offerta rigida, eccitando prezzi o importazioni, o tutti e due. Come accadde nella prima grande crisi petrolifera durante gli anni Settanta. Dunque, non si dovrebbe ridurre la questione solo a meno tasse e più salari ma si dovrebbe, come sosteneva, negli ultimi mesi del Governo Prodi, anche Vincenzo Visco, agire sui redditi troppo bassi per compensare gli effetti regressivi della "imposta degli sceicchi". Il fatto è che i titolari di quei redditi non sono solo i salariati ma una fascia più larga, e meno rappresentata dalle organizzazioni sindacali, dei lavoratori, nelle fabbriche e nello Stato. Romano Prodi, nella sua intervista a «la Stampa» che abbiamo appena citato, propone un tavolo di confronto con i sindacati per condividere lo scambio meno tasse e più salari ed affrontare, forse, successivamente e forte di questa condivisione tra Governo e stakeholders, una verifica parlamentare con la sua maggioranza.
Il cerchio delle quattro incognite, di cui diciamo sopra, si poteva anche chiudere, in questo modo, ma non avrebbe dato effetti significativi per larga parte del paese e tra gli effetti certi ci sarebbe stata una certa dose di iniquità sociale.
Il sentiero di una diversa politica economica per il 2008 avrebbe anche potuto esistere ma diventava sempre più stretto. Qualsiasi accordo triangolare tra sindacati, confindustria e governo, che consumi quel poco di fieno rimasto in cascina per il 2008, sarebbe stata una evidente iattura per il paese ma un pilastro importante per la stabilità, nell'immediato futuro, del Governo in carica. Viceversa, una strategia contrattuale "vecchio stampo", tra operai ed imprenditori, che valorizzasse la produttività delle fabbriche, cedendone una parte significativa ai lavoratori, avrebbe aiutato il 25 % della società italiana, di cui parla De Rita, a diventare più forte e, per imitazione ed alleanze, a tirarsi dietro qualche altra percentuale significativa del mondo produttivo.
Una marcata riduzione della pressione fiscale - per tutti i redditi bassi e non solo per i redditi dei gruppi più sindacalizzati - ed un ridimensionamento degli sprechi nella spesa pubblica, insieme al tentativo di riprendere gli investimenti, in capitale fisso sociale ed infrastrutture finanziati anche da risorse private interne ed internazionali, sarebbero stati un buon modello di crescita nella stabilita finanziaria da proporre al paese. Tracciando la strada per riprendere lo sviluppo, ridimensionando e riqualificando la presenza pubblica nel sistema ed allargando ruoli e responsabilità di tutti gli attori privati, imprenditori o lavoratori che siano. Una ipotesi, questa, che avrebbe dovuto avere come supporto una guida del paese più attenta agli interessi diffusi. Una guida autorevole, che prendesse le distanze dalla concertazione e ricostruisse una relazione proficua tra democrazia e mercati. La relazione che garantisce la convivenza di efficienza ed equità e limita le varie forme di opportunismo, che nascono dal "corto circuito" tra corporazioni ed istituzioni. Non è andata in questo modo.
Macroeconomia e rispettosa autonomia tra organizzazioni ed istituzioni - Un triangolo virtuoso della politica economica - La chiave di volta della riduzione delle imposte per ridare slancio alla crescita

Tra dicembre 2007 e gennaio 2008 le cronache economiche riportano i risultati di un lavoro di tre ricercatori della Banca d'Italia. Un paper nel quale essi scrivono che «la politica fiscale nell'area dell'euro ha contenuti effetti keynesiani [mentre] gli effetti espansivi sul prodotto di riduzioni delle aliquote fiscali risultano essere assai più persistenti rispetto a quelli di aumenti di spesa». (Forni, Monteforte e Sessa, The general equilibrium effects of fiscal policy: Estimates for the euro area)4. Alla vigilia di un delicato ciclo politico e sindacale non erano informazioni da sottovalutare. Per tre motivi. Esse ricordavano che l' analisi macroeconomica è una dimensione necessaria della politica. Che gli attori sociali, posti di fronte alle scelte delle controparti, generano dinamiche più complicate ed estese di una semplice reazione all'azione dell'altro. Che il Governo di un paese guida il cambiamento ad un esito positivo – l'interesse generale – quando è autorevole, verso le parti sociali, e consapevole delle conseguenze generate dalle proprie scelte. Sembra un piccolo vademecum su come gestire il triangolo tra opzioni fiscali, accordi contrattuali e crescita. Triangolo con il quale avrebbero dovuto cimentarsi il vertice della maggioranza e l' azione del Governo, nel mese di gennaio. Dicono i ricercatori della Banca Centrale che, nel loro modello, ridurre di un punto di pil le imposte sul lavoro è la scelta migliore per la crescita. Ma il modello non prende in esame gli effetti derivanti da esportazioni, importazioni e movimenti di capitale: è costruito come se le dinamiche fossero tutte endogene e non condizionate dai mercati internazionali. Essi augurano di poter superare con ulteriori ricerche questo limite. Questa circostanza calza perfettamente a sostegno della ipotesi di una riduzione delle imposte. Perche oggi è condivisa la convinzione che siano i consumi interni delle famiglie a rappresentare il punto più dolente nella spinta verso la crescita, che serve al paese. Non è semplice, tuttavia, tradurre ricette analitiche - e necessariamente "astratte" rispetto alle istituzioni reali dell' economia - in scelte politiche. La struttura reale del prelievo fiscale (imposte dirette, imposte indirette, altre tasse, tariffe e costi previdenziali) non ricalca lo schema logico del modello, dei ricercatori, che utilizza imposte sul lavoro, sugli scambi e sul consumo di capitale. Ma, seppure con qualche forzatura, si potrebbe affermare che le "imposte sul capitale" erano state già ridotte dalla compressione del cuneo fiscale e da molti altri provvedimenti che abbassavano il costo del fare impresa. Le imposte dirette sui redditi (che includono, ma non solo, i redditi da lavoro) valgono circa 14 punti percentuali di pil. La riduzione di un punto di pil comporterebbe una riduzione del 7 % del loro gettito. Imposte dirette ed imposte indirette hanno la medesima incidenza quantitativa sul pil. Il triangolo tra politiche fiscali, accordi contrattuali e sostegno della crescita avrebbe potuto essere gestito lungo linee precise. Una riduzione della pressione fiscale - tecnicamente distribuita su imposte indirette e dirette, per mitigare gli effetti regressivi dell'incremento delle tariffe e del prezzo dell'energia e dei prodotti alimentari - che allarghi la capacità di consumo per le famiglie a basso reddito e per coloro che hanno un reddito inferiore ai trentacinquemila euro, per avere un impatto effettivo, in termini di sistema, sulle scelte di consumo - anche se, sotto quella soglia, si trova un'area di elusione ed evasione. Una larga autonomia ai contratti aziendali - ben oltre gli standard dei contratti nazionali - per garantire ulteriori effetti espansivi sul reddito dei lavoratori che generano, nelle imprese di appartenenza, significativi incrementi di produttività. Una terza ondata di liberalizzazioni, per evitare che la nuova domanda per consumi sia assorbita, aumentando i prezzi, da coloro che hanno posizioni dominanti, di monopolio, sui mercati. Restavano aperti altri due fronti. Qualificare - anche grazie alla riduzione della pressione fiscale -l'argine contro elusione ed evasione: sapendo che quei prelievi sono una tantum sul passato e non si ripetono, nella medesima intensità, per il futuro, se gli evasori smettono davvero di essere tali. Agire sulle dismissioni per ridurre lo stock del debito pubblico ed agire sulla compressione della spesa (inutile) per ridurre la formazione di nuovo fabbisogno che richiederebbe nuovo debito per la sua copertura.
Le molte cause dell'inflazione - prezzi assoluti e prezzi relativi -l' aumento dei prezzi non è sempre inflazione - cambi, prezzi, costi di produzione e politica monetaria - assecondare la crescita per governare meglio l' economia

L'ultimo «Bollettino della Banca d'Italia» (il numero 51 del gennaio 2008)5 offre una rappresentazione del trapasso tra il 2007 ed i1 2008. Era chiaro, non solo agli analisti della banca centrale, già nel dicembre del 2007, come il mercato internazionale fosse scosso dalla crescita rapida di molti paesi. Questa crescita, come si è detto, spinge la domanda di energia, di materie prime e di prodotti alimentari e mette in tensione i prezzi di queste merci.
La medesima crescita mette in subbuglio i mercati finanziari che eccitano, anche oltre il dovuto, la propria creatività e la combinano con qualche dose di opportunismo. La crisi dei mutui americani ne è una conseguenza. Ma i prezzi del petrolio aumentano ed aumentano il reddito delle (ristrette) classi dirigenti dei paesi produttori che, grazie a questa disponibilità aggiuntiva, lo si è già rilevato, fanno shopping rilevando il capitale delle banche più spericolate, che accusano i colpi della crisi. Il mercato, non meno delle politiche, ritrova equilibri possibili. Una chiave interpretativa che si ritrova anche nella diagnosi della banca centrale esposte nel citato «Bollettino» economico del gennaio 2008.
Lo scenario macroeconomico mondiale è ancora dominato dalla crisi del mercato dei mutui immobiliari americani iniziata la scorsa estate e dalle sue implicazioni per i mercati finanziari e la crescita economica [...]. Un secondo elemento chiave dello scenario internazionale è rappresentato dal forte aumento dei prezzi delle materie prime energetiche e alimentari, dovuto a molteplici fattori, tra cui l'elevata domanda da parte dei paesi emergenti. Rispetto all'autunno questi sviluppi stanno determinando una revisione al ribasso delle previsioni di crescita e al rialzo di quelle d'inflazione.

La mappa di un ridimensionamento della crescita, nei paesi industrializzati, rispetto a quella dei paesi emergenti, registra differenze significative. Negli Stati Uniti il pil dovrebbe crescere, ad un ritmo di 1,5 % nel quarto trimestre del 2007 per rallentare nel 2008 e riprendersi nella seconda metà del 2009. II Giappone si allinea per il 2007 al ritmo degli Stati Uniti ma dovrebbe accelerare, grazie alle esportazioni verso i mercati asiatici. Cina, Brasile, Russia ed India crescono, con un surriscaldamento della inflazione interna. Anche l'area dell'euro rallenta la sua crescita e sconta un surriscaldamento dei prezzi. La previsione per l'Italia sconta una elevata incertezza, potrebbe cioè subire improvvise ed inaspettate variazioni, ma si presenta con un tratto molta diverso dal resta del mondo:
Si prevede ora che la crescita dell' economia italiana prosegua nel prossimo biennio a un ritmo inferiore a quello del prodotto potenziale […]. Il tasso di crescita medio annuo del pil, pari all' 1,7 per cento nel 2007, scenderebbe all' 1 per cento nel 2008; risalirebbe lievemente l'anno successivo. La revisione al ribasso per l'anno in corso, pari a 0,7 punti percentuali nel confronto con l'esercizio previsivo di luglio, è attribuibile essenzialmente a tre cause: gli effetti sul reddito disponibile delle famiglie dei rincari delle materie di base (in sei mesi il prezzo in euro del petrolio è aumentato di quasi il 20 per cento, quello dei beni alimentari di oltre il 10); l'apprezzamento dell'euro (del 4,0 per cento in termini nominali effettivi nella seconda metà del 2007), che ha peggiorato la competitività di prezzo dei nostri beni su tutti i mercati; un abbassamento della base di partenza del 2008 dovuta al fatto che i fattori prima citati si sono riflessi in un indebolimento congiunturale fin nello scorcio del 2007.

Fiacca la domanda interna, malto debole in ragione del cambio tra dollaro ed euro, la potenziale domanda proveniente dalle esportazioni. Anche perché la nostra economia non riesce ad imitare quella tedesca, recuperando la capacità di competere can tecnologia ed innovazione per bilanciare l'azione negativa dell'euro forte. Ma il dato interessante è proprio la grande variabilità nella dinamica dei prezzi rispetto alla loro crescita media.
Il rialzo delle quotazioni internazionali del petrolio dall'inizio del 2007, solo parzialmente contrastato dal rafforzamento dell'euro nei confronti del dollaro, ha sospinto la dinamica della componente energetica a prezzo libero dell'indice a 19,9 per cento nei dodici mesi terminanti in novembre, dall'1,9 di gennaio. Sono risultati in accelerazione anche i prezzi dei beni alimentari (a 13,7 per cento in novembre), particolarmente quelli delle voci "prodotti caseari" e "pasta e cereali" [...]. L'aumento della componente di fondo dell' in dice [dei prezzi], seppur in lieve aumento, è rimasta intorno a 12 per cento nei mesi più recenti. L'inflazione alla produzione ha raggiunto il 4,6 per cento sui dodici mesi in novembre; al netto della componente energetica e alimentare essa si è invece ridotta di circa un punto percentuale rispetto all'estate, a 12,2 per cento.

Siamo in presenza di un fenomeno simile a quello che scontammo nel change over all'euro. Non salgono, in parallelo ed omogeneamente, tutti i prezzi espressi in moneta: che gli economisti chiamano prezzi assoluti. Il significativo scarto dei ritmi di crescita, tra beni diversi, ci dice che cambiano i prezzi relativi: i rapporti tra il prezzo di un litro di benzina ed un capo di abbigliamento. Durante l'introduzione dell' euro aumentavano i beni dei mercati in cui il venditore era price maker ed il consumatore debole. Ora aumentano i beni il prezzo dei quali cresce sul mercato internazionale per una esplosione di domanda, indotta dalla crescita dei paesi emergenti e dalla unificazione del mercato mondiale. Ora come allora questo aumento dei prezzi taglia la capacità di spesa delle famiglie a basso reddito.
Esso è come una imposta regressiva: ma premia alcuni e penalizza altri settori, oltre che ridimensionare i redditi più bassi. Colpiti anche dalla crescita dei tassi sui muti e dall'indebitamento per piccoli prestiti, che bilancia nell'immediato la perdita di potere di acquisto, rateizzando l'acquisto di beni di consumo durevole. Ma, nel medio periodo, lo compromette ulteriormente: per il necessario rimborso del debito.
Disuguaglianza e caduta dei consumi sul mercato interno sono gli effetti di questa trasformazione in atto. Accentuati dall'aumento della pressione fiscale complessiva e dalla crescita delle tariffe, nella finanza locale e nelle utilities. Se, infine, si considera che l'aumento del costo del lavoro per unità di prodotto deriva dal rallentamento della dinamica della produttività, si capisce che l'aumento dei salari dovrebbe accompagnarsi all'aumento della produttività stessa. Questa espansione della nostra offerta aggregata si inceppa, tuttavia, di fronte alla fiacca capacita di competere nelle esportazioni ed alla caduta dei consumi interni. Dunque, non si può immaginare una politica monetaria che si limiti solo a reagire all'inflazione senza prendere in considerazione le ragioni della crescita. Anche perché l'inflazione non è quella che eravamo abituati a fronteggiare ma è una trasformazione dei prezzi relativi e della distribuzione del benessere. La BCE non sembra prestare la dovuta attenzione a questo problema. La Banca d'Italia si presenta, al contrario, con maggiore capacità analitica.


2. Ciclo economico e crisi finanziaria: economia reale ed economia finanziaria interagiscono molto rapidamente nella economia globale

L' asimmetria continentale - Stati Uniti ed economia europea di fronte alla crisi - Tra crisi finanziaria e recessione industriale - L'Italia in Europa: un vaso di coccio dentro un vaso di coccio

La cronaca ci confermava sin dal suo inizio che i1 2008 sarebbe stato un anno difficile. Stretto tra la crisi finanziaria e la recessione, il mercato mondiale si deve confrontare con un ciclo di pronunciata instabilità. Le origini della quale sono distribuite in modo abbastanza asimmetrico. I grandi paesi emergenti continueranno a crescere. Forti della circostanza che li vede ormai creditori netti e non debitori netti verso il resto del mondo. Ma anche indeboliti dagli squilibri interni ai propri mercati che quella crescita sta determinando. Si pensi al caso clamoroso della Cina che, nelle grandi metropoli, affronta problemi tipici del capitalismo maturo, dall'inquinamento alla congestione, mentre nelle campagne sconta pesanti condizioni di arretratezza. La crescita di questi paesi - dopo avere scatenato la domanda mondiale di energia e di prodotti alimentari - produrrà anche un incremento nella domanda di politiche economiche idonee per riequilibrare i percorsi dello sviluppo, per il proprio mercato interno.
Queste politiche dovranno anche dare coerenza a quel riequilibrio con un intelligente impiego, sui mercati finanziari internazionali, delle riserve valutarie che i paesi emergenti hanno già accumulato e dei loro successivi incrementi. Stati Uniti ed Unione Europea subiscono un genere diverso di instabilità. I primi scontano l'eccesso di opportunismo e di incapacità, mostrate dai top manager degli intermediari, nella stagione delle innovazioni - cartolarizzazioni, derivati ed ingegneria finanziaria - che hanno alimentato la pratica dell'originate to distribuite rispetto a quella, pili convenzionale e più stabile, della originate and hold6. Nel primo caso si producono rischi che vengono ceduti al mercato, cioè ad una platea di anonimi e singoli risparmiatori, attraverso intermediari non bancari che dilatano la strada percorsa dai rischi stessi prima di arrivare nei portafogli delle famiglie. Questa catena di transazioni attenua la percezione della dimensione economica per i rischi trasferiti, generando prezzi che inducono in errore il mercato sia in fase di emissione che di liquidazione per quelle posizioni. In questa opaca gestione dei mercati crescono gli spazi di opportunismo e aumenta la probabilità degli errori e dei comportamenti superficiali. Buttare a mare tutta questa acqua sporca, e rinunciare al valore intrinseco di queste tecnologie finanziarie, sarebbe pero un errore madornale.
Ma la paura e il panico, che si vanno diffondendo, potrebbero, in una tragica spirale, dove l'ignoranza dei rimedi possibili si cumula con l'opacità che ha coperto l'opportunismo, alimentare ulteriori danni per i risparmiatori. Come è sempre accaduto e come ci racconta la storia delle crisi finanziarie. Un ultimo effetto importante di queste patologie, che non viene sempre ricordato, è che le banche erano diventate meno sensibili, grazie alla cartolarizzazione dei propri attivi, alla pressione della raccolta diretta di risparmio sulle proprie scelte di impiego. Dal punto di vista del sistema questa circostanza generava una attenuazione degli impulsi monetari che la banca centrale trasferiva ai mercati attraverso il canale bancario. Un assetto originate to distribuite avrebbe richiesto, e richiederà in futuro se non avremo paura di usarlo meglio, una più intelligente vigilanza sul sistema degli intermediari, e sulle loro appendici nei veicoli speciali, che non sono banche ma che contengono il rischio generato dalle banche. Ma richiederà anche un coordinamento tra politica monetaria e politica fiscale per governare la congiuntura. Proprio quello che sta facendo la banca centrale americana in questo momento. Dopo aver fronteggiato i rischi da infarto per difetto di liquidità, aperti dalle insolvenze puntuali prodotte dal venir meno di portafogli di derivati comprati con un eccesso di leverage, la Federal Reserve ora agisce sui tassi mentre il Governo agisce sulla pressione fiscale e la spesa pubblica. Si affida la pulizia del sistema non solo al mercato -lasciando fallire intermediari troppo spericolati o disonesti - ma anche a una migliore qualità della supervisione e della vigilanza sulle banche e le loro molte protesi.
La situazione europea è diversa. Le banche europee hanno preso parte alla "grande abbuffata" della nuova finanza. Ma non in misura tale da generare tutti i danni potenziali che si osservano dall'altra parte dell'Atlantico e nel sud est asiatico. Il problema dell'Europa è piuttosto economico che non finanziario. E, per certi versi, ha anche una origine monetaria: nel senso che larga parte della forza recessiva che preme sui mercati deriva dalla progressiva perdita di competitività indotta dall' apprezzamento dell' euro e dal rincaro dei prezzi, per l'energia e le materie prime, che prevale sul vantaggio compensativo che darebbe la forza dell'euro come leva per sopportare l'importazione forzata di quei beni. Stretta tra la tassa sull'energia e la perdita di competizione dal cambio della propria moneta, l' economia europea accusa le conseguenze della tenaglia monetaria che il dollaro e la valuta cinese stringono intorno alla sua moneta. Non è questo l'unico problema per l'economia del vecchio continente. La paura dell'inflazione - e la mancata comprensione della circostanza che non siamo in presenza di una crescita generalizzata dei prezzi ma anche di una mutazione dei prezzi relativi, che ridisegna la struttura dei vantaggi competitivi e della divisione internazionale del lavoro – si è tradotta in un eccesso di monetarismo tradizionale, per la banca centrale, e in una dose aggiuntiva di monetarismo fiscale. Sancito dal patto di stabilita per rendere coerente una moneta unica in paesi dalla diversa struttura finanziaria. Il costo di questa combinazione ad alto contenuto recessivo è stato pesante ogni volta che il ciclo delle economie europee diventava diacronico, o recessivo, mentre il monetarismo fiscale, obbligato, attenuava la possibilità di agire su tasse e spesa pubblica per dare tono all'economia in recessione. Ora, nella crisi aperta sul mercato mondiale, nonostante il problema europeo sia principalmente dovuto ad eventi valutari -la forza dell'euro - ed economici -la "tassa" sull'energia e la perdita di competitività - l'Unione dispone di una banca centrale troppo monetarista e di una politica fiscale rigida. La combinazione tra queste due circostanze la rende più impacciata e lenta degli Stati Uniti nell' adozione di terapie adeguate per fronteggiare la minaccia recessiva. Una minaccia che - attesa la eterogeneità relativa nella struttura della finanza pubblica, delle applicazione tecnologiche, della produttività aziendale e di quella dell'intero sistema, tra le varie economie europee - rallenterà probabilmente anche il processo di convergenza tra le stesse e riaprirà, nella recessione, il difficile interrogativo di come far funzionare, nel prossimo futuro, una Europa a due velocità.
L'Italia, invece, come sappiamo bene, è oggi un vaso di coccio. Ma è un vaso di coccio contenuto in un vaso di coccio, l'Europa: una prospettiva che dovrebbe scoraggiare esperimenti politici troppo temerari.
Derivati e mercati finanziari - Guardare gli alberi e la Foresta contemporaneamente - Il mestiere delle banche centrali - Quello che volevate sapere e non avete mai avuto il coraggio di chiedere

I derivati sono comunque alla ribalta della cronaca: perché sono al centro delle turbolenze finanziarie che minacciano l'orizzonte dell'economia mondiale e perché quelle turbolenze hanno riacceso l'interesse delle banche centrali per la stabilità degli intermediari oltre che per la stabilità dei prezzi. Bisogna sorvegliare l'inflazione ma bisogna anche capire se e quanto sono solide le basi patrimoniali ed organizzative, e forse anche la cultura e la deontologia degli intermediari finanziari7.
Per salvaguardare la crescita e l'espansione del benessere reale, conta che la foresta sia irrigata adeguatamente ma conta anche che le radici degli alberi, che a loro volta sostengono la foresta, siano sufficienti a reggere le spinte che ricevono i rami dai venti delle crisi finanziarie. E finiamola qui con la botanica e torniamo al linguaggio dell'economia. I derivati sono contratti il valore dei quali deriva da un oggetto ad essi estraneo: oggetto che può diventare il bersaglio di chi possiede il derivato ad un indizio segnaletico per il valore del derivato stesso. Le opzioni, una tipologia di derivati che serve a crearne altri, anche più complicati, sono contratti asimmetrici: danno ad alcuni il diritto ma non l'obbligo di pretendere una certa prestazione. L'altro contraente, il follower, eseguirà quello che chiederà il leader: è stato pagato per farlo, ha ricevuto un corrispettivo. Dunque, un derivato è un investimento perche rappresenta l'impegno di una somma liquida, quella pagata al follone dal leader, nella ragionevole convinzione che, in futuro, l'eventuale esercizio di quel diritto comporterà un vantaggio8. A che serve un simile contratto? Anche se sembra improbabile questi contratti sono molto utili e, prima ancora di essere definiti come derivati, sono stati ampiamente utilizzati e con successo dagli uomini d'affari. Un banchiere che vuole prestare dei soldi a un imprenditore che intende rilevare una società, ma non vuole che questo appaia in maniera esplicita, realizzerà un put & call sulle azioni della società da rilevare.
La banca compra le azioni per 100 euro ma vende una call, il diritto di comprarle a 120 euro, ali'imprenditore entro un anno. L'imprenditore cede alla banca una put, il diritto di vendere a lui quelle azioni per 120 euro ed entro l'anno. Se le azioni valgono, dopo un anno, 140 euro, cosa che né la banca né l'imprenditore erano certi avvenisse, la call è in the money: chi compra per 120 euro una cosa che sul mercato azionario vale 140 è sicuro di guadagnare 20 euro. E lo fa. Ma, se le azioni valgono 100 euro, e la banca che esercita la put, mentre la call diventa out of money, ed incassa 120 euro per azioni che ha pagato cento. Ha ottenuto un tasso di interesse del 20% sia che in the money fosse la call che la put9
Per tornare alla finanza, comprare azioni e vendere a termine una call, cioè dare ad un altro il diritto di ricomprarle ad un prezzo più basso del nostro prezzo di acquisto, è una buona scelta di portafoglio: se il corso dell'azione scende, la call dell'altro prende valore e lui ricomprerà le nostre azioni. Limitando la nostra perdita. Anche comprare un' azione e comprare una put è una scelta, ancora più cauta, perché mi riservo di venderla se il suo prezzo scende sotto un certo valore. Le opzioni, insomma, ti aiutano a convivere con l'incertezza perché ti consentono di gestire il rischio anche senza sapere quali saranno domani i prezzi. A condizione che la cosa, titoli o beni reali che sia, sottostante la opzione, e dalla quale dipende l'esito dell'investimento nel derivato, abbia un prezzo osservabile e, meglio ancora, realizzabile sul mercato. Quando i prezzi del sottostante sono poco osservabili, ed ancor meno realizzabili, possono manifestarsi problemi complicati. Come quando il follone non abbia la capacità di eseguire le scelte che il leader ha il diritto di effettuare.
I derivati sono strumenti per creare portafogli di investimento capaci di convivere con l'incertezza. Ma, se mi indebito per comprare derivati, assumo un rischio crescente: devo pagare la banca che mi ha finanziato e non saprò mai, in anticipo, se il sottostante del derivato, alla data di scadenza, mi fornirà o meno la opportunità di saldare il mio debito. Draghi e Saccomanni hanno spiegato molto bene, il primo all' ultima Giornata Mondiale del Risparmio nel 2007 ed il secondo in una audizione parlamentare, tenutasi l'8 novembre 2007, che su questi derivati devono agire sia la Consob, per tutelare il diritto di chi investe a capire cosa stia affettivamente comprando, che la Banca d'Italia: perché chi compra e vende derivati - ai consumatori, agli enti locali od alle imprese - e in genere un intermediario finanziario. Alcuni intermediari li producono, per la verità, ed altri li vendono soltanto. Il fatto è che chi li compra lo fa perché si fida di chi vende, trader o producer che sia la banca, e non sempre perché capisca cosa sta comprando.
I derivati, infine, si sono combinati con altri strumenti della ingegneria finanziaria: la cartolarizzazione e la collateralizzazione dei titoli.
Si cartolarizza quando una banca cede mutui immobiliari, concessi ai propri clienti, cioe crediti, ad una società che, per comprarli, emette obbligazioni sul mercato. Chi compra quelle obbligazioni potrebbe trovare, alloro interno, effetti collaterali, cioè condizioni al variare delle quali il valore di quella obbligazione si discosta da quello al quale e stata emessa. Supponete che i debitori iniziali, quelli che hanno comprato la casa con il mutuo, paghino lentamente o non paghino. Chi ha comprato le obbligazioni, della società destinataria della cartolarizzazione, potrebbe non essere sicuro di ottenere il rimborso del suo credito del quale, se fosse stato collateralizzato in qualche modo troppo sofisticato, non capirebbe bene il valore. In questo caso, il fatto che i sottostanti di eventuali derivati entrati nel processo, dipendano dalla capacità di rimborso del mutuatario, o dal valore di recupero della sua casa ipotecata, renderebbe molto difficile dire quale sia il valore di realizzo delle obbligazioni collateralizzate con derivati.
Le turbolenze recenti nascono da questa situazione. Se quelle obbligazioni sono state acquistate da un fondo di investimento, che ha venduto le sue quote a terzi, quei terzi non sanno quanto valgono quelle quote. I rischi sono due: tutti vendono per troppo poco e ci perdono; nessuno vuole più comprare perche non capisce cosa compra e chi non riesce a vendere teme di essere troppo illiquido. Bisogna immettere liquidità nel sistema per evitare la crisi ma bisogna evitare che i troppo spericolati si salvino troppo facilmente ed i passeri ci rimettano le penne. Bisogna agire sull'offerta di moneta.
Ma bisogna anche tenere d'occhio le banche che producono, vendono e comprano derivati. Per accertarsi che esse siano sempre abbastanza solide per farlo. Queste nuove tecnologie della finanza sono molto utili. Draghi, ed ha ragione, dice che dopo una crisi chi ha la responsabilità di decidere, si ritrova sempre turbato e scosso dalla propria incapacità di prevedere le dinamiche di una crisi. Il mercato non ti avverte prima del momento in cui tutti, essendo opachi i prezzi dei titoli, sospendono vendite ed acquisti e si rifugiano nella moneta. A quel punto la domanda di moneta deve trovare una ragionevole offerta ma le banche dovrebbero essere monitorate anche prima: perché non siano ne troppo spericolate ne troppo sleali. Ecco il difficile equilibrio tra la foresta liquida, ed "irrigata", e le radici stabili degli intermediari.
I mercati finanziari europei secondo Mario Draghi - Come cambia il paesaggio finanziario e come devono cambiare la vigilanza e la politica monetaria - Intermediari e consumatori tracciano nuove strade - Le regole vengono dopo: quando si capisce il tracciato delle nuove strade

Nella lezione che Mario Draghi ha tenuta a Francoforte sulla trasformazione del financial landscape ha descritto i cambiamenti del mercato finanziario, in Europa ed in America. I quotidiani hanno riportato, nella cronaca a ridosso dell'evento, solo alcuni tratti del suo ragionamento ed, in particolare, solo il giudizio sulla ipertrofia raggiunta dalle banche nei perimetri del mercato domestico, dopa un decennio di fusioni ed aggregazioni. Da questo elemento, e dalle preoccupazioni per la riduzione del regime di competizione che esso comporta, sono stati proposti paralleli tra il caso italiano e quella fenomenologia. Draghi, infatti, suggerisce ulteriori aggregazioni, capaci di estendersi attraverso i confini nazionali: anche per gestire portafogli stabilizzati dalla denominazione, in euro ed in dollari, delle proprie attività. Notazione puntuale ma non esaustiva del senso complessivo di quella lezione; sul contenuto della quale, di conseguenza, dobbiamo tornare per proporre una serie di originali interpretazioni, che aprono interrogativi intriganti sia sui caratteri della crisi generata dalla cartolarizzazione dei mutui subprime che sui tratti che dovrebbero assumere, in questo nuovo genere di paesaggio, l'azione della vigilanza sugli intermediari e l'impianto delle politiche monetarie. Le fonti per ritrovare il testo completo della lezione sono riportate nelle note precedenti. Secondo Mario Draghi, negli ultimi due decenni, i mercati finanziari hanno subito un cambiamento molto radicale: quantitativo e qualitativo. L'innovazione - nella struttura contrattuale dei prodotti e nelle tecnologie per gestire questi nuovi prodotti, oltre che nella forma delle organizzazioni e nelle skill delle risorse umane - e la deregolamentazione hanno reso possibile questo cambiamento. L'industria della finanza ha utilizzato questa opportunità per espandersi, catturando economia di scala ed economie di scopo e creando nuovi modelli di business: servizi finanziari tagliati su misura rispetto ai bisogni dei consumatori. Le forze del mercato hanno generato nuove opportunità ma, come era ovvio, anche nuove forme di rischio. Il risultato di questo processo è il fatto che regolatori e policy makers si trovano oggi ad affrontare nuove sfide. E’ il mercato, cioè la relazione tra gli attori di mercato, la forza che genera il cambiamento e la nuova ricchezza, ma anche nuove fonti di fragilità sistemica e nuove tipologie di opportunismo. Le nuove regole devono essere create sulla base del profilo assunto dal paesaggio finanziario. Prima di questi cambiamenti il mercato sarebbe stato descritto secondo tre tipologie canoniche: il credito; la gestione dei patrimoni; l'amministrazione del sistema dei pagamenti. Il rischio creato dalle transazioni e dai prestiti sarebbe stato ospitato nei bilanci delle banche ed i giudizi sulla dinamica, del rischio e del rendimento, sarebbero stati espressi dai banchieri nella costruzioni dei bilanci e nei giudizi sottostanti le paste che li componevano. La robustezza del patrimonio delle banche veniva considerata come la base solida, e capace di ammortizzare eventuali scosse sismiche, dell' architettura complessiva del sistema finanziario.
Oggi Draghi parla di grandi banche, il risultato economico delle quali si forma solo per il 40% del totale grazie al margine di interesse, prima quella quota era del 60%. Molte nuove forme di servizi, pagati con commissioni e non con un margine di interesse, prendono il posto dei crediti. Ognuna delle prime dieci banche gestisce asset per un trilione di dollari; nel1995 la più grande non arrivava a 500 bilioni di dollari. Ma l'innovazione veramente radicale si legge nella diffusione di un nuovo modello di business: creare rischio da distribuire attraverso la cartolarizzazione degli attivi e la creazione di derivati, collegati ai titoli distribuiti attraverso la cartolarizzazione. OTD, in inglese, da originate to distribuite. Cambia, di conseguenza, il profilo della relazione tra rischio e rendimento nelle grandi banche. La stabilità finanziaria dipende dalla capacità di gestire la complessità delle nuove dimensioni, qualitative e quantitative, del business; dalle dinamiche del mercato dei capitali; dalla gestione del profilo di liquidità alla nuova scala dimensionale. Anche perché il funding e la gestione, in questi casi, presentano notevoli economie di scala e di scopo. mentre la circolazione, tra banche e non banche, dei rischi trasferiti alla platea dei risparmiatori, in forme varie e diverse, genera ulteriori esternalità positive di rete. Cioè nella rete degli intermediari e dei fornitori di servizi, che si integrano con gli intermediari stessi. Non tutto si può leggere oggi nei bilanci delle banche e non sempre i regolatori hanno percepito le conseguenze di questa novità. Insomma, e per farla breve, la crisi dei subprime non è, come qualcuno pensava, la riedizione della crisi del 1929: essa e la prima grande crisi del modello OTD (originate to distribuite).
Ma è anche un "laboratorio" per creare forme più adeguate di politica monetaria e di vigilanza sugli intermediari, bancari e non. La seconda faccia del sistema e ancora quella della gestione dei patrimoni. La moltiplicazione dei prodotti finanziari ha generato, simmetricamente, una moltiplicazione dei titoli in cui impiegare i patrimoni privati. In Europa dominano la scena banche ed assicurazioni, che detengono il 90% del mercato: con un latente conflitto di interessi per queste imprese che danno origine ai titoli e li collocano nei portafogli privati. Nei paesi anglosassoni è molto più esteso il ruolo dei provider indipendenti. Competizione tra regimi diversi nei singoli mercati nazionali e la domanda diffusa di nuovi prodotti condurranno alla creazione di aziende specializzate nella erogazione di questi servizi. Separate dalle banche e dalle assicurazioni. Anche in questo caso le forze di mercato produrranno il cambiamento: e la integrazione di mercati, grazie alla omogeneizzazione delle regole, determinerà effetti iperadditivi. Mentre i regolatori, nel migliore dei casi, avranno smontato argini nazionali e tipologie domestiche, che coprono arbitraggi e posizioni di rendita. In questo nuovo scenario, e prima di arrivare al sistema dei pagamenti, banche e gestori di patrimoni richiedono la presenza di una quarta fascia di servizi: le infrastrutture per il funzionamento dei mercati. Infrastrutture necessarie per la circolazione e la negoziazione di titoli quotati e di derivati su quei titoli. Infrastrutture che rappresentano una nuova componente, abbastanza inedita, dei mercati finanziari. Gli intermediari restano i pilastri del sistema ma non sostengono solo il rischio ospitato nei propri bilanci ma anche una rete di rischi, che si estende, tra i pilastri e sui mercati, grazie alla esistenza di quelle infrastrutture. La politica monetaria, di conseguenza, non si realizza prevalentemente mediante il canale dei prestiti bancari ma attraverso l'equilibrio che si raggiunge tra le aspettative degli operatori e l'intelligenza di quelle aspettative da parte delle banche centrali. La politica monetaria deve agire su una larga varietà di attori e sui loro comportamenti. Essa deve capire dove dovrebbe, e potrebbe, andare il sistema, per condurlo in quella direzione. Senza assecondare passivamente le aspettative ma anche senza determinare strappi radicali. Le conseguenze dei quali aprirebbero crepe pericolose. Questa e la nuova sfida del banchiere centrale. Che non deve essere succube del mercato ma deve capirne gli umori per governare la dinamica del cambiamento. Non è un guardiano ma un pilota del sistema, anche se non è e non deve essere il pilota delle singole banche10.
Curiosità per il cambiamento o paura del cambiamento - Un dilemma contemporaneo che frena lo sviluppo dei paesi maturi - La cultura e la politica di fronte all'accelerazione della crescita - La legge serve ma non basta, da sola, a regolare il mercato

Bisogna avere paura del mercato globale o bisogna osservarlo e capirlo per utilizzarlo come una leva potente della crescita e del benessere? Per rispondere partiamo dalla nuova general purpose technology, che consente la produzione di informazioni, il loro trasferimento a distanza e la gestione del loro contenuto a costi decrescenti. Questo cambiamento è il secondo balzo tecnologico dopo l' elettricità ed il suo effetto è generale perché è anche orizzontale. Se si manifesta, migliora la produttività nell'intero sistema economico. Lo stock di informazioni cresce (più rapidamente) e può essere utilizzato (più rapidamente) diffondendo (più rapidamente) le informazioni generate.
Si manifesta così un eccesso relativo di informazioni, un aumento di confusione entropica del sistema e, di conseguenza, nasce un bisogno di valutazioni sulla qualità di quelle informazioni. Il bisogno di selezionarle per valutare le conseguenze della loro utilizzazione come guida delle singole azioni individuali. Un bisogno, insomma, di informazioni affidabili per concentrare la propria attenzione in vista delle azioni generate dall'utilizzazione di quelle informazioni. Questo insieme di circostanze genera un formidabile cambiamento nei sistemi politici e nel funzionamento dei mercati.
La politica si disintegra: si concentra sul governo, a scala territoriale, decentrata, sul governo dei servizi collettivi e la creazione di capitale fisso sociale. L'economia cambia, essa stessa, perche l' accelerazione dei ritmi operativi offerta dalle nuove tecnologie alimenta l'integrazione in un unico grande mercato mondiale. Si integrano, da ultime, anche le banche e le imprese: le organizzazioni che fanno vivere i mercati; perché esse stesse cambiano forma e modalità di funzionamento con la diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione e della informazione. Esse non modificano solo le modalità dello scambio ma anche la dimensione e la funzionalità interna delle gerarchie che danno vita alle organizzazioni, economiche e non. Pianificazione, Strategie, Struttura Organizzativa, nel secolo scorso, erano considerate processi pesanti e stabili nel tempo, una volta elaborati. Sia nel mercato delle merci che in quello della politica: la fabbrica fordista ed i piani quinquennali sovietici si rispecchiavano l'una negli altri. Oggi, controllo dei risultati e progettazione del futuro remoto possono convivere grazie ai cambiamenti tecnologici intervenuti. Si contrae la distanza che separava queste due modalità dell' azione individuale. Se aumenta la velocità (nel trasferimento delle informazioni) si accorcia il tempo necessario per coprire la medesima distanza. La connessione prevale sulla contiguità, in un primo momento.
Ma, subito dopo, connessione e contiguità si affiancano, accelerando ancora l'interazione tra gi attori ed il cambiamento dell'ambiente in cui essi agiscono. L'organismo biologico è diverso dalle organizzazioni umane. Esse agiscono intenzionalmente sulla base dei comportamenti degli individui che danno loro vita. L'evoluzione biologica dipende dal caso, che incrocia ambiente ed organismi. Quella sociale dipende dalla interazione tra le scelte individuali e l'ambiente, che esse condizionano e modificano. La seconda, nel mondo contemporaneo, è molto più rapida, complessa ed imprevedibile. Ma non è necessariamente nociva o da evitare.
Il fatto è che il rischio del cambiamento non scompare, ma si dilata, in presenza di strumenti che sono essi stessi ancora non adeguatamente controllati, dagli attori che pure li utilizzano. Convivere can il cambiamento, insomma, per favorire la crescita, significa riconoscere la forza oggettiva dell' economia e degli scambi a prescindere da quello che vorremo che fosse il percorso dello sviluppo. La legge serve ma non basta per cogliere i vantaggi del cambiamento. Ma, tra cambiare, correndo i rischi della modernità contemporanea, e ritirarsi impauriti di fronte al cambiamento, la prima opzione è certamente più favorevole alla crescita ed al progresso. Anche se non è mai detto che si abbia certezza di come andranno a finire le cose. Di un fatto siamo sicuri. Chi era certo di ottenere un futuro migliore, con il dirigismo e sulla base di una illuminata ed esclusiva visone del futuro, ha fatto, nel ventesimo secolo, una brutta fine.
Capire gli errori per capire le crisi – sbagliando si impara

Mille miliardi di dollari: questa è la cifra, rilasciata dal Fonda Monetario Internazionale, sulle dimensioni delle perdite attese per la crisi che ha contagiato il mercato mondiale partendo dai subprime americani. Essa ha accesso lo stupore e l'indignazione delle cronache economiche. Perche e molto più a1ta delle prime cifre annunciate ed anche perché è molto grande. Ma grande rispetto a che cosa? La dimensione dei titoli e dei crediti negoziati nel mondo è molto più grande ed è cresciuta in maniera più che proporzionale rispetto a dieci anni fa, grazie alle nuove tecnologie della finanza.
Larghissima parte della massa finanziaria, che intermedia nel mondo risparmio ed investimento, produce ricchezza e benessere e non perdite. Inoltre, e questa è la cosa davvero importante questa progressiva scoperta del valore delle perdite è assolutamente coerente con la diagnosi della crisi tracciata dai migliori analisti.
Come Mario Draghi che, da alcuni anni, dirige il Financial Stability Forum ed ha annunciato al G7 concluso ad aprile del 2008, l' agenda delle riforme necessarie per arginare le cause della crisi in atto, cioè, come abbiamo cercato di raccontare prima, la crisi del nuovo modello organizzativo dei mercati finanziari, originate to distribuite: crea il rischio e distribuiscilo su una pluralità di attori diffusi11.
Questo nuovo modello di comportamento ha rivoluzionato banca e finanza con tre ingredienti: la larga diffusione dei derivati; la cartolarizzazione degli attivi bancari; la creazione di architetture contrattuali molto sofisticate intorno alle obbligazioni emesse per finanziare le cartolarizzazioni. Ricapitoliamo come funzionano i tre ingredienti.
Il derivato, lo dice la parola stessa, è una cosa generata da un' altra e diversa cosa.
Esso attribuisce a chi lo possiede un diritto che offre la opportunità ma non l' obbligo di comprare o vendere un prodotto finanziario tradizionale: l'azione di una società quotata, per fare un semplice esempio. L'azione avrà un rendimento atteso, ovviamente, ed una volatilità di quel rendimento. Non è dato sapere prima quale sarà il rendimento mentre le effettive manifestazioni del rendimento staranno in una forbice più o meno ampia. Più ampia è la forbice - la media degli scarti dalla media del valore possibile del rendimento - più l'azione è rischiosa. Ma, più balla l'azione, più acquista valore il diritto di comprarla quando il suo prezzo è basso, perché allora tutti pensano che il rendimento sarà nella parte bassa della forbice, e più alta sarà la probabilità che, oscillandone il prezzo, si possa rivendere l'azione guadagnando. Si capisce che il derivato è più lucroso, ma proprio per questo anche più rischioso dell'azione. Dunque il valore economico del derivato – è quello che abbiamo descritto è il più elementare dei derivati, una vanilla call, nel gergo dei mercati, essendo la vaniglia il gusto più diffuso dei gelati – è difficile da quantificare perché è difficile capire come e quanto la volatilità del sottostante offrirà una lucrosa prospettiva a chi lo compra, in base al prezzo che deve sopportare. Se non si capisce bene il prezzo di ogni derivato, come si poteva quantificare all'inizio della crisi il valore di tutte le perdite attese? La crisi attuale dei mercati finanziari internazionali nasce proprio dal fatto che, in una prima fase, tutti comprano accecati dal rendimento, ignorando il rischio collegato. Ad un tratto, non avendo capito cosa hanno comprato, nessuno vuole più comprare in presenza di una sola certezza: non si capisce il valore dei derivati e dei titoli in circolazione. Da una parte molte banche restano liquide ad ogni costo, per non comprare, mentre altre banche restano piene di titoli che nessuno vuole comprare, neanche a prezzi di realizzo. Le autorità iniettano liquidità per evitare che la crisi si trasformi in un crack generalizzato: coloro che sono troppo pieni di titoli schianterebbero sotto il peso delle perdite da sopportare. Alcuni intermediari falliscono, altri si salvano, grazie alle banche centrali ed ai loro prestiti di ultima istanza. La crisi rallenta e si ferma solo quando si capisce l'ammontare dei danni subiti: alcuni restano sul campo, altri sopravvivono e crescono, comprando coloro che stavano fallendo, grazie alla scelta di essere rimasti liquidi. Ma i derivati sono solo il primo dei tre ingredienti che abbiamo ricordato: anche il più esplosivo, nel senso del meno prevedibile negli esiti futuri. Cartolarizzare vuol dire, invece, spostare fuori della banca il rischio che essa ha assunto. Negli anni del miracolo economico Giordano dell'Amore espandeva la Cariplo, ed il mercato immobiliare, con le sue cartelle fondiarie. Se cedi il rischio ad una società ad hoc, creata dalla banca con poco capitale e finanziata da obbligazioni vendute ai risparmiatori, quel rischio si allontana dal luogo in cui guardano gli organi della vigilanza: che è appunto la banca. Ma, se le banche centrali non guardano fuori dalle banche, quel rischio, che viene perso di vista, continua a circolare nel sistema. Tutti guardano gli alberi e nessun vede la foresta dall'alto. Come se in una città esistessero solo i vigili all'angolo delle strade, senza radiotelefoni per scambiarsi informazioni ne elicotteri che individuano gli ingorghi dall'alto. Nessuno guarda il sistema nel suo complesso e la mobilità della città si inceppa, proprio come la crisi inceppa il mercato finanziario: dove alcuni restano liquidi, ma impauriti all'idea di spendere soldi per avere titoli ed altri restano bloccati nell'ingorgo dei titoli che nessuno vuole più comprare. I grandi banchieri centrali, quelli davvero memorabili, hanno guardato l'intero sistema e le sue dinamiche e non solo le singole banche. Ed hanno sempre pensato che la politica monetaria, la vigilanza e la politica fiscale dovessero andare di conserva e non separate. Perché una economia monetaria di produzione - un nome meno impegnativo per il capitalismo coniato da Piero Sraffa, economista italiano di grande talento - funziona proprio così. Le imprese inseguono la crescita della ricchezza, che verrà distribuita a tutta la società, prima o poi; le banche le inseguono; le banche centrali e le autorità pubbliche inseguono le banche e le imprese per evitare che, accecate dalla mancanza di informazioni sul futuro e dai comportamenti sleali degli attori più forti - nel nostro caso i banchieri rispetto ad imprenditori e risparmiatori - profittino della propria forza per spuntare prezzi di vantaggio e non aderenti al valore effettivo di quello che essi cedono. Sbagliando imparano tutti dai propri errori. Ed imparare dagli errori è la strada migliore per crescere: il mondo moderno non sarebbe mai nato se Colombo non avesse accettato di partire per le Indie ignorando l' esistenza intermedia delle Americhe. E la sua impresa, senza i finanziamenti della regina di Spagna, anche se voluta non avrebbe potuto essere tentata. E’ la sfida perenne contro le forze oscure del tempo e dell'ignoranza - come diceva Keynes - che fa muovere il mondo. Ed è la scoperta progressiva dei nostri errori che rende il mercato migliore e meno imperfetto. Sempre meglio delle economie pianificate dove se sbaglia il banchiere di Stato, e può farlo, entra in crisi tutto il sistema mentre, nei mercati, se una banca nega i fondi ad una impresa, che aveva scelto di investire, ce ne può essere un' altra che corregge il razionamento del credito creato dalla prima. Vedremo ora se le soluzioni, ideate dal gruppo diretto da Draghi per convivere meglio in futuro con i nostri errori, saranno praticabili e come. E vedremo anche se e come banche centrali e governi accetteranno di giocare di conserva per superare anche questa crisi ennesima dell'economia monetaria di produzione per ricreare ancora più spazio per la crescita ed il benessere. E per sbagliare ancora, probabilmente, ma per avanzare anche nella lunga lotta contro le forze oscure del tempo e dell'ignoranza, che di fronte all'incertezza sanno solo paralizzarsi inorridite.


3. Si materializza l'ipotesi di nuove elezioni: appare sulla scena politica italiana un fantasma temibile ma non del tutto imprevedibile

Sindacati e Socialdemocrazia - Cultura politica e qualità delle organizzazioni - Non basta la squadra per portare a termine l'impresa - Cultura del cambiamento e tecniche di governo

Senza aver neanche cambiato le modalità per votare, la competizione elettorale ha almeno obbligato i partiti italiani a darsi una identità riconoscibile. E’ finita, per fortuna, la stagione delle coalizioni larghe e preventive. Il Partito Democratico si è proposto come la sede in cui creare una identità forte per una politica di centrosinistra. Per attrarre, come in un processo gravitazionale, gli alleati grazie alla densità dei contenuti ed alla identificabilità dei risultati, che da quei contenuti dovrebbero discendere.
Ma le cause della mancata creazione di questa identità - più precisa nei contorni e più focalizzata sugli effetti attesi - durate la stagione del governo Prodi non nascevano solo dalla mediazione ex ante tra miriadi di partiti personali. Un ruolo hanno avuto certamente l'evanescente presenza e la progressiva dissolvenza, ed anche una qualche diaspora, della cultura socialista nel trapasso alla seconda repubblica. Non è questione di etichette ma della capacità, o meno, di guardare lucidamente ai cambiamenti sociali e saperne assumere il governo, senza cadere nella trappola della palingenesi, improbabile, né in quella della mera mediazione tra gli interessi e le aspirazioni frammentate, che si rivela, alla prova dei fatti, inadeguata allo scopo. Parte di questo deficit deriva dalla sistematica prevalenza, in Italia, di una cultura comunista, seppure originale, su quella socialdemocratica. Parte dalla lunga stabilità organizzativa di un partito, la Democrazia Cristiana, nel quale convivevano liberalismo, anarcosindacalismo e radicalismo sociale: filtrati da una comune cultura cattolica.
Queste due circostanze non ritornano mai nelle cronache della seconda repubblica ma le hanno, e non poteva essere altrimenti, condizionate nella loro fenomenologia.
D' altra parte, ed in modo originale, cultura comunista e cultura cattolica avevano, nella prima repubblica, colmato la eccessiva distanza, che può creare seri problemi alla vita democratica, tra cittadini ed apparati istituzionali. Altre organizzazioni, di vario genere e tipo, vengono utilizzate altrove per coprire questa distanza tra la società e le istituzioni. Ma i corpi intermedi, per la loro stessa natura di connessione, possono diventare una forza che si oppone al cambiamento - un attrito - ad una leva che ne agevola il cammino, lo accelera e lo indirizza. I sindacati - le rappresentanze organizzate dei lavoratori - sono una parte importante di questo tessuto connettivo.
Negli ultimi venti anni, la spinta all'innovazione, nei linguaggi, per descrivere e capire la dinamica economica e nelle soluzioni per governarla, che era venuta dall'unificazione sindacale, si è andata attenuando, per usare un eufemismo. L'unificazione aveva spezzato il collateralismo tra i diversi sindacati, la cultura comunista e quella cattolica. Ed aveva creato un nuovo gruppo dirigente. Rappresentanti importanti del quale hanno guidato oggi i due rami del Parlamento: uno proveniente dalla cultura cattolica, l'altro da una radice socialista. La cultura comunista, che aveva dato uomini ed idee importanti al processo di unificazione, non riesce, evidentemente, a sostenere, nella seconda repubblica, la sfida parallela di dare nuova linfa sia ai partiti che ai sindacati. Ed è proprio in questi anni che il sindacato sconta una debolezza nell' innovare diagnosi e terapie di politica economica. Mentre gli eredi, nelle nuove forme del centrosinistra, di quella cultura comunista originaria, perdono essi stessi la capacità di leggere e governare il cambiamento sociale indotto dalle trasformazioni economiche.
Le vicende politiche in Europa, invece, ci indicano chiaramente che la capacità di tenere il ritmo del cambiamento - e garantire che la espansione della ricchezza non si risolva solo nella rottura degli assetti costituiti ma anche nella redistribuzione del benessere e della giustizia sociale - si realizza solo quando una direzione politica di stampo socialdemocratico, o laburista, viene affiancata da una presenza importante delle organizzazioni sindacali nella dinamica sociale. Non certo nelle forme della "cinghia di trasmissione" di memoria leninista. Ma attraverso la capacità di reggere, nelle relazioni d'impresa e dentro il mercato del lavoro, le sfide proposte dalla tecnologia e dalla integrazione dei mercati. Mentre la politica ridimensiona il controllo pubblico dell' economia, restituisce flessibilità alle imprese ed ai mercati, allarga la sfera della responsabilità sociale, rafforza la tutela della competizione e la supervisione dei mercati. Per fronteggiarne i fallimenti senza riproporre obsolete suggestioni autarchiche e dirigistiche. Il vuoto che generano l' assenza della cultura socialista, e la mancata relazione tra partiti e sindacati, nello schieramento di centrosinistra impedisce di governare il cambiamento utilizzando le forze del "mercato globale" invece di opporsi alla loro affermazione. Arenarsi, per la seconda volta, a due anni da una vittoria elettorale impone la ricerca di cause oggettive e non solo di limiti soggettivi.
Cultura politica e qualità delle organizzazioni, forse, dovrebbero contare ancora nel futuro prossimo.
Le conseguenze economiche della crisi di governo - ed una modesta proposta per fronteggiarle

Il Fondo Monetario12 individua a gennaio del 2008 Stati Uniti ed Europa come epicentri del rallentamento mondiale. Stimando nell' ordine dell'1,5% la loro crescita attesa per il 2008. La crescita del mondo intero viene confermata a 14,1%. Nel2008 - ma questa è una questione domestica ed italiana dovrebbe andare a regime l'impianto delle politiche per la coesione e la competizione, da realizzare nel periodo 2007/2013, per dare un ultimo colpo visibile al dualismo italiano tra Nord e Sud. Una sfida impegnativa e necessaria. Ma anche un sfida con noi stessi: perche l'Italia dovrebbe realizzare una radicale innovazione rispetto ai mediocri risultati ottenuti con Agenda 2000.
La crisi del Governo Prodi ha generato preoccupanti conseguenze, anche per il suo rapido, quanto inopportuno precipitare verso le elezioni anticipate.
Il vuoto di governo e, francamente, anche di una chiara prospettiva sui nuovi equilibri politici che emergeranno dalle urne, ha creato un incremento significativo della incertezza sulla capacità di reagire alla flessione attesa della crescita e - circostanza ancora più dannosa - un ritardo nella messa a regime di politiche e strumenti che dovrebbero, nel futuro, dare carburante finanziario e sostegno organizzativo allo sviluppo italiano, superata l'onda negativa della difficile congiuntura in cui ci troviamo. La repentina campagna elettorale ha certamente contribuito ad una ulteriore contrapposizione frontale tra le soluzioni proposte dai due schieramenti. Impegnando il centrosinistra nella difesa di una politica economica, che non è tutta difendibile: se non altro perché ha accentuato nel recente passato tratti deflattivi, come la pressione fiscale, e tratti redistributivi, piuttosto che rafforzare le basi dell' accumulazione. D' altra parte il centrodestra ha enfatizzato piuttosto il ricambio del personale politico, in presenza di quelle ambiguità, che non la ricerca di una terapia più idonea ad un rilancio sostenibile della crescita. La campagna elettorale, insomma, ha irrobustito il dna negativo alla radice della configurazione del Parlamento appena sciolto. Riconsegnando ai partiti la capacità di nominare i parlamentari e confermando lo scontro tra coalizioni, chiuse in se stesse, rispetto a soluzioni condivise nell'interesse del paese. L'alternativa alle elezioni subito sarebbe stata la formazione di un governo capace di agevolare la trasformazione del regime elettorale per consentire una scelta più efficace, su uomini e programmi.
Se questa scelta si fosse affermata, essa avrebbe anche dovuto e potuto tenere conto della emergenza economica, che si cumula con la emergenza di riformare le regole della competizione elettorale. Un governo di transizione, insomma, avrebbe potuto assolvere almeno tre compiti: dare al parlamento il tempo di modificare la legge elettorale; creare un clima di cooperazione tra le forze politiche; fronteggiare l'emergenza congiunturale e consolidare gli strumenti per la chiusura del dualismo italiano nel lungo periodo. La seconda condizione sarebbe stata un ritorno alla prospettiva, che circolò già in questo parlamento, prima di arrivare alla contrapposizione tra i due schieramenti che dette inizio al governo Prodi. Come articolare la reazione all'emergenza economica?
Se ne potevano dare due interpretazioni, entrambe fondate su un comune impianto organizzativo. Un governo di transizione non avrebbe dovuto riordinare l'impianto dei ministeri. Avrebbe scontato, dunque, il dualismo, voluto da Prodi, tra ministero delle finanze e ministero dello sviluppo economico. La scelta dei ministri poteva chiudere questa divaricazione per realizzare una politica economica coerente e capace di contrastare almeno tre problemi. Dare una adeguata risposta congiunturale, sul piano monetario e fiscale, all' onda recessiva; battere l'inerzia che, nella faticosa relazione che lega governo e regioni nella gestione delle politiche europee, tende a ripetere i processi ed i contenuti di Agenda 2000, attenuando la spinta innovativa richiesta dalla stessa Commissione Europea; facilitare ulteriormente il riordino delle relazioni industriali, sia sul terreno delle misure pubbliche per il welfare che su quello della libertà contrattuale, per adeguare produttività e retribuzioni nelle imprese.
Sono tre punti programmatici che avrebbero avuto essenzialmente un comune fondo comportamentale: uno stile nuovo di governo e non tanto la ricerca di nuovi contenuti. Che rappresenterebbe anche una contraddizione con la missione di transizione assegnata al governo stesso. La durata del quale poteva stare tra due estremi. L'approvazione di un dpef essenziale e robusto entro l' estate, insieme con la nuova legge elettorale. Oppure, in alternativa estrema, l'ottenimento del medesimo risultato in autunno: con una legge elettorale affiancata da una legge finanziaria precoce, approvata davvero in ottobre e non a Natale. Insomma, questo governo di transizione poteva ben reggere su due pilastri - la tenuta economica e la riforma elettorale - la trave di un appuntamento elettorale anche entro il 2008. Ottenendo che esso avvenisse in un clima meno velenoso e con regole e strumenti più idonei a scelte utili per un futuro sviluppo. Proprio un mestiere da civil servant, come disse Fausto Bertinotti, nei primissimi giorni della campagna elettorale.
Le determinanti fondamentali del mercato del lavoro - La croce dei contratti - Tra nord e sud

Senza la pausa elettorale si potevano adottare molte misure sul mercato del lavoro. Bisognava ridare fiato alla produttività ed al potere di acquisto dei salari e degli stipendi: detassando gli straordinari, per ridurre l'incentivo a lavorare in nero ed aumentare la coesione tra impresa e lavoratori, innalzando la produttività aziendale. Bisognava dare più spazio alla contrattazione aziendale rispetto al carattere assorbente che assume la contrattazione collettiva di settore. Per molti motivi. L'innovazione tecnologica, e la rivoluzione organizzativa che ne è seguita, hanno rivoluzionato la rigidità fordista, secondo la quale un settore è solo l'insieme delle imprese che operano nella medesima industria. Integrazione orizzontale ed integrazione verticale non portano sempre alla identificazione di ogni mercato con una industria corrispondente: burocraticamente individuabile come settore. Basti pensare all'italian style, che riguarda la moda, la cura della persona ma anche il modo di mangiare o di comportarsi ed i locali nei quali ritrovarsi. Se volessimo, comunque, continuare in queste classificazioni, di sapore dirigista, dovremmo ammettere che nei "settori" in crisi esistono imprese di successo - che assorbono quelle più fragili od incapaci - e nei "settori" di successo esistono casi clamorosi di fallimento. Le imprese esistono come entità; le categorie analitiche, per descrivere l'economia e i mercati, esistono solo nelle convinzioni degli analisti e, qualche volta, non catturano la effettiva morfologia delle cose. I contratti collettivi, per tornare al mercato del lavoro, sono l'effetto di una prospettiva obsoleta: la capacità descrittiva che molti analisti attribuiscono ai settori. Osservando la morfologia del panorama imprenditoriale italiano si notano, invece, due evidenti forme di dualismo: tra Nord e Sud; tra pubblico e privato. Nel centro nord le imprese con oltre 50 addetti sono il 2,6% del totale; nel mezzogiorno sono solo l'1% del totale. Senza contare che il reddito procapite e la quota delle esportazioni, sono nel Nord assai più alte. Ne segue che anche i mercati in cui agiscono effettivamente le imprese siano molto diversi. Nel Nord filiere e gruppi di imprese agiscono di conserva e sfruttano l'innovazione tecnologica. Nel Sud il fenomeno è assai più contenuto. Nel Sud esistono una ampia disoccupazione strutturale ed una larga fascia di lavori al di fuori della legalità. Servirebbe un salario di cittadinanza e non la cassa integrazione, che tiene in piedi imprese improduttive o alimenta la tracimazione delle risorse umane nel lavoro nero. Al Nord bisogna, invece, regolarizzare il lavoro degli immigrati. Al Nord come al Sud servono politiche per rimuovere la precarietà sociale, cha affligge la vita quotidiana dei lavoratori giovani, senza compromettere la flessibilità interna dell'impresa, che la rende competitiva. Il dualismo tra vecchi e giovani, nelle modalità del rapporto di lavoro e nella dimensione previdenziale, è un dualismo preoccupante quanto quello territoriale. Per la parte previdenziale esso evoca l'altro braccio della croce italiano: quello della divaricazione tra pubblico e privato, per produttività e senso della responsabilità personale rispetto ai compiti della organizzazione in cui si lavora. Questo dualismo è al centro della bassa produttività di sistema del paese che, cumulandosi, con i problemi di produttività azienda riduce ulteriormente la capacità delle imprese di competere e di esportare.
Contratti pubblici e contratti privati, oltre che con queste differenze, dovrebbero fare i conti anche con due fiumi carsici che hanno percorso entrambe le sponde, quella pubblica e quella privata, delle gerarchie organizzative. La grande dimensione è andata in crisi. Piccolo è bello, si è detto con troppa superficialità nell'impresa privata. Decentrare è meglio, si è detto nella distribuzione dei poteri attribuiti alla pubblica amministrazione. Ovunque la negoziazione si è sostituita alla gerarchia. La diffusione dell' outsourcing e delle relazioni interindustriali - filiere a distretti che siano le sedi in cui si negozia l'integrazione necessaria a ricomporre la dimensione perduta della grande impresa – è la forma che assume il negoziato tra imprese. La programmazione negoziata, tra i livelli territoriali della giurisdizione politico amministrativa, o quella tra attori sociali ed attori istituzionali, sono diventate la regola, autoparalizzante, nella gestione dei beni e dei servizi collettivi. Si negozia molto tra le organizzazioni, con discutibili effetti di efficienza, non solo tra organizzazioni e dipendenti. Problema che si ritrova nel settore pubblico come in quello privato. Si dirà che lo scambio, e la "conversazione" tra le parti che lo genera, siano una strada migliore della mediazione gerarchica degli interessi. Essendo la seconda più esposta della prima al moral hazard. Chi custodirà i custodi? Chiosava Stiglitz. Ma anche lo scambio presenta i suoi problemi di selezione avversa, dovuti alla asimmetria in materia di informazione sulla cosa da scambiare ed il suo prezzo. Come sanno bene lavoratori ed imprenditori per la dimensione delle retribuzioni e quella della produttività. Chiusa la stagione elettorale, e chiusa - si spera - l'epoca del bipolarismo federale - si potrebbe riaprire uno spazio di dialogo sui lavori e sui mercati, cercando impianti legislativi più capaci di capire e, di conseguenza, governare quale sia la realtà effettiva dell'economia e della società italiana.


4. In mare aperto senza timoniere: la dinamica della crisi mondiale è parallela alla campagna elettorale in Italia

Monete e politica monetaria - le strade della crescita ed il destino delle monete - le radici lontane della globalizzazione ed il suo futuro possibile - Money matters: la moneta conta

In un passato non troppo lontano gli Stati e le Banche centrali europee avevano voce in capitolo nel governo della crescita mondiale. Esse concorrevano nella formazione e negli impieghi della base monetaria internazionale. La valuta in cui si esprimeva quella base monetaria era il dollaro americano che, dalla scarsezza che ne aveva accompagnato la nascita, negli anni immediatamente successivi agli accordi di Bretton Woods (1944), era diventato progressivamente abbondante e, forse, anche ridondante. Dal dollar gap al dollar glut, come si diceva in gergo13
Erano gli anni del progressivo trapasso dal regime di dollar standard - il dollaro che cambia convenzionalmente ad uno standard fisso con l'oro e le monete mondiali che fissano il proprio cambio contro il dollaro - ad un regime nel quale gli Stati Uniti rivendicano, nel 1971, la disdetta di quegli accordi e la possibilità di far fluttuare il cambio della propria valuta. Una stagione che si conclude con gli anni Ottanta, dopo aver attraversato un paio di crisi petrolifere. Erano gli anni degli eurodollari, che diventano poi petrodollari e xenodollari. Vari modi per dire la medesima cosa: l'esistenza, nella circolazione bancaria internazionale, di una grande quantità di dollari che, al di fuori dei confini degli Stati Uniti, transitano nei conti delle banche internazionali: diventano depositi denominati in dollari che possono essere trasferiti da quelle banche, per importi assolutamente equivalenti, non dovendo esse accantonare riserve su quegli impieghi, a finanziamenti in dollari. Determinando la nascita di una base monetaria internazionale che è fatta di moneta fiduciaria, depositi che diventano impieghi, ma che alimenta il ciclo degli investimenti e della produzione internazionale. Non a caso Carli parlava, allora, di un piano Marshall per i paesi in via di sviluppo.
Un piano finanziato dai petrodollari, che gli sceicchi depositavano sui conti bancari internazionali, avendo incassato prezzi crescenti del petrolio, dopo le crisi dei primi anni Settanta. Uno scenario inedito ed imprevisto. Banche centrali che indicano come, attraverso canali bancari, la liquidità internazionale possa alimentare un ciclo di crescita reale e non solo aggiustamenti speculativi di breve respiro nelle transazioni tra stock di moneta e stock di titoli. Si intravedeva in quelle circostanze un potenziale ruolo attivo delle autorità europee nel governo della crescita mondiale. E Carli diceva, infatti, che gli europei potevano concorrere nel governo del pianeta producendo e imponendo alla comunità internazionale, idee efficaci. Eppure, in quegli anni, paradossalmente, dell'euro, della banca centrale europea, dell'Unione Europea e del suo repentino e tumultuoso allargamento, non c'era traccia alcuna. Gli anni, che separano quella stagione dalle dinamiche del ventunesimo secolo, sono quelli del serpente monetario, prima, e della progressiva convergenza delle monete europee. Per battere la instabilità dei cambi - indotto strumentale delle guerre commerciali tra paesi europei - e la mancata occasione del secondo piano Marshall, mai realizzato compiutamente. Da quelle esperienze nascono l'euro e l'idea di chiudere l'Europa in una sorta di noce, unificata al suo interno dalla moneta e dalla speranza che l'unificazione politica ne fosse la inevitabile conseguenza. Implodeva l'impero sovietico ed esplodeva la stagione della information and communication technology negli Stati Uniti. L'Unione Europea nasceva come un mercato unico, ed introverso rispetto al mondo che la circondava, mentre si formava il mercato globale. Ed i paesi dell' ex impero sovietico si mettevano in marcia verso il mercato e la democrazia. Il club monetario europeo, indicato come l'orizzonte internazionale nel quale approdavano i paesi che avevano adottato l'euro, doveva precipitosamente allargarsi, generando una corona commerciale intorno al suo nocciolo monetario. Fuori dell' euro restava la nazione europea che, per prima, aveva scelto la privatizzazione della sua economia, il ritorno al mercato, e si era specializzata nell'international banking e non nella produzione di manufatti: il Regno Unito. Il nuovo mercato globale, infine, trasformava, grazie alla crescita che rendeva possibile, in paesi creditori del sistema i nuovi protagonisti che, dal Sud dell'Asia e delle Americhe, decollavano con straordinaria velocità. Questa nuova domanda aggregata generava squilibri ambientali e squilibri nei prezzi, nei cambi e nella bilancia dei pagamenti: per ogni paese del mondo. Ma questa è la cronaca di oggi.
Quali sono le differenze, nella struttura monetaria e finanziaria del mercato mondiale, tra gli anni dei petrodollari e quelli che stiamo vivendo? Allora, i dollari erano la moneta del paese che aveva vinto la guerra e supportato la ricostruzione. Bretton Woods, se la si rilegge da questo punto di vista, è una sorta di rampa di lancio che prepara il decollo del mercato globale contemporaneo. La compiuta realizzazione del quale ha comunque dovuto scontare la stagione della guerra fredda e la implosione dell'impero sovietico. C’è un filo rosso tra quella conferenza monetaria internazionale, la nascita di Banca Mondiale e Fondo Monetario, la caduta del muro a Berlino.
I dollari, emessi dal tesoro americano a fronte delle proprie riserve auree, alimentavano la moneta fiduciaria, gestita dalle grandi banche, e rappresentavano una potenziale base monetaria, l'utilizzo della quale poteva essere condivisa dai Governi Europei e da quello americano. La scena contemporanea è molto diversa. Le grandi banche hanno ridotto sia la dimensione patrimoniale che il proprio ruolo nella gestione della intermediazione creditizia. Originate risk to distribute it, il nuovo standard di comportamento, comprime la dimensione di crediti e depositi ed aumenta quelle dei titoli emessi e dei portafogli delle famiglie, in cui essi vengono collocati. I mercati dei titoli rappresentano volumi crescenti mentre il ruolo dei bilanci bancari, come pilastri del trasferimento tra risparmi ed investimenti, attraverso il credito, si riduce. Le banche sono brokers sui mercati finanziari; non sono più dealer della crescita. L'euro viene emesso da un consorzio di banche centrali e non è, in senso stretto, una banconota. Ad esso si contrappongono le riserve auree, e valutarie, delle banche centrali che aderiscono al sistema, al culmine del quale si colloca la BCE. Nelle banche centrali di tutto il mondo alle riserve auree si affiancano quelle valutarie; come contropartita delle passività rilasciate dalle medesime banche centrali. L'euro non rappresenta né il debito di uno Stato, come il dollaro, né quello di una banca centrale, come la sterlina.
Le "carte", nel senso delle monete legali in circolazione, non sono più nelle mani delle banche ma in quelle delle banche centrali. I mercati finanziari, in cui la liquidità ed i titoli si scambiano, quando i flussi della crescita ristagnano, sono il luogo economico in cui si formano le condizioni per la crescita, dell'economia privata come del debito degli Stati. Per questo una politica monetaria efficace dovrebbe tenere conto non solo dell'indice dei prezzi, dei beni e dei servizi, ma anche di quello del corso dei titoli.
Per tutte queste ragioni, la capacità di governare la crescita mondiale si ripartisce oggi tra Stati Uniti e paesi emergenti mentre l'Europa, che non è uno stato sovrano, conta meno, su questo terreno, di quanto contassero negli anni Settanta gli Stati Europei. E, per superare questo stallo servirebbe davvero una seconda Bretton Woods.
La globalizzazione e la moneta internazionale - C’è un futuro per il dollaro? E quale? - L'Europa non ha ancora la spada e la feluca

Nel regime monetario dell'euro oggi si entra per cooptazione da parte del club dei paesi che lo hanno creato. Il resto del mondo, al contrario, si è dollarizzato perché il biglietto verde si è imposto, per motivi ogni volta vari e diversi, come strumento per regolare le transazioni commerciali o quelle finanziarie. Mundell («Il Sole 24 ore» del l3 novembre 2007) dice che «parlando di monete, non bisogna fermarsi all'economia in senso stretto, ma riflettere anche su storia e geografia […] posso pensare ad un ruolo crescente dell'euro e anche a momenti durante i quali l'euro avrà un ruolo centrale, come è successo tra le due guerre mondiali con dollaro e sterlina. Ma sarà sempre il dollaro a dominare la scena». Bisogna, allora, cercare di capire quale sia la ragione che porta ancora al centro dell'equilibrio mondiale la moneta degli Stati Uniti. A guardare la storia e la geografia si capisce che la prima riserva agli Usa la forza, per affermare i suoi principi nel mondo, e che quella forza consegna alla "nazione senza nome" la possibilità di una politica estera determinante nel disegno degli equilibri internazionali. Fino a quando l'Europa non avrà la spada e la feluca non sarà la sua moneta, nata in laboratorio, ad essere il perno degli equilibri mondiali. Commercio, finanza e tecnologia sono le tre gambe della dinamica mondiale. Ed è evidente che la vera novità degli ultimi venti anni, la globalizzazione, ha modificato radicalmente la scena. Il mercato unico mondiale genera una trasformazione tecnologica ed una riconfigurazione della produzione: la frammentazione delle filiere verticali attraverso i confini nazionali. Perché la connessione, a distanza, costa meno e rende molto di più, della integrazione verticale alimentata dalla contiguità. Il fatto che lo yuan non si rivaluti verso l'euro, nonostante il surplus commerciale della Cina, consente alle multinazionali di produrre in Cina le merci destinate alla fascia bassa dei consumi americani e che la Cina, parallelamente, sposti verso l'Europa una parte importante delle sue esportazioni negli Stati Uniti. Mentre, con una quota del surplus accumulata nei propri conti con l'estero, la Cina finanzia la sua penetrazione nel controllo di molte infrastrutture, nei paesi sviluppati ma anche in Africa e negli altri paesi in via di sviluppo. Allargando la propria rete di influenza sul sistema delle relazioni internazionali, non avrà la spada ma ha, certamente, una forza economica che si traduce in una crescente influenza politica: grazie allo standard fisso con il dollaro. Nel mondo esistono un sistema di cambi flessibili tra euro e dollaro ed un sistema di cambi fissi tra molte economie, che hanno scelto il dollaro come moneta di riferimento e gli Stati Uniti come partner privilegiato. L'Europa rischia di essere ridimensionata nelle sue ambizioni da questa tenaglia. Vittima della nemesi di Valery, essere l'unico continente che è una penisola, dell' Asia. Lo ricorda anche Paolo Savona in un pamphlet edito da Rubbettino: L’esprit d’Europe. Descrivendo una insidiosa conseguenza della globalizzazione: la sovrapposizione, insidiosa, tra domanda di moneta per transazioni e domanda di moneta come opzione alternativa all'investimento in titoli. Che può, in certi casi, diventare anche domanda di prodotti finanziari derivati. Subprime docet. Commercio, finanza e tecnologia sono le tre gambe del mercato mondiale, che affida alle grandi banche, e non più agli Stati, l'equilibrio del sistema. Servirebbe davvero una nuova Bretton Woods per ritrovare un quadro di riferimento tra dinamica dei cambi e dimensioni relative delle economie reali. Riducendo l'asimmetria tra euro e dollaro e la distanza politica tra Europa e Stati Uniti, e quella tra le loro due economie e le altre, che si allargano nel resto del mondo.
L'Italia è una mela spaccata -l'economia pubblica ed i ritardi nella crescita stanno dal medesima lata

E’ stata pubblicata la settima edizione dell'indagine che Mediobanca ed Unioncamere conducono sulle medie imprese manifatturiere italiane. Con questa edizione sono disponibili serie storiche che vanno dal 1996 al 2005, articolate per settori e localizzazione territoriale14. L'indagine riguarda un insieme aperto, rispetto alle rilevazioni annuali, di imprese manifatturiere indipendenti: società di capitali che dispongano di una forza di lavoro compresa tra 50 e 49 dipendenti e realizzino un fatturato tra 13 e 290 milioni di euro. Al 2005 l'insieme conta 3984 imprese. Per fatturato ed esportazioni la parte prevalente appartiene ai mercati del made in Italy. Il 30% delle imprese si trova in Lombardia ed i1 90% nel centronord. Nel Mezzogiorno solo il 10% del totale. Mentre la popolazione del Mezzogiorno è superiore al doppio di quella della Lombardia. Le imprese presentano debiti a breve eccedenti, rispetto a quelli delle imprese multinazionali, italiane ed europee. Ma anche debiti a lungo termine più contenuti, come percentuale della struttura finanziaria. Sono meno liquide ma con una dimensione patrimoniale più robusta rispetto alle multinazionali. Subiscono una pressione fiscale effettiva (tassazione su profitti lordi) superiore di dieci punti percentuali a quella delle grandi imprese italiane e di venti rispetto alle multinazionali. Presentano un margine operativo netto sul fatturato superiore, a quello delle grandi imprese italiane, ma inferiore a quello delle multinazionali. Hanno un roe (return on equity) mediamente superiore di 3,6 punti base al tasso di rendimento privo di rischio. Nel periodo 1900/2000, la media mondiale del premio per il rischio delle società quotate è stata di cinque punti base. L'appartenenza ai settori high teck è bassa, rispetto alle grandi imprese.
La localizzazione in un distretto riguarda solo il 40% ma, essendo il 90% delle imprese localizzato al Centronord, sono forti le esternalità da contiguità e prossimità. Larghissima parte sono diventate medie, nel periodo 1999/2005. Chi è diventato medio proveniva dal Centronord. Con tutte le luci e tutte le ombre, compresa la ridotta attitudine tecnologica e l'eccesso di pressione fiscale, queste imprese rappresentano davvero cosa sia, e cosa sia capace di realizzare, il capitalismo privato italiano. Per differenza, viene voglia di commentare, la loro concentrazione territoriale al di fuori del Mezzogiorno, mostra cosa non sia stato capace di fare l'intervento pubblico: favorire e sostenere lo sviluppo dell'impresa privata nella parte più debole del paese. Circostanza che, ove si fosse realizzata, avrebbe ridotto sia il dualismo tra le due Italie che la fragilità sociale e lo squilibrio nella distribuzione del benessere che le dividono.
Viene alla mente l'opinione di Cuccia sulla maggiore forza espansiva che avrebbe avuto l'industria italiana se non fosse stata drogata dagli incentivi finanziari. Ma esiste anche un secondo motivo per diffidare di una economia dove il dualismo territoriale rappresenta la linea di confine tra pubblico e privato, tra inefficienza ed efficienza. Esaurita la stagione dell'intervento straordinario, e degli incentivi alle imprese, si è aperta quella dei fondi "europei": gestiti sempre dalla pubblica amministrazione. Con un ruolo crescente di regioni ed enti locali rispetto ai Ministeri. Ora è abbastanza evidente che questa ulteriore distribuzione di risorse finanziarie sia stata frammentata in una miriade di microinterventi, che non avevano la dimensione minima necessaria per produrre capitale fisso sociale o riqualificare capitale umano. Mentre l'unica opzione alternativa alla pioggia diffusa era una mimesi, ancora più inefficiente per la scala alla quale era praticata e la bassa tecnicalità degli enti erogatori, degli incentivi finanziari gestiti dal Governo e dal sistema bancario. Sui quali, come abbiamo detto, pesa la opinione liquidatoria di Enrico Cuccia. A questi due limiti si aggiunge la eterna rincorsa, tipica delle amministrazioni italiane, tra il troppo tempo necessario per gestire, maldestramente, la programmazione degli interventi e l' affannosa corsa finale per realizzare, costi quel che costi, le opere e collaudarle. Nella ricerca di un risultato contabile -la spesa delle risorse assegnate - piuttosto che di un risultato economico: l'irrobustimento patrimoniale e la dilatazione economica delle forze produttive locali. Quale che sia il Governo che verrà, sarebbe interessante che la sua politica economica fosse capace di ribaltare il dualismo che relega al Sud l'indiscussa egemonia e la inefficienza degli enti pubblici, come fossero una sorta di complemento rispetto alla media impresa privata, arroccata nel Nord. E, per restare nella campagna elettorale, sarebbe interessante sapere come, partiti e candidati, intendano realizzare queste politiche innovative.
I contenuti strategici della competizione elettorale - La domanda di governo e di politica economica - e le offerte dei grandi partiti - impresa e banca: simul stabunt simul cadent - organizzazioni, mercati e crescita

Grazie a sette anni di indagine, Mediobanca ed Unioncamere ci offrono dati decennali sulle imprese manifatturiere, per mercati di riferimento e localizzazione territoriale. Solo il 10% delle imprese esistenti nel 2005 si trova nel Mezzogiorno. Ma anche il flusso aggiuntivo di nuove medie imprese, create dal 1996 al 2005, si concentra nel Nord e nel Centro. Il sistema cresce ma riproduce uno squilibrio tra la distribuzione della popolazione e quella delle organizzazioni che producono la ricchezza. Nel medesimo arco di tempo le banche del Centronord - più grandi, più efficienti e più robuste - assorbono progressivamente quelle del Mezzogiorno. Metabolizzandole prima e, progressivamente, gemmando nuove organizzazioni dal medesimo nome di quelle assorbite: ridotte nelle dimensioni, ridisegnate nelle funzioni, radicalmente trasformate nei tratti organizzativi. La scintilla che fa scoppiare l'incendio della concentrazione bancaria è una singolare coincidenza tra congiuntura e cambiamento strutturale. La congiuntura è segnata dal trauma valutario del 1992 e dalla maximanovra finanziaria necessaria per stabilizzare l'economia nazionale.
Negli stessi anni, dopo un lungo processo di deterioramento viene cancellato l'intervento straordinario. Con uno straordinario effetto prociclico, che dilata gli effetti recessivi della stabilizzazione, si chiude il flusso di spesa pubblica dal quale dipendevano le famiglie e le imprese meridionali. Crollano i ricavi. Si riduce la loro capacità di rimborsare il debito. Le imprese falliscono e le banche si incagliano. Gli americani dicono che, quando cala la marea, si vede quanti siano quelli che hanno veramente il costume. Prosciugato il fiume della spesa pubblica si vede bene che le imprese, e le banche, che dipendono dalla loro capacità di onorare i debiti, non reggono la disciplina del mercato. Impresa e banca, nel Sud come nel Nord, simul stabunt simul cadent. Cadono nel Mezzogiorno ma stanno, spalla a spalla, e si rinforzano nel resto del paese. Dopo quindici anni, per ora, abbiamo solo capito quello che non si deve fare. Non bisogna alimentare con incentivi finanziari la crescita e la sopravvivenza delle imprese. Meglio ridurre la pressione fiscale e la spesa pubblica. Distribuire metadone non aiuta le persone a liberarsi dalle proprie fragilità. Lo Stato, anche nella "politica industriale" deve fare qualche passo indietro. Deve agire meno e meglio. Purtroppo, anche il diverso paesaggio bancario del Mezzogiorno, non ha dato, e non sembra capace di dare, una leva alle imprese meridionali: per la crescita del loro numero e delle loro singole dimensioni. La concentrazione, realizzata dalle banche del Nord assorbendo quelle del Sud, ha creato banche più grandi. Ma grandi solo quanto il mercato domestico italiano: che è troppo piccolo per dare ad una banca la scala adeguata per essere competitiva. Le banche italiane hanno anche trasformato il proprio capitale umano: sono uscite persone mature e dallo skill strutturato, ma dal costo elevato, e sono entrate risorse giovani, meno skilled e meno costose. La rete di banche, riapparse sui territori meridionali con i medesimi nomi ma con diversa struttura e dimensione, è solo un presidio commerciale del mercato periferico. Supermercati che vendono prodotti standard: per ridurre sia i costi di valutazione, che quelli di supervisione e controllo sui progetti imprenditoriali finanziati. Avere risorse umane costose e qualificate avrebbe innalzato troppo i costi fissi delle banche, in un mercato che non garantiva una dimensione adeguata dei ricavi totali. Alcune banche italiane, insomma, devono diventare ancora più grandi: almeno europee. Le altre banche dovrebbero diventare, invece, davvero regionali. Dove la regione meridionale dovrebbe essere una e non certo otto: troppe, e troppo piccola ciascuna, per rappresentare mercati di scala adeguata. Le banche italiane, ma questo è accaduto in tutto il mondo, hanno ridimensionato l'intermediazione creditizia, hanno spostato sulle famiglie la sottoscrizione del debito ed hanno trasferito alle imprese l'obbligo di rimborsare quel debito, cartolarizzandolo. Sono broker, che guadagnano sulle commissioni e la gestione dei patrimoni. Non sono dealer, che utilizzano il proprio patrimonio come ammortizzatore della relazione tra risparmio diffuso e fabbisogno di credito per alimentare gli investimenti.
Questo nuovo modello operativo, per funzionare, ha bisogno di potenti esternalità: la trasparenza dei conti aziendali, l' affidabilità delle dichiarazioni imprenditoriali, la robustezza della capacità di reddito che offre la possibilità di essere leali e trasparenti. Le imprese meridionali non sono forti, anche perché indebolite dalla lunga stagione di dipendenza dalla spesa pubblica, e sono circondate dalla competizione sleale dell'economia sommersa. Che crea una terra di nessuno nella quale dalla illegalità si tracima nella criminalità. Ma queste non sono scelte libere. Sono la conseguenza di una pressione fiscale eccessiva che rende inevitabile nascondersi. Nel Nord si nasconde una quota di un sistema complessivamente robusto e capace di crescere. Nel Sud ti devi nascondere per sopravvivere ma anche se sei capace di produrre ricchezza. In questo caso ti devi nascondere dalla criminalità e dalla aggressività del contesto. Nel Sud non esiste, per tutti questi motivi, la fiducia: il capitale sociale più importante. Prevalgono l'invidia e la diffidenza, oltre che una miope aggressività reciproca. L'effetto finale di questi mancati incontri ravvicinati si legge nelle indagini di Mediobanca: crescono le banche e le imprese dove esse sono numerose e forti mentre mancate esternalità positive, e molte esternalità negative, condannano sistematicamente il Sud alla marginalità. Si può ribaltare questa deriva? Bisognerebbe agire, come dicono gli inglesi, con un processo push and pull. Qualcuno deve tirare verso l'espansione le imprese meridionali ma esse devono anche avere strutture locali capaci di spingerle mentre gli altri tirano. Altrimenti, sollevate per i capelli e senza spinta sottostante, finirebbero impiccate invece di crescere. Il microcredito e le casse rurali possono fare molto per ridimensionare l'area del sommerso, restringendo anche il bordo opaco che essa rappresenta per la criminalità. Molto potrebbe fare una drastica riduzione della pressione fiscale e contributiva. Diminuire la spesa pubblica a pioggia, sarebbe un buon modo di finanziare queste azioni di supporto all'aumento delle imprese minori legalizzate. Le grandi banche dovrebbero quotare in borsa le proprie sussidiarie meridionali. Le controllerebbero ancora ma con meno capitale investito. Queste banche locali dovrebbero agire con uno spettro completo di veri servizi finanziari: diventando loro i dealer della crescita. Anche trasferendo, al dettaglio, capitali raccolti dalle grandi banche sui mercati mondiali, all'ingrosso. Come facevano la Comit e la Cariplo in Lombardia, agli inizi del ventesimo secolo. Non servono politiche pubbliche, insomma, ma una diversa cultura degli affari ed una rivoluzione dei comportamenti individuali e dello stile di direzione: nelle banche e nelle imprese. Governare un paese non è un mero sinonimo di saperne amministrare la pubblica amministrazione. I partiti sapranno governare questo cambiamento? Come intendono farlo? Speriamo ne parlino, qualche volta, nei comizi elettorali o nei talk show televisivi.
La relazione pericolosa tra il mercato ed il partito democratico - La politica economica di Walter Veltroni - Anche le gerarchie ed i mercati: simul stabunt simul cadent.

II programma del partito democratico ha riempito 33 pagine, per 15.142 parole. Solo in 10 pagine, ma per 18 volte, si legge la parola mercato. Sempre in 10 pagine, ma non sempre nelle medesime, si legge, per 9 volte, la parola crescita, nel significato di espansione della ricchezza. La dimensione percepita, delle risorse che consentono la produzione della ricchezza, e reale. Uomini, lavoratori ed imprenditori, che si ritrovano in organizzazioni dedicate alla produzione, le imprese. «Il progetto del PD deve assumere l'aumento della ricchezza nazionale come obiettivo principale ... E, senza crescita, non c’è politica redistributiva che tenga» si legge a pagina 3. Dieci pilastri ed un metodo, si aggiunge dopo poche righe, e da quel punto partono la descrizione dei dieci pilastri ed un punto di metodo. «Tutti devono cambiare comportamenti e capacità di rappresentanza: la politica, certo. Ma anche le forze sociali, per le quali diventa urgente (per renderle protagoniste della contrattazione di secondo livello, dove si può agire sulla produttività) una (auto)riforma delle regole di rappresentanza». Serve una nuova dimensione della concertazione tra le parti sociali mentre lo Stato riprogetta la pubblica amministrazione. Per «spendere meglio e bene» e vendere una quota significativa del proprio patrimonio - dopo averne sdemanializzato la parte che non ha ragione di esserlo - per ridurre drasticamente il debito pubblico. Uno Stato slim & smart, utile, capace di aumentare concorrenza e giustizia sociale, che lascia il mercato libero di fare il suo mestiere ed, anzi, in certi casi, come la produzione di servizi sanitari o delle case in affitto, si fida del mercato e non della propria capacità di decidere e di fare. Ecco il punto cruciale, ancora non risolto, della politica di Walter Veltroni e del suo partito. Si parla, con intelligenza e proprietà di linguaggio, della fenomenologia del mercato e del suo rapporto, virtuoso, con la competizione e la crescita. Ma si lascia aperta la porta verso una sorta di dimensione strumentale dello stesso e la inderogabile esigenza di regole per farlo funzionare meglio. Non siamo al rimpianto del dirigismo ma si concede abbastanza all'idea che il mercato sia solo il riflesso della lungimiranza del regolatore, il teatro delle regole dettate dal legislatore. Una creazione della volontà della politica, magari concertata con i bisogni e le aspettative dei corpi organizzati della società. Non una dimensione dell'azione individuale: l'effetto della combinazione tra il linguaggio e lo scambio che, da sola, non basta per alimentare la crescita, ed il benessere che ne consegue. Perche gli attori dello scambio, e della conversazione che lo precede, non dispongono sempre di una dote adeguata di informazioni. Ai mercati servono anche gerarchie, pubbliche, o private, le imprese, per poter funzionare. Ma, in questo caso, il fallimento del processo potrebbe nascere dall'opportunismo di chi governa quelle organizzazioni. Insomma, non sembra che il mercato, nel programma del partito democratico, sia considerato come una realtà imperfetta ma esistente in quanto organismo e strumento di una relazione sociale tra individui ed organizzazioni: una realtà che esista, possa esistere, anche senza la politica e gli Stati. E’ evidente, invece, come sia forte la percezione che la politica ed i Governi, quando mettono le mani e le loro opinioni sui mercati, possano fare danno e che, di conseguenza, debbano farlo con discrezione e senza troppa invasività. Se ne parla sempre come complemento delle soluzioni per i problemi legati ai beni pubblici, la sanità o la istruzione; alle reti di pubblica utilità, l'energia, i trasporti o le telecomunicazioni; alla gestione diretta della spesa per stipendi e pensioni. Insomma se ne parla per invitare alla cautela nella gestione dei fallimenti del mercato e nella creazione di autorità, per introdurre competizione o vigilanza sui mercati stessi. Non si parla mai del valore intrinseco della civiltà degli scambi ma solo del ruolo positivo delle istituzioni "amiche del mercato". Ma perché essere amici di un organismo del quale, in fondo, non ci si fida fino in fondo, come se fosse una entità dalla dubbia reputazione? Questo sospetto, di una propensione, implicita e pregiudiziale, verso le gerarchie piuttosto che verso lo scambio, si legge nell'affermazione che si lavora per «l'Europa massima possibile, non quella minima indispensabile, l'Europa come risposta a chi crede che la globalizzazione sia ingovernabile». Esibendo una fiducia sulla capacità Europea, di concorrere nel governo del mercato globale, che contrasta rudemente con l'opzione esplicita per una partnership necessaria tra Stati Uniti ed Europa, giudicata capace di riportare equilibrio, crescita e pace alla scala mondiale. Forse, la radice del residuo dirigista, che si può leggere nel richiamo all'Europa "massin1a possibile" nasce dall'idea che l'Europa possa o debba diventare una sorta di grande Stato nazionale. Ma, se così fosse, il programma del partito democratico avrebbe fatto solo un passo avanti, utile, ma incompleto, rispetto al passato. Sarebbe andato oltre il doppio dilemma che oppone liberali e liberisti, socialdemocratici e comunisti. Nel primo caso i liberali creano lo Stato per portare il mercato oltre i suoi limiti mentre i liberisti vogliono solo che lo Stato rimanga nel suo perimetro, senza intralciare le imprese sul mercato. Nel secondo caso, la socialdemocrazia irrompe, con i suoi programmi, nell' equilibrio delle imprese e del mercato mentre il comunismo si sostituisce tout court al mercato con la pianificazione centralizzata. Compromesso keynesiano (piena occupazione e deficit spending razionale) e programmazione economica sono le due strade che, nell' opinione dei conservatori, hanno portato inflazione ed inefficienza nel mercato, riducendo la sua capacità di espandersi ed aprendo le porte alla stagnazione ed alla crisi. Si può fare certamente qualcosa di meglio, rispetto al monetarismo fiscale ed alla ossessione della stabilità finanziaria, tipici dei conservatori. Ma non bastano solo suggerimenti per ridimensionare il fallimento dei mercati sulle esternalità ed i beni pubblici. Bisognerebbe pensare al mercato come una macchina per creare e diffondere conoscenza. Bisognerebbe pensare nella dimensione delle piattaforme multilaterali: imprese private che producono esternalità, allargando, parallelamente, la sfera di efficienza del mercato e quella del sistema. Come la televisione commerciale descritta nel volume di Franco Debenedetti contro la legge Gentiloni. Mentre il programma del partito democratico ripropone lo schema del duopolio che opprime la creatività e proporne di ridistribuire una quota del fatturato pubblicitario per produrre televisione di qualità. Sarebbe stato più interessante trovare nel programma anche l'idea di uno statuto davvero innovativo per le imprese e non solo l' aspirazione ad un nuovo statuto dei lavori, affiancato da imprese di stampo "tedesco" .


5. L' orizzonte potenziale: emerge una strada possibile e si riduce la nebbia della incertezza, nel mondo ma non nel nostro paese

Mercati finanziari e cicli del reddito - la colpa della recessione sta nei mancati in-vestimenti di ieri - prima che nei mancati consumi di oggi

Le cronache economiche ricordano come l'origine delle difficoltà, che incontrano i mercati internazionali, sia da rintracciare nell'eccesso di debito che si è diffuso negli anni alle nostre spalle: nel mondo ed in Italia. Ma la nozione stessa di eccesso di debito dovrebbe essere considerata stravagante ed inconsistente, se formulata in termini assoluti. Una cosa eccede quando supera una certa soglia di equilibrio. Rispetto a cosa sarebbe stato eccessivo il debito creato dalle banche? Troppo debito rispetto ai capitali apportati dai soci in imprese che si indebitavano? Troppo debito rispetto agli investimenti immobiliari? Troppo debito per comprare azioni od altri titoli dal rendimento troppo variabile? Si potrebbe continuare ma la spiegazione può anche essere sintetica, senza ripercorrere necessariamente una lunga tassonomia. Il debito non è mai troppo o troppo poco. La variabile importante e il costo del debito rispetto al rendimento delle cose, o dei titoli, che vengono acquistate con il credito: che è l' altra faccia del debito stesso. Dunque, per spiegare da cosa nascono i problemi di oggi, basta dire che il sistema bancario ha finanziato troppo i consumi e l'acquisto di titoli ed immobili sul mercato secondario. Oppure, ed in termini ancora più espliciti, dire che le banche hanno finanziato troppo poco i nuovi investimenti reali, la creazione di nuove tecnologie e nuovi impianti. Preferendo offrire il proprio credito a chi realizzava transazioni su immobili e titoli, esistenti sul mercato. I primi, nella speranza che il prezzo impennandosi potesse pareggiare, in futuro, il rimborso del capitale, gli interessi dovuti ed una qualche significativa plusvalenza per il dealer che eseguiva l'operazione. I secondi, nella speranza che il rischio implicito nei titoli oggetto della transazione, fosse poco leggibile. Ed, in caso contrario, il prezzo dei titoli - ancorché qualcuno ne sapesse riconoscere il premio implicito per il rischio in termini adeguati - fosse comunque reso plausibile da una aspettativa illimitata degli operatori sui tassi di crescita delle economie, nel loro complesso, o del fatturato e dei margini, per tutte le organizzazioni allo sviluppo ed alla redditività delle quali andava ricondotta la creazione e la gestione di quei rischi. Qui c'e una prima critica per le banche. Esse dovrebbero avere una propensione al rischio minore rispetto a quella degli operatori privati. Perché, con una dote di capitale proprio molto bassa, amministrano il patrimonio, molto frammentato, di una moltitudine di risparmiatori. Le banche agiscono con un leverage così altro che una variazione nel rendimento, o nella liquidabilità, dei propri crediti e dei titoli, detenuti in portafoglio, potrebbe comprometterne l'economicità o la stessa solvibilità. Non è un caso che gli accordi di Basilea due esigano una misura puntuale dei rischi in essere per determinare analiticamente le dimensioni minime del patrimonio netto delle banche. E che i problemi da affrontare riguardino oggi la misura del valore, e la determinazione dei prezzi, per le attività delle banche o degli intermediari non bancari, creati da loro. Le banche, insomma, hanno concesso crediti ad operatori con una elevata propensione al rischio o con aspettative che esse non avrebbero dovuto condividere. Essendo esse stesse in grado di formulare un giudizio più fondato sulle potenzialità effettive e le condizioni della crescita attesa. Oppure hanno finanziato consumi e non investimenti. Era davvero tanto imprevedibile che - finanziando l' acquisto di immobili in cui abitare e la spesa in beni di consumo durevole (auto, telefonini ed altri gadget elettronici, elettrodomestici) sarebbe stato molto difficile per le famiglie onorare il servizio del debito? Nessuno di questi impieghi genera reddito. Dunque, come si può immaginare che una famiglia, che viva di lavoro dipendente o di piccole attività personali, fosse in grado di pagare capitale ed interessi di un simile volume di debito cumulato? E come, quella medesima famiglia, avrebbe potuto sopportare una crescita dei tassi, quando, forse, non sarebbe riuscita, nemmeno ad un tasso costante, a ripagare i debiti assunti per finanziare l'incremento dei propri standard di consumo? Se proprio le banche avessero voluto dare un senso a queste scelte - l'incremento dei mutui per l'edilizia residenziale e l'incremento dei consumi - avrebbero almeno dovuto tenere in una qualche relazione l'incremento di questi crediti e quello del credito agli investimenti reali ed alla innovazione tecnologica. Crediti che supportano investimenti rischiosi ma potenzialmente capaci di innalzare le dimensioni delle imprese e quelle del reddito nazionale. Allargando le dimensioni della ricchezza prodotta ed aumentando, quindi, la possibilità che i vecchi debiti fossero rimborsati negli anni successivi alla loro creazione. Pensiamo all'ulteriore paradosso italiano. Le famiglie, che si sono indebitate nella prima parte di questo decennio, hanno subito negli ultimi due anni un incremento della pressione fiscale, un incremento delle utilities (energia, acqua e trasporti), un incremento del prezzo del petrolio e del prezzo dei generi alimentari. E’ evidente che, oggi, il loro reddito, anche se integrato da piccole attività "grigie" o dal cumulo tra pensione e lavoro, non sia più in grado di sostenere la routine della spesa corrente ed il rimborso dei debiti in essere. Forse anche l' adeguamento dei livelli salariali ad un nuovo regime di produttività sarebbe difficile da realizzare. Perché servirebbero investimenti in capitale fisso sociale e nuove tecnologie aziendali che, con la crisi in atto, potrebbero non trovare adeguate coperture da parte di banche ed intermediari, impauriti degli effetti della crisi in atto.
Le tre leve della buona finanza

Sono cambiate molte cose nel mondo della finanza negli ultimi venti anni. Le tecniche per la gestione dei patrimoni, e la gestione del rischio, sono state modificate ed il paesaggio finanziario mondiale ha preso un'altra forma. Il rischio è stato frantumato e distribuito. Le banche lo vedono nascere quando qua1cuno scommette sul fatto che, in futuro, sarà capace di creare ricchezza e valore. La banca anticipa i mezzi necessari per la scommessa ed osserva la dinamica successiva dell'investimento. Gestisce, finanziando quei progetti, gli interessi di chi le ha affidato il proprio patrimonio. Osserva e controlla la dinamica della crescita nell'interesse di una moltitudine anonima di risparmiatori. Questo era il paesaggio finanziario fino agli anni Settanta. Poi venne la grande trasformazione: nuove tecnologie, semplificazione del quadro monetario internazionale, derivati e cartolarizzazioni, ingegneria finanziaria. Il rischio dei progetti e degli investimenti viene frullato e spalmato direttamente nei portafogli dei risparmiatori. Alle banche rimangono i corrispettivi, dovuti per questa trasformazione del rischio, ed, in alcuni casi, si interrompe del tutto la relazione che legava la banca alle imprese: in termini di corresponsabilità rispetto a risultati negativi dei progetti finanziati. La crisi di questo nuovo modello dipende da tre cause determinanti: l'opportunismo dei banchieri - che hanno intenzionalmente forzato, in chiave molto miope, le possibilità offerte dalle nuove tecniche della finanza - e la grande divaricazione cognitiva, che si è aperta, tra la possibilità di capire dei clienti ed il modo di raccontare il rischio, implicito nei titoli reciprocamente negoziati, da parte dei banchieri. La terza causa si riconosce nel fatto che, essendo aumentata la conoscenza disponibile su rischio ed incertezza, è aumentata anche la fiducia, nel senso della confidenza, con cui risparmiatori e banchieri convivono con entrambi. La prima circostanza ci ricorda come l'azzardo morale, e l'asimmetria nelle informazioni, siano una minaccia sempre in agguato nel mercato finanziario. La seconda ci ricorda, invece, che la nostra debolezza può nascere dall' eccesso di fiducia in se stessi e non dalla forza ostile con cui ci dobbiamo cimentare. Ma torniamo ai nuovi caratteri del paesaggio finanziario. Le tecniche tradizionali assumevano che la varianza, cioè la variabilità dei risultati di ogni titolo, fosse il cuore dell' analisi e della gestione del rischio. Tanto è vero che la terapia per smussarne gli eccessi era creare portafogli - i"giardinetti" o panieri, che dir si voglia - perché la media dei rendimenti scende meno rapidamente della varianza quando si cumulano tra loro rischi diversi. Il nemico da battere oggi, al contrario, e la covarianza tra rischi diffusi e distribuiti in forma tale da essere presenti in larga parte dei portafogli esistenti. Un errore di valutazione iniziale, o la mancata percezione che nel durante della sua vita un rischio possa aumentare o decrescere, si ripropone così in una pluralità di situazioni ed inquina la stabilità dell'intero sistema. Non si dovrebbe pensare che una rete di relazioni possa generare esternalità positive per gli utilizzatori senza trasferire loro anche il rischio del contagio. Gli economisti sanno che non esistono pasti gratuiti. Se esiste una esternalità positiva, deve esserci anche un costo latente, la probabilità che l'evento positivo si rivolti in una condizione di negatività ostile.
Questa incertezza domina comunque l'orizzonte nel quale, sulla base di limitate informazioni, realizziamo le nostre scelte ed i nostri progetti. Esternalità, informazioni asimmetriche tra le parti, comportamenti segnati dall' azzardo morale: tutti segnali che il mercato finanziario non possa e non debba essere lasciato a se stesso. Ed, infatti, da quattro secoli se ne occupano le banche centrali: nate e create dopo molte avventure e traversie. Che non sono mancate anche dopo la nascita di istituzioni capaci di sorvegliare la stabilità degli intermediari e la dimensione competitiva dei mercati. Anche questa crisi, ed il suo superamento, ci insegnerà cose che non avevamo capito. Le leve per ottenere, nei limiti delle capacità disponibili, efficienza e stabilità sono tre. Una moneta che non si faccia corrompere dalla crescita generalizzata dei prezzi, che non si svuoti troppo rapidamente del suo valore. La stabilità delle banche, la loro capacità di sopravvivere alle crisi, rafforzando la fiducia dei risparmiatori nel sistema, perché continuino ad utilizzarlo, nonostante le crisi. Una politica fiscale che sappia frenare gli eccessi di domanda ma sappia anche anticipare moneta per generare ricchezza, quando il sistema rischia di avvitarsi su se stesso e precipitare nella recessione. Negli Stati Uniti la Federal Reserve controlla la prima e la seconda di queste due leve e sta agendo di intesa con il Governo, che rimane titolare delle scelte in tema di politica fiscale. In Europa la politica monetaria è affidata alla BCE; la vigilanza sugli intermediari alle singole banche centrali nazionali. Il patto di stabilità impedisce ai paesi una piena flessibilità delle proprie politiche fiscali. Non siamo in grado di dire con certezza che le autorità americane stiano agendo meglio. Personalmente lo sospettiamo. Ma, certamente, esse giocano una partita comune: all'insegna di una reciproca cooperazione. Le autorità europee, nel migliore dei casi, giocano su terreni segmentati e, spesso, con le mani legate o con una limitata sfera di azione. La probabilità che gli Stati Uniti escano dalla morsa, di crisi finanziaria e recessione, prima o meglio ci sembra oggettivamente più elevata.
Il teorema delle tre e: Elezioni, Economia ed Effetto Rebecca - L'incubo del passato che ritorna - Diagnosi semiseria sull'utilità relativa delle elezioni politiche - Ma la spesa vale l'impresa?

La fase conclusiva della campagna elettorale ci ha riportato bruscamente ad un passato prossimo che appariva, invece e finalmente, molta remota. Far esplodere, a due terzi del cammino che ci portava verso le elezioni, la crisi Alitalia ha avuto conseguenze sorprendenti. Riappare al centro della scena Romano Prodi, che litiga can i sindacati, e si trova circondato da una variegata compagnia di forze minori, da Di Pietro a Bertinotti, dai socialisti di Boselli a Ferrero. Una confusa brigata che lo strattona in direzioni tra loro antagoniste. Il minimo comune denominatore di questo coacervo - una marmellata che ricorda la dimensione peggiore della coalizione che per due anni ha sostenuto il Governo Prodi - è ovviamente solo la contrapposizione di principio a Berlusconi. Che, a sua volta, si presenta metà "brigante" e metà uomo del fare. Uno che ha imparato dalla vita come si affrontano, e si fanno, gli affari ed adesso spiega come e perché esista una soluzione alla crisi dell'Alitalia. Questo tuffo nel passato, un vero effetto Rebecca, in cui l' ombra della prima moglie sbaraglia la prospettiva di un nuovo inizio, è l'infortunio più clamoroso di una campagna elettorale che prometteva un esito assai migliore di quello che ora si profila. Con Veltroni che deve ricorrere all'argomento delle pensioni da rivalutare per ribattere a Berlusconi, che le vuole indicizzare con una sorta di scala mobile. Come fecero Confindustria e sindacati con i salari, nella prima repubblica. A questo punto davvero si rischia di ribaltare il risultato economico, il bilancio di quello che avrebbe potuto essere il cambiamento avviato con la crisi del governo Prodi e la sua mancata soluzione in parlamento. Quando, nonostante l'impegno del presidente della repubblica, le parti in causa decisero che la spesa, di un governo tecnico ed istituzionale, non valeva l'impresa, di un cambiamento delle regole elettorali prima di andare alla verifica del voto ed al rinnovo delle Camere parlamentari. Il costo di scegliere l'interruzione della legislatura mentre si apriva una crisi economica e finanziaria alla scala del mercato globale, e l'Italia appariva come il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro, sembrava, allora, bilanciato da alcuni benefici potenziali importanti. La scomparsa del bipolarismo federale e rissoso, un parto mostruoso della seconda repubblica; la fine dell'equivoco, secondo il quale si ottiene una politica di riforme solo con una coalizione che nasce per ostacolare l' eterno avversario, Berlusconi. Coalizione nella quale le posizioni minoritarie hanno un potere, di interdizione e controllo, superiore a quello delle componenti maggioritarie. La nascita, infine, di un bipolarismo più equilibrato, creato sul campo da due grandi aggregazioni che si presentano stand alone e non federate. Evitando, quindi, di essere condizionate dai loro soci di minoranza nello sviluppo della propria politica. Il rischio di lasciare andare alla deriva la politica economica nazionale durante una burrasca internazionale di un certo rilievo - alla vigilia di cose da fare molto importanti, come il risanamento della finanza pubblica e l'utilizzo intelligente degli ultimi fondi europei, disponibili per superare il dualismo tra Nord e Sud - non era l'unico costo da subire per cogliere i tre benefici politici appena ricordati. Basta ricordare il costo di liste dove i parlamentari sono stati nominati dai leader dei partiti ma non sono eletti dai cittadini. Anche se, nonostante questa mutilazione democratica, che può generare astensione e disaffezione dal voto, nel prossimo parlamento si realizzerà comunque una positiva semplificazione. Insomma, tutto faceva sperare in un bilancio equilibrato di questo trauma elettorale. Anche considerando l'ipotesi, non troppo remota, che proprio quel nuovo parlamento, caratterizzato da due poli più densi e con una identità meglio precisata, avrebbe vissuto comunque una legislatura breve: per varare nuove regole elettorali; riorganizzare la relazione tra centro e periferia, ridisegnando il nostro ormai improbabile federalismo; consolidare il risanamento della finanza pubblica e tornare a votare, per avviare davvero la terza stagione della nostra tormentata repubblica. Alcune crepe, preoccupanti per la stabilità del nuovo edificio, si erano manifestate in presenza degli apparentamenti (tra Berlusconi, la lega ed il movimento di Lombardo in Sicilia o tra Di Pietro ed il PD, che assorbiva ma non federava i radicali) ma l'architettura del sistema sembrava adeguatamente stabile. Dietro questi eventi si leggeva il rischio che una caduta di tono, nella competizione elettorale, potesse richiamare in vita tutti i vecchi vizi della seconda repubblica. Il precipitare della crisi Alitalia rischia davvero di dare uno scossone eccessivo alle fondamenta del progetto. Speriamo che la deriva destabilizzante del ritorno al passato si fermi e che la scelta degli elettori consolidi, al contrario, la nettezza del cambiamento rispetto al passato.
Il vento della crisi economica non promette catastrofi epocali - si tranquillizzino i profeti di sventura - ma richiederà che si formi rapidamente un governo capace di reggere il timone in presenza di una opposizione che sia capace di indicare al pilota come evitare gli errori che ognuno, come è naturale che sia, compie quando deve agire in un contesto incerto e turbolento.
Quali che siano il governo, e la sua maggioranza, e quale che sia l'opposizione.





NOTE
1 Il testo completo del discorso si può leggere at http://www.governo.it/Presidente/lnterventi/dettaglio.asp ?d=37892 ^
2 Si veda il «Corriere della Sera» del 6 dicembre 2007.^
3 La tabella riassuntiva, dal 1997 al 2008, dei dati relativi al prodotto interno lordo pro capite, espresso in parità di potere di acquisto, elaborata da Eurostat, si trova at http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page?_pageid=1996,39140985&_dad=portal&_schema=PORTAL&screen=detailref&language=en&product=EU_strind&root=EU_strind/strind/ecobac/eb011 ^
4 At http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/temidi ^
5 At http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/bollec/2008/bolls51/bollec5 ^
6Si vedano due basici interventi di Mario Draghi, il primo del novembre 2007, Transformation in the European Financial Industry: Opportunities and Risks, Lecture by the Governor of the Bank of Italy Mario Draghi, Frankfurt, 22 november 2007 at http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2007. Il secondo, che si puo scaricare at http://www.bancaditalta.it/znterventz/zntegov. svolto al Forex meeting di Bari nel gennaio 2008.^
7 In aggiunta ai due contributi di Mario Draghi, prima ricordati, vale la pena di leggere anche i commenti, a caldo e paralleli all'evolvere della crisi, di Marcello De Cecco e Luigi Spaventa. In particolare, di Luigi Spaventa, si vedano Il terremoto bancario su «la Repubblica» del 3 novembre 2007; Pericolo mutui su «la Repubblica» dell'8 dicembre 2007; Per la finanza è la fine del modello dei derivati su «la Repubblica» del 21 gennaio 2008; La catena spezzata del credito su «la Repubblica» del 25 febbraio 2008; Bernanke? bravo ma lento in «la Repubblica» del 20 marzo 2008. Di Marcello De Cecco si veda, invece, Finanza USA, i timonieri senza bussola in «Affari & Finanza», su «la Repubblica» del 31 marzo 2008.^
8 Facciamo un esempio semplice. Una call su una azione della Fiat a 6 euro e per un mese, rappresenta il diritto di comprare a sei euro quella azione da chi ha accettato di stipulare il contratto. Una put, l'opzione simmetrica, è il diritto di vendere per un mese a sei euro un'azione Fiat al follower.^
9 I mercanti delle repubbliche marinare, quando prendere a prestito somme era considerato un peccato di usura, usavano il put & call per farsi finanziare dai banchieri, altri mercanti che non dicevano di fare credito ma sembravano commercianti di stoffe.^
10Il centenario della nascita di Enrico Cuccia, e la decisione di ricordarlo con la pubblicazione delle sue relazioni al bilancio di Mediobanca, nella gestione della quale si è identificata la sua vita e si è compiuto il suo destino, hanno riproposto il valore economico ed il significato storico di quella singolare esperienza. Abbiamo tutti letto interpretazioni e giudizi sulla storia del banchiere, delle famiglie imprenditoriali e della banca che le aveva sostenute per mantenere in vita, e consolidare nel tempo, l'esperienza di organizzazioni economiche, capaci di alimentare il processo di accumulazione. In un paese nel quale la grande dimensione dell'impresa privata non era, e non è ancora oggi, un fenomeno molto ricorrente. Al centro di questa rivisitazione della storia bancaria del paese ci sono stati tre punti focali: il ruolo della banca nel processo di accumulazione, quando il mercato rimane nel perimetro dello Stato; l'alternativa tra la natura proprietaria, pubblica o privata, della banca stessa; le tecnicalità che la banca utilizzava - in un regime finanziario a scartamento ridotto, ingessato dalla specializzazione temporale del credito e dall'asfissia della Borsa - per reggere la sfida della crescita e le differenze, tra quelle tecnicalità e quelle che si affermano quando il mercato dei capitali diventa globale, cessa il regime di specializzazione e le transazioni stesse, riprodotte in termini seriali, diventano la stella polare della dinamica finanziaria, al posto dei mercati. Anche se gli intermediari rimangono i pilastri imprescindibili del mercato così come non esisterebbero mercati, delle merci o dei servizi, se non attraverso la necessaria presenza delle imprese. Che la vita, e la lezione di Cuccia, stia tutta intera in questa insieme di circostanze e di paradigmi interpretativi è assolutamente evidente. Lo ha detto con essenziale puntualità Antonio Maccanico, quando ha ricordato che quella vita, e quella esperienza, erano inscritte nell' alveo tracciato da quelle «grandi figure dell'economia italiana, quali Alberto Beneduce, Bonaldo Stringher, Donato Menichella, Raffaele Mattioli, tutti di ascendenza "nittiana" che, alla fine della prima guerra mondiale, durante la crisi degli anni Venti e Trenta, nel secondo dopoguerra furono gli architetti del nostro modello di "economia mista" che ha dominato le vicende dello sviluppo economico italiano». Secondo Maccanico, Cuccia è stato un gigante sulle spalle dei giganti, perche le sue «idee di fondo erano quelle elaborate da un gruppo della classe dirigente italiana di straordinarie qualità, dal quale Cuccia fu formato e del quale diventò la personalità più giovane e forse anche la più creativa». Questo ragionamento collega il ruolo e la funzione di Cuccia con il giudizio di Carli, che confessava «la sua amarezza», non essendo riuscito a trasformare l'economia italiana in un capitalismo moderno ed essendo «ridotto, da vecchio, a sperare in un altro vecchio, Cuccia, che continuasse la sua battaglia». Una battaglia da banchiere, sul campo del mercato, mentre Carli la sua, di battaglia, l'aveva condotta da "nittiano" e da civil servant, sul campo delle regole. Interpretando un sistema ingessato, nonostante lo sforzo congiunto di Mattioli e Beneduce, per tenere insieme: la segmentazione del credito in due mercati, quello dei crediti ordinari e quello dei crediti finanziari; una politica monetaria invasiva e dirigista; l'ambizione, riuscita, di far vivere il processo di accumulazione industriale, nonostante la doppia intermediazione del risparmio e l'ampia supplenza degli istituti di credito speciale rispetto ai mercati finanziari. Mattioli e Beneduce furono gli architetti della legge bancaria del 1936. Essi impedirono la riduzione delle banche al ruolo di meri agenti statali della erogazione del credito. I banchieri tedeschi, dei quali Mattioli prese il posto al comando della Banca Commerciale, commentarono, sprezzantemente, che anche uno come lui poteva essere l' amministratore delegato di una banca ridotta ad essere solo una cassa di risparmio. Ma l'erede di Mattioli, Cuccia, a Mediobanca, e gli eredi di Beneduce, al Crediop ed all'Imi, riuscirono a tenere sui filo del mercato, e delle libere scelte imprenditoriali, un sistema, che, in altre mani, avrebbe preso decisamente una deriva statalista. Anche se la contaminazione successiva, tra il regime degli incentivi e l'amministrazione degli istituti di credito speciale, allargo nel secondo dopoguerra la sfera del controllo statale sui processi di investimento e la canalizzazione forzosa del risparmio nazionale. Cuccia, dal lato della banca per le imprese, voluta da Mattioli, e Carli, dal lato del governo delle regole, evitarono una deriva che avrebbe condotto alla scomparsa della libera impresa privata in Italia. Non sarebbe stato possibile conseguire questo traguardo lungo un simile percorso in un regime, più aperto ed integrato, delle transazioni finanziarie alla scala internazionale. Ma questa anomalia non impedì a Cuccia di sperimentare anche l'utilizzo di prime innovazioni finanziarie, per il mercato italiano, come le obbligazioni convertibili o i consorzi di collocamento e garanzia dei titoli quotabili in Borsa. Alimentando un effetto innovativo nel sistema degli intermediari, grazie all' esistenza ed ai successi di Mediobanca, che indussero la creazione di altre banche, di secondo livello, rispetto a banche di credito ordinario che ne fossero azioniste. Quella era la frontiera possibile, allora, di un difficile equilibrio economico e politico che consentì al paese di vivere il proprio miracolo e di arrivare all'appuntamento degli anni Novanta con la privatizzazione delle banche e delle imprese. A rileggere oggi, e lo ha fatto con precisione Giorgio la Malfa, le tecnicalità di Cuccia si nota tutta la prudenza del banchiere che amministra il patrimonio di altri. E la decisione di arginare l' opportunismo imprenditoriale di un eccessivo ricorso al leverage, affiancandosi ma non sostituendosi completamente all'apporto dei mezzi, che vengono alle imprese da quelle famiglie che fossero «nuclei duri di azionisti stabilmente in esse ... azionisti disposti a fare la propria parte». Il mondo dei derivati e delle cartolarizzazioni è molto diverso ma non è, e non deve essere, considerato una degenerazione. Quel modello di banchieri e famiglie imprenditoriali richiedeva una terza gamba. Necessaria quanto le prime due, lo Stato nazionale delle elites liberali. Esaurita quella stagione, nel mondo della integrazione economica e del superamento dello Stato nazionale -la disintegrazione della politica resta intatto il ruolo degli intermediari nella creazione di un ponte affidabile che colleghi il risparmio agli investimenti. Derivati ed ingegneria finanziaria sono gli ingredienti di una relazione che si moltiplica in termini seriali e che consente una migliore gestione del rischio, ad una scala inimmaginabile nelle banche tradizionali. Bisogna sapere governare questa nuovo sistema e servono, come fecero Cuccia e Carli, banchieri "prudenti" e regolatori "spericolati", se si può forzare l'immagine per rendere tutto il senso della lezione che ci ha dato la straordinaria generazione dei "nittiani". Regolatori timidi e banchieri disinvolti sarebbero stati e sono il vero problema, non la soluzione del puzzle della stabilità.^
11 I materiali del Fsf si possono consultare at http://wwwfsforum.org/home/home.html ma anche nel sito della Banca d'Italia at http://www.bancaditalia.it/ ^
12 Le stime pessimistiche riportate nel testo sono state annunciate alla fine del gennaio 2008 mentre il pessimismo si è fatto ancora più stringente nell'aprile del 2008, anche in ragione della interazione tra crisi del ciclo congiunturale e la misura degli effetti della crisi finanziaria internazionale, della quale si è detto nei paragrafi precedenti.^
13 Si veda http://www.imf.org/external/np/exr/center/mm/eng/mm_sc_03.htm. che è una pagina web, nel sito del Fondo Monetario Internazionale, nella quale si trovano fonti e documenti che raccontano molto chiaramente la storia degli anni compresi tra gli anni Sessanta e le crisi petrolifere. Money matters: la moneta conta. E’ il tema dominante di questi materiali.^
14 I testi si trovano at http://www.mbres.it/ita/mb_pubblicazioni/imprese.htm.^
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