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Da Dreyfus a Hertzl
di Luigi Compagna
Il popolo sacro e la sacralità della nazione

Il 29 ottobre del 1973, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’ambasciatore d’Israele volle assumersi il difficilissimo compito, se non di definire, di descrivere il sionismo.
Il sionismo è il movimento nazionale del popolo ebraico che domanda la sua libertà e l’uguaglianza con le altre nazioni [ …] Quando, sette secoli prima dell’era cristiana, piangenti sulle rive dei fiumi di Babilonia, gli ebrei cercavano di tornare in patria, questo era già sionismo […]; quando gli ebrei furono l’ultimo popolo del bacino del Mediterraneo a resistere alla forza dell’impero romano, questo era sionismo: quando partirono volontari dalla Palestina e da altre parti del mondo per combattere in unità ebraiche accanto agli Alleati nella prima guerra mondiale, questo era sionismo; quando crearono la brigata ebraica per combattere Hitler […], quando marciavano verso le camere a gas mormorando il nome di Sion [ …], quando combattevano come partigiani nelle foreste dell’Ucraina contro i tedeschi […], quando combattevano contro il colonialismo inglese questo era sionismo. Il sionismo è caro al popolo ebraico come lo sono i movimenti di liberazione nazionale in Asia e in Africa, non è nato nei ghetti dì Europa, ma sui campi di battaglia contro l’imperialismo. Non rappresenta un risveglio di nazionalità fuori del suo tempo, ma secoli di resistenza alle forze dell’oppressione […].

La descrizione poteva apparire ridondante. Ma comprensibili erano le ragioni per cui dovesse esserlo. Ogni riferimento storico era anche politico, rispettoso della religione dei padri, ma non meno rispettoso della laicità degli Stati. Alle Nazioni Unite, dopo la guerra del 1967, il sionismo era diventato una sorta di bersaglio privilegiato ed il rappresentante d’Israele non poteva ignorarlo. Nel 1975 in assemblea plenaria il sionismo sarebbe stato bollato come una forma di razzismo e perfino quando tale risoluzione sarebbe stata poi abrogata, più volte l’ONU avrebbe trovato modo di riproporne a vario titolo e in varie stagioni il pregiudizio che la ispirava.
Al di là delle ricorrenti generiche imputazioni di territori occupati, una generica ricorrente demonizzazione del sionismo, che ne infrangesse radici e motivazioni, è sempre servita all’emarginazione, delegittimazione, criminalizzazione dello Stato d’Israele nella coscienza internazionale. Là dove esso, come aveva intuito Francesco Ruffini già nel 1919, si era imposto.
Certo, alla fine del secolo XIX il sionismo reagiva soprattutto all’antisemitismo. Ma non solo. Si trattava di reinserire la questione ebraica nella nuova organizzazione politica dell’Europa. Gli Stati nazionali ne erano ormai protagonisti irrinunciabili. Sicchè, anche l’aspirazione biblica ad «un regno di sacerdoti e un popolo sacro» che rifiutasse di aver «parte fra le nazioni» andava riletta, ricompresa, se necessario reinterpretata, alla luce delle nuove dottrine ed istituzioni politiche.
«Si accordi tutto agli ebrei come individui, ma non come nazione»: lo aveva detto all’Assemblea nazionale francese nel 1789 il conte Clermont-Tonnerre. Ne era scaturito il fatidico “contratto di emancipazione” degli ebrei, diffusosi dopo la Rivoluzione francese a tutti i paesi dell’Europa occidentale e centrale: gli ebrei potevano diventare cittadini francesi (e più tardi tedeschi o italiani) a patto di sacrificare tutte le caratteristiche nazionali e di distinguersi dai loro compatrioti unicamente per la religione praticata (o non praticata) come singoli individui1.
Inconcepibile, invece, in Polonia, Russia, Ucraina, dove viveva la maggioranza degli ebrei europei, l’idea di cittadini di confessione ebraica. Di qui la conservazione anche in pieno Novecento, per gli ebrei dell’Europa orientale, di costumi collettivi che andavano ben al di là delle convinzioni religiose: dalla lingua yiddish alla cultura, dall’abbigliamento alla concentrazione in determinati quartieri, con la sottintesa malinconica speranza di far un giorno ritorno alla terra dei padri.
Bisognava rivolgersi agli ebrei di entrambe le Europe. Per coinvolgerli in un movimento politico nazionale a sfondo cosmopolita, che determinasse nell’ebraismo effetti ancor più radicali di quelli che l’illuminismo aveva impresso al cristianesimo. Michael Brenner, nella sua Breve storia del sionismo, guarda al primo sionismo come ad una sorta di “nazionalismo internazionale” e non c’è dubbio che abbia ragione2. Racconta Baruch Pagani:
Gli Ebrei orientali recarono al sionismo il loro entusiasmo, il loro bisogno di soccorso e di conforto; gli Ebrei occidentali vi recarono il loro spirito di organizzazione, la loro cultura moderna, la loro comprensione delle necessità presenti. Dall’incontro di questi due elementi nacque il sionismo politico, dominato dalla forte personalità di Herzl, che, per la sua attività infaticabile, per le sue qualità d’uomo di Stato, per il fascino e l’autorità della persona, dette al movimento un’ampiezza formidabile e tentò di trasportare il sionismo dal circolo ristretto della vita ebraica al campo della politica internazionale3.

Sul «Corriere della Sera» del 17 giugno 1920 Ruffini, recensendo il libro di Hagani, al quale del resto aveva scritto l’anno prima una Prefazione alla traduzione italiana, riprende quanto aveva già avuto modo di puntualizzare l’anno prima in sede scientifica4. L’originalità del sionismo, cioè, sarebbe tutta nell’aver impostato in termini di diritto e politica internazionale la questione ebraica: “nazionalismo internazionale”, dunque, anche perchè teso a porre fine alla bimillenaria storia di persecuzione e di assimilazione che aveva caratterizzato la diaspora. Scrive Ruffini:
A risolvere la questione ebraica, la quale da un secolo forma la disperazione dei popoli civili, due rimedi, dice Herzl, furono impiegati in modo affatto empirico: l’antisemitismo e la emancipazione. Ma e l’uno e l’altro si sono chiariti inefficaci. L’antisemitismo non fa che rinforzare il particolarismo degli Israeliti e risvegliare la loro coscienza etnica. La emancipazione, aprendo l’adito allo esplicarsi di alcune loro facoltà native, non fa che esagerare le anomalie della loro posizione economica. Una soluzione della questione ebraica si potrà avere solo quando la si imposti sul suo vero terreno, che è quello della politica internazionale. Poiché la questione ebraica non è una questione economica, né una questione religiosa, sebbene assuma a volta a volta l’aspetto dell’una e dell’altra. E’ una questione nazionale, e per risolverla, si deve, prima di tutto, farne una questione mondiale, e metterla così innanzi alle grandi potenze. L’oppressione ha fatto di noi, dice Herzl, un gruppo storico riconoscibile dalla sua omogeneità. Che lo vogliamo o no, noi siamo diventati un popolo, un popolo uno. Si dia a questo popolo la sovranità di un territorio determinato, conforme ai suoi bisogni; e la questione sarà risoluta5.

La condizione degli ebrei in Europa alla fine del secolo XIX non era quella di un popolo o di una nazione, ma di disperse famiglie allargate. La loro vita quotidiana e le loro strutture di potere erano restate abbarbicate al modello delle corporazioni medioevali. Nelle comunità della diaspora sopravvivevano due muri che il sionismo doveva riproporsi di abbattere.
C’era il muro di separazione imposto dall’esterno, che nell’Europa orientale delimitava il ghetto come “territorio di steccato”, nel quale grandi concentrazioni di popolazione ebraica subivano legislazioni e consuetudini non poco discriminatorie. E c’era poi il muro di separazione eretto e voluto dagli stessi ebrei per proteggere la propria identità, la propria cultura, il proprio sistema educativo, la continuità delle proprie aristocrazie del sapere e del saper vivere.
Era come se l’ebraismo avesse due dimensioni: l’una segnata da un distinto operare, vestire, parlare rispetto al resto degli abitanti di una stessa città; l’altra, a cavallo fra un sistema di associazioni religiose assistenziali e una rete di circoli culturali, alimentata da un certo spirito di difformità spirituale dal mondo circostante. Entrambe le dimensioni, in tempi di Stati nazionali, avevano sempre meno significato. Il sionismo le sfidava sul terreno della secolarizzazione ineluttabile, dovendo per così dire “distillare” all’interno della società ebraica, ancora in tanti aspetti medievale, una passione e una forza etico-politica inimmaginabili.
Né era consentito al sionismo arretrare di fronte alle incomprensioni, talvolta dettate da incomunicabilità, talvolta da ostilità, che il proprio apparire aveva suscitato nella società rabbinica. In Europa ormai il sistema comunitario “corporativo” medievale non serviva più da difesa contro l’antisemitismo e serviva, piuttosto, a render gli ebrei ancora più stranieri di prima.
Federico Chabod, avrebbe attribuito alla passione nazionale, che il secolo XVIII non aveva conosciuto, una sua carica di religiosità per cui la nazione si configurava come la nuova divinità del mondo moderno, e quindi a suo modo “sacra”6. Lo Stato nazionale che il sionismo mirava a fondare era un modo di reagire alla condizione storica in cui gli ebrei si erano venuti a trovare in Europa nell’Ottocento: popolo sacro in tempi di sacralità della nazione.
Se per gli altri popoli gli ebrei non erano una nazione, pretendere di esserlo e riuscirci sarebbe stata una novità rivoluzionaria. Fra gli ebrei, per un verso; nel mondo, per altro verso. Ed era questa novità, a suo modo corrosiva dell’ebraismo degli avi, che i rabbini denunciavano ma poi non sapevano neutralizzare. Nei confronti della tradizione il sionismo non implicava necessariamente smarrimento o affievolimento di fede religiosa, ma ai rabbini era facile insinuare che fosse così, non potendone comprendere o giustificare tutto il secolarismo che lo sorreggeva. Nota con finezza Vittorio Dan Segre:
La società rabbinica rimase, soprattutto nell’Europa orientale sino alla vigilia dello sterminio nazista, una società troppo chiusa su se stessa per comprendere non l’essenza della giudeofobia (di cui aveva lunga esperienza) ma del nuovo antisemitismo laico, ideologico, razzista, molto più violento dell’odio religioso cristiano che lo aveva preceduto e poi alimentato. Il prezzo pagato per questa incomprensione è stato terribile per le comunità europee, soprattutto dell’Europa orientale, dove i rabbini si opposero al movimento nazionale ebraico con estremo vigore sin dal momento della convocazione del primo congresso sionista. Lo fecero con maggiore sforzo che contro l’assimilazione, sia perché gli ebrei assimilati sfuggivano, socialmente ed economicamente, più delle masse al loro controllo, sia perché l’assimilazione era vista come una perdita di individui mentre il sionismo come una rivolta all’autorità divina collettiva. I leader religiosi non si resero conto del pericolo rappresentato dall’emergere dello Stato nazionale in Europa. Temettero la concorrenza della scienza e della educazione moderna laica; e l’effetto blasfemo del nazionalismo che sostituiva la sovranità del popolo a quella divina 7.

I sionisti parlavano di indipendenza e di autodeterminazione a un popolo privo di coscienza territoriale. Era facile ravvisare, non solo da parte dei rabbini, la sostituzione di una sovranità umana razionalmente controllabile a quella divina. Volere creare una maggioranza ebraica in qualche posto del mondo, alla quale garantire sicurezza fisica e riconoscimento internazionale, era finalità nitidamente laica. Ci si riprometteva uno Stato in cui gli ebrei potessero anche cessare di essere tali, se lo desideravano, e soprattutto realizzare collettivamente quella assimilazione (uno Stato come gli altri) che giudeofobia ed antisemitismo precludevano.
Dal popolo, anzi dal popolo “sacro”, doveva rinascere una nazione che si facesse Stato; e questo nel secolo che della nazione aveva sancito la sacralità. Quella del sionismo, nella storia dell’ebraismo, non poteva che essere una strada in salita. Ma ugualmente in salita sarebbe stato il suo percorso rispetto alle dottrine politiche che l’Europa del XIX secolo aveva visto crescere e diffondersi.


Parigi 1895: École Militaire

Il 5 gennaio del 1895 a Parigi, nel gelido cortile dell’École Militaire, veniva degradato pubblicamente il capitano Alfred Dreyfus, l’unico ufficiale ebreo allora in forza allo Stato Maggiore, accusato di avere trasmesso alcuni segreti militari ai tedeschi sulla base di “prove” che in seguito si sarebbero rivelate false. Fra i pochi giornalisti presenti alla cerimonia c’era l’ebreo ungherese Theodor Herzl, corrispondente del quotidiano di Vienna «Neue Freie Presse».
Dreyfus fu condotto al cospetto del generale Darras, che gli gridò: «Alfred Dreyfus, siete indegno di portare le armi. Nel nome del popolo francese, noi vi degradiamo!” Immediatamente, a voce alta, Dreyfus gli aveva replicato: “Soldati! viene degradato un innocente! Soldati! Viene disonorato un innocente! Viva la Francia! Viva l’esercito!». Intanto, però, un anziano sottufficiale gli tagliava i galloni dall’uniforme, gli toglieva la spada e gliela spezzava contro il ginocchio. Nel cortile la voce del prigioniero si faceva sempre più tenue e ormai senza fierezza. Una folla immensa eccitatissima, che aveva atteso fuori, lo subissava di urla e di insulti.
Nelle orecchie di Herzl, quel grido di «Morte a Dreyfus! Morte agli ebrei!» continuò a risuonare per giorni e giorni. Neanche sei mesi dopo era già pronta la prima stesura del suo libro, Der Judenstaat, col quale avrebbe avuto origine la storia dello Stato di Israele.
Due storie, l’affare Dreyfus e la conversione di Herzl al sionismo, che sono state insieme riproposte in questi giorni da una bellissima mostra al Musée d’art et d’histoire du judaisme a Parigi. Fondi di archivi, testimonianze e giornali d’epoca, straordinari supporti audiovisivi, fonti varie concorrono a ricostruire tutto quello che le due vicende ancor oggi significano in Europa e non solo in Europa.
Si consumò in quegli anni l’illusoria convinzione, nella quale avevano vissuto gli ebrei occidentali assimilati, secondo la quale il loro processo di accettazione nella società europea fosse ben avviato e quasi completato. In nessun paese questo senso di crescente sicurezza era più forte che in Francia. I principi del 1789 parevano saldissimi e numericamente gli ebrei erano pochi.
Proprio la sconfitta del 1870, cha alla Francia era costata l’Alsazia e la Lorena, l’aveva privata della più grande e non troppo amata colonia di ebrei aschenaziti alsaziani di lingua tedesca. In una popolazione complessiva di quasi quaranta milioni, gli ebrei in Francia erano meno di ottantaseimila8. La comunità era amministrata dal Concistoire central, sotto la vigilanza del ministero dei culti, che fra i suoi compiti di sovrintendenza aveva anche quello di disciplinare le regole per l’elezione dei rabbini e di fissarne le retribuzioni. In qualche modo il giudaismo francese si era adeguato al regime di Chiesa di Stato e soprattutto reputava l’antisemitismo un corpo estraneo di importazione tedesca che in Francia ormai non avrebbe più avuto alcuna radice.
Il rabbino Kahn di Nimes ebbe a definire la rivoluzione francese «la nostra fuga dall’Egitto»; il rabbino Herrmann di Reims ebbe a dire che la Francia era «designata da Lui a dirigere i destini dell’umanità […] per diffondere in tutto il mondo le grandi e bellissime idee di giustizia, eguaglianza e fraternità che erano state un tempo il patrimonio esclusivo di Israele»; il professor James Darmesteter, un ebreo divenuto direttore dell’ École des Haute Etudes, ebbe ad argomentare come cultura israelita e cultura francese fossero sostanzialmente identiche; prima di lui Léon Halévy era arrivato ad auspicare che «il nome di ebreo divenga complementare e il nome di francese principale».
Il giudaismo francese aveva fatto di tutto per fondersi con il paesaggio religioso della nazione. I rabbini avevano preso a vestirsi alla maniera dei preti cattolici; qualcuno aveva ventilato l’idea di tenere il servizio sabbatico di domenica; le cerimonie per i bambini ebrei erano diventate molto simili ai battesimi e alle prime comunioni.
Tante attenzioni a non offrire pretesti di antisemitismo sarebbero però state travolte già nel quindicennio precedente al processo Dreyfus. Le persecuzioni del 1881 in Russia e le ondate di immigrati che ne seguirono inflissero un colpo mortale all’ebraismo francese, restituendo per così dire ampia visibilità, specialmente a Parigi, al “problema ebraico”. Nel corso di una generazione (anche meno), alla Francia toccò assorbire centoventimila rifugiati ebrei, più che raddoppiando così la sua comunità ebraica. Ed i nuovi arrivati naturalmente erano poveri, aschenaziti, sotto molti tratti conformi alla caricatura crudele che l’antisemitismo avrebbe colorato di odio.
Si aggiungeva inoltre un flusso pressoché continuo di ebrei della comunità alsaziana, che non sopportava l’occupazione tedesca, fra i quali la stessa famiglia Dreyfus, arrivata a Parigi nel 1871. Erano patrioti francesi quasi fanatici della loro appartenenza nazionale. Diventare ufficiale nell’esercito francese, del resto, era stata fin da ragazzo la grande ambizione di Alfred Dreyfus: fu per lui motivo di orgoglio esser il primo ebreo scelto per funzioni di Stato Maggiore, dopo che questo era stato riorganizzato per esprimere una base sociale più ampia.
Certo, il patriottismo degli ebrei alsaziani presentava aspetti paradossali. Come chiunque potesse avere lontani legami tedeschi, essi erano per definizione guardati con sospetto e diffidenza. La Francia dell’ultimo ventennio del secolo era un paese suscettibilissimo, al quale ancora bruciava la sconfitta di Sedan, ansioso di vendicarsi e di recuperare le province separate e, tuttavia, spaventato per la possibilità di un nuovo attacco tedesco. Nel gennaio del 1894 la Francia avrebbe firmato la prima convenzione segreta con la Russia, suo nuovo alleato contro la Germania.
Il che avrebbe reso gli ebrei agli occhi dei francesi ancor più “pericolosi”, perché si sapeva bene quanto detestassero il regime zarista. Invano gli ebrei francesi avevano pregato nelle sinagoghe di Parigi per il compleanno di Alessandro III, il più antisemita degli zar. A tanto zelo gli antisemiti replicavano con immancabile cinismo: «Naturale! Cos’altro ti aspetti da loro?».    
Su questo sfondo andò dipanandosi il filo della spy story che vide protagonista il capitano Dreyfus. Nel luglio del 1894 un giocatore d’azzardo incalzato dai debiti, il maggiore conte Walsin-Esterhazy, che allora comandava il settantaquattresimo corpo di fanteria, aveva offerto i suoi servizi all’ambasciata tedesca. Al suo portinaio il mese dopo recapitò una lettera (il mitico bordereau) che elencava certi documenti da ritenersi in vendita e che pervenne il 26 settembre al maggiore Herbert Henry della “Sezione Statistica” (copertura per il controspionaggio).
Se la “Sezione Statistica” fosse stata meno caotica e meno disorganizzata, o più precisamente non abituata a conservare documenti veri e documenti falsi tutti insieme, l’affare Dreyfus sarebbe stato impensabile. Tutte le prove interne al bordereau indicavano Esterhazy; poco o nulla lasciava sospettare che il colpevole fosse un ufficiale dello Stato Maggiore; alcuni elementi escludevano decisamente che potesse trattarsi del capitano Dreyfus.
Solo che a capo della Sezione c’era un colonnello alsaziano, Jean-Sandherr, antitedesco convinto e antisemita convintissimo. Quando il maggiore Henry, altro antisemita, fece il nome di Dreyfus, Sandherr si battè la mano sulla fronte ed esclamò: «Avrei dovuto pensarci!». Poi la «Libre Parole» di Drumont diffuse la notizia che un ufficiale ebreo era stato segretamente arrestato con l’accusa di alto tradimento e fin da prima che il processo iniziasse proclamò, all’unisono con «La Croix», che «toute la juiverie» era solidale con «le traître».
La comunità ebraica, della quale facevano parte cinque generali dell’esercito, cercò di calmare le acque e quando Dreyfus fu condannato e mandato all’Isola del Diavolo i suoi capi ne accettarono la colpevolezza, se ne vergognarono e avrebbero desiderato che la faccenda fosse dimenticata. Non così i familiari: confidando nella sua innocenza, in silenzio, dietro le quinte per così dire, si misero al lavoro, accumulando prove a discarico e sperando nella grazia. Dal fratello Mathieu venne dato incarico a un giovane scrittore ebreo di Nimes, che era poi Bernard Lazare, di redigere un pamphlet (Une erreur judiciaire: la vérité sur l’affaire Dreyfus), che poté esser pubblicato a Bruxelles soltanto alla fine del 1896.
Lazare negli ambienti giornalistici ed il grande avvocato ebreo Joseph Reinach in quelli forensi trascinarono la comunità ebraica nella battaglia di opinione. Si trattava di ritornare agli atti (davvero lacunosi) del processo e di chiederne una revisione. Molti giovani ebrei, fra i quali Marcel Proust, si mobilitarono. «Io fui il primo dreyfusard – scrisse Proust – perché fui io ad andare da Anatole France a chiedere la sua firma».
Quella firma insieme ad altre consentì la “petizione degli intellettuali”, che a suo modo avrebbe inaugurato un genere di grande successo. Fra gli eminenti scrittori coinvolti c’era anche Émile Zola, forse in quel tempo l’intellettuale più amato di Francia. Pressato, anzi incalzato, da circa tre anni dall’insistenza di Lazare, Zola scrisse l’articolo destinato a segnare una svolta nella storia dell’affare Dreyfus. Lo diede ad un uomo politico allora in ascesa, direttore del giornale liberale «L’Aurore», Georges Clémenceau, il quale lo pubblicò in prima pagina il 13 gennaio 1898 col famosissimo titolo J’accuse! .
Qualche giorno dopo manifestazioni di antisemitismo scoppiavano a Nantes e si propagavano a Nancy, Rennes, Bordeaux, Marsiglia, Tolosa, Angers, Le Havre, Orléans. Era come se l’articolo di Zola avesse diviso in due la Francia; e ben al di là delle vetrine dei negozi di ebrei quella che si spaccava era la nazione del 1789. Lo si percepì anche ad Algeri, dove i tumulti antisemiti durarono quattro giorni e l’intero quartiere ebraico venne saccheggiato. Il che valeva a dimostrare quanto fragile fosse l’assimilazione alla Repubblica inaugurata dopo Sedan dalla legge Cremieux. Succedeva tutto quello che le autorità ebraiche temevano e che nulla e nessuno poteva più fermare: perfino nella patria dei sentimenti.
Se pure la Francia, si chiese Herzl, era ostile, dove mai si poteva sperare di essere accettati in Europa? L’assimilazione era divenuta davvero impossibile, mentre un sogno meno impossibile gli sembrava il ritorno a Sion, ma per vivere e non per morire. Il primo congresso sionista con delegati di sedici paesi, riunitosi il 29 agosto 1897 nel gran salone del casinò municipale di Basilea, promosso, organizzato e finanziato da Herzl, a suo modo nacque proprio da quella scena tremenda del novembre 1895 all’École Militaire.
O meglio, da Il Nuovo Ghetto: dramma che Herzl aveva scritto subito dopo in uno stato quasi di delirio, per dimostrare come le nuove mura del pregiudizio che circondava gli ebrei avessero sostituito quelle antiche di pietra. Sull’onda del disonore inflitto a Dreyfus, Il Nuovo Ghetto anticipava il sorgere di uno Stato nazionale ebraico al momento sprovvisto di territorio ma già deciso a riunirsi in assemblea nazionale. Questo e non altro era il sionismo. Il protagonista del dramma, Jacob Samuel, in principio davanti a sé non vede che il suicidio, ma poi trova il coraggio per andare verso la terra promessa: solo laggiù gli Ebrei usciranno dal Ghetto. Non c’è dubbio che, nel personaggio di Jacob Samuel, Herzl rappresentava se stesso e il proprio programma.
Intanto, però, Il Nuovo Ghetto era pure il titolo di un articolo di Bernard Lazare su «La Justice» del 17 novembre, dove Dreyfus era l’archetipo del martire ebreo che invoca giustizia per tutta l’umanità. Era come se Herzl e Lazare, dreyfusardi della primissima ora, insieme riabbracciassero l’ebraismo. Insieme si ritroveranno poi ai congressi sionisti, perché la religione dei padri potesse sopravvivere in un laicissimo Stato nazionale, salvo poi dividersi quando il liberalismo dell’uno sarebbe parso incompatibile all’anarco-socialismo dell’altro. Dei loro rapporti, del loro ebraismo, del loro destino, avrebbe scritto Hannah Arendt. Ma quel che non si può omettere è di rilevare come fosse stato, appunto, intorno all’onore del capitano Dreyfus che le loro vite si fossero per la prima volta incrociate a Parigi.


Due Francie l’una contro l’altra                                
    
“Alfred Dreyfus: le combat pour la justice” : con questo titolo la mostra al Musée d’art et d’histoire du judaisme a Parigi cerca di sfuggire alla ricorrente contrapposizione fra due Francie, una dreyfusarda e una antidreyfusarda, che dal 1895 al 1906 si sarebbero scambiate colpi proibitissimi. L’idea di due Francie a mala pena i francesi la tollerano fra Francia della Rivoluzione e Francia della Restaurazione, ma poi la caricano sul conto di Guizot e non amano affatto ritrovarsela davanti sulla questione ebraica. Di qui l’imbarazzo per quella storiaccia imbarazzante.
Si pensi a quello che fu l’atteggiamento dell’esercito, man mano che gli elementi dell’accusa contro Dreyfus andavano svuotandosi. All’esercito come istituzione, con molta discrezione, fu chiesto allora di ammettere di aver commesso un errore. Ma esso rifiutò e serrò le fila. Quando il maggiore Picquart presentò delle prove contro Esterhazy, che scagionavano Dreyfus, fu lui a finire in prigione.
Quanto a Zola, gli toccò fuggire all’estero. Alla Camera nel gennaio del 1898 ci fu una scazzottatura generale fra deputati, durante un intervento di Jean Jaurès. Sfide a duello soltanto a Parigi se ne annoverarono tantissime. Con qualche fastidio, di ritorno a Parigi da Costantinopoli, l’ambasciatore Paul Cambon si sarebbe lamentato: «Qualunque cosa uno dica o faccia, viene subito classificato come amico o nemico degli ebrei o dell’esercito» 9.
Le due Francie c’erano e si facevano sentire. I dreyfusardi avevano dato vita nel febbraio del 1898 alla “Lega per i diritti dell’uomo”; gli antidreyfusardi, guidati da Charles Maurras, avevano risposto con la “Lega della patria francese”. Il proletariato e la sua organizzazione politica, invece, rimasero ai margini del campo di gioco. «Devo riconoscere – confessò Clemenceau – che la classe operaia non sembra minimamente interessarsi alla questione»10. Le lacerazioni vissute allora dalla società parigina, sia aristocratica sia borghese, sarebbero state al centro di una letteratura certo non “minore”. Si pensi al Jean Santeuil di Proust, a La verità di Zola, a L’isola dei pinguini e a Monsieur Bergeret a Parigi di Anatole France11.
Il Faubourg, quartiere aristocratico per eccellenza, capeggiato dai duchi di Brissac, La Rochefoucauld e Luynes e dalla duchessa d’Uzès, aveva sposato a stragrande maggioranza la causa antidreyfusarda. Vi si erano uniti scrittori nazionalisti (Paul Valéry e Maurice Barrès) e pittori impressionisti (Edgar Degas), intellighènzia varia delle Università, del Collège de France, dell’Institut, dell’Académie Française. Come proprio quartier generale gli antidreyfusardi avevano eletto il salotto della contessa de Martel, che avrebbe ispirato il salotto di madame Swann nella Ricerca del tempo perduto di Proust.
Loro atto di fede, in qualche modo pregiudiziale, era l’esistenza di una mitica costellazione di ebrei, massoni e atei denominata “il sindacato”. Di qui la consuetudine del principe di Polignac di interrogare al riguardo lo stesso Proust («che sta facendo il buon vecchio sindacato eh?»). Ma quale era la provenienza, se non l’ascendenza, dell’antisemitismo in Francia? La si poteva per lo più riannodare a due filoni: uno pseudoscientifico ed uno pseudoclericale.
Il primo filone risaliva al 1853, quando il diplomatico francese Joseph Gobineau aveva pubblicato quel Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, incentrato sulla distinzione fra virtù ariane e degenerazione semitica, destinato a diventare il manuale dell’antisemitismo tedesco. Sui francesi avrebbero invece agito la Storia generale e sistema comparato delle lingue semitiche di Ernest Renan e soprattutto la sua Vita di Gesù del 1863, forse il libro di maggior successo pubblicato in Francia nel corso del secolo, letto con avido compiacimento dal superlaicismo positivista e con tremebondo senso di colpa dai cattolici.
«La razza semitica, paragonata – per Renan – alla razza indoeuropea, rappresenta un livello inferiore della natura umana». Quanto al suo ritratto di Gesù, l’eroe umanissimo, esso era tutto orientato a mostrarlo «immune da quasi tutti i difetti della sua razza». La teoria di Renan sulla inferiorità razziale degli atei, insieme a quella di Toussenel sulla congenita furfanteria finanziaria ebraica, avrebbero nel 1886 trovato piena ospitalità nei due volumi di Eduard Drumont, La Francia ebraica, efficacissima opera di antisemitismo che consentì al suo autore di fondare prima la Lega antisemita e poi nel 1889 il suo spietato quotidiano «La Libre Parole».
Il filone di antisemitismo pseudoclericale era nato in Francia dagli assunzionisti. Nati nel 1847, gli assunzionisti furono il primo ordine ad applicare i metodi del business al proselitismo religioso. Presero in affitto treni speciali per trasportare grandi folle, fondarono una casa editrice importante, La Bonne Presse, ed un quotidiano di grande diffusione, «La Croix», comparso nel 188312.
Proprio su «La Croix», il 13 novembre del 1896, veniva richiamata e sintetizzata, ad onore e impegno dell’Ordine, la battaglia ingaggiata contro
il trio dell’odio […] che consiste: nel protestantesimo, che vuole distruggere il cattolicesimo, l’anima della Francia; nel giudaismo, che vuole rubarle la sua ricchezza nazionale, il corpo della Francia; nella massoneria, naturale composto degli altri due, che vuole al tempo stesso demolire il corpo e l’anima della Francia!13.

Come già prima di loro i domenicani e i francescani, pure gli assunzionisti avevano l’esigenza di un nemico al quale contrapporsi. Protestanti, ebrei, massoni, fra loro facilmente collegabili, erano adattissimi. Molto del rituale massonico poteva venir ricondotto alla Kabalah ebraica e decine e decine di volumetti cattolici di quel periodo lo avrebbero suggerito. E poiché gli assunzionisti credevano che molti protestanti fossero stati criptoebrei e marranos fin dal XVI secolo, non era stato difficile delineare “il trio dell’odio”.
Dalla parte di Dreyfus era schierato il salotto di madame Geneviéve Strauss, che avrebbe ispirato la duchessa de Guermantes di Proust. Nata Halévy, la maggiore di tutte le famiglie dell’alta borghesia ebraico-protestante, con legami con il mondo delle arti, delle lettere e della musica, faceva salotto soprattutto per aggregare intellettuali. Il suo eroe naturale era l’avvocato Reinach, spesso volonterosamente esposto al fuoco nemico.
L’antidreyfusardo Léon Daudet contro di lui sarebbe stato spietato: a suo dire, Reinach «aveva una voce di legno e di cuoio e aveva l’abitudine di saltare da una sedia all’altra a caccia di signore dalle scollature generose con la galanteria di un gorilla soddisfatto di sé». Ovviamente, Daudet sembra fonte troppo prevenuta per essere attendibile. Più equilibrata su Reinach l’opinione di Proust: «era buffo ma simpatico, anche se dovevamo fingere che fosse una reincarnazione di Cicerone».
Un’altra padrona di casa dreyfusarda, madame de Saint Victor, venne ribattezzata “Nostra Signora della revisione”. Qualcuno oggi potrebbe vedere in lei una prefigurazione di Marina Valensise anch’essa su «Il Foglio» di Giuliano Ferrara denominata “Nostra Signora della revisione”: non già del processo Dreyfus, ma dei peggiori luoghi comuni della peggiore pigrizia storiografica. Quanto a Madame Ménard-Dorien, l’ispiratrice della Madame Verdurin di Proust, il suo salotto di Rue de la Faisenderie era il più a sinistra di tutti. Venne sempre identificato come “la fortezza del dreyfusismo”. Il che potrebbe far pensare oggi all’atteggiamento sempre coerentemente filo-Israele di Furio Colombo, noto ai lettori foglianti come una sorta di Madame Verdurin della sinistra italiana.
Nei salotti, complessivamente, fra le due Francie fu pareggio. Nelle riviste e sui giornali, invece, prevalsero gli antidreyfusardi: al principio nettamente, poi di più stretta misura. L’avvenimento favorevole ai dreyfusardi, quello che segnò lo scompaginarsi, o comunque un importante arretramento, del fronte antidreyfusardo fu la morte improvvisa del Presidente della Repubblica Felix Faure, tenace antidreyfusardo, il 16 febbraio 1899. Il presidente fu colpito da una emorragia cerebrale mentre era in flagrante delicto con la sua concubina, madame Steinheil. Né mancavano aspetti boccacceschi della sua dipartita; cronache e commenti a mezzo stampa li fecero affiorare.
Da quell’episodio il potere della parola scritta sembrò aver mutato di segno: prima contro Dreyfus ed ora a favore di Dreyfus; non senza eccessi ed esagerazioni piuttosto simili. Dall’isola del Diavolo egli fu ricondotto in Francia, incanutito, malato di malaria, quasi incapace di parlare. Processato di nuovo a Rennes, venne condannato ancora una volta. Ma gli fu prospettata la grazia. Ed egli accettò. Come volevano i suoi familiari e come non dispiaceva al vecchio notabilato ebraico. Molti dreyfusardi erano furibondi, delusi, inconsolabili: compreso Clemenceau.
Lazare, invece, neanche allora smise di difendere Dreyfus. L’avventura eroica della sua giovinezza era terminata in una sorta di compromesso politico maturato altrove; l’oblio ed il silenzio calavano su di lui, che era stato «l’ouvrier de la premiére heure»; solitudine, tristezza e perfino un senso di umiliazione ormai lo abitavano. Ma dalle labbra di Lazare mai si sarebbe udita parola contro Dreyfus. Atteggiamento non condiviso affatto dal suo amico Charles Peguy. «Noi – si sarebbe letto in una pagina di Notre Jeunesse – eravamo pronti a morire per Dreyfus, ma Dreyfus, lui, non lo è!»14.
E perché doveva esserlo? Con l’eccezione di Lazare, i dreyfusardi non se lo chiesero mai. Né si chiesero se la prosecuzione della causa ad oltranza non avrebbe contribuito a consolidare l’antisemitismo in Francia. Il che puntualmente avvenne: dopo la prima guerra mondiale la Lega di Maurras fu stabile e forte movimento politico filosofascista e antisemita che fra il 1941 e il 1944 non avrebbe esitato a prestarsi per mandare a morte centinaia di migliaia di ebrei.
Si era cercato nell’affare Dreyfus una vendetta e una vittoria totale: da entrambe le parti. Da destra si era aperta una partita che si sarebbe chiusa a vantaggio della sinistra, con il successo elettorale del 1906. Lo Stato, in mani saldamente dreyfusarde, condusse un’esplicita campagna di denigrazione della Chiesa. Gli assunzionisti furono espulsi dalla Francia. Dreyfus fu riabilitato e promosso generale. Picquart diventò ministro della guerra. Nella mente, nella memoria, nel senso comune della Francia profonda si radicò l’idea della cospirazione ebraica. Tanto più radicata, quanto meno fondata.
Toccherà proprio a Joseph Reinach, non in tribunale, ma nell’ultimo dei sei volumi della sua Histoire de l’Affaire Dreyfus apparso nel 1908 prender criticamente le distanze dagli opposti estremismi di entrambe le Francie. Reinach intravedeva con intelligenza quel che dieci anni di affaire Dreyfus avrebbero significato per l’Europa.
C’è un passo significativo nei diari di André Gide, del 24 gennaio 1914, riguardo al suo amico Léon Blum, leader dei giovani dreyfusardi ebrei e più tardi primo ministro francese. Vi si avverte un’eco dell’antisemitismo che si abbattè sull’incolpevole Dreyfus. In Blum viene sottolineata da Gide

la sua evidente decisione di mostrare sempre una preferenza per l’ebreo. Verrà un tempo, egli pensa, che sarà l’era dell’ebreo, e in questo momento è importante riconoscere e stabilire la sua superiorità in tutte le categorie, in tutti i campi, in tutti i settori dell’arte, della scienza e dell’industria.


Gide esprimeva, quindi, le sue obiezioni a quella che considerava come una presa di possesso ebraica della cultura francese: perché gli ebrei non potevano scrivere in un’altra lingua? Perché dovevano scrivere in francese?
La sua riflessione era davvero sgradevole.
C’è oggi in Francia una letteratura ebraica che non è letteratura francese. Perché mi dovrebbe importare che la letteratura del mio paese sia arricchita se lo è a spese del suo significato? Sarebbe molto meglio, ogni volta che il francese manca dell’energia sufficiente, che sparisse, piuttosto che lasciare che una persona rozza faccia la sua parte invece di lui e sotto il suo nome15.

Era proprio il genere di argomenti dai quali il sionismo aveva ricavato la sua ragion d’essere. La diffidenza contro la cultura ebraica e la sua appartenenza alla cultura europea Herzl l’aveva già conosciuta a Vienna, dove l’ “invasione” ebraica era ancor più evidente che in Francia. In quel gelido mattino di gennaio del 1895, quando al capitano Dreyfus era stata spezzata la spada, a Parigi Herzl aveva compreso che nell’Europa delle nazioni per il popolo sacro l’unico appuntamento da darsi non potesse che essere a Gerusalemme.
                
                    
Nazione ebraica e nazionalismo arabo

Herzl aveva prospettato la Palestina come «una terra senza popolo per un popolo senza terra». Tranne Ahad Ha’am, intellettuale di Odessa per tanti versi coscienza critica del sionismo, nessuno allora immaginava potessero determinarsi conflitti o conflittualità con gli abitanti arabi della Palestina.
Cresciuto e formatosi all’epoca del colonialismo, Herzl era portato a considerare irrilevanti i diritti della popolazione indigena. Non perché avesse in mente ipotesi scioviniste o peggio razziste, ma perché una forma di tollerante convivenza tra ebrei e arabi gli sembrava inevitabile. «Se pure avviene che in mezzo a noi – si legge ne Lo Stato ebraico – abiti gente di altra fede e nazionalità, garantiremo loro una onorevole tutela e liberi diritti. In Europa abbiamo imparato la tolleranza».
La negotiorum gestio del diritto romano gli aveva fatto pensare come gestori, nell’accezione anche degli affari politici, di una comunità troppo dispersa per potersi autogestire, ad una Society of Jews. Doveva essere persona giuridica e unione volontaria della quale avrebbero potuto far parte anche gli arabi. Mentre magari alcuni ebrei, considerati da Herzl invasati dal loro fanatismo ultraortodosso, potevano aver diritto di vivere in Palestina senza per questo diventare membri della Society.
Quanto alla lingua, l’ebraico non fu mai da lui preso in considerazione in vista della costituzione dello Stato. Anche perché, secondo lui, nessuno avrebbe ordinato un biglietto ferroviario in quella lingua. In Palestina sarebbero stati ammessi tutti gli idiomi occidentali, ma al tedesco, che per la vicinanza con lo yiddish, parlato dagli ebrei dell’Europa orientale, era diventato la lingua ufficiale dei congressi sionisti, sarebbe spettato un ruolo centrale. Sul diario di Herzl il 5 luglio del 1895 poteva leggersi: «del resto, se volessi essere qualcosa, vorrei essere un prussiano di antica nobiltà».
La sua aspirazione era quella di veder fruttificare in quello Stato vagheggiato, piccola Prussia o forse più ancora piccola Svizzera del Medio Oriente, le conquiste dell’assimilazione. Il suo ideale non era un ritorno all’età anteriore all’emancipazione, bensì un’estensione di tale processo fuori d’Europa, ma in uno spirito europeo. Egli era e si sentiva quel che si sarebbe poi detto: un ebreo “postassimilato”, che non avverte alcun bisogno di nascondere la propria identità o di rinchiuderla nell’ambito confessionale.
Tutt’altro era il punto di vista di Ahad Ha’am (uno del popolo), pseudonimo di Asher Ginzberg, che reputava Herzl un “novellino” del sionismo. Preoccupazione di Herzl era quella di salvare gli ebrei, di Ahad Ha’am quella di salvare l’ebraismo. Ed era evidente come la priorità della prima preoccupazione implicasse, rispetto alla priorità della seconda, una forma di assimilazione su base collettiva.
Dov’è l’elemento ebraico nella nuova statualità, veniva chiesto insistentemente a Herzl da Ahad Ha’am? Per lui il massimo rischio stava nell’eventuale successo dell’assimilazione e, quindi, della dissoluzione dell’ebraismo che ne sarebbe seguita. Per Herzl era, invece, il fallimento dell’assimilazione a rappresentare la più cocente sconfitta.
Nessuno dei due voleva uno Stato teocratico. Ma al posto della immediata soluzione politica propugnata da Herzl, Ahad Ha’am proclamava, come necessaria fase preliminare, la creazione di una cultura ebraica che dalla Palestina inviasse al mondo della diaspora segnali di rinascita. Al contrario di Herzl, Ahad Ha’am riteneva attuabile il trasferimento in Palestina solo di una piccola parte del popolo ebraico: anche per impedire che “il problema ebraico” potesse a sua volta suscitare “il problema arabo”.
Dopo il saggio del 1899 Dies is nicht der Weg (Questa non è la via), incentrato sui limiti del movimento Hibbat Zion, lo scrittore di Odessa, all’indomani del suo primo viaggio in Palestina, aveva pubblicato nel 1891 uno scritto Warheit aus dem Lande Israel (Verità della Palestina), nel quale aveva precisato la sua critica alla vita dei coloni negli insediamenti già fondati. Ed il discorso si era incentrato sulle latenti tensioni con la popolazione araba.
Gli arabi, vi si argomentava,
capiscono perfettamente che cosa c’è dietro la nostra attività nel paese e qual è il suo obiettivo, ma stanno zitti perché per il momento non temono alcun pericolo per il proprio futuro. Quando tuttavia la vita del nostro popolo in Palestina si svilupperà al punto che la popolazione indigena si sentirà minacciata, non cederanno più tanto facilmente … Dobbiamo stare attenti al modo di procedere con un popolo estraneo in mezzo al quale vogliamo insediarci![...]16

A Odessa, insomma, Ahad Ha’am prima e Vladimir Jabotinsky poi non sottovalutavano affatto gli arabi. Mentre Herzl, durante la sua prima visita a Londra, si era forse appiattito su quanto gli aveva detto Holman Hunt: «gli arabi sono soltanto taglialegna e portatori d’acqua. Non occorre nemmeno scacciarli, perché potrebbero rendere servizi utilissimi agli ebrei»17.
Proprio non sarebbe andata così. Anche gli arabi avrebbero sviluppato, due decenni dopo quello ebraico, un loro nazionalismo. Certo, se il sionismo si rispecchiava tutto quanto nel diciannovesimo secolo, faceva cioè parte di quella storia europea che aveva reso sacra l’idea di nazione, agli arabi toccava guardare al nazionalismo afro-asiatico del ventesimo secolo. Ma la contiguità cronologica era quella che era: il 17 gennaio del 1896 sul «Jewish Chronicle» di Londra apparivano ampi estratti delle ottantasei pagine del libro Der Judenstaät e nella primavera del 1911 nasceva a Parigi un’organizzazione clandestina denominata Al-Fatah, i Giovani Arabi.
Essa aveva a modello i Giovani Turchi e, come loro, fu originariamente intensamente antisionista. Dopo la guerra, i francesi, che erano stati contrari al mandato britannico durante i negoziati di Versailles, avrebbero consentito ad Al-Fatah di stabilire il proprio quartier generale a Damasco in funzione antibritannica e antisionista. Nelle trattative che accompagnarono la “pace”, gli arabi si sentirono imbrogliati e delusi. Invece del grande Stato arabo, si crearono i protettorati francesi in Siria e nel Libano e il mandato britannico sulla Palestina, in Transgiordania e in Irak. Il ritorno dei rifugiati ebrei dall’Egitto in Palestina e l’arrivo di quanti fuggivano dai pogrom in Ucraina segnarono il momento in cui essi, per dirla con Ha’am, cominciarono a sentirsi minacciati.
Nel marzo del 1920 ci furono attacchi arabi contro colonie ebraiche in Galilea, venne ucciso il mitico Joseph Trumpeldor e Jabotinsky, che per la prima volta metteva in azione la sua forza di autodifesa, fu arrestato e con altri membri dell’Haganah processato da un tribunale militare e condannato a quindici anni di lavori forzati. L’anno dopo del recentissimo titolo di gran muftì di Gerusalemme, col sottinteso di far da leader degli arabi, gli inglesi consentirono venisse officiato Haji Amin Al-Husaini, il quale aveva capeggiato i tumulti dell’anno prima ed era espressione di un antisionismo carico di antisemitismo, come ricostruisce Paul Johnson:
La nomina a quello che era considerato un incarico di secondo piano in un protettorato britannico senza importanza si rivelò uno degli errori più gravi e decisivi del secolo. Non è chiaro se sarebbe stato possibile un accordo arabo-.ebraico per lavorare insieme in Palestina anche sotto una guida araba di buonsenso. Ma il fatto è che divenne assolutamente impossibile una volta che Haji Amin divenne gran muftì18.

Il panarabismo fu contagiato e condizionato dal suo antisionismo. Divenne il maggior avversario della Gran Bretagna in Medio Oriente e non esitò poi a far causa comune coi nazisti, sostenendo la “soluzione finale” di Hitler. La Palestina araba vide assassinati da lei e dai suoi figli, o comunque emarginati, i dirigenti moderati, fino a far dire allo storico Elie Kedourie «furono gli Husaini a condurre la strategia politica dei palestinesi fino al 1947 portandoli alla completa rovina»19.
Due immagini, nel ricordo di Chaim Weizmann, eran destinate a restare tuttora significative. La prima rimonta alla conferenza di Sanremo del 1920, un anno prima che Haji Amin fosse insignito della carica, quando Mandato britannico e Dichiarazione Balfour vennero ufficialmente confermati come parte del Trattato di Versailles e le delegazioni araba ed ebraica sedevano allo stesso tavolo all’Hotel Royal a celebrare l’avvenimento. La seconda è del febbraio 1939, quando la conferenza tripartita si riunì a Londra per cercare di risolvere la controversia arabo-ebraica e gli arabi si rifiutarono nel modo più assoluto di sedere a un tavolo insieme agli ebrei20.
Proprio il rifiuto di negoziare direttamente con gli ebrei fece sì che gli arabi finissero in qualche misura per esser loro in Palestina gli interlocutori sempre introvabili e sempre improbabili. Forse per aver concesso troppo alla causa del nazionalismo ebreo con la Dichiarazione Balfour, forse per aver concesso troppo poco a quella del nazionalismo arabo nel dopoguerra, la Gran Bretagna si sforzava di apparire imparziale, di praticare equidistanza, o come oggi si direbbe equivicinanza, fra le due cause. Il muftì lo impedì, quasi a voler da par suo testimoniare come non fosse possibile nessun arbitrato e comunque nessuna imparzialità fra i coloni ebrei e quelli arabi che non li volevano. Secondo Paul Johnson:
Ciò non esclude che vi fosse un intrinseco conflitto di interessi fra ebrei e arabi, che faceva propendere non per uno Stato unitario in cui entrambe le razze avessero i loro diritti, ma per una spartizione. Se questo fosse stato riconosciuto fin dal principio, le possibilità di una soluzione nazionale sarebbero state notevolmente superiori. Purtroppo il mandato era nato nell’era di Versailles, un’epoca in cui si presumeva generalmente che gli ideali universali e i legami della fratellanza umana potessero superare le fonti di discordia più antiche e primitive. Perché mai il popolo arabo e quello ebraico non potevano svilupparsi insieme armoniosamente, sotto l’occhio benevolo della Gran Bretagna e l’alta supervisione della Società delle Nazioni? Ma arabi ed ebrei non erano su uno stesso livello. Gli arabi erano già organizzati in parecchi stati; presto se ne sarebbero aggiunti molti. Gli ebrei non ne avevano nemmeno uno21.

Il che a suo modo riconduce al dissidio, se fosse prioritario lo Stato ebraico o la società ebraica, fra Herzl e Ha’am. Già a Basilea, alla prima assise sionista, quest’ultimo aveva detto di essersi sentito «una persona in lutto al pranzo di nozze». Poi i contrasti erano andati crescendo sino a raggiungere il culmine subito dopo che Herzl aveva pubblicato nel 1902 il romanzo Altneuland, tradotto in ebraico col titolo Tel Aviv da Nohum Sokolov, uno dei maggiori sionisti russi.
Vi si dipingeva, idealizzandola, una società in cui ebrei e arabi coesistevano e coabitavano e dove si fondevano le tradizioni e le consuetudini migliori dei paesi europei – colleges inglesi, teatri d’opera francesi, caffè austriaci. La bandiera aveva sette stelle: simbolo delle sette ore giornaliere di lavoro; le donne godevano di piena equiparazione giuridica, compreso l’elettorato attivo e passivo, ancora negato alla popolazione femminile in Europa. La religione ebraica però smarriva il suo Tempio e per certi versi se stessa; Ha’am non vi riconosceva altro che «una meccanica contraffazione senza alcuna vera identità nazionale».
Può anche darsi che avesse qualche ragione. Ma gli sfuggiva come, quanto, perché il sionismo non potesse che nascere e proporsi con elevatissime dosi di cosmopolitismo. Herzl non poteva che elaborare una concezione nazionale cosmopolita, sostanzialmente diversa dagli altri precedenti nazionalismi europei. Averla espressa in Altneuland irritava Ahad Ha’am, ma recepiva i tratti comuni al sionismo delle origini. Per Michael Benner:
Si è oggi molto discusso se la realtà dello Stato di Israele corrisponda più alla visione di Herzl o a quella di Ahad Ha’am. Di norma, quest’ultimo è considerato fra i due il più liberale e il più vicino alla realtà. La sua più realistica valutazione delle reazioni arabe e delle effettive possibilità di immigrazione, ma soprattutto la sua personalità più discreta e sobria sono di continuo contrapposte ai piani grandiosi di Herzl, ai travestimenti fantasiosi della realtà esposti fin nei minimi dettagli, alla speranza ingenua di un’accoglienza benevola da parte della popolazione indigena. Qui gioca anche un ruolo il fatto che l’ebreo Herzl venga identificato con l’imperialismo e il colonialismo occidentale, mentre l’ebreo orientale Ahad Ha’am sia considerato il rappresentante di una popolazione minacciata dai pogrom nell’Europa dell’Est22.

La contrapposizione non va comunque esasperata. Al di là della sua estrosità, forse proprio grazie ad essa, Herzl dettò una linea: essa sì distinta e distante da quella che sarebbe poi stata la vicenda del nazionalismo arabo. Il sionismo è stato, né poteva essere altrimenti, un movimento nazionale a sfondo cosmopolita. Le biografie dei suoi principali esponenti lo confermano. Da Nordau a Weizmann, da Motzkin allo stesso Jabotinsky, è tutto un continuo spostarsi da un paese europeo all’altro, un analogo parlare e scrivere in più lingue, un comune voler trarre ispirazione per una futura società ebraica dai più diversi modelli europei. In fondo, la stessa frenesia di Herzl.





NOTE


1 Alla vigilia della Rivoluzione francese, a scendere in campo contro l’antisemitismo erano stati due aurei libretti. Uno, Apologia degli ebrei di Zalkind Hourwitz, chiedeva esplicitamente l’accesso alla cittadinanza francese. L’altro, Saggio sulla rigenerazione fisica, morale, politica degli ebrei dell’abate Henri Grégoire, interpretava l’emancipazione come una “nuova nascita” che togliesse agli ebrei quanto era loro proprio (dalle abitudini alimentari alle tradizioni liturgiche, dalla lettura della Torah alla prospettiva della Palestina). ^
2 Cfr. M. Brenner, Breve storia del sionismo, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 21-55. ^
3 B. Hagani, Vita di Teodoro Herzl,Roma, 1919, p. 11. ^
4 Cfr. F. Ruffini, Sionismo e Società delle Nazioni, Bologna, 1919. ^
5 F. Ruffini, Sionismo, «Corriere della Sera», 17 giugno 1920. ^
6 Cfr. F. Chabod, L’idea di nazione, Roma-Bari, Laterza, 1971. ^
7 V.D. Segre, Le metamorfisi di Israele, Torino, 2006, p. 40. ^
8 Cfr. M.R. Marrus, The Politics of Assimilation : The French Jewis Comunity at the Time of the Dreyfus Affair, Oxford, 1971. ^
9 Cfr. P. Cambon, Correspondence, Paris, 1945, p. 436. ^
10 Cfr. G. Chapman, The Dreyfus Case, London, 1955, p. 199. ^
11 Cfr. C. Charles, Champ littéraire et champ du pouvoir : les ecrivains et l’affaire Dreyfus, in « Annales », 1977. ^
12 Cfr. R.P. Lecanuet, L’Église de la France sur la troisième république, Parigi, 1930, pp. 231-233. ^
13 Cfr. P. Sorin, La Croix et les Juifs: 1880-1899, Paris, 1967, p. 117. ^
14 Cfr. J.D. Bredin, Dreyfus, un innocent, Paris, Fayand, 2006. ^
15 Cfr. A. Gide, Journals 1889-1949, Harmondsworth, 1978, p. 194. ^
16 Cfr. S. Clement Leslie, The Rift in Israel: Religious Authority and Secular Democracy, Londra, 1971, p. 32. ^
17 Cfr. A. Elon, Herzl, Londra, 1976, p. 179. ^
18 P. Johnson, Storia degli Ebrei (Quattromila anni. Da Abramo allo Stato di Israele), trad. it., di E. Vita Heger, Milano, 2006, p. 490. ^
19 E. Kedourie, Sitr Hebert Samuel and the Government of Palestine, in The Chatam House Version and Other Middle East Studies, London, 1970, p. 69. ^
20 Cfr. C. Weizmann, Trial and Error, London, 1949, pp. 325-494. ^
21 P. Johnson, cit., p. 491. ^
22 M. Brenner, Breve storia del sionismo, trad. it. di M. Tosti Croce, Roma-Bari, 2003, p. 53. ^
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