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Gomorra, Camorra, Sistema
di Elisa Novi Chavarria
Con oltre 60.000 copie vendute nel giro di pochi mesi, recensioni su tutti i maggiori quotidiani e le riviste specializzate, da ultimo l’assegnazione del premio Viareggio, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra dell’esordiente Roberto Saviano (ed. Mondadori, 2006) sembra già essersi imposto all’attenzione del pubblico come il caso letterario dell’anno. E senz’altro lo è, almeno dal punto di vista editoriale.
Nel libro Saviano racconta gli ultimi dieci anni, o giù di lì, della camorra napoletana, quelli che come egli stesso dice sono valsi a farla diventare un vero e proprio “sistema”, una grande organizzazione economico-affaristica che include nella sua morsa produzione di merci – abiti griffati, orologi, videogiochi, generi alimentari –, occultamento dei rifiuti, spregiudicate incursioni nel settore edilizio, nel mercato immobiliare e in quello finanziario. Sono gli anni anche che hanno segnato l’adolescenza e la prima giovinezza dell’Autore con una terrificante escalation della violenza portata in ogni angolo della strada, quelli per intenderci che vanno dall’omicidio di don Peppino Diana nel 1994 a Casal di Principe a quello di Salvatore Buglione davanti la sua edicola situata in quello che fino a non molto tempo fa era considerato ancora uno dei quartieri più tranquilli della città. Ora che i confini tra quartieri-bene e quartieri malavitosi non esistono più – colpevoli le strade e la metropolitana che hanno accorciato le distanze o la logica criminale che ha allargato i suoi orizzonti? –, Saviano ha deciso di rivelare tutto quello che in questi anni è riuscito a raccogliere nel corso delle sue personali indagini condotte per le vie di Scampia e di Secondigliano, sulle tracce dei più efferati delitti: Gelsomina Verde carbonizzata nell’auto in cui è ritrovata; Giulio Ruggiero, il capo mozzato col flex; lenzuoli che non riescono a coprire il sangue e le viscere scomposte sull’asfalto di altri corpi.
Il libro oscilla continuamente tra un piano più propriamente narrativo e quello del resoconto giornalistico, quando non della vera e propria documentazione. Un “doppio binario” di per sé non nuovo invero nella tradizione letteraria, e che ha anzi molti altri anche illustri precedenti. In Gomorra il piano della narrazione e quello della documentazione si collocano entrambi a partire dalla cosiddetta guerra di Secondigliano tra il clan Di Lauro e il gruppo degli scissionisti, che per numero di affiliati e di morti ammazzati ha orami superato non solo la più antica e nota faida di Cosa Nostra, ma anche la somma dei morti fatti dall’ETA in Spagna o dall’IRA in Irlanda. È che nel frattempo è aumentato anche, e di molto, il volume degli affari che vede coinvolto un intero “sistema” con ramificazioni impressionanti nel mondo dell’imprenditoria, che in una società globalizzata come la nostra solo con molta fatica, e non poche ambiguità, potremmo definire napoletana o anche solo italiana. Saviano, infatti, non lo fa e parla a chiare lettere, anzi, della vischiosità del sistema, dei luoghi oscuri di un intero Paese, delle grandi rotte del mare lungo le quali le navi porta-containers trasportano merci prodotte in Cina, nei paesi dell’Europa dell’Est o nelle fabbriche dell’hinterland partenopeo, arrivano a Napoli per essere poi smistate sui mercati di mezzo mondo. E non sono solo le merci “nuove”, quelle pronte per essere vendute, a transitare per Napoli. Vi sono anche le merci “morte” e i loro scarti, rifiuti da smaltire, sostanze tossiche, scorie chimiche, oltre qualche cadavere o scheletro di troppo, che passano tra le mani e nel giro di affari del “sistema”. Un giro di miliardi, insomma, difficile da quantificare e in cui risulta perfino arduo distinguere ciò che è prodotto direttamente dal sangue, dallo spaccio di droga o dal racket della prostituzione, da quanto deriva da più o meno ardite operazioni finanziarie o da qualche catena della ristorazione o dell’abbigliamento.
Tutto questo, come dicevamo, viene raccontato da Saviano con un linguaggio che fonde letteratura e giornalismo in maniera tanto impalpabile da passare da un genere all’altro anche nell’arco di pochissime pagine. O di una sola pagina, come quella in cui immagina Annalisa Durante che con le amiche ascolta musica dei neomelodici e gioca al corteggiamento coi ragazzetti del quartiere, salvo dover poi rivelare il dettaglio atroce del proiettile che quella stessa sera forerà la sua testa di bambina cresciuta troppo in fretta (p. 168).
Il “doppio binario” della narrazione e della documentazione si snoda poi a sua volta lungo altri binari. La narrazione procede infatti secondo il duplice criterio del verosimile e del realistico. La documentazione a sua volta è frutto sia dell’inchiesta militante dell’Autore, sia del resoconto di istruttorie e inchieste giudiziarie. Qualche esempio. Nelle pagine iniziali l’io narrante si imbatte in una scena a tutta prima paradossale: dai portelloni mal chiusi di un container sospeso in alto dalla gru che lo sta caricando su una delle tante navi attraccate nel porto cominciano a piovere decine di corpi. «Sembravano manichini. Ma a terra le teste si spaccavano come fossero crani veri. Ed erano crani. Uscivano dal container uomini e donne. Anche qualche ragazzo. Morti. Congelati, tutti raccolti, l’uno sull’altro. In fila, stipati come aringhe in scatola» (p. 11). Sono i cinesi che non muoiono mai, quelli che vivono (in centinaia? in migliaia? in decine di migliaia? chi può dirlo?) nella nuova Chinatown napoletana e si passano i documenti l’uno con l’altro. Ecco dove finiscono allora i loro corpi quando muoiono. Una scena tutto sommato verosimile. Ci meraviglieremmo davvero se un giorno venissimo a sapere che dalle quelle parti anche questo accade? Dove altrimenti finirebbero i cadaveri dei clandestini, che continuano ad arrivare in numero esorbitante, e di cui effettivamente ben poco si sa circa il loro destino finale? È per questo che la straordinaria immagine creata da Saviano, per quanto paradossale, ci è parsa potere anche essere vera. In ogni caso essa è lontana dal paradosso grottesco e dalle trasfigurazioni visionarie cui ci ha abituato invece, un altro giovane scrittore napoletano “d’assalto” come, ad esempio, Giuseppe Montesano in Di questa vita menzognera o in Magic people. Tanto sarcastica è la Napoli immaginata da Montesano, trasformata in un grande condominio o in museo a cielo aperto dove anche il privato diventa oggetto di business, tanto è tragica la Napoli di Saviano, proprio perché tanto più terribilmente vicina al vero.
Veri, purtroppo verissimi, sono i ragazzini di Scampia, i giovanissimi pusher e “pali” della droga, il nuovo esercito dei clan della camorra napoletana. «Capizona bambini, boss giovanissimi divengono interlocutori imprevedibili e spietati che seguono nuove logiche, impedendo a forze dell’ordine e Antimafia di comprenderne le dinamiche» (p. 120). Una volta affiliati, ottengono ciò che vogliono con il “ferro” – nome con cui in gergo si indica la pistola –, «e il desiderio di un cellulare o di uno stereo, di un’auto o di un motorino, facilmente si tramuta in assassinio» (p. 121). Saviano ne ha conosciuti diversi nel corso delle sue personali indagini quando, la mattina all’alba, li trova con la bocca arida e impastata dopo una nottata di guardia e di pasticche. Le prendono per tirarsi su, e resistere al sonno e alla fame mentre sono al “lavoro”. Ha parlato con loro. Sa e ci racconta delle loro modalità di iniziazione al crimine, di come vengono anestetizzati al dolore, di come sanno essere spietati mentre ascoltano canzoni d’amore e sognano di diventare imprenditori di successo.
Raccontare di questa emergenza, raccontare il non raccontabile è, però, evidentemente questione scomoda, specie quando dal piano narrativo si passa a quello documentato. Documentato in prima persona è il resoconto dell’arresto di Paolo Di Lauro e del dibattimento giudiziario a suo carico svoltosi nell’aula 215 del tribunale di Napoli. Saviano è presente, ha modo di seguire il linguaggio muto dei gesti che intercorrono tra il boss e i parenti, gli amici e gli altri affiliati che per anni questi non ha potuto incontrare a causa della latitanza. Documentato in diversi mega-bit memorizzati dalle inchieste della Procura il traffico d’armi gestito dai clan casertani e napoletani lungo le direttrici che uniscono gli ex Paesi socialisti ai criminali francesi e americani, fino ai militanti baschi e ai guerriglieri colombiani. «La questione delle armi è tenuta nascosta nel budello dell’economia, chiusa in un pancreas di silenzio – scrive Saviano». Poi fornisce qualche altro dato: «l’Italia spende in armi ventisette miliardi di dollari. Più soldi della Russia, il doppio di Israele. La classifica l’ha stesa l’Istituto internazionale di Stoccolma per la ricerca sulla pace, il SIPRI. Se a questi dati dell’economia legale si aggiunge che secondo l’EURISPES tre miliardi e trecento milioni è il business delle armi in mano a camorra, ‘ndrangheta, Cosa Nostra e Sacra Corona Unita gestiscono, significa che seguendo l’odore delle armi che Stato e clan gestiscono si arriva ai tre quarti delle armi che circolano in mezzo mondo» (p. 203). Di fronte a tanta analitica puntualità viene quasi da chiedersi: sono dati reali, questi? Verosimili o paradossali? La risposta – diciamocelo francamente – lascia a dir poco spiazzati.
Ancora più dettagliati i dati che documentano la connivenza tra clan casalesi e le aziende del latte distribuito da Cirio e poi da Parmalat in Campania, in parte del Lazio, delle Marche, dell’Abruzzo e della Lucania, che hanno portato nel 2004 all’arresto di diciotto persone.
Nel libro gli esempi sono assai più numerosi. Tutti portano alla medesima conclusione, che c’è cioè una logica subdola che lega “pezzi” del sistema ad altri “pezzi” dell’economia, e che il fenomeno camorra non può più essere considerato come un fenomeno esclusivamente criminale, perché esso è piuttosto un fenomeno di potere.
Qui si entra in un elemento chiave del libro, in cui risiedono a nostro avviso molte delle ragioni del suo, per certi versi anche sorprendente, successo. Il libro cioè ci sembra abbia fatto “scalpore”, tra un pubblico tra l’altro – occorre dirlo – alquanto più vasto di quello di norma attento alle novità letterarie o agli scoop giornalistici, anche perché esso fornisce delle risposte a domande inquietanti e spinose sulle quali ha pesato finora una penosa cortina di silenzi. Nel contesto di crescente degrado civile e sociale in cui ormai da troppo tempo versa la città di Napoli, e in cui il libro è nato e a cui si ispira, in quella sorta di assuefazione all’efferatezza del crimine in cui sembra essersi adagiata anche gran parte dell’opinione pubblica, tra il dire e il non dire, insomma, Saviano ha scelto di dire e ha scelto di farlo attraverso il racconto. Un racconto, però, che si colloca insolitamente al di fuori del coro sia della trasfigurazione visionaria, sia della retorica sulle due Napoli, la Napoli “perduta” contrapposta alla Napoli tutta protesa verso un nuovo “rinascimento”.
Al di là allora dei suoi indubbi pregi letterari, forse le ragioni di un best seller sono anche qui, nella reazione parziale, silente, a tratti anche rabbiosa, ma partecipata – almeno tra i lettori di Saviano – di quella famosa “società civile” tante volte tirata in ballo, ma tante più volte ritrattasi, di fronte al degrado e all’emergenza non più procrastinabili del fenomeno della criminalità. Che questo coincida pure con un momento in cui il tono generale della politica e dell’azione pubblica al riguardo hanno intrapreso – pare – una via decisamente più autorevole tanto più ci conforta nell’auspicio che l’attenzione riservata dal pubblico a Gomorra stia segnando, finalmente, l’inizio di una reazione e di una crescita, questa sì culturale e civile della città.
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