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Il Liberalismo moderno di Valerio Zanone
di Piero Craveri
Il primo tentativo in Italia di tracciare una storia compiuta del pensiero liberale è stato fatto da Guido De Ruggero. La sua Storia del liberalismo fu pubblicata nel 1925, anno che, possiamo dire, ha segnato il tramonto definitivo, anche se attraverso processi storici molto diversi, del liberalismo politico in Inghilterra ed in Italia, i due paesi europei che, tra la fine dell’800 e il primo quindicennio del ’900, erano stati governati da élite dichiaratamente liberali. In Germania e in Francia, gli altri due paesi europei le cui tradizioni di pensiero liberale erano state prese in considerazione da De Ruggero, si assistette, seppure in termini diversi, ad un analogo processo di eclissi. Dopo la Grande guerra si determinò ovunque, là dove non emersero nuove forme di totalitarismo, quella separazione tra gli acquisiti presupposti liberal-democratici propri degli ordinamenti politici europei e l’azione specifica svoltavi dalle forze politiche che si richiamavano esplicitamente al pensiero liberale. Fu del resto nel 1922 che in Italia si costituì un partito liberale, avviando la sua storia di minoranza politica. Questi due piani sono nella storia del liberalismo europeo tra loro connessi e insieme nettamente distinti, in termini molto diversi e più profondi che in altre tradizioni politiche. Un carattere questo che Valerio Zanone ha ben presente nel suo saggio su Il liberalismo moderno. Il modo in cui egli lo affronta,costituisce il contributo originale ed ancor oggi non transeunte del suo lavoro. Potremmo sintetizzarlo in questo interrogativo: quale deve essere l’azione politica liberale e su quali contenuti deve poggiare, tra conservazione dei principi fondamentali e necessario continuo adeguamento politico ed istituzionale al mutamento sociale, economico ed istituzionale che caratterizza la realtà nella quale viviamo?
Da un lato dunque si colloca il pensiero liberale, dall’altro l’azione politica. È singolare constatare come Zanone concluda il suo saggio con una pagina di Benedetto Croce del 1938 tratta dalla Storia come pensiero e come azione, nella quale questi ripropone «la concezione liberale, come religione della libertà», definizione idealistica di quest’ultima e del suo carattere etico, insopprimibile modo d’essere, proprio dello spirito che realizza continuamente se stesso, anche nei momenti più bui ed estremi, in cui «le angosce per la perduta libertà, le invocazioni, le deserte speranze altro non sono che moti della coscienza morale», costituendo il reale contenuto di una «storia che si fa», cioè della «storia come storia della libertà».
Singolare, dicevo, perché questo saggio di Zanone si muove in realtà su di un terreno alquanto diverso che è quello empirico, se vogliamo preminentemente politico, ed a sostenerne il filo conduttore è l’impostazione tradizionale del pensiero liberale, sia inglese, sia francese, piuttosto che quella della filosofia tedesca della prima metà del sec. XIX, e quanto all’Italia, piuttosto la lezione di Luigi Einaudi che quella di Benedetto Croce. Tuttavia quella idealistica sembra costituire,anche per Zanone, una premessa non rinunciabile. È significativo, ad esempio, come egli sottolinei il ruolo di Thomas Green, a cui si deve una delle poche attente riflessioni inglesi a proposito dell’idealismo. Del resto lo stesso Keynes, che costituisce, come vedremo, un riferimento importante per Zanone, ha sottolineato la funzione importante che il filosofo di Cambridge svolse,nei primi del secolo scorso, per liberare la generazione coeva dalle premesse edonistiche della filosofia di Bentham.
Come ha sottolineato Folli nella sua prefazione, in Zanone la tradizione liberale piemontese è un punto di partenza decisivo della sua riflessione, in particolare le due figure chiave di Giovanni Giolitti e di Piero Gobetti, ma su questa premessa filosofica è certamente quest’ultimo a costituire il riferimento pregnante. Non tanto il Gobetti della “rivoluzione liberale”, quanto il suo spirito antideterministico e la sua piena adesione alla polemica contro il positivismo, che era così radicata nella cultura piemontese dell’epoca, con la conseguente appassionata lettura che egli fece del pensiero idealistico per sostenere teoreticamente la ricerca di una necessaria premessa etica all’azione civile e politica, divenendo poi un essenziale punto di riferimento anche per Zanone.
Ma anche la “rivoluzione liberale” ha importanza nella interpretazione del liberalismo che Zanone compie in questo saggio, non tanto in sé e per sé, nel suo oggetto, ma per il metodo di ricerca sui problemi che la società del suo tempo andava enucleando. Ho in mente una lettera che Croce scrisse a Francesco Ruffini nel 1925, durante la stretta collaborazione che tra i due intercorse, per opporsi nella sede del Senato alle leggi fascistissime. Croce scriveva di essersi applicato ad una definizione teoretica della libertà che non avrebbe potuto trovare rigetto neppure da parte dei comunisti. Posizione che, com’è noto, creò più di un fraintendimento in una parte di quello che è stato poi l’azionismo, soprattutto piemontese, e che, peraltro, procedette ad accostamenti dottrinali impropri, prescindendo dalla natura teoretica su cui poggiava la riflessione di Croce. Non era tuttavia questa la conclusione avanzata da Gobetti nel suo approccio all’idealismo ed averlo associato a quell’esito è un’ulteriore fraintendimento. La polemica contro l’azionismo ha origine nella filosofia di Augusto Del Noce ed ha per fondamento la sua rivendicazione del primato cattolico della trascendenza, che riduce l’azionismo, nella varietà delle sue manifestazioni intellettuali e politiche, ad un emblema della concezione immanentistica. Questa “reductio”, nei suoi seguaci, diciamo laici, si è tradotta in un assioma, più o meno consapevole, ma non altrimenti che di natura meramente politico-ideologica, privo com’è di fondamento storico, ignorando la polivalenza dei riferimenti che sono propri di qualsivoglia pensiero politico, tanto più quando l’attenzione si focalizza sulla straordinaria vitalità dell’opera giovanile di Piero Gobetti.
In generale va detto che il pensiero liberale, più di qualsivoglia altra tradizione politica del secolo scorso, prescinde del tutto da approcci di carattere ideologico. Ha le sue ossificazioni conservatrici, sempre tuttavia in una polifonia di innovative impostazioni critiche e il suo realizzarsi nel corso storico, in modo diverso a seconda delle tradizioni nazionali in cui matura, lo porta a guardare necessariamente in avanti. Un’inclinazione di cui Zanone è consapevole e di cui tiene conto nel costruire il più che secolare percorso storico del suo svolgimento. Mi si permetta di ricordare che quelli come me che nella loro giovinezza si sono accostati al pensiero liberale, hanno trovato un primo approdo sicuro nelle dispense che Norberto Bobbio negli anni ’60 e ’70, pubblicava sul pensiero politico dal XVI al XVIII secolo e da queste abbiamo appreso i fondamenti teorici del diritto costituzionale moderno, l’emergere della rappresentanza e le sue regole intrinseche, come elemento essenziale ai fini del necessario equilibrio tra i poteri dello Stato. È stato per noi, partendo da quelle letture, più agevole coglierne lo sviluppo nel sec. XIX, percepire la singolarità storica del modello inglese, gli sviluppi di quello francese, da Constant e Tocqueville ai dottrinari. Abbiamo potuto intendere, attraverso un percorso che ritroviamo in Zanone, il passaggio dell’idea di nazione dalla formulazione del Contratto sociale di Rousseau alla Filosofia del diritto di Hegel e alla nozione di essa che ci ha lasciato l’idealismo tedesco e il conseguente passaggio dal giusnaturalismo alla dialettica storica. Non abbiamo invece ancora una sintesi compiuta del pensiero liberale italiano, fin dalle origini del Risorgimento nazionale e oltre. Molta assai pregevole letteratura su singole figure, ma non un quadro complessivo, invero molto ricco di personaggi ed idee. Zanone ha affrontato il problema evocando in fine l’opera compiuta dalla Destra storica nella costruzione dello Stato unitario. Nei Sella, Minghetti, Ricasoli fu il modello amministrativo francese a prevalere, nei fratelli Spaventa l’idea dello Stato nazionale forgiata dall’idealismo tedesco.
Ma giustamente Zanone colloca, a latere di quest’opera, insieme conservatrice e radicale, il lascito ideale, di Camillo Benso conte di Cavour. In Cavour Stato e mercato sono fattori distinti e interagenti e la chiave di volta di questo rapporto sta nel libero scambio. Come si è chiesto Massimo Salvadori, l’ideale era contro la realtà? Poteva realizzarsi attraverso un processo di forte accentramento statale all’interno e di liberalizzazione degli scambi commerciali verso l’esterno? La seconda metà del secolo XIX aveva avviato un ciclo di sviluppo mondiale caratterizzato dal libero scambio, con qualche sensibile differenza da parte di alcuni paesi. La storiografia economica, per la Germania e l’Italia, mostra la necessità di politiche protezionistiche ai fini d’una rapida accumulazione di capitale. Non possiamo seguire qui lo sviluppo di questo tema, salvo a dire che in Italia l’economia mista nella sua forma istituzionale cogente, è realizzazione degli anni ’30 del secolo scorso, ma gli assetti fondamentali del suo sviluppo industriale, siderurgia, energia, infrastrutture, consolidamento del sistema creditizio hanno avuto come riferimento necessario lo Stato fin dagli anni ’80 del sec. XIX. E questo peculiare rapporto tra Stato e mercato, in un sistema, se non chiuso, fortemente protetto, ha avuto conseguenze decisive sul più generale rapporto tra Stato e società, determinando riflessi corporativi, che hanno inciso negativamente sul sistema dei diritti individuali e collettivi, quali dovrebbero maturare in una società liberale, e sul funzionamento dello Stato di diritto, minando le basi stesse dello Stato liberale. Rinvio l’analisi di ciò ad un testo fondamentale di Luigi Einaudi, che fu il principale alfiere della battaglia per il libero scambio in Italia, la prefazione a La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana (1933). Di recente Francesco Forte, in un interessante libro, Einaudi versus Keynes, tiene a definirlo liberale, piuttosto che liberista, collocando la solida intelaiatura del suo pensiero economico in parallelo a quella della scuola ordoliberale tedesca, che anche Zanone mette in rilievo. Senza entrare nel merito di questa discussione giova sottolineare che si devono ad Einaudi le linee guida di politica economica della “ricostruzione” e dell’avvio del “miracolo economico” italiano. E ciò in sintonia con il personale politico di origine nittiana che aveva gettato le basi dell’economia mista negli anni ’30, e l’asse Einaudi-Menichella lo mostra con evidenza, sotto la regia illuminata di Alcide De Gasperi.
Ma prima di completare questo tema della politica economica, voglio tornare per un momento a considerare la questione, che ha già fatto versare fiumi di inchiostro, la presunta disputa tra liberalismo e liberismo che ha avuto per protagonisti Croce ed Einaudi, anche perché su di essa si sofferma nella sua prefazione a questo volume, con accurata acribia, Sergio Romano. Ho già detto dell’impostazione teoretica con cui Croce definisce il problema della libertà, che postula necessariamente come destinatario l’individuo, non la società. Questa è poi l’obiezione pregnante di Einaudi, per cui senza libero mercato non è concepibile una società libera. Croce osservava a sua volta che il mercato può anche considerarsi un presupposto necessario ma non di per sé sufficiente, ed era, nella sua riflessione, il caso dell’ascesa della potenza tedesca nel sec. XIX, mentre oggi potremmo far riferimento ad altri esempi. Einaudi si muoveva comunque sul terreno empirico della scienza della politica. Come ha ben argomentato Matteucci questa dimensione necessaria manca nella riflessione di Croce, ma i due approcci analitici possono sovrapporsi, non necessariamente elidersi l’un l’altro. E Zanone si muove appunto sul terreno della scienza politica e sembra far proprio, come ho già accennato, quest’ultimo punto di vista.
Il saggio di Zanone fu pubblicato la prima volta nel 1972. L’anno seguente i liberali italiani sarebbero tornati al governo con Malagodi ministro del Tesoro. Il 1973 è l’anno che si designa come quello della fine in Europa della Golden Age. In Italia molti sintomi negativi si erano già manifestati. Dal 1971 il bilancio dello Stato non aveva più risparmio primario. Malagodi non riuscì, ne avrebbe potuto farlo in quel contesto politico, a fronteggiare il deficit crescente. Con l’autunno la lira usciva dal serpente europeo e nei mesi seguenti si sarebbe svalutata di circa il 20 per cento. Certo così si cauterizzava la crescita del salario reale, alimentando tuttavia il saggio di inflazione e la spirale tra prezzi e salari nominali. Non era la stabilizzazione operata nel 1947 da Luigi Einaudi. Nei due decenni seguenti si sarebbero affacciate condizioni che rendevano possibile avviare un processo di stabilizzazione. Abbiamo invece aspettato il trattato di Maastricht. Guido Carli, che condusse quella trattativa come ministro del Tesoro, disse allora che il vincolo che emergeva dal trattato era necessario e che avrebbe dovuto operare spontaneamente già da tempo e che in un modo o nell’altro non poteva essere evitato, configurandosi come un cappio la cui stretta sul bilancio dello Stato era per sua natura, prima o poi, ineludibile. Il problema era che, aderendo al trattato, il controllo del nodo scorsoio passava in altre mani ed è perciò che, più asetticamente, si è parlato di vincolo esterno. La politica spesso deve seguire norme cogenti, assumendole come tali, ma la loro applicazione è sempre determinata da istituzioni e persone.
Dal 1972 al 1991 trascorrono vent’anni di aggiustamenti traumatici e di occasioni mancate. Chi ha nozione storica del funzionamento interno del nostro sistema politico-istituzionale constata come lungo questo periodo sono assai pochi gli uomini politici consapevoli della china che andavano prendendo gli eventi, sparsi nei diversi partiti di governo e di opposizione, senza essere nella possibilità di fare da argine, tanto meno di invertire la rotta. Valerio Zanone è tra questi pochi. Non era questo il saggio che doveva avere per oggetto il tema della crisi italiana. Ma delineare la natura propria degli strumenti teorici è operazione propria e necessaria al fine di affrontare la realtà politica e i problemi economico-sociali che la caratterizzano. E quanto ha fatto Zanone, lasciandoci ancora oggi una lezione di metodo da seguire con scrupolo. Ma implicitamente c’è anche qualche giudizio assai pregnante. Ad esempio egli mette in rilievo il contributo di Keynes e Beveridge, l’espressione intellettuale più radicale del liberalismo inglese, che ne segnò ulteriormente il destino, fornendo gli strumenti essenziali della rivoluzione laburista del 1945. Era del resto un riferimento obbligato, giacché la grande crescita del dopoguerra era avvenuta all’insegna dell’economia keynesiana. Ma in Italia si è mai fatta una politica economica keynesiana? Può dirsi tale l’indiscriminata funzione distributiva, operata attraverso la politica di bilancio dello Stato a fini prevalenti di raccolta del consenso elettorale, piuttosto che per una politica di sviluppo? Zanone non entra nel merito ma cita con acribia una serie di giudizi critici espressi da Einaudi sulla fine degli anni ’50. E, in effetti, con il lento abbandono della politica ordoliberale che aveva accompagnato la crescita del dopoguerra, negli anni ’60 si persero i lineamenti complessivi di una politica economica, giudizio critico da cui storicamente non si può prescindere.
Concludendo, voglio fare un’ultima considerazione, riprendendo una osservazione di Siniscalchi sulla mancata considerazione, nel saggio di Zanone, degli autori che sarebbero divenuti, a partire dalla fine degli anni ’70, il maggiore riferimento della svolta neoliberista. Tuttavia Il liberalismo moderno si conclude illustrando la seconda dichiarazione di Oxford dell’Internazionale liberale, che è del 1967, interessante per i personaggi che la redassero, che pure appartenevano ad una non marginale élite europea, ma interessante soprattutto perché già in essa si avverte la preoccupazione che l’ordine mondiale stabilito a Bretton Woods incominciasse a scricchiolare. Tengo sempre a mente il dato che la percentuale di interscambio del prodotto lordo mondiale, solo nel 1970 raggiunge la percentuale del 1914. Di poi la crescita del commercio mondiale è sempre più rapida fino alla liberalizzazione degli anni ’90 che apre definitivamente un nuovo ciclo storico di libero scambio dell’economia mondiale. Col 1970 prendiamo dunque a lasciarci alle spalle un’economia che aveva visto un ruolo eminente dello Stato nell’economia, volto ad una forte redistribuzione del reddito, a conseguire obbiettivi di piena occupazione, ad avere per epicentro i mercati interni. In una parola, a veder bene, quello che è stato definito il secolo breve. A Bretton Woods era stata prevista una lenta ma sostanziale liberalizzazione dei mercati, che aveva finito col tempo per modificare i termini stessi in cui quell’accordo era nato. Sono i fenomeni reali, soprattutto quando assumono queste grandiose proporzioni, a modificare il corso degli eventi. Le teorie economiche, che precedano o seguano, servono ad interpretarli. Del resto se ci soffermiamo sulle politiche monetarie delle grandi Banche centrali degli ultimi vent’anni, vediamo che la cassetta degli attrezzi adoperata è assai complessa e se la teoria monetaristica fa la sua parte, non è la sola. Dobbiamo operare con la stessa serietà, lo stesso distacco seguito da Valerio Zanone nel dipanare la complessa e secolare trama del pensiero liberale. Già si è ripreso a ragionare su quelli che avrebbero dovuto essere limiti non valicabili da parte delle politiche di deregulation degli anni ’80 e ’90. Non abbiamo ancora riflettuto sul perché e come la globalizzazione degli anni ’90 sia stata così rapida e concepita con così poche regole e, a partire da qui, trovare risposte alla prima crisi profonda che sotto più aspetti e in più parti del mondo investe ora il nuovo ciclo di libero scambio dell’economia mondiale.
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