Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVIII - n. 3 > Ricordi > Pag. 253
 
 
Ernesto Cilento
di Giuseppe Galasso
Triste ricordare un amico scomparso; più triste ancora farlo a breve distanza dalla sua scomparsa; e triste poi soprattutto quando si tratta di un amico col quale l’amicizia era nata in modo così spontaneo da sembrare che ci si fosse conosciuti da sempre: il che non è, poi, così raro, ma, quando accade, e ci si riflette, dà sempre una emozione e un compiacimento tanto maggiori quanto meno esibiti.
Nel caso di Ernesto Cilento (Napoli 1950 -Trieste 2016) il compiacimento era di molto accresciuto dalle sue qualità che non si imponevano nella maniera vistosa e invasiva di tanti e tanti casi di evidenza qualitativa. C’era in lui una discrezione, una misura di cui, a conoscerlo bene, si capiva pure la scaturigine. Era, infatti, il frutto di una autodisciplina diventata sempre più una regola di vita morale. Si indovinava alle sue spalle una vivacità esuberante e attivistica che la forza delle sue convinzioni aveva incanalato in un modo particolarmente alto e serio di intendere la vita.
Non era per lui una semplice questione di dovere. Prima del dovere c’era la volontà, c’era il voler essere e vivere secondo un proprio metro interno della vita e di ciò che la rende degna di essere vissuta e spinge a viverla.
Questo a me sembrava di leggere dentro il suo sguardo mobile, scrutatore, ragionante. Questo mi pareva di cogliere nel suo modo civile, ma per nulla adiaforo, per nulla neutro di mettersi in rapporto e di parlare con gli altri. Questa – conoscendolo sempre meglio col passare degli anni (tanti i miei, così pochi quelli concessi a lui) – io ritenni via via più convintamente che fosse la radice dell’eleganza tutta spontanea, per nulla studiata del suo stare e parlare con le persone e coltivare i rapporti sociali. Eleganza – aggiungo – non nel senso della raffinatezza più o meno sofisticata di ciò che si dice o si fa. Eleganza, invece, nel senso della misura non convenzionale, né calcolata, e neppure monotonamente, ripetitiva, del vivere in società.
Solo da una vita intensamente vissuta sul piano dell’impegno e della passione, ma anche altrettanto sentita e voluta sul piano degli ideali o, per dirlo meglio, in forma meno solenne e più realistica, sul piano del senso da dare alla vita, alle sue finalità, alle domande che noi facciamo alla vita, e che non sono meno importanti di quelle che a noi fa la vita.
La biografia di Ernesto ci dice che su questo piano fu precoce il suo appassionamento politico nel segno delle idee di giustizia e di libertà della sinistra degli anni ’60 e ’70 del ’900; e, certo, su questo punto egli non cessò mai nell’intimo di essere fedele a se stesso. Il corso della storia provocò, però, alla fine del secolo XX, un rivolgimento radicale, ed Ernesto seppe allora trovare spontaneamente altri punti, coerenti e proprii, di orientamento. L’essenza delle sue idee, il modo come egli aveva inteso e vissuto i suoi ideali non mutarono. Mutò la valutazione del loro modo di manifestarsi nella storia. Non si trattava più della Rivoluzione (con la R maiuscola), ossia di palingenesi e di rivolgimenti immediati e totali. Non si trattava più di “moderni principi” depositari della verità, operatori strategici e guide indiscutibili sulla via della realizzazione di certe idee. Si trattava di costruire faticosamente, con uno sforzo più complesso, culturale e politico, un mondo che fosse, quanto più possibile, conforme alle sue idee originarie, ma che rispondesse anche a tutto quel che l’esperienza storica aveva insegnato. Il momento della disillusione, per quanto vi fu, confluì, in tal modo, in una scoperta, che era in parte (credo) anche una riscoperta, di tradizioni e di legami storici rimasti, per così dire, velati nel precedente appassionamento politico.
Dico queste cose con convinzione. La mia frequentazione con Ernesto divenne più intensa proprio fra gli scorsi anni ’80 e ’90, quando nel mondo iniziò quel mutamento che a tutt’oggi non si è placato, e sembra, anzi, prendere, ancora una volta, una nuova piega. La scelta di sinistra era stata quella di Ernesto come ho detto fin dai suoi più giovani anni. Ma la sua non era stata e non divenne mai una scelta di partito nel senso più ristrettamente esistenziale di questo termine. Ebbe alcuni anni di applicazione agli studi, prima di storia contemporanea, poi di temi interdisciplinari, che lo portarono, i primi, negli Stati Uniti e, i secondi, addirittura in Madagascar, per una ricerca sulla locale medicina alternativa. È, credo, evidente che cercava una strada, che la politica militante non gli aveva rivelato, certo anche per dubbi e incertezze sul corso delle cose in Europa e, ovviamente, in Italia. Egli era della generazione che fu protagonista del 1968 e della conseguente “contestazione”, che di sicuro contò nella sua vicenda personale per le relative implicazioni politiche e ideologiche. Quel che è certo è che – proprio all’indomani del decennio della “contestazione”, e dopo qualche altro temporaneo impegno, questa volta in Sardegna, nel senso della cultura popolare – Ernesto trovò la strada della sua realizzazione culturale.
La trovò nel teatro, nella vita teatrale come vita culturale e civile di cui il palcoscenico e le luci della ribalta costituivano soltanto il momento della convenzionale e inevitabile realizzazione pubblica. Il suo impegno in questo campo fu duraturo e cospicuo, ed ebbe la sua base e il suo luogo di maggiore esplicitazione a Napoli, ma si estese anche a collaborazioni francesi e in Francia. Non mi dilungo in dettagli, ma va almeno menzionata l’associazione Voluptaria, da lui fondata nel 1989, per la promozione e la fruizione dell’attività teatrale, che realizzò mostre e organizzazioni di spettacoli in varie sedi. Soprattutto va, poi, ricordato il suo impegno intorno alla figura, all’opera e all’eredità di Eduardo De Filippo: un impegno di cui ho potuto personalmente apprezzare la qualità personale e la dimensione culturale quando gli riuscì di depositare presso la Società Napoletana di Storia Patria, di cui ero allora presidente, il materiale cartaceo e altri importanti capi dell’eredità di Eduardo, lottando su varii fronti, da quello delle istituzioni napoletane a quello delle complicazioni della famiglia di Eduardo.
Non si trattò mai, però, di un’attività di pura e semplice promozione culturale. Mostre, spettacoli, iniziative nascevano sulla base di una curiosità e di una ricerca che non si esaurivano nel lavoro della singola occasione. Le sue letture, le sue curiosità, i suoi interessi spaziavano, del resto, largamente al di fuori dell’ambito teatrale. Sempre, parlando con lui, si aveva la netta e confortevole impressione di parlare con un intellettuale europeo e italiano che aveva le carte in regola dal punto di vista degli studi canonici, di un’ampia formazione culturale, della capacità dialettica e colloquiale consueta nella république des lettres europea. Ne è documento, a suo modo, la scelta finale di vivere, con la moglie Graziella De Ianni, fra Parigi e Trieste: due città che è superfluo notare che cosa siano e dicano per quella république europea. Non è, quindi per nulla un caso che negli ultimi suoi anni egli si sia dedicato a studiare Montaigne, la Contessa de Boigne e un autore di grande finezza critica, quale fu il Saint-Évremond. Di quest’ultimo Graziella ha curato, con ricercata e felice eleganza, la postuma edizione di uno scritto significativo nella traduzione fatta da Ernesto. Insieme con Ernesto Graziella aveva preso a tradurre in italiano Mémoires della Contessa de Boigne: un testo di grande interesse per la conoscenza del gran mondo francese nella prima metà dell’Ottocento e dei problemi europei del tempo. E della volontà di Ernesto, del suo nome e dei relativi adempimenti Graziella si va ugualmente occupando, con una testimonianza commovente non solo dell’affetto che in vita li ha legati, ma di un’intesa di quelle che trascendono anche il piano degli affetti e determinano una intima comunione di spiriti e di vita. Sarebbe stato difficile immaginare l’uno senza l’altro dei due. Poi, il fato ha voluto quel che ha voluto, ma neppure il fato ha tagliato, come tutti possono vedere, quella loro intima unione e comunione.
Aggiungo solo che, con questa iniziativa di oggi, e con queste parole, nessuno ha voluto fare di Ernesto una personalità di eccezionale profilo, un personaggio storico monumentabile da consegnare a una qualsiasi retorica. Nulla di ciò sarebbe stato gradito a Ernesto. Qui si è voluto solo ricordare – per affetto, ma anche per sentito dovere – un uomo che era, nel più pieno senso del termine, una persona, una vera, compiuta persona, ossia un momento inconfondibile e irripetibile di storia dell’umanità. Questo sarebbe certamente piaciuto a Ernesto: di rappresentare non l’atipico risalto o sussulto di un momento nella levigata superficie della marea umana che si muove nella storia (il grand’uomo, l’eroe, la persona eccezionale), ma di rappresentare, invece, l’ordinario, il tipico, la norma di ciò che si deve essere se l’idea di un mondo migliore non deve rimanere sempre soltanto un’idea. Egli, per suo conto, certamente questo voleva essere: il cittadino di un mondo migliore in cui il meglio è ordinario e consueto. Esserlo davvero in una realtà come quella dei nostri tempi e del nostro paese era ed è quanto mai difficile. Noi possiamo, però, affermare di certo che a Ernesto riuscì di esserlo come anche noi ameremmo di riuscire a fare, e come il suo ricordo ci aiuta ci ammonisce a fare, ed è perciò un ricordo ancora più.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft