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La storia e l’anagrafe*
di Giuseppe Galasso
Quale rapporto può essere constatato o presupposto tra l’età dei protagonisti e l’andamento del corso storico nelle sue varie espressioni e manifestazioni? La domanda non è nuova, ma non è neppure una di quelle che gli storici si pongono con maggiore frequenza. Se, comunque, ci si pone questa domanda, la prima risposta è indubbia: tra l’età dei protagonisti e il corso della storia non c’è nessun rapporto, e la storia è sostanzialmente indifferente all’anagrafe dei suoi protagonisti.
Un breve excursus tra alcuni dei casi più memorabili della storia mondiale ce lo dimostrerà senza ombra di dubbio. Spiccano, innanzitutto, i casi dei giovanissimi. Il caso, giustamente più celebre, è quello di Alessandro Magno: nel 356 a.C., a venti anni, era salito al trono di Macedonia; era morto poi nel 323, a soli 33 anni di vita, dopo aver radicalmente sconvolto l’assetto del mondo del Mediterraneo orientale e del Vicino Oriente, e aver posto alcuni fondamenti essenziali per lo sviluppo della civiltà occidentale. Si tratta, invero, di un caso più unico che raro. Ma di protagonisti giovani e giovanissimi della storia se ne incontrano molti. Napoleone cominciò a 27 anni nel 1796 e nel 1815, a 46 anni, aveva concluso la sua grandiosa e inestimabile azione storica, morendo poi a 52 anni. Maometto II, detto il Conquistatore, espugnò Costantinopoli nel 1453, a soli 21 anni, ponendo definitivamente termine alla storia bizantina, e allargando poi l’impero turco sia nei Balcani che in Oriente, e morendo nel 1481, a soli 49 anni. A 49 anni morì pure nel 210 a. C. il grande imperatore cinese QinShiHuangdi, che, salito al trono ad appena 13 anni nel 246 a. C., unificò il paese e iniziò la tradizione culturale e civile che fu poi propria della tradizione cinese. A soli 26 anni cominciò la sua grande carriera politica e militare Scipione l’Africano, che nel 210 a.C. diede inizio alla conquista romana della Spagna e nel 202 a. C. sconfisse a Zama Annibale, ponendo fine alla potenza di Cartagine, e morendo nel 183 a. C. a 53 anni. A questa stessa età di 53 anni morì, nel 1725, lo zar Pietro il Grande, che, nato nel 1672, salì al trono nel 1689, a 17 anni, e subito impresse alla sua azione di sovrano un ritmo tale che nel giro di pochi decenni portò la Russia nel più vivo circolo della vita e della cultura europea.
Al polo opposto troviamo personalità che iniziarono la loro opera storica in età alquanto avanzata. Così Konrad Adenauer, che divenne cancelliere della Germania Federale (Occidentale) nel 1949 , a 73 anni, e lo rimase fino al 1963, a 87 anni, per morire nel 1967, dopo di aver presieduto alla ricostruzione post-bellica del paese e aver reinserito la Germania nelle relazioni internazionali su un piede di parità. Anche Alcide De Gasperi giunse a capo del governo in Italia nel 1945, a 64 anni, e lo rimase fino al 1953, morendo poi nel 1954, a 73 anni, dopo di aver svolto un’opera storica pari a quella di Adenauer.
Spostandoci su un piano per così dire intermedio, è folto anche il gruppo di grandi protagonisti, che cominciarono un po’ più tardi la loro azione di maggiore rilievo storico, ma ugualmente non giunsero a età, secondo l’ottica moderna, avanzata. Esempio fra i massimi: Giulio Cesare, che a quarant’anni iniziò la conquista della Gallia e morì a 56 anni, nel 44 a. C., e ancor più di lui si può considerare a questo proposito Vladimir Iliic Ulianov, ben più famoso come Nikolaj Lenin, che giunse al potere, dopo una lunga carriera di rivoluzionario, e grazie a circostanze imprevedibili, solo nel 1917, a 47 anni, e operò la grande trasformazione dell’impero russo nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, che per settant’anni avrebbe avuto una amplissima e profonda influenza sulle vicende mondiali, mentre Lenin, vittima di due gravi attacchi di apoplessia nel 1922, doveva lasciare dopo solo cinque anni la guida dell’URSS, per spegnersi a 54 anni nel 1924. A 56 anni, nel 1270, si spense anche il re di Francia Luigi IX, che però, salito al trono a 12 anni, dovette aspettare ancora otto anni per assumere davvero il potere, poiché fino al 1234 egli fu sotto la tutela prima e l’influenza dominante poi della madre Bianca di Castiglia, ma poté poi governare personalmente per altri 36 anni fino alla morte, con un prestigio morale altissimo per cui fu poi proclamato santo, e dopo aver svolto un ruolo di primo piano nella storia della monarchia francese e dell’Europa cristiana del tempo. E ugualmente a 56 anni si spense nel 1250, dopo una quarantina di anni di intensa attività politica, Federico II di Svevia, re di Sicilia dal 1197, per successione del padre Enrico VI, e sotto la reggenza del papa Innocenzo III, che fu dichiarato maggiorenne nel 1208, e poi eletto re di Germania, e quindi designato come sovrano del Sacro Romano Impero nel 1212.
Vi sono poi i casi di coloro che hanno assunto il potere in giovane età e lo hanno conservato a lungo. Basti citare il re di Francia Luigi XIV, nato nel 1638, re a cinque anni nel 1643, che assunse però pienamente il potere, che aveva lasciato fino ad allora al cardinale Mazzarino, solo nel 1660 e lo esercitò poi con pienezza assoluta fino alla morte nel 1715, per 45 anni. Prima di lui in Francia Carlo Magno, nato nel 742, era diventato re di Neustria (la parte nord-occidentale del regno dei Franchi) nel 758, re di Borgogna nel 768, unico re dei Franchi nel 771, collezionando poi una serie di conquiste e di regni (fra cui il regno dei Longobardi in Italia nel 774) fino alla famosa proclamazione a imperatore romano nella notte di Natale dell’anno 800, e governando personalmente fino alla morte nell’814, a 72 anni: dunque, al potere dal 758 per 56 anni. Il famosissimo principe di Metternich divenne ministro degli esteri austriaco nel 1809, a 36 anni, e poi cancelliere imperiale, e lo rimase fino al 1848, quando fu travolto dalle rivoluzioni di quell’anno: dunque, per 39 anni, morendo poi nel 1859, lontano da ogni potere.Ma già sappiamo, fra i nostri contemporanei, che Mao Zedong, nato nel 1895, conquistò davvero il potere nel partito comunista cinese nel 1935, a 40 anni, conservandolo poi sempre, in sostanza, fino alla morte, nel 1976, a 81 anni, dunque per 41 anni, diventando anche dal 1949 presidente della repubblica popolare cinese. Ed è superfluo forse ricordare Fidel Castro, al potere a Cuba dal 1959 (quando aveva 33 anni) al 2008, dunque per 49 anni, come capo dello Stato, ma senza lasciare altre cariche, che tenne ancora per qualche anno.
Non cito, inoltre, per brevità, altre interessanti tipologie, come i numerosi casi di papi eletti perché già in età avanzata o malati, e che quindi si riteneva che avrebbero tenuto il papato solo per qualche anno, permettendo l’avvento di candidati al soglio pontificio che non erano riusciti ad affermarsi alla prima prova, per cui si era, per così dire, rimandata, la partita. D’onde poi la sorpresa che quei papi, presunti provvisori, duravano, invece, a lungo sul trono romano e mutavano le prospettive dei falliti candidati precedenti. E ugualmente lasciamo da parte – sempre per ragioni di brevità – il caso delle donne, delle quali bisogna dire, però, che, contrariamente, forse, a quanto comunemente si crede, non presentano variazioni della casistica maschile (e penso per l’età moderna a una Elisabetta I d’Inghilterra, a Caterina de’ Medici in Francia, a Elisabetta Farnese in Italia e in Spagna, a Maria Teresa d’Austria, a Caterina II in Russia, fino alle nostre contemporanee Golda Meir, Evita Peron, Margaret Thatcher, l’attuale Angela Merkel). Suggestiva è anche la grande varietà dei casi fra i santi e i riformatori religiosi cristiani e di altre religioni; e fra gli artisti, i poeti, gli scienziati, gli intellettuali in generale. Né infine cediamo alla tentazione di raffronti familiari, come quello, davvero singolare, fra William Pitt il Vecchio, vissuto 70 anni fino al 1778, e primo ministro inglese più volte, e il figlio William Pitt, morto a soli 47 anni nel 1806, dopo di essere stato primo ministro quasi ininterrottamente dal 1783 (a 25 anni) fino alla morte, dunque, per oltre vent’anni: entrambi, il padre e il figlio, personalità di primissimo rilievo nella storia interna e imperiale dell’Inghilterra.
La conclusione sembra ovvia e inoppugnabile, e cioè che, come abbiamo anticipato, la storia non è molto sensibile all’età dei suoi protagonisti: apre i suoi immensi spazi a giovani e vecchi, ugualmente, senza mai pensare che l’età, giovanile o senile, dia diritto a una considerazione particolare, e, meno che mai, privilegiata, anche se molte volte nella storia si sente invocare il “largo ai giovani” e la “rottamazione” dei vecchi, oppure, all’opposto, si sente esaltare il tesoro delle esperienze e delle abilità o capacità formate in lunghi decenni di presenza e di attività nella vita sociale, che si accumula nel succedersi delle generazioni e di cui si considerano depositari i più anziani. La storia, insomma, non guarda alla data di nascita nei nostri documenti: guarda alle nostre capacità, concrete e dimostrate, di essere presenti e attivi nella vita sociale e collettiva, e a queste capacità lascia un ampio campo di possibilità di affermazione.
Se questo è, senza nessun possibile dubbio, la risposta da dare al problema del rapporto tra la storia e l’età dei suoi protagonisti, altrettanto indubbio è che questa risposta vale non solo per i protagonisti di primo piano, non solo per i giganti della storia, non solo per quelli il cui nome è più o meno largamente conosciuto presso tutti i popoli e in tutto il mondo. La stessa risposta vale anche per tutti gli altri protagonisti della storia, anche i più umili e modesti, anche per quelli il cui nome non ha mai significato niente al di là di una cerchia ristrettissima di familiari e di conoscenti, anche per quelli il cui nome si perde nell’atto stesso in cui essi si spengono. Vale nella vita privata come in quella pubblica, nella vita economica come in quella intellettuale, nella vita politica come nella vita religiosa: vale, insomma, sempre, ovunque e comunque.
Nella storia gli uomini non sono presenti, però, soltanto come protagonisti, massimi o minimi che siano. Gli uomini stanno nella storia anche come numero; e il problema del loro numero è addirittura più importante di quello del loro protagonismo, e ciò per molte ragioni. Già dal punto di vista del protagonismo, gli uomini sono tutti compresenti e coagenti. Sono, quindi, tutti protagonisti, da quelli meno rilevanti, trascurabili e più umili a quelli più dominanti nel panorama storico e più gloriosi, il cui nome si perpetua nei secoli ed è, più o meno, conosciuto da tutti. Il loro protagonismo non è, perciò, lo stesso per tutti, poiché essi non sono uguali nella parte che ciascuno di loro sostiene nella grande o piccola storia di cui è parte.
Neppure da altri punti di vista gli uomini sono uguali fra loro, a cominciare dalla loro diversa collocazione e condizione economica e sociale. Dal punto di vista del numero, invece, gli uomini sono tutti uguali fra loro: ognuno di essi conta per uno. Inoltre, il problema del numero degli uomini si è posto nella storia umana da sempre, fin dall’alba dei tempi. Si poneva se erano troppi, e si poneva se erano troppo pochi. Si poneva in relazione alle loro possibilità di sopravvivenza, alle loro possibilità di difesa o di offesa, in relazione alle loro idee e ai loro costumi. E, naturalmente, in relazione a tanti e diversi angoli visuali furono escogitati e poi sempre variati di tempo in tempo, molti modi di affrontare questi problemi e di tentare di risolverli. Infine, nel corso del tempo, il problema del numero degli uomini ha portato anche a una consapevolezza teorica che a mano a mano ha finito per costituire il grande edificio delle moderne scienze demografiche.
Quando si parla di demografia moderna è inevitabile, come tutti sanno, il riferimento a Malthus. Il suo posto nella storia del pensiero economico e sociale è connesso alla sua forte insistenza su un punto fondamentale. Le condizioni sociali di prosperità o di povertà degli uomini – egli, come è noto, sosteneva – non dipendono tanto da cause istituzionali e sociali quanto da fattori naturali, che potevano essere riassunti nel rapporto tra popolazione e risorse. Le risorse tendevano per lui, se crescevano, a una crescita limitata, e, oltre certi limiti, a nessuna crescita. La popolazione – salvo l’intervento di fattori catastrofici come epidemie, guerre, disastri naturali e simili – tendeva, invece, a un’espansione illimitata. Si determinava, così, uno squilibrio fatale tra popolazione e risorse, per cui, da un lato, non si poteva evitare un diffuso stato di povertà per la pochezza delle risorse risultanti pro capite nella divisione sociale delle risorse disponibili e, dall’altro lato, non ci si poteva permettere di praticare politiche sociali larghe e generose.
Per migliorare lo stato di povertà era, piuttosto, essenziale il controllo demografico delle classi povere, scoraggiandone la tradizione di intensa attività procreativa attraverso un’attiva dissuasione morale e attraverso livelli salariali assai bassi.
In seguito, Malthus cambiò in qualche misura il suo punto di vista e si pose sia il problema della scarsa utilizzazione delle risorse che poteva essere affrontato con un’adeguata politica economica, sia il problema degli effetti che i bassi livelli salariali avevano sulla domanda interna, e quindi sulle attività produttive. Combattuto da molte parti, resta a Malthus il grande merito di aver posto il problema demografico con un’autonomia e con un rilievo quali prima di lui non si ritrovano nella tradizione intellettuale europea. Egli si muoveva, peraltro, entro un’esperienza sociale e in un orizzonte culturale totalmente condizionati dai problemi delle società e delle economie preindustriali. Quest’orizzonte problematico è notoriamente e profondamente cambiato da quando Malthus scriveva, e il panorama mondiale ha finito col presentare una varietà inedita di condizioni demografiche.
Il punto principale di questa variazione è consistito nel fenomeno per cui nelle società industriali avanzate o, come già si dice da qualche tempo, postindustriali si è prodotto nel corso del secolo XX (e in qualche paese già prima) un graduale, ma alla fine radicale rovesciamento della piramide delle età. La piramide delle età continua a essere la rappresentazione grafica più efficace per indicare la distribuzione di una popolazione per fasce di età. Nelle società tradizionali questa piramide è di forma prettamente piramidale, con una base e i primi gradini occupati dalle età più giovani, conbase e gradini molto ampi, e con un progressivo restringimento di tali gradini, salendo nella scala delle età, per quelle più anziane. Questa struttura demografica era in relazione con un’alta o altissima natalità, tale da far fronte ai contemporanei fenomeni di un’altissima mortalità infantile e di una molto bassa durata della vita media o (come ora si dice) della molto bassa aspettativa di vita alla nascita. La forma della piramide indicava, perciò, che la popolazione rappresentata era in forte crescita, ed è tuttora così per i paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Nei paesi avanzati, tutti alquanto più ricchi degli altri e con redditi pro capite e familiari nettamente superiori, la piramide delle età, in relazione con una tendenza alla crescita minima o addirittura a un decremento, si è, invece, profondamente deformata.
La base si è molto ristretta, il vertice si è molto ampliato. La piramide si è venuta cioè, configurando quasi come un parallelepipedo molto irregolare, e tendente a una forma piuttosto trapezoidale. In pratica, e detto molto prosaicamente, i vecchi e gli anziani sono percentualmente aumentati di molto, i giovani hanno vista una caduta notevolissima della loro incidenza percentuale sul totale della popolazione. Vecchi hanno finito con l’essere considerati a mala pena gli ultraottantenni; ed è, inoltre, aumentato di molto il numero dei centenari, la cui incidenza statistica era nulla o scarsissima nella struttura demografica tradizionale e ora ha, invece, acquistato un peso non più trascurabile.
Non mi soffermo sui problemi di assistenza e di previdenza sociale e sanitaria che questo alto incremento della senilità pone sul piano finanziario, politico-sociale e politico-amministrativo, come li pone, in non minore misura, nella vita privata degli individui e delle famiglie. Neppure mi soffermo sui problemi che nascono dalla riduzione (fino alla crescita zero) della natalità, per cui si impone anche una considerazione, per molti aspetti diversa da quella volgare e semplicistica, del tanto deprecato fenomeno delle migrazioni internazionali nella nostra epoca. Né mi soffermo su altri punti delle complesse problematiche nascenti dagli sviluppi, ai quali ho accennato, della storia demografica. Mi preme, però, di puntualizzare, in particolare, almeno uno dei tanti problemi che si pongono nel quadro che abbiamo velocemente delineato, e che è anche uno di quelli che mi sembrano meno approfonditi.
Mi riferisco al problema dell’età lavorativa, che continua a essere delimitata coi criteri validi fino, al massimo, a mezzo secolo fa. Secondo questi limiti i 65 anni rappresentavano il confine normale dell’età lavorativa per gli uomini, mentre per le donne si andava a qualcosa di meno, e per alcune particolari categorie si giungeva fino ai 70 e ai 75 anni di età.
Si dà il caso, però, che non solo la durata o l’aspettativa di vita si è molto allungata, ma anche che la popolazione in età senile o presenile giunge ora a tale età in condizioni fisiche e mentali solitamente molto migliori di un tempo. È, peraltro, prevedibile che in futuro il miglioramento di tali condizioni non farà che progredire. È evidente che mantenere immutati i limiti tradizionali dell’età di lavoro in tali del tutto nuove e inedite situazioni è irragionevole da molti e molti punti di vista. Non si tratta solo di mantenere vivo e attivo il tesoro di esperienza e di conoscenza che si può presumere nei più anziani. Questo, se mai è stato un problema, è, anzi, diventato il problema di minore rilievo. Il problema primo e massimo è rappresentato dall’assurdità di lasciare inattivo un potenziale umano di crescente impatto statistico e di progressiva, fortissima incidenza nella gestione politica, economica, sociale e, non ultima, morale delle società contemporanee con i noti e gravissimi problemi delle pensioni e del loro finanziamento, nonché dell’occupazione, dei redditi individuali e familiari e di altri vari aspetti della vita pubblica e sociale.
Io non ho ricette o rimedi da suggerire, ma mi parrebbe già un grandissimo progresso e guadagno se questi problemi fossero finalmente posti in tutto il loro evidente e cospicuo spessore e in tutta la loro evidente e crescente urgenza; e se quello delle classi di età più anziane non fosse considerato un problema solo dal punto di vista del loro peso sulla società e sulle classi più giovani, ma anche dal punto di vista di un potenziale di attività produttive e positive al quale è per lo meno irragionevole non dedicare tutta l’attenzione che è opportuna e che il caso richiede.





Bibliografia
Si danno qui alcune davvero minime indicazioni bibliografiche sul tema trattato, avvertendo che, in ogni caso, il primo rinvio bibliografico è, ovviamente, ai saggi contenuti nel volume in cui queste pagine sono comprese (Il capitale umano dell’età), segnalato qui in apertura e ai loro riferimenti bibliografici
CAGIANO DE AZEVEDO Raimondo – CAPACCI Giorgia, Invecchiamento o svecchiamento della popolazione, Roma, Aracne, 2004
ENCICLOPEDIA BIOGRAFICA UNIVERSALE, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2006-2007.
GALLUZZO L. – GAUDIN C. – GHIRINI S. – SCALFATI E., L’invecchiamento della popolazione: opportunità o sfida?, in “Bollettino Epidemiologico Italiano”, (aprile 2012).
GUICCIARDINI Francesco, Ricordi, ed. C. Varotti, Roma, Carocci, p. 24.
HURD MICHAEL D., L’invecchiamento della popolazione. Conseguenze per l’individuo, la famiglia, la società., , in “Biblioteca della Libertà”, 34 (1999, sett.-ott., n° 151, pp. 3-14.
LIVI BACCI Massimo, Storia minima della popolazione mondiale, Bologna, Il Mulino, 1998.
LUTZWarren – SCHERBOV Sergei, Will Population Ageing necessarily lead to an Increase of Persons with Disabilities? Alternative Scenarios for the European Union, in “Vienna Yearbook of Population Research”, 2005, pp. 219-234.
LUTZ Wofgang – SANDERSON Warren – SCHERBOV Sergei, Acceleration of the Global Populatiin Aging, in “Nature”, 451, n° 7179 (2008), pp. 716-719.
MALTHUS Thomas Robert, Saggio sul principio di popolazione (1798), seguito da Esame sommario del principio di popolazione (1830), tr. it., a cura di G. Maggioni, Torino, Einaudi, 1977.
MARCHIONE C., Invecchiamento della popolazione: solo un problema demografico?, in “ACSA Magazine”, aprile 2014.
PASCOLI Giovanni, Poesie, Milano, Mondadori, 1969 (Poemi conviviali, I vecchi di Ceo, pp. 805-806).
PUBLIO TERENZIO Afro, Phormio (atto IV, scena 1, v. 9).
SALMON Edward Togo, Il Sannio e i Sanniti, tr. it., Torino, Einaudi, 1995.
TODESCAN Anna, Analisi della popolazione: le piramidi delle età in alcuni paesi del mondo, Università di Pisa, Relazione per il corso di Cartografia tematica, Anno accademico 2006-2007 (http. lettere1.humnet.unipi.it/index.php?id=962)
WRIGLEY Edward Anthony, Demografia e storia, tr. it., Milano, Il Saggiatore, 1969 (=E. A. Wrigley, Population and history, 1969)









NOTE
* Dal volume Il capitale umano dell’età. La saggezza della vita, a cura di L. Santini, N. G. De Santo e V. Bonavita, pref. di G. Galasso, Napoli, Guida, 2017. Le pagine qui pubblicate riproducono la prefazione di tale volume, letta come seconda introduzione alla International Conference, The Human Capital of Age, tenutasi a Napoli per iniziativa della I e II Università di Napoli il 16-17 settembre 2016.^
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