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I commerci ebraici di Livorno
di Francesca Trivellato
È noto che il commercio è nato “interculturale” fin dall’alba dei tempi, come scambio fra piccole e meno piccole comunità umane, divise da tutto (ostilità o rivalità, cultura, usi, costumi, ordinamenti, strumenti), tranne che dalla reciproca necessità dello scambio di ciò di cui si abbondava con ciò di cui si mancava. È noto pure che fin dall’alba dei tempi questi scambi hanno avuto e seguito norme e convenzioni spesso molto complesse, e talora sofisticate fino a contemplare il deposito in determinati luoghi dei rispettivi oggetti dello scambio, che perciò avveniva senza contatto fisico fra i soggetti interessati (e resta il problema dei sistemi e mezzi di comunicazione che permettevano una tale relazione mercantile).
Ugualmente noto è che da tempi antichissimi lo scambio (anche di merci e oggetti di modesto valore) ha legato spesso per via diretta o indiretta gruppi umani viventi a lunghissime distanze, a totale dispetto del tempo da impiegare e delle difficoltà da superare per realizzarlo. Così fin da epoche rispettabilmente antiche correnti di traffico per via di terra o per via di mare si sono intrecciati dall’Asia orientale e sud-orientale o dall’Africa sub sahariana al Mediterraneo e all’Europa o viceversa. E, dato il quadro storico del tempo, è certamente lecito definire globali questi scambi euro-afro-asiatici, anche se di veri e propri scambi, in senso stretto, globali si può parlare solo dopo la scoperta dell’America.
La notorietà di tutto ciò non scoraggia Francesca Trivellato (Il commercio interculturale. La diaspora sefardita, Livorno e i traffici globali in età moderna, Roma, Viella 2016.) dal precisare con molta solennità il senso di “commercio interculturale” e di “traffici globali” secondo quanto impone lo “storicamente corretto” di oggi. Il suo scrupolo di precisazione e aggiornamento metodologico si estende, anzi, fino alla definizione di ciò che si debba intendere per “mercante”, attinta a un testo inglese del 1752, dal quale si apprende, in sostanza, che essere mercante consiste nel «far mercanzie».
Il lettore non si scoraggi, però, a sua volta. Il libro della Trivellato è il frutto di una ricerca ammirevole per ampiezza e rigore, che illustra con una non comune dovizia di particolari le vicende di una delle più singolari e operose comunità mediterranee, quella degli ebrei sefarditi nella loro diaspora dalla Spagna dopo il 1492 e l’espulsione degli ebrei dalla penisola iberica che allora si ebbe. La dispersione che ne seguì trovò molti punti di approdo, in cui gli espulsi ebrei iberici seppero non solo rifarsi una vita, ma dar luogo ad attività di grande rilievo nei commerci di cui il Mediterraneo era al centro.
Fondamentali per questa prodigiosa ripresa furono le reti operative dei sefarditi. La Trivellato le studia concentrandosi, con una scelta molto felice da ogni punto di vista, su una sola delle correnti della diaspora sefardita, quella che si concentrò a Livorno, e su una sola delle ditte fiorite nella comunità livornese, la Ergas & Silvera.
Ne esce sostanziosamente incrementato il profilo storico di Livorno quale porto del grande traffico mediterraneo e punto di riferimento fra i più importanti sia per i mercanti mediterranei che per le marine (olandese, inglese) che già dalla fine del ‘500 vi appaiono con progressivo rilievo. È, anzi, tutta la cronologia del commercio mediterraneo fra XVI e XVIII secolo a esserne migliorata. E ciò anche perché l’attenzione che l’autrice dedica al versante orientale e musulmano degli scambi mediterranei non è per nulla inferiore a quella dedicata al loro versante occidentale
Quanto agli Ergas e Silvera, la Trivellato sa bene che un caso da solo è, appunto, solo un caso. Ben più: pone meritoriamente e molto bene in rilievo “la fragilità di queste ditte familiari”, e allontana ogni tentazione che porti a “esaltare le diaspore commerciali in antitesi dei giganti del mercantilismo europeo”. Il caso da lei studiato è interessante sia in sé, per la tipologia, che esso offre, dell’organizzazione e dei condizionamenti di tali imprese, sia perché è una testimonianza eloquente di quella fragilità aziendale per cui bastava “un investimento errato a seppellire un’impresa familiare che disponeva di limitate capacità di capitalizzazione e ridotte
riserve di credito”.
Quella sefardita è un’esperienza esemplare degli sforzi, perfino commoventi per la loro tenacia e ingegnosità, coi quali le diaspore commerciali curavano di stringere rapporti matrimoniali e familiari, di garantire nell’attività ed ereditariamente i propri patrimoni, di praticare forme societarie nuove o diverse da quelle consuete, di profittare al massimo delle opportunità possibili in un “quadro normativo disegnato da autorità di governo” cui erano dovute le discriminazioni della diaspora, di estendere o contrarre la rete dei loro rapporti (dentro e fuori del Mediterraneo) a seconda dei casi e dei tempi. Per conseguire un tale complesso di scopi le comunità stabilivano rigide norme per i loro membri e curavano le relazioni con altre comunità, con le quali intese e buoni rapporti non erano per nulla scontati a priori.
Gli Ergas finirono per fallire, appunto, per un affare sbagliato, ossia la vendita di un grosso diamante, e, per giunta, in un periodo di grandi mutamenti e difficoltà nel commercio mediterraneo a causa di guerre e di calamità naturali, di cui i mercanti sefarditi risentirono in modo particolare. Per la comunità livornese si ebbero un tramonto non repentino, ma netto, e un deciso spostamento dal commercio alla finanza. Nel corso, poi, dell’Ottocento a Livorno gli ebrei che partivano divennero più numerosi di quelli che arrivavano, e si persero anche le tracce di famiglie di nome Ergas. Si erano messi in moto, ebrei e Ergas, ancora una volta, per lo più verso Sud (Egitto, Tunisia), per scrivere un nuovo capitolo della loro perpetua odissea.
Una piccola storia, dunque, che è uno specchio illuminante di motivi e vicende fondamentali della grande storia. La Trivellato li ha esplorati studiando migliaia di lettere e documenti reperiti dal Mediterraneo ad Amsterdam, Lisbona, Goa, con grande e paziente sforzo di analisi, sintesi e interpretazione. I due capitoli sul “galateo epistolare” osservato da questi modesti mercanti di eroica tenacia e sul fatale “diamante grosso” che li portò alla rovina sono, davvero, di una non comune attrazione. Un libro, inoltre, da apprezzare ancora di più perché monografie di tanto impegno di ricerca e di elaborazione, nei nuovi criteri italiani per le valutazioni accademiche, paiono destinate a minore considerazione di articoli e articoletti, che abbiano il molto peregrino pregio di essere pubblicati in determinate sedi editoriali.
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