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Cavour e Thaon di Revel: un prestito internazionale e la politica del Regno di Sardegna
di Adriano Viarengo
I
L’acquisizione, da parte dell’Archivio di Stato di Torino, di un importante nucleo di carte provenienti dall’archivio privato del conte Ottavio Thaon di Revel1 ha riproposto agli storici non soltanto un episodio assai significativo nella vicenda finanziaria del regno sabaudo e nella biografia politica del conte di Cavour, ma anche un personaggio, come il Revel, molto frequentemente citato ma, in realtà, poco noto. I documenti si riferiscono infatti alla collocazione del grande prestito internazionale predisposto e avviato nell’estate del 1851 da Camillo di Cavour, da poco reggente del ministero delle Finanze nel gabinetto presieduto da Massimo d’Azeglio. A trattarlo sulla piazza londinese venne appunto inviato dal governo sardo il conte Thaon di Revel, quello che si potrebbe definire il leader della Destra nella Camera dei deputati. Il suo coinvolgimento nella grande operazione finanziaria è certo stato notato dagli storici ma − sembra evidente − sempre leggendolo in un’ottica cavouriana. Vediamo, ad esempio, cosa ne hanno scritto i due maggiori studiosi di Cavour: Adolfo Omodeo e Rosario Romeo. Il primo ha affermato che, «ad evitare che sul mercato della City il prestito fosse considerato come un provvedimento di politica demagogica, [Cavour] non esitò a servirsi come negoziatore ufficiale […] proprio del Thaon di Revel con cui aveva contrastato per i trattati di commercio»2. Il secondo, da parte sua, sostenne: «[Cavour], inviò a Londra verso il 20 giugno, il conte Revel, in qualità di commissario regio per la negoziazione del prestito. L’indiscussa autorità del finanziere e i suoi persistenti legami col ministero erano prevalsi, in questa scelta, sui recenti contrasti che lo aveva opposto al Cavour in occasione dei trattati di commercio»3. Le ragioni di Cavour sono dunque chiare, anzi, vengono presentate quasi come un suo successo “diplomatico” presso un avversario politico.Ma perché Revel, come ho avuto modo di scrivere io stesso (si parva licet…), «un po’ a sorpresa»4 accettò la missione? Non aveva appunto avversato, poco tempo prima, la politica liberista che Cavour aveva voluto avviare coi trattati commerciali coi vari Stati europei, in particolare proprio quelli con l’Inghilterra, il Belgio e la Francia? Non era stato, l’anno prima, oppositore delle leggi Siccardi, fortemente sostenute dal conte? Perché volle prestare il soccorso del suo prestigio e della sua competenza a quello che siamo abituati a considerare come il suo maggiore avversario?
Naturalmente poteva giocare anche la sua coscienza di “servitore” di altissimo livello dello Stato5. Ma, a parte il fatto che non risulta esserci stato nei suoi confronti nessun diretto intervento del sovrano, non poteva certo sfuggire ad un uomo avveduto come egli era che l’accettazione presentava indubbi significati politici. Neppure doveva essergli nascosto il rischio, sempre presente, di un fallimento, che sarebbe ricaduto in parte notevole anche su di lui. Sembra più che legittimo il dubbio che a muoverlo fossero anche, se non soprattutto, importanti ragioni politiche. Dunque comprendere le ragioni – dal “suo” punto di vista – del suo coinvolgimento nell’iniziativa cavouriana può forse consentire di avere qualche lume in più sulla situazione della politica interna del regno sabaudo e, quindi, anche dell’azione del conte di Cavour su quella scena nei mesi che precedettero il suo famoso “connubio” col centro-sinistro di Urbano Rattazzi.



II
Complessa era la situazione del regno sabaudo e dell’Europa nei primi mesi del 1851. Lo Stato dei Savoia, reduce dalla duplice sconfitta del 1848-1849, era, ormai, anche l’unico, nella penisola italiana, ad aver conservato attiva la costituzione (lo Statuto) concessa nel 1848. Il suo governo era presieduto da un cadetto dell’aristocrazia subalpina assolutamente atipico: Massimo d’Azeglio, pittore, scrittore, patriota, che aveva di fronte l’Europa della seconda restaurazione, con le sue classi dirigenti ancora terrorizzate dal biennio rivoluzionario appena trascorso, dal minaccioso comparire delle volontà di indipendenza di molte nazionalità e, soprattutto, del socialismo. Il mondo finanziario internazionale, quello delle grandi banche, coi suoi mitici personaggi, come i potentissimi Rothschild, era cauto, preoccupato, per quanto anche pronto a cogliere le opportunità che il gran bisogno di denaro degli Stati non poteva mancare di generare. Su tutto pendeva però un incubo: nel 1852 scadeva in Francia il mandato presidenziale di Luigi Napoleone. Molti temevano o speravano, a seconda dei punti di vista, una ripresa rivoluzionaria che partisse, ancora una volta, da Parigi.
Sul piano interno, invece, d’Azeglio doveva fare i conti con le forze politiche presenti nella Camera dei deputati così come si erano delineate all’indomani delle elezioni del dicembre 1849, che erano state precedute dal noto “proclama diMoncalieri”. Quella consultazione elettorale aveva segnato la fine della maggioranza liberaldemocratica in quell’assemblea, uscitane fortemente ridimensionata a fronte di una vasta e maggioritaria area moderata. Non esiste purtroppo la possibilità di ricostruire in modo sicuro ed analitico la posizione di ogni deputato in seno ai vari raggruppamenti politici allora presenti nella Camera poiché molti non vi presero mai la parola. Tuttavia Rosario Romeo ha plausibilmente calcolato che, dei 204 eletti per la quarta legislatura del Parlamento subalpino, 123 fossero riconducibili all’area moderata, 43 alla Sinistra e 38 al centro-sinistro6. Va però tenuto presente che le sedute della Camera erano frequentate da numeri assai più piccoli e che, non infrequentemente, esse dovevano essere ritardate, sospese o addirittura rinviate per l’assenza del numero legale, specie all’inizio ed alla fine delle sessioni. Una seduta con 140/150 presenti era già da considerarsi numerosa. Così, per limitarci ai mesi che qui ci interessano, quella apertasi il 4 novembre 1850 aveva visto partecipare all’elezione del presidente dell’assemblea appena 105 deputati che avevano designato a quella carica, con 71 voti, Pier Dionigi Pinelli, esponente della Destra, mentre i candidati del centro-sinistro (Urbano Rattazzi) e della Sinistra (Cesare Cabella) avevano avuto rispettivamente 21 e 13 voti. Quindi anche gli atteggiamenti di piccoli gruppi potevano avere un peso notevole sul destino dell’esecutivo.
In quella quarta legislatura il ministero d’Azeglio si reggeva sul sostegno della Destra, divenuta, come s’è detto, maggioritaria nell’aula di palazzo Carignano. Era una Destra nella quale, ad esclusione, forse, di alcuni deputati savoiardi, non erano presenti elementi pregiudizialmente ostili al sistema costituzionale quanto persone che tendevano a circoscriverne le potenzialità, sia pure con sfumature diverse, accomunate com’erano da una forte preoccupazione per la “demagogia” dei radicali, come definivano i liberaldemocratici. Aristocratici, in molti casi, e conservatori sul piano sociale, ma non reazionari alla Solaro della Margherita, essi erano in parte figli del liberalismo dottrinario francese, come Cavour, in parte, con una forte matrice cattolica, costituzionali sì, ma tiepidi liberali e non sempre molto propensi al liberismo in economia, come Balbo o Revel. Un’area, questa, che aveva sollecitato e sostenuto il proclama di Moncalieri e – senza, come abbiamo detto, mettere in discussione lo Statuto – nei momenti più critici del 1849 era giunta addirittura ad ipotizzare, in un suo autorevole esponente come Pier Dionigi Pinelli, di far dell’Austria, considerata ora addirittura una “alleata naturale” del regno sardo, una sorta di “patrona della nazionalità italiana”, mentre una personalità come il conte Ilarione Petitti di Roreto, dopo la sconfitta elettorale della Sinistra nelle elezioni post-proclama, continuava ad incitare alla lotta contro di lei poiché, sosteneva, bisognava «non abusare ma profittare della vittoria», cominciando intanto col cercare di far invalidare le elezioni di esuli dalle varie parti d’Italia7. Tutti poi, come lo stesso Revel, erano d’accordo sul fatto che, come questi scriveva, «il tempo delle illusioni e[ra] finito» e che «il Piemonte [aveva] fatto quanto [aveva] potuto e più di quel che doveva per l’Italia». Causa, questa, non perduta,ma da aggiornare: «ci pensino i nostri nipoti», concludeva il conte8.
E quelle due anime – che rendevano discontinuo il sostegno che questa area politica poteva offrire ad un governo – si mostrarono in piena luce in occasione della discussione di quell’insieme di leggi, che sono ricordate col nome del guardasigilli Giuseppe Siccardi, tendenti ad adeguare al dettato statutario i privilegi del clero in materia di foro, eredità e mano morta. Da un lato, infatti, Cavour si separò allora dal grosso della Destra, facendosi deciso sostenitore di quelle leggi; dall’altro Revel, pur lamentando «infinitamente di trovar[si] in que[lla] circostanza in dissenso con amici politici di cui divid[eva] pienamente le opinioni e come [gli dolesse] egualmente di trovarsi in disaccordo con un Ministero che finora [aveva] appoggia[to] di tutta la forza della [sua] convinzione9», fece l’opposto. Non che non ne approvasse “la sostanza”, ma non condivideva “il modo” col quale le leggi erano state presentate, cioè senza aver raggiunto preventivamente un’intesa con la Santa Sede. Per questo egli, come Balbo, il quale aveva parlato di una “momentanea opposizione”10, aveva proposto una sospensiva perché quell’accordo potesse essere ricercato, annunciando un voto contrario solo in caso essa non venisse accolta. Atteggiamento in sé moderato, ma che verrà giudicato da buona parte dell’opinione pubblica come contrario, in generale, a qualunque progresso. Da questo diverso atteggiamento interno alla Destra venne sempre più in essa enucleandosi, con Cavour, quel centro-destra destinato ad assumere ben presto un grande rilievo, anche numerico, nell’assemblea di palazzo Carignano e che, intanto, non temette di votare quel pacchetto di leggi con la Sinistra, all’interno della quale era già avvenuta una separazione tra un’area più moderata, il centro-sinistro, formatosi attorno agli ex-ministri del 1849 – Rattazzi, Buffa, Cadorna – che, come aveva scritto con soddisfazione il cavouriano “Risorgimento” nel novembre 1849, «avevano spezzato il giogo del signor Valerio», e una Sinistra “pura”, ancora legata al focoso giornalista11.
Quei due tronconi della Destra ebbero un altro significativo momento di frattura tra loro nelle discussioni che si ebbero alla Camera a proposito dei trattati di commercio rinnovati da Cavour, ministro del Commercio e della Marina, con più di una decina di Stati europei. Ciò non significava, però, che la Destra reveliana puntasse ad abbattere il ministero12, essa si sentiva, anzi, parte del “partito” ministeriale, in un sistema bipartitico, come affermerà Cesare Balbo l’anno successivo:

Chiunque apra la storia d’Inghilterra, si persuaderà che dal 1688 fino a questi ultimi anni ella fu sempre divisa in quei due soli partiti dei wighs e dei torys, uomini [sic, probabilmente per “nomi”] che rimarranno immortali appunto perché furono soli, perché tutti i campi parziali che si formarono, si formarono sempre nel seno di questi partiti. Quando si forma un campo parziale in un partito, se questo campo è più moderato, egli modererà il partito; se questo campo parziale è più avanzato, egli darà vivacità al partito. All’incontro i campi parziali che escono dal partito tolgono loro necessariamente o la moderazione o la vivacità. In tal modo il partito intiero da cui essi si distaccano non sarà più un partito compito, imperocché è mestieri che il partito consti di tre parti, vale a dire della moderata, della debole e dell’estrema. Allorché i partiti sono composti di queste tre parti possono dirsi sinceri partiti politici.
Io non so – aveva poi aggiunto – qual frazione parecchi miei amici ed io formiamo nel partito ministeriale. Noi siamo entrati nel medesimo e siamo sinora rimasti13.


Era un messaggio chiaro: l’intesa del “connubio”, che era allora nata, non solo avrebbe demolito il bipartitismo, avrebbe anche reso incomplete tutte le forze politiche in campo.
Sin dal gennaio 1851, scrivendo al suo amico e collaboratore Giacinto Corio, Cavour aveva fotografato la situazione parlamentare in modo chiaro: «nella Camera, la destra ha paura che io spinga il Ministero a sinistra, e la sinistra teme che s’io cedessi il Ministero fosse [sic] spinto all’estrema destra. Da queste due paure ne nascerà, spero, un equilibrio favorevole alle mire degli uomini saviamente liberali»14. Sembrerebbe peraltro che pensasse ad un’alleanza col centro-sinistro già al momento delle dimissioni del ministro Siccardi: «nessuno più di me – scriveva infatti nel febbraio, sempre a Corio – desiderebbe [sic] il surrogare Siccardi con Ratazzi [sic], ma per ora ciò sarebbe prematuro e inopportuno; e Ratazzi stesso, uomo di acuto ingegno e di senso profondo, ne è quant’altri persuaso»15. Un mese dopo si era lamentato con l’amico Emile De La Rüeche «les fabricants de draps, de cotone et de fer […] font le diable pour faire rejeter le traité avec la Belgique, et comme ils ont trouvé dans Revel un auxiliaire puissant, ils me donneront certainement du fil à retrordre»16. Tuttavia in un passaggio in una sua lettera del 13 aprile, riferendosi all’avvio alla Camera della discussione sul trattato di commercio col Belgio e dichiarando di aspettarsi una discussione vivace, pur con sicuro successo del ministero, aggiungeva: «maisMr. De Revel y met une passion excessive, il est suffrant, je pense, d’un ministèrerentré». E anche Massimo d’Azeglio, quello stesso giorno, scriveva al nipote Emanuele: «mi sono preparato per un speech sulla giustizia, convenienza politica ed economica della libertà del commercio. Credo che passeranno [i trattati col Belgio]. Revel è il nostro più potente avversario»17. Che cosa significa quel cenno a un “ministèrerentré” a proposito di Revel? Significa, in poche parole, che Cavour non aveva smesso del tutto di diffidare del centro-sinistro, proprio mentre stava producendo il suo massimo sforzo per ottenere la sanzione del suo ruolo centrale nel governo con l’acquisizione del portafoglio delle Finanze. Bisogna anche tener presente che, mentre operava come ministro del Commercio e della Marina, utilizzando il rinnovo dei trattati di commercio come strumento per introdurre nel regno sardo una politica economica liberista, Cavour doveva sì lottare contro le resistenze reveliane, ma senza esasperare la situazione, dato che il suo bersaglio principale era in effetti un collega, il ministro delle Finanze, Giovanni Nigra18, che riteneva incapace di affrontare la difficile situazione finanziaria del regno («Nigra est d’une incapacità effrayante», esplodeva in una lettera19) e succube dei Rothschild. Per di più aveva avuto, come raccontava a Corio, «seri diverbi con alcuni [suoi] colleghi nel Ministero, meno amici di [lui] delle riforme energiche» (facilmente identificabili in personalità della Destra, come Galvagno,Mameli eDeforesta), il che, concludeva, «ci condurrà ad un rimpasto ministeriale»20. In realtà, per arrivare a tanto egli dovette rassegnare le dimissioni ai primi di aprile21, forzando lo scontro e vincendolo, ottenendo così il ritiro di Nigra e la reggenza delle Finanze. Ma ben pochi dubitavano che le sue ambizioni non andassero ben oltre.
Intanto i trattati di commercio con Inghilterra e Belgio erano stati votati a larghissima maggioranza, 112 a 14, il primo, e 114 a 11, il secondo (in entrambi i casi erano stati contrari anche Brofferio e Demarchi, certo non seguaci di Revel). Dunque ammettendo che la Destra reveliana abbia, sola, votato contro – poiché il centro-destro seguì certo Cavour −, la sua forza non parrebbe di grande rilievo. Tuttavia si tratta di un dato da utilizzare con cautela poiché, se è vero che, pur dopo le, per lei sfortunate, elezioni del dicembre 1853, che la Destra reveliana verrà ancora accreditata di 22 deputati22, la sua forza, nel 1851, doveva essere decisamente maggiore. Era quindi tutta la situazione politica, l’insieme stesso delle forze politiche presenti nella Camera, ad essere in movimento a causa della spinta verso il potere di Cavour, più che mai bisognoso di rafforzare la propria base nell’aula di palazzo Carignano. Infatti, se gli equilibri non fossero mutati, anche ammettendo un ritiro di d’Azeglio ed un suo subentrargli, il conte si sarebbe ritrovato con una maggioranza non meno precaria di quella del suo predecessore. D’altro canto il momento non poteva non porre interrogativi anche al conte di Revel.
Più anziano di Cavour di sette anni (era nato nel 1803), Ottavio Thaon di Revel e di Sant’Andrea aveva respirato l’aria delle più alte sfere del potere sin dall’infanzia. Suo nonno, Carlo Francesco, generale, era stato fattomarchese da Vittorio Amedeo III e, nel 1799, era stato luogotenente generale del re negli Stati di terraferma, nei brevi mesi della cacciata dei francesi. Suo padre, Ignazio Thaon di Revel, era morto nel 1835, quando ricopriva la carica di vice-presidente del Consiglio di Stato e, soprattutto, quella di governatore di Torino. Sin dagli albori della Restaurazione, del resto, aveva avuto ruoli importanti: nel 1814 era stato membro del consiglio di Reggenza in attesa del restaurato Vittorio Emanuele I, poi ambasciatore a Parigi e, per breve tempo, viceré in Sardegna. L’atmosfera di quella nobile famiglia era schiettamente conservatrice: Ignazio si era ritirato a vita privata durante gli anni napoleonici e negli anni Venti e Trenta, con personaggi come il maresciallo Vittorio Sallier de la Tour, aveva rappresentato uno dei pilastri del conservatorismo subalpino.
Ottavio era entrato molto giovane, nel 1826, nella carriera amministrativa delle segreterie, occupandovi via via ruoli più significativi. Già alla metà degli anni Trenta era primo ufficiale (una sorta di vice-ministro) alle Finanze e, dal 1844, Segretario di Stato (cioè ministro) di quel delicato dicastero. E delle Finanze era stato ministro anche nel primo ministero costituzionale, presieduto da Cesare Balbo. Conservatore, ma cosciente della gravità del momento, era anche stato fra i sostenitori della concessione dello Statuto. Se la storia della sua famiglia contribuiva da sola a dare prestigio al Revel, l’esperienza nelle segreterie vi aggiungeva la fama di esperto conoscitore delle finanze sabaude. Non stupisce quindi che, nel momento nel quale si doveva trattare un grande prestito internazionale egli fosse uno degli interlocutori più preparati e più temibili per il governo. Un governo, va sottolineato, che, sia pure non senza discontinuità, egli continuava a sostenere.



III
In questa situazione, l’8 maggio 1851 il conte Camillo Benso di Cavour, da poco più di due settimane al ministero delle Finanze, prendeva la parola nell’aula della Camera. Lo attendeva un compito gravoso: illustrare la situazione finanziaria del paese. Il giorno dopo scriverà all’amico Michelangelo Castelli: «J’ai tellement travaillé pour être en mesure de presenter promptement mon rapport à la Chambre, que j’ai été sur le point de tomber malade»23. In effetti, aprendo il suo discorso aveva ammesso che «contro il mio solito, mi trovo in oggi alquanto mal fermo in salute»24.
Il conte si immerse – e immerse il suo attento uditorio – in una lunga ricostruzione degli andamenti delle finanze del regno sabaudo dal 1847 al marzo del 1851. Impresa che non era per nulla facilitata dal meccanismo contabile che veniva utilizzato. L’esercizio finanziario durava 18 mesi, con un curioso computo dei residui passivi ed attivi. Succedeva così – affermò in premessa Cavour – «che in certe circostanze, cioè nei primi sei mesi dell’anno, si abbiano tre esercizi in attività: l’esercizio corrente, l’esercizio dell’anno antecedente e l’esercizio dei residui»25. Quanto fosse semplice destreggiarsi in questa situazione lo possono cogliere facilmente anche i profani. Ma noi non seguiremo il neoministro delle Finanze nella sua lunga esposizione se non per dire che la situazione che egli espose, se fu forse un po’ meno tragica di quanto molti dei suoi uditori si aspettavano, certo era resa seria in seguito a quanto avvenuto nel 1848-1849, con le grandi spese belliche del reiterato e sfortunato duello con l’impero d’Austria, che aveva lasciato dietro di sé anche il costo di una indennità di guerra da pagare assai pesante: 75 milioni di lire (un pagamento, peraltro, ormai quasi completato). Al pluriennale deficit di bilancio si era fatto fronte con diversi strumenti finanziari, gestiti con alterne fortune dal già ricordato banchiere Giovanni Nigra, predecessore di Cavour nel ministero e contitolare della omonima banca torinese, che si era trovato ad avere come interlocutore James de Rothschild, capo di una delle massime potenze finanziarie d’Europa.
Di Nigra, Cavour − già l’abbiamo visto − aveva poca stima e ne aveva criticato molto spesso le iniziative, sia pubblicamente, nel suo giornale «Il Risorgimento», sia nelle relazioni personali con esponenti del mondo finanziario subalpino e ligure, in primis il banchiere genovese, suo intimo amico e socio, Emile De La Rüe. Ora la Camera, ascoltando il suo discorso, attendeva di sapere quali proposte il conte avrebbe formulato per affrontare la situazione. L’attesa non andò delusa, terminata la sua esposizione della situazione, il ministro mise in chiaro le sue intenzioni:

Ora si tratta di prendere una determinazione – disse −, ed a ciò si offrono due mezzi: o realizzando le risorse che il Parlamento ha posto nelle mani del Governo, attendendo altre circostanze per provvedere all’avvenire, od abbracciando il complesso delle spese straordinarie che sono ancora da farsi sia per compiere la nostra rete di strade ferrate, sia per liquidare il nostro passivo, sia per sopperire alla deficienza temporanea dei bilanci, e stabilire sin d’ora il complesso delle operazioni finanziarie da farsi in vista di questa deficienza. Io dichiaro - affermò subito – che preferisco il secondo sistema (Segni di adesione a sinistra); io credo che le difficoltà sia meglio attaccarle di fronte, e che il sistema di sempre aspettare alla vigilia del bisogno a cercare il mezzo di sopperirvi sia un sistema che, se talvolta la necessità giustifica, questa sola però può giustificare26.


Dunque bisognava – a suo avviso – prendere di petto la situazione, e spiegava: «io crederei di dovere per le strade ferrate ricorrere ancora al credito all’estero; e per ciò che riflette il saldo delle spese interne di ricorrere al credito interno»27. Dopo essersi soffermato ad esporre in modo più analitico soprattutto l’aspetto del ricorso al mercato interno, Cavour così concluse (parlava da due ore28):

«Io credo quindi potermi riassumere col dire che il Governo ritiene di poter uscire dalle difficili circostanze in cui si trova mercé alcune operazioni di credito interno collegate colle disposizioni che ho l’onore di sottoporre alla Camera, e con una operazione da farsi all’estero e preferibilmente in Inghilterra, che fra alcuni giorni, ove la Camera accolga quest’idea primaria, avrò l’onore di sottoporre al Parlamento»29.


Ecco quindi la Camera messa di fronte al bivio: accettare o respingere quanto proposto dal conte come unico rimedio alla situazione. Il quale conte non aveva troppo l’abitudine di discutere le sue proposte coi colleghi o col presidente del consiglio. Infatti d’Azeglio cominciava già ad averne abbastanza e scriveva al nipote Emanuele il giorno prima (7 maggio): «Qui le cose camminano. Cavour è fatto apposta per menare affari e parlamento. Ma è despota come un diavolo, ed io che non amo i tiranni, fui per andarmene, giorni sono»30.
In effetti se c’era un aspetto che distingueva Cavour dal resto del mondo politico subalpino era l’attivismo. Aveva allora superato da poco la quarantina ed accumulato esperienze importanti e, soprattutto, di dimensione europea: si muoveva ormai a suo agio a Ginevra come a Parigi, era stato già due volte a Londra e contava relazioni con significative personalità del mondo politico e finanziario di mezza Europa. Direttore dell’autorevole giornale «Il Risorgimento», nel corso degli anni Quaranta si era costruito fama di esperto di economia e finanza, di innovativo agricoltore, nonché di autorevole esponente dell’indirizzo liberale, moderato in politica e liberista in economia. Era schierato con la Destra moderata, senza abdicare, però, alle idee di emancipazione nazionale (donde anche quel cenno agli “alti destini” nel discorso dell’8 maggio). Cavour apparteneva ad una famiglia assai ricca, ma di spiriti piuttosto conservatori, che aveva ricostruito le proprie fortune in età napoleonica, e nella quale il suo liberalismo era più motivo di scandalo che di condivisione. A differenza di quella del Revel non era, però, la sua, una famiglia che potesse vantare di aver ricoperto cariche di vertice nei governi sabaudi.



IV
La discussione alla Camera in merito al progetto di legge governativo di lanciare sul mercato internazionale un prestito ipotecario del valore complessivo di 75 milioni, garantito sulle ferrovie piemontesi, ebbe inizio il 14 giugno 1851. Cavour si era avvalso, per la sua definizione, dell’aiuto di un banchiere ginevrino, Alexandre Lombard, che aveva esperienza in materia di questo tipo di prestito, non ancora frequentemente utilizzato in Europa. Aveva poi dialogato, come sempre era uso fare in materia finanziaria, con l’amico De La Rüe. Il dibattito si protrasse anche per le sedute del 16 e del 17, al termine di quest’ultima la legge venne approvata con 103 voti a favore e 30 contrari31.
I voti contrari erano stati anzitutto quelli della Sinistra e di buona parte del centro-sinistro, che avevano visto respinti, tra l’altro, tutti i loro emendamenti, proposti dai vari Pescatore, Lanza, Mantelli, Depretis. Emendamenti che puntavano, per la maggior parte, a introdurre nel dispositivo della legge uno stretto collegamento tra il prestito e la sua destinazione al completamento della rete ferroviaria. Si intendeva in tal modo vincolare l’uso di quei fondi da parte del governo. Tra i voti contrari vanno collocati anche quelli della piccola pattuglia di deputati dell’estrema destra savoiarda, che riteneva un insopportabile peso l’accensione di un nuovo e così cospicuo prestito.
Naturalmente aveva votato a favore il gruppo cavouriano e ad esso si era aggiunta la Destra reveliana. L’ex-ministro aveva svolto due ampi interventi nel dibattito. Nel primo, il giorno stesso dell’apertura della discussione, aveva bonariamente messo in evidenza gli artifici contabili ai quali Cavour era ricorso per mostrare che la situazione finanziaria era in complesso meno catastrofica di quanto non fosse stata rappresentata dal Nigra.«Riconosco − aveva detto – che dal modo ingegnoso con che ha collocato le cifre, ha veramente ridotto la cosa in questo stato»32. Inoltre aveva respinto la preoccupazione dei savoiardi: «dico che il nostro debito è cospicuo e grave – aveva affermato −; ma che il paese non è posto in condizioni tali da non poterlo sopportare». Era piuttosto preoccupato, invece, poiché temeva che non venissero votate leggi d’imposta in grado di porre un argine al suo costante crescere. Nel secondo, il 16 giugno, aveva respinto le critiche della Sinistra che, dopo l’esposizione di un minor deficit di Cavour, riteneva inutile il prestito e chiedeva una tassa sui redditi ed economie, o, almeno, come già accennato, la garanzia, nella legge, che la disponibilità acquisita col prestito fosse vincolata alle ferrovie. Così facendo Revel aveva ancora una volta confermato il suo appoggio al gabinetto d’Azeglio ed a Cavour, il quale si era anche affrettato ad accogliere un suo emendamento. Siamo in presenza di qualcosa di più dei “persistenti legami col governo” ai quali, come abbiamo visto all’inizio, faceva cenno Romeo.



V
Il prestito divenne quindi, dopo l’approvazione in Senato, la legge 26 giugno 1851, n. 1205. Veniva ora la seconda fase, quella operativa. Occorreva misurarsi con la situazione europea, la quale, come abbiamo già accennato, non era molto propizia per il regno sardo il cui Parlamento, appena l’anno precedente, aveva approvato le leggi Siccardi, che intervenivano fortemente sui privilegi giuridici della Chiesa cattolica, dove la stampa appariva fin troppo libera e i demagoghi, sia pure ridimensionati, sembravano ancora sedere nella Camera dei deputati. C’era quindi di che far avere al regno sardo una fama poco meno che di rivoluzionario presso molte corti europee e nel mondo finanziario. Non aiutava, molto spesso, l’atteggiamento della maggior parte della diplomazia sabauda che, ancora rappresentata da elementi conservatori, finiva per trasmettere un’immagine del regno caratterizzata da incertezza e inquietudini. Non per niente Cavour si era affrettato a mandare a Parigi un suo uomo fidato, come Michelangelo Castelli, perché desse, soprattutto agli ambienti finanziari, un quadro ben diverso della situazione33.
La piazza londinese, verso la quale Cavour si era volto, era, fra quelle europee, forse quella dove gli operatori potevano essere più simpatetici col Piemonte liberale. Certo, anche qui, qualche rassicurazione sarebbe stata utile. E quale sarebbe stata più chiara e comprensibile a tutti di quella di vedere nella veste di negoziatore del prestito un’autorevole figura di conservatore (ma anche di firmatario dello Statuto albertino) come il conte di Revel, il cui fratello Adriano, per di più, era stato per molti anni ambasciatore sardo presso la corte di san Giacomo34?
Abbiamo già messo in luce come questa legge abbia avuto il pieno appoggio del Revel, un fatto che, in genere, non viene mai molto evidenziato. Ma c’era anche di più, per farci comprendere le ragioni del suo comportamento. Cavour, infatti, doveva aver in qualche modo coinvolto il capo della Destra nella costruzione stessa del prestito. Una chiara traccia di questo coinvolgimento ci è conservata in una lettera a Cavour di Alexandre Lombard del 25 maggio 1851.Questi, apprestandosi a lasciare Torino, chiedeva al conte «s’il ne serait pas convenable que j’eusse une dernière conférence, soit avec vous, soit aussi avec Mr. le conte del Revel, avec lequel vous m’aviez fai entrevoir que je me serais peut-être rencontré hier»35. Non sappiamo se l’incontro sia avvenuto: in una successiva lettera del Lombard, del 27 maggio, non ve n’è più cenno, ma le parole “dernière conference”, lasciano pensare che già vi fosse stato almeno un incontro in precedenza. In questo caso diverrebbe ancor più chiaro il perché Revel non poteva non essere coinvolto (e non poteva non accettare di esserlo) anche nella fase operativa.
Né i motivi di quella sua disponibilità si esaurivano a questo punto. Per converso, infatti, i rapporti di Cavour col centro-sinistro, ancora al 27 maggio 1851, non dovevano essere molto sicuri se, scrivendone a Castelli, suggeriva di «écrire deux mots à Buffa» perché votasse una convenzione addizionale al trattato di commercio con la Francia (presentata il 24 alla Camera), altrimenti, minacciava, «la responsabilité de l’avenirre tombera sur ceux qui m’ontpoussé hors duministère»36.
Alla metà del 1851, quindi,Cavour continuava a diffidare dei rattazziani. Il fatto è noto. Quello che lo è molto meno, e che allarga ad un ancor più ampio orizzonte politico l’episodio della partecipazione del Revel all’iniziativa finanziaria voluta da Cavour, è il fatto che i due fossero impegnati in contatti ancor più impegnativi. Lo rivela, scrivendo a pochi anni di distanza da quegli avvenimenti, Luigi Chiala, nella sua ricostruzione del processo che porterà all’intesa Cavour-Rattazzi.

Certainement – scrive infatti il giornalista e memorialista eporediese − l’alliance avec le centre gauche n’aurait pas été indispensabile si la droite avait été composé de parties assez homogenes et assez décidées pour appuyer purement et simplement le Cabinet dans toutes les occasions, et pour ne pas donner quelquefois aux membres du centre gauche un motif de douter qu’elle fût fortement unie; si, enfin, les imprudences de quelques-uns de ses membres ne l’avaient pas fait passer dans l’opinion publique pour un parti irrévocablement conservateur et ennemi des larges réformes, opinion que sa conduite au Parlement était bien loin de contredire ouvertement. M. le comte de Cavour avait essayé, sur le commencement de 1851, de discipliner ce parti et de le rendre compact. Dans un entretien particulier qu’il avait eu avecM. de Revel, en lui confiant la charge de se rendre à Londres pour contracter avec la maison Hambro l’emprunt de 75 millions, il avait exposé clairement son idée. Mais l’ancien ministre de Charles Albert avait montré dans cette entrevue une defiance trop declarée vis-à-vis de ses principaux collégues et une trop grande difficulté de composer une majorité franche et sure, pour que son interlocuteur pût nourrir des espérances fondées que de nouvelles négociations auraient un meilleur résultat37.


Dunque è chiaro che, nel momento stesso nel quale Cavour gli prospettava addirittura una più stretta alleanza, Revel aveva tutto l’interesse a mostrare disponibilità a lavorare per il successo del prestito che aveva sostenuto alla Camera e alla cui definizione aveva molto probabilmente contribuito. Si trattava di una disponibilità che aveva solide ragioni politiche. Ad esse, poi, un’altra poteva sommarsene, visto che la Destra era soprattutto espressione di una aristocrazia che fondava i suoi redditi sul possesso terriero. Col prestito si allontanava infatti anche la necessità di un ulteriore e più forte inasprimento fiscale all’interno in un momento nel quale, non essendo stato ancora predisposto un nuovo regime fiscale che colpisse maggiormente i redditi del commercio e delle professioni, esso sarebbe inevitabilmente caduto sulla rendita agraria. Così Revel raggiunse Londra e le tappe della sua missione, con la fitta corrispondenza col ministero delle Finanze nelle persone del Cavour e del primo ufficiale Oytana, sono ben illustrate dal materiale che rimase nel suo archivio38.
Pochi mesi dopo, però, il colpo di Stato del principe-presidente Louis Napoléon spingeva, apparentemente, di colpo e con violenza, il pendolo politico d’Europa ancora più a destra.Così, per Cavour, spingersi ad una alleanza con Revel divenne impossibile senza rinunciare completamente alla propria politica. La virata fu rapida e la carta del centro-sinistro – sulla quale premeva l’amico Castelli – giocata. A Revel non restò che battezzare quel gesto con un termine che rimarrà nella Storia: quello di “connubio”39. La sua figura, però, costituì una sorta di spada di Damocle sul gabinetto Cavour, pronta, per qualche anno, ad essere brandita da Vittorio Emanuele II, che non amava milord Camillo e vedeva in Revel l’uomo che sarebbe stato un capo del governo più in sintonia con l’Europa conservatrice e, soprattutto, l’uomo adatto a trovare la via per quell’accordo con la Santa Sede che gli premeva molto.Ma proprio qui Vittorio Emanuele sbagliava: Revel non era uomo da umiliare lo Stato davanti alla Chiesa e quando gli venne prospettata la presidenza del consiglio, in alternativa a Cavour, arretrò non
solo di fronte alla difficoltà di costituirsi una maggioranza nella Camera – ostacolo forse superabile con un atto d’imperio del re – ma anche perché trovò insostenibile lo smantellamento delle leggi Siccardi che Roma chiedeva40.
Alla metà degli anni Cinquanta, tuttavia, lo spauracchio di un governo Revel divenne di colpo assai remoto. Il conte aveva compiuto un errore irrimediabile sul piano della politica internazionale: aveva votato contro l’intervento sardo in Crimea41, divenendo, ipso facto, una personalità politica sgradita a Parigi come a Londra, cioè a quelle potenze che accompagnarono quel cammino che, per una impensabile serie di circostanze, portò da quella lontana penisola del Mar Nero all’unificazione di quella italiana sotto la corona dei Savoia e alle prime elezioni politiche del nuovo regno che avrebbero segnato, insieme, il trionfo di Cavour e la scomparsa della Destra reveliana nella nuova Camera italiana nonché relegato in una sfumata lontananza una parte di quella doppia partita politica giocata dal conte in quei mesi del 1851 così decisivi per la sua ascesa. Un momento sul quale, oggi, una fortunata acquisizione archivistica ci ha indotti a tornare a riflettere.












NOTE
* Le linee generali di questa nota sono state esposte in occasione dell’incontro di studio Per il superiore interesse dello Stato. Camillo Benso di Cavour e Ottavio Thaon di Revel 1851, organizzato dall’Archivio di Stato di Torino e svoltosi l’8 novembre 2016.^
1 Si tratta di 115 lettere originali e in copia, di due fascicoli di borderò e di vari appunti manoscritti. Tra le prime, 5 sono lettere autografe di Cavour (già edite dal Chiala e poi nell’Epistolario cavouriano curato da Carlo Pischedda e al), altre 16 sono soltanto firmate dal conte o dal primo ufficiale del ministero delle Finanze, Giovanni Battista Oytana. Vi sono poi 6 lettere di Emanuele d’Azeglio, 2 missive d’ufficio a lui indirizzate, copie di lettere cavouriane ai banchieri Alexandre Lombard e John B. Heath e lettere d’ufficio di Oytana a Revel, 9 lettere dell’ambasciatore sardo a Parigi, Stefano Gallina, 1 lettera di Michelangelo Castelli e 4 lettere del banchiere Charles J.Hambro a Revel.Questo materiale è stato collocato tra le Carte Cavour, conservate presso la Sezione Corte dell’Archivio di Stato di Torino.^
2 A. Omodeo, L’opera politica del conte di Cavour, Parte I (1848-1857), vol. I, Firenze, La Nuova Italia, 1940, p. 121. Di quest’opera si dispone di un’edizione più recente in un solo volume: A. Omodeo, L’opera politica del Conte di Cavour 1848-1857, prefazione di G. Galasso, postfazione di B. Benvenuto, Milano, Mursia, 2012; il passo citato è a p. 91. Si veda ivi (pp. 133-135) anche il rapido ma acuto profilo che Omodeo traccia del Revel e dei suoi rapporti con Cavour.^
3 R. Romeo, Cavour e il suo tempo, II, (1842-1854), t. II, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 501.^
4 A. Viarengo, Cavour, Roma, Salerno Editrice, 2010, p. 218.^
5 «Revel era troppo devoto alla patria e al Re per ricordarsi dei dissidii personali quando l’opera sua poteva essere utile», ha scritto, ad esempio, D. Zanichelli (Cavour, con prefazione di F. Ruffini, Firenze, G. Barbèra, 1926, p. 218).Ovviamente era questa la versione accreditata dal Revel (cfr. la sua lettera a Michelangelo Castelli del 1° luglio1851 cit. in F. Sanna, Diplomazia e finanza. Una storia poco nota fra Londra Parigi e Torino durante il Risorgimento, in “Bollettino Storico-bibliografico subalpino”, a.CX. 2012, secondo semestre p. 599)^
6 R. Romeo, Cavour e il suo tempo, II, cit., pp. 414-415.^
7 Cfr. E. Di Nolfo, La crisi del partito moderato piemontese dopo Novara (con un carteggio inedito di Ilarione Petitti di Roreto), in Atti del XXXVII Congresso di Storia del Risorgimento italiano (Bari, 26-30 ottobre 1958), Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1961, p. 71 e lettera del Petitti al d’Azeglio del 13 dicembre 1849, ivi, p. 94. Si veda ora anche l’importante saggio di R. Romani, Reluctant Revolutionaries:Modern Liberalism in the Kingdom of Sardinia. 1849-1859, in «The Historical Journal», 55, 2012, I, pp. 45-73.^
8 Lettera ad Antonio Panizzi, cit. ivi, p. 70.^
9 Atti del Parlamento subalpino, Discussioni della Camera dei Deputati, IV Legislatura, Sessione del 1850 (20/12/1849 – 19/11/1850), vol. I, dal 20/12/1850 al 12/03/1850, Torino, Tipografia Eredi Botta, 1863, tornata del 6 marzo 1850, p. 883.^
10 Cfr., ivi, p. 888 (l’intero intervento è alle pp. 885-888, per problemi di vista, Balbo, pur presente, ne affidò la lettura al collega Giovanni Battista Spinola). Sulla posizione del Balbo cfr. G.B. Scaglia, Cesare Balbo. Il Risorgimento nella prospettiva storica del “progresso cristiano”, Roma, Studium, 1975, p. 559.^
11 Sull’evoluzione della Sinistra subalpina negli anni immediatamente postquarantotteschi cfr. le introduzioni a L. Valerio, Carteggio (1825-1865), IV(1849), V, (1850-1855), a cura di A.Viarengo, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 2004, 2014.^
12 Tutt’altro. Non a caso Balbo poté ricordare, ancora nel febbraio 1852, il sostegno che l’area alla quale egli faceva riferimento aveva dato a d’Azeglio, «quel concorso – disse – fu dato e non debole, né pel numero, né pel modo. Io credo – aggiunse – che l’adozione di tutte, o quasi tutte le leggi che furono in seguito proposte, si dovette in gran parte all’appoggio di quei deputati che avevano votato contro [le leggi Siccardi]» (Atti del Parlamento subalpino, Discussioni della Camera dei Deputati, IV Legislatura, Sessione 1851 (23/11/1850 – 27/02/1852), volume VIII, 6° delle Discussioni della Camera dei Deputati dal 19/01/1852 al 8/02/1852, Firenze, Tipografia Eredi Botta, tornata del 7 febbraio 1852, p. 4117.^
13 Ivi, pp. 4117-4118.^
14 C. Cavour, Epistolario, VIII (1851), a cura di C. Pischedda e C. Rivolta, Firenze, Olschki, 1983, p. 21, lettera anteriore al 19 gennaio 1851.^
15 Ivi, p. 41, lettera post-8-ant.11 febbraio 1851.^
16 Ivi, p. 63, lettera del 7 marzo 1851.^
17 M. D’Azeglio, Epistolario (1819-1866), VI (2 gennaio 1850 – 13 settembre 1851), a cura di G. Virlogeux, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2007, p. 272, lettera del 13 aprile 1851.^
18«Nigrapatuage, je ne sais trop comment l’empêcher», scriveva il 7 marzo Cavour a E. De La Rüe, e aggiungeva: «je ne vois d’autre remède qu’une crise ministérielle», C. Cavour, Epistolario, VIII, cit., p. 63.^
19 Ivi, p. 78, allo stesso.^
20 Ivi, p.89, lettera senza data ma attribuita al periodo fra il 9 e il 12 aprile 1851.^
21 Ivi, p. 94.^
22 Cfr. R.Romeo, Cavour e il suo tempo, II/2, cit., p. 775.^
23 C. Cavour, Epistolario, VIII, cit., p. 147.^
24 C. Benso Di Cavour, Discorsi parlamentari, III, 1851, a cura di A. Omodeo, Firenze, La Nuova Italia, 1933, p. 395. Il lunghissimo intervento è riportato alle pp. 394-423.^
25 Ivi, p. 396.^
26 Ivi, p. 414.^
27 Ivi, p. 415.^
28 La durata del suoi intervento sarà quantificata da lui stesso, poco dopo, rispondendo alle osservazioni di un deputato, cfr. ivi, p. 424.^
29 Ivi, p. 423. Pur non volendo «rompredes à présent avec Rothschild», Cavour riteneva che un prestito lanciato in Inghilterra e con un altro banchiere fosse «Le seul moyen de reconquérir notre indépendance» (C. Cavour, Epistolario, VIII, cit., p. 115, lettera a Emanuele d’Azeglio del 25 aprile 1851).^
30 M. D’Azeglio, Epistolario, VIII, cit., p. 285.^
31 Atti del Parlamento subalpino, Discussioni della Camera dei Deputati, IV Legislatura, Sessione 1851 (23/11/1850 – 27/02/1852), Volume V (3° delle Discussioni della Camera dei Deputati) dal 22/03/1851 al 19/05/1850 [recte 05/7/1851], Firenze, Tipografia Eredi Botta, 1866, tornata del 17 giugno 1851, p. 2745 ^
32 Ivi, p. 2713.^
33 Cfr. la lettera a lui diretta dal Cavour sul finire dell’aprile 1851 in C. Cavour, Epistolario, VIII, cit., pp. 128-129.^
34 Come Cavour annunciava all’amico Castelli, «à peine la loi votée Mr de Revel partira pour Londres, muni de pleins pouvoirs. J’ai déjà arrangée −aggiungeva − les choses d’ici de telle sorte qu’il n’aura grand’chose à faire. Toutesfois, j’ai pensé qu’il pouvait être utile à notre crédit de me faire reprèsenter par un homme de financier [sic] prudent et habile comme Revel. D’ailleurs, l’envoi de Revel aura pour effet de rassurer ceux qui craignent que nos finances soient entre les mains d’un socialiste». Nella stessa lettera il conte concordava poi, di fronte alle lamentele di Castelli, che si sentiva osteggiato ed emarginato, in quanto borghese, nell’ambiente dell’ambasciata sarda a Parigi, che quella diplomazia altamente aristocratica (e conservatrice) era certo un male, ma doveva anche prendere atto che «Azeglio […] n’a[vait] guère le goûtdesopérationschirurgicalesque la gravitédu mal rendraitindispensable», e che «malgré cela Azeglio [était] indispensabile. Sa retraite dans ce moment ferait croire que nous tournons à la démagogie. Car – concludeva −, pour moi, on me tient pour un rouge renforcé» (cfr., ivi, p. 199, lettera dell’8 giugno 1851). L’accettazione del Revel venne in quegli stessi giorni annunciata da Cavour con molta soddisfazione anche al De La Rüe (ivi, p. 192, lettera del 6 giugno) e a Emanuele d’Azeglio (ivi, pp. 193-194, lettera del 7 giugno).^
35 Ivi, pp. 168-169.^
36 Ivi, p. 170.^
37 L. Chiala, Une page d’histoire du governement représentative en Piémont, ouvrage enrichi de plusieurs documents inédits, Turin, Imprimerie Héritiers Botta, 1858, pp. 77-78. Naturalmente Chiala non riferiva ingenuamente il fatto, bensì (lui, fresco convertito al sostegno politico del conte) col palese intento di giustificare a destra la svolta cavouriana del “connubio”. Tale intento, però, non rende meno credibile quanto da lui raccontato, visto che tutti i suoi protagonisti erano ancora in vita ed avrebbero potuto facilmente smentirlo.^
38 Un ampio quadro dell’andamento del prestito è offerto da R. Romeo Cavour e il suo tempo, II/2, cit., pp. 498-504.^
39 Cfr. Atti del Parlamento subalpino, Sessione del 1851, vol. VIII, cit., p. 4121, tornata del 7 febbraio 1852^
40 A questo atteggiamento di Revel in occasione della caduta del secondo ministero d’Azeglio accenna Margherita di Collegno nelle sue note del 3 ottobre e del 5 novembre 1852 (cfr. Diario politico di Margherita Provana di Collegno 1852-1856, illustrato con note e documenti inediti a cura di A. Malvezzi, Milano, Hoepli, 1926, pp. 77 e 82). Per quanto concerne l’accordo con Rattazzi rimando a A. Viarengo, Cavour, cit., pp. 221-235.^
41 “Revel votò contro con sommo dolore degli amici suoi, annoterà Margherita di Collegno l’11 febbraio 1855 (Diario politico, cit., p. 236), e un paio di mesi dopo anche Costanza d’Azeglio poteva scrivere al figlio Emanuele: “Revel a faittant demaladressesqu’il s’est suicidé” (C. D’Azeglio, Lettere al figlio (1829-1862), a cura di Daniela Maldini Chiarito, vol. II (15 juin 1849- 14 avril 1862), Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1996, p. 1450, lettera dell’8 aprile 1855).^
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