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Carlo Scognamiglio il Bene comune. Ripensare la politica con Kant e Rousseau
di Andrea Bongiovanni
Il senso di questo testo è stato spiegato dall’autore in occasione di una recente presentazione pubblica: dare un contributo per una rifondazione etica della politica, ovvero sottolineare come alla base della scelta dell’impegno politico ci sia – ci debba essere – innanzitutto un’istanza etica.
Nelle generazioni passate, ultima la generazione dell’autore, la politica come scelta individuale era vissuta come un dovere imprescindibile, come impegno totalizzante in cui riversare tutte le proprie energie e secondo il quale misurare il valore della persona, per cui la dimensione dell’impoliticità, dell’indifferenza alla vita della polis poteva essere considerata al limite indegna dell’essere umano.
A tale modo assorbente e onnipervasivo di vivere la politica ha fatto seguito negli ultimi anni un progressivo disinteresse, un allontanamento costante, al punto da connotare in senso spregiativo la categoria del “politico” in quanto tale. Potremmo osservare che questo fenomeno è andato di pari passo con la crisi delle ideologie e l’inesorabile assottigliarsi dei partiti di massa, ridotti perlopiù a comitati elettorali, da un lato, e con il trionfo dell’antipolitica, dal ventennio berlusconiano in giù fino alle ultimissime vicende di questi giorni dove la retorica e di governo e di opposizione gioca indistintamente sulla contrapposizione ai “politici” come segno di genuinità, dall’altro.
Il richiamo nel titolo ai due grandi pensatori ha la funzione di riportare la politica alla sua radice etica, al suo fondamento originario.
Sia in Rousseau che in Kant è innegabile il legame strettissimo, per non dire indissolubile, tra l’ambito del politico e la sfera etica.
In Rousseau, preso in esame per primo, l’autore evidenzia come sia etica che politica siano collocate sotto una stessa categoria guida, quella dell’autenticità. Per questo aspetto il testo di riferimento non è tanto il Contratto ma La nuova Eloisa, dove la forma romanzo e il punto di vista legato a vicende individuali rendono più evidente il nesso in questione. In particolare, nella seconda parte dell’opera di Rousseau, quella in cui si descrive la vita nella comunità di Clarens, l’intreccio tra etica e vita della polis emerge in tutta chiarezza: “Qui Rousseau – scrive l’autore – ci racconta di un altro possibile rapporto con la verità, interpretata in chiave di autenticità del vivere comune, non riducibile al sincero sentire individuale, enfatizzato nel rapporto di onestà stabilito tra Giulia e suo marito. È il mondo dell’equilibrio e della forza incarnata nelle istituzioni collettive. In senso traslato, Rousseau presenta così una possibilità dell’autenticità guadagnata per mezzo della ragionevolezza”.
Sul piano del bene comune l’elemento che troviamo in entrambi i filosofi è il concetto cardine della politica rousseauiana, quello di volontà generale, che Kant non solo fa proprio, ma di cui a detta dell’autore fornisce l’interpretazione più convincente. Oggetto della volontà generale, e quindi dell’azione del potere sovrano, deve essere ciò che può in linea di principio ricevere l’approvazione di tutti i membri del corpo politico, nessuno escluso. In tale principio è insita una garanzia fondamentale di tutela delle minoranze che ne fa una pietra di paragone imprescindibile nella prassi dei governi democratici. Ne La pace perpetua, principale testo kantiano di riferimento, il filosofo definisce infatti la libertà propria dello Stato repubblicano come la facoltà di obbedire solo alle leggi cui si è potuto dare il proprio consenso, costituendo così un anticorpo formidabile contro la guerra.
Come in Rousseau la categoria che unisce etica e politica è l’autenticità, così l’autore osserva che in Kant il leit-motiv è quello della libertà, categoria sviluppata dal filosofo innanzitutto in ambito morale, e poi posta alla base della dottrina del diritto, come “limitazione della libertà di ognuno alla condizione dell’accordo di questa con la libertà di ogni altro, in quanto ciò sia possibile secondo una legge universale” (qui il testo kantiano in questione è il saggio Sul detto comune).
La portata etica della filosofia del diritto kantiana sta proprio in quel principio di universalità che è condizione di legalità, sia di quella morale che di quella giuridica. Giustamente osserva l’autore che in Kant “il diritto è una struttura trascendentale”, in quanto tale fondato su principi a priori, esattamente come l’etica.
Si potrebbe osservare che sebbene il diritto sia certamente fondato in modo del tutto a priori e quindi a rigore non separabile dall’etica, la politica invece mantiene in Kant un riferimento ineliminabile alla realtà empirica, a quello che ne La pace perpetua il filosofo chiama “il meccanismo della natura”, cioè la naturale tendenza dell’uomo all’amor proprio, alla felicità, di cui il politico deve tener conto e che non deve schiacciare sotto il peso dei puri principi. Il politico deve essere sì secondo Kant “candido come una colomba”, ma nello stesso tempo “prudente come un serpente”. Viene cioè recuperata in politica quella categoria della prudenza che nella Critica della ragion pratica era relegata nel dominio delle massime spurie dell’imperativo ipotetico, proprio perché legate alla felicità, e quindi estranee all’autentico dominio dell’etica.
Kant, a differenza di Rousseau, ha visto sotto i suoi occhi lo svolgersi di quella vicenda epocale che è stata la rivoluzione francese, vicenda che ha seguito con partecipazione e favore. Ma ne ha visto anche le degenerazioni, ossia la politica del Terrore. Per questo nello scritto del 1795 delinea la figura del “moralista dispotizzante”, il governante che non tiene conto della natura umana e procede rigidamente nel mettere in atto i suoi universali principi, ignorando proprio quella prudenza che al buon politico non deve far difetto.
Ma ciò non toglie che il moralista dispotizzante, il giacobino, è pur sempre preferibile al “politico moralizzante” (le espressioni usate da Kant non sono felicissime e di immediata comprensione, come spesso capita), cioè al politico che agisce esclusivamente sulla base del realismo e del suo vantaggio particolare, nel totale disinteresse di alcun principio generale su cui fondare il proprio operato. Vale a dire che alla prudenza “immorale” è in ogni caso da preferire una morale “imprudente”, anche sul piano dell’azione politica.
Non rientra comunque negli scopi dell’autore affrontare nel dettaglio questo aspetto della filosofia politica kantiana. Ciò che gli sta a cuore è evidenziare l’originaria ispirazione etica che informa la filosofia del diritto kantiana e conseguentemente la politica come dottrina applicata del diritto.
Da questo punto di vista non gli si può dare torto. Ciò che comunque costituisce il metro di valutazione dell’agire politico secondo Kant rimane l’aderenza ai principi, in che misura l’uomo di Stato sia stato in grado di mettere in pratica quel principio di universalità che resta il faro della sua ispirazione filosofica, nei diversi ambiti in cui questa si è dispiegata.
Un’ultima riflessione in conclusione. L’autore si sforza di sottolineare l’eticità della vera politica, di chiarire come la decisione di occuparsi della cosa pubblica, e quindi del bene comune, sia prima di tutto una scelta di carattere morale.
Riconoscere il primato dell’etica sulla politica per riscoprire le ragioni dell’impegno.
È curioso considerare come nella stagione ormai lontana dell’impegno totalizzante si sostenesse il contrario, ossia l’onnipervasività della dimensione politica, invasiva fino a permeare di sé ogni aspetto della vita dell’individuo, in cui tutto, anche le scelte più intime e personali, era “politico”.
L’autore sembra indicarci che la strada per una rifondazione passa per la direzione opposta.
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