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Per la storia della tutela del paesaggio in Italia1
di Giuseppe Galasso
La legislazione italiana per il paesaggio ha avuto una lunga gestazione. Già agli inizi del ’900 l’esigenza era vivamente sentita. È interessante, a questo riguardo, citare il volume, un po’ singolare, di N.A. Falcone, Il paesaggio italiano e la sua difesa. Studio giuridico-estetico, Firenze, Alinari, 1914: un volume generalmente ignorato nelle bibliografie sull’argomento, ma molto illuminante sulla coscienza del problema e sulla relativa informazione nell’Italia di allora. Fin dall’introduzione «la soluzione giuridica» vi è chiaramente prospettata come l’«unica, efficace, per non veder più oltre impunemente oltraggiato il carme di bellezza che sul monte o sul piano, nella valle o fra i boschi, nelle marine, nei fiumi o nei laghi, madre Natura fece intonare da mille Sirene a supremo nostro conforto». Lo stile è quel che è, ma il concetto è chiaro e forte. La concezione del paesaggio è eminentemente estetica, ma il fine è nobilmente ispirato alla salvaguardia di un patrimonio irrinunciabile. Gli elementi da tenere presenti come oggetto di tale finalità sono indicati in maniera piuttosto generica, ma compongono un quadro di riferimento indubbiamente valido ai fini dello scopo perseguito.
Più sorprendente riuscirà, forse, che, proprio in vista della salvaguardia che ci si propone, si parli esplicitamente di “limitazioni” del diritto di proprietà. E non basta: la nozione del patrimonio paesistico da salvaguardare va oltre la casistica dei singoli elementi indicati dall’autore. È stata disposta di recente – egli scrive – una norma di tutela delle «ville, dei giardini e dei parchi aventi interesse storico e artistico; e il commento è che questo «è molto, ma non è tutto», perché «c’è il paesaggio che attende ancora la difesa delle sue bellezze». Né, infine, manca, in questo sorprendente caso di sensibilità e, insieme, di cultura del paesaggio e dell’ambiente, una piena percezione delle implicazioni economico-sociali del problema paesistico. L’autore nota, infatti, con precocità ancora una volta sorprendente, che la causa da lui difesa non riguarda solo i valori estetici prospettati come materia irrinunciabile dell’auspicata azione di salvaguardia. Quella causa (si dice) è sostenuta «anche dallo incitamento degli industriali e degli economisti». E perciò si ricorda che, secondo alcune stime, «il paesaggio ha dato prosperità alla Svizzera, dove l’industria degli alberghi» faceva registrare un fatturato ragguardevole, con un reddito, netto di ogni costo o peso, pari al 4,70%: reddito allora di grande considerazione.
La trattazione proseguiva, quindi, con l’illustrazione sia dei precedenti «tentativi di difesa del nostro paesaggio» fino al 1914, sia di una proposta di legge presentata fin dal 14 maggio 1910 dall’onorevole Giovanni Rosadi, al quale si doveva già la legge 364/20 giugno 1909, in materia di antichità e di belle arti. La proposta Rosadi, pur accettata dall’allora ministro della Pubblica Istruzione, Credaro, non giunse all’approvazione del Parlamento e tale, cioè proposta, quindi, rimase. Anch’essa appare, peraltro, degna di particolare apprezzamento. Vi si dichiaravano di «notevole interesse pubblico […] i paesaggi, i parchi, i giardini, le acque, le ville e tutti quei luoghi» non solo se qualificabili come tali «a causa della loro bellezza naturale», ma anche se qualificabili come tali in virtù «della loro particolare relazione con la storia e la letteratura». Natura, cultura e storia venivano così considerate, ai fini della tutela, sullo stesso piano. La dichiarazione di vincolo comportava che nei beni vincolati la tutela era, a sua volta, spinta fino a prevedere che, se i proprietari dei beni sottoposti a vincolo non volevano sottostare alle conseguenti limitazioni di uso dei loro beni, questi beni potessero essere espropriati per pubblica utilità. Era pure previsto che all’esproprio provvedessero sia lo Stato, sia le Province, i Comuni e «gli enti morali legalmente riconosciuti», e sempre entro il termine di «due mesi dalla dichiarazione fatta dal proprietario di non voler sottostare al vincolo impostogli», e salvo che i luoghi in questione non fossero proprietà di Province, Regioni ed enti morali riconosciuti, per i quali lo Stato non aveva l’obbligo dell’esproprio.
Della proposta di legge Rosadi non tutte le formulazioni e le implicazioni erano condivise dal Falcone, ma l’importante, nel ricordare questo poco noto episodio della storia del movimento per la difesa del paesaggio in Italia, è sottolineare la maturità delle concezioni che già ai primi del ’900 circolavano al riguardo: una maturità – si può aggiungere – accresciuta dagli ampi riferimenti e confronti con le esperienze e le normative dei paesi stranieri che nella stessa materia si erano più distinti (Francia, soprattutto, ma anche Austria, Germania, Ungheria, Inghilterra, Norvegia, Svezia, Svizzera, Belgio, America del Nord, Giappone). E non si trattava di un episodio isolato. Appena finita la guerra nel 1918, il paesaggio tornò, infatti, a essere un tema di rilievo nel dibattito politico-culturale. Lo si può facilmente constatare ricordando l’esperienza ministeriale di Benedetto Croce nell’ultimo governo Giolitti (giugno 1920-giugno 1921), o l’originale e pregevole iniziativa del convegno che, sul tema, appunto, del paesaggio, fu tenuto a Capri, per iniziativa di Edwin Cerio, nell’aprile del 1922.
«L’affermazione orgogliosa della bellezza di questa terra»: così Edwin Cerio indicava uno degli scopi che si proponeva Il Convegno del paesaggio, da lui promosso, e del quale l’anno seguente avrebbe pubblicato gli atti. In effetti, la bellezza di Capri fu un motivo portante e dominante di quel convegno, con molte concessioni a una retorica non sempre lieve contro quello che appariva e veniva definito come un odioso tentativo di commercializzare e sfruttare economicamente quella bellezza: si inveiva, fra l’altro, perfino contro «la banca ebraica che in tutto il mondo stava a guatare il cadavere della guerra» del 1914 e che sarebbe stata corresponsabile e promotrice dello scempio economicistico dell’isola. A dispetto di tutto ciò, quel convegno fu importante e rappresentò una tappa non secondaria del lungo cammino che in Italia ha portato a una specifica legislazione per il paesaggio. Per quanto riguarda, poi, il tema particolare della bellezza di Capri, il convegno conserva un interesse ugualmente notevole. Vi si riflettono, infatti, idee e convinzioni correnti non solo e non tanto in una parte notevole della cultura del tempo quanto il modo di vedere di una parte ancor più notevole delle idee e convinzioni proprie della società di quello stesso tempo, specialmente al livello dei ceti borghesi più colti e rispettabili.
Giovanni Porzio (principe, come allora si diceva, del foro napoletano) tenne per l’occasione una Orazione della bellezza di Capri, che merita di essere perciò ricordata. Porzio non definiva, in effetti, in alcun modo la bellezza dell’isola, se non con immagini e suggestioni di poeti e scrittori che avevano parlato di Capri, rapiti dal suo fascino; e lo faceva con un turgido empito retorico, tipico, un tempo, del foro. Basta a darne l’idea l’evocazione delle Sirene, «rivali di Orfeo e delle Muse, consolatrici delle ore ultime, avvelenatrici maliose degli uomini», che «la fantasia umana [aveva] visto nascere qui, limite supremo, tra la realtà e il sogno, ed ove si adunano le magie della luce, le fosforescenze del mare e tutti gli aspetti dell’ombra come per offrirci l’immagine compiuta della bellezza, del mistero, dell’infinito».
Marinetti, da coerente bardo futurista, si mosse sul filo di una retorica per nulla più lieve, ma molto diversa. Sostenne, con una suggestione di certo pertinente al tema “bellezza di Capri”, che “caratteristica” dell’isola erano «la forza della pietra e le mille architetture dinamiche delle rocce». La sua conclusione fu, comunque, un’imprecazione alla «luna passatista», che gli altri trovavano «bellissima, ma che – diceva – non fu capace di soppiantare le bellissime lampade elettriche» del convegno, mentre «noi siamo capaci di fabbricare subito all’istante 20, 100 mila lune più belle di questa».
Poco, per la verità, si ritrova di specifico sulla “bellezza di Capri” anche nei restanti atti di quel, pur memorabile, convegno. Dopo tutto, lo sforzo maggiore lo si può ritrovare nel “messaggio del Comune di Capri al convegno”, scritto certamente da Cerio, allora sindaco. Lo si ritrova in specie nel capoverso dedicato alla “roccia” da proteggere come carattere di fondo del paesaggio caprese. «La struttura geomorfologica dell’isola (vi si diceva, anzi) tutta la nostra regione, ci si presenta come un perenne miracolo della natura naturata e naturante; le anfrattuosità, le caverne montane e le grotte marine, come foggiate da un respiro a lungo represso nei polmoni della terra ansimante per la fatica creativa, serbano le tracce della modellizzazione titanica».
Non è molto. Ma appare molto istruttivo per diffidare sempre delle ricorrenti pretese di definire in formule precise ed essenziali un elemento dinamico e ognora da riscoprire e da ricreare quale è, per sua natura, un valore umano, umanissimo, come è la bellezza. E anche solo per questo vale, dunque, la pena di ricordare il convegno caprese del 1922.
Bisognò, tuttavia, aspettare il 1939 perché le ormai diffuse sensibilità e convinzioni al riguardo trovassero un’alta espressione legislativa. Ci riferiamo, naturalmente, alla legge 1497 del 1939, sulle bellezze paesistiche, che, insieme con la 1089 dello stesso anno, sui beni culturali, segnò una tappa nella legislazione italiana sia nella specifica materia delle due leggi, sia per lo stretto rapporto tra le loro materie, sia per la felicità stilistica e tecnica e per la chiarezza normativa del loro dettato, sia, infine, per le loro profonde implicazioni e per il loro significato nel generale quadro legislativo italiano. Non per nulla a distanza di decennii esse rimangono una solida base della normativa in materia. Già da ciò emerge, inoltre, che entrambe le leggi non furono il frutto di un’improvvisazione estemporanea. In esse si riversò, in effetti, tutto ciò che in varii decennii di studi e di riflessioni e anche in rapporto con la vita politica, si era pensato e sviluppato nella cultura italiana (né solo in quella giuridica) sui problemi dei beni storico-artistici e paesistici.
In seguito, la legge sui beni culturali non ebbe uno sviluppo normativo e regolamentare così ampio come quello della legge sul paesaggio. Quest’ultima è, quindi, finita con l’apparire come un edificio giuridico (e anche giurisprudenziale) più imponente e più rilevante. Si tratta, tuttavia, di un’impressione retrospettiva non del tutto convalidabile a un migliore esame. Nel campo, infatti, della legge sui beni culturali la normativa posteriore ha trovato meno frequenti occasioni di intervento anche in ragione di un elemento di particolare importanza. Ci riferiamo alla continua mutevolezza, cioè, del paesaggio sotto l’azione dell’uomo, che nel breve termine prevale di gran lunga sulle modificazioni naturali spontanee e vi provoca alterazioni di certo ben più rapide e profonde di quanto possa registrarsi in conseguenza di qualsiasi problema analogo nel campo dei beni artistici.
Vero è, peraltro, che col tempo si sono avuti forti mutamenti e sviluppi delle vedute e dei criteri teorici e pratici rispetto al 1939. E, se si dovesse sintetizzarlo, il senso principale di tali mutamenti e sviluppi è certo da ravvisare nella molto maggiore preoccupazione maturata dal 1939 in poi circa il contesto in cui i singoli beni artistici e i singoli elementi del paesaggio sono inseriti. Nel 1939 la singola opera d’arte, il singolo paesaggio erano considerati individualmente ed erano definiti e tutelati come singoli beni di interesse nazionale. In seguito, il monumento è apparso inseparabile da ciò che lo circonda e con cui è da vedere e da considerare in un’unica problematica, e altrettanto è accaduto per i singoli paesaggi rispetto all’articolazione generale del territorio: sviluppi dovuti non tanto a un progresso di pensiero quanto a condizioni e a sensibilità diverse da quelle del 1939.
Proprio l’elemento del contesto fu la base della considerazione che portò nel 1985 alla maggiore innovazione legislativa finora registratasi rispetto alla legge paesistica del 1939: una innovazione di cui vale probabilmente la pena di raccontare la genesi.
Nominato sottosegretario al Ministero (come allora si chiamava) per i Beni Culturali e Ambientali nel governo Craxi, ebbi dal ministro Antonino Gullotti alcune deleghe, tra le quali, preminente, fu quella relativa alla gestione della legge 1497 del 1939. Bastarono pochi mesi di quest’attività di governo per convincermi della difficoltà di adempiere al compito di tutela dei valori paesistici, dopo che, in due o tre decennii di scempi e di uso rovinoso del paesaggio e dell’ambiente, danni enormi erano stati apportati al patrimonio nazionale, all’insegna di un costume onnidiffuso di illegale modificazione, alterazione, distruzione del patrimonio nazionale in vista dell’esercizio di ogni tipo di attività edilizia, economica, di diporto, di lavoro, di uso domestico necessario o superfluo, di pubblico o privato. L’azione di governo era ridotta, in pratica, a inseguire i danni apportati di continuo alle disposizioni di vincolo, ossia alle qualificazioni di interesse pubblico volta per volta stabilite per questo o quel bene paesistico e che altrettanto spesso erano disattese e violate. Si era quindi costretti, poi, a inseguire affannosamente le violazioni e a tentare, con esito in generale insoddisfacente, un recupero difficilissimo a conseguirsi.
Insomma, tra qualificazioni e contestazioni l’attività di governo procedeva senza un criterio regolativo di fondo e senza una visione generale della propria azione; senza un’effettiva capacità di organizzazione e tutela e di valorizzazione nemmeno della parte più pregiata del territorio, sulla quale si interveniva con la legge del 1939; senza uscire mai fuori dei limiti territoriali segnati e imposti dall’ambito a cui l’intervento ministeriale si riferiva con le sue singole pratiche di vincolo o di contestazione; senza capacità, nonché di influenza, anche solo di tempestivo intervento.
Fu la riflessione su questa esperienza a fare scorgere la necessità di adottare tutt’un altro tipo di strategia politico-amministrativa se ci si voleva dare una qualche probabilità di migliore riuscita del compito del Ministero. Mi persuasi, perciò, ben presto, della necessità di superare il piano dell’intervento specifico e definito su singoli punti o zone del territorio nazionale, come la legge vigente voleva; e mi si affacciò l’idea di un vincolo più organico e generale di quello previsto dalla legge 1497, per dare all’azione di governo la prospettiva del contesto territoriale, la cui carenza era ormai chiaramente il principale motivo di insoddisfazione della pur meritoria normativa del 1939, e per procurarsi uno strumento normativo sicuramente migliore per prevenire in maniera globale i fenomeni di violazione e di abuso nel campo paesistico. Giunsi, così, all’idea di una delineazione tipologica, morfologica, per categorie territoriali, che configurasse una sorta di piano paesistico nazionale, i cui elementi definitorii e istitutivi consentissero di inquadrare sia l’uso del territorio, sia l’attività di tutela e di sanzione del Ministero in un disegno unitario del territorio stesso, visto nella sua concreta articolazione orografica, idrografica, litoranea, botanica, zoologica, settoriale (zone umide, vulcaniche etc.), antropica, nonché in relazione con le particolarità storiche più chiare nel quadro paesistico (ad esempio: la centuriazione romana, il percorso dei tratturi dell’antica transumanza abruzzese, insediamenti preistorici etc.).
Nacque da ciò il decreto ministeriale del 21 settembre 1984. Si delineava, appunto, in esso, sia pure molto sommariamente, una sorta di piano paesistico nazionale. Lo strumento del decreto ministeriale appariva ed era piuttosto debole per una normativa così sostanziosa. Si riuscì, tuttavia, a formulare un testo in cui si delineava il quadro dei vincoli sulle categorie di realtà paesistiche e di cose individuate come essenziali e irrinunciabili per la salvaguardia del paesaggio italiano, e, in più, si chiedeva, entro un determinato tempo, una pianificazione paesistica a cura dei competenti poteri territoriali, e cioè delle Regioni. Nelle more di tali adempimenti era previsto che il Ministero stesso vincolasse provvisoriamente determinate zone; le Regioni avrebbero potuto poi confermare o non confermare tali vincoli, che restavano, quindi, in essere fino all’entrata in vigore dei “piani regionali”.
L’eco nella stampa e in tutti gli ambienti sociali, economici, culturali fu imprevedibilmente ampia e mostrò nel paese una consapevolezza rara a trovarsi in eguale misura per altri atti di governo.
Cominciarono subito pure le contestazioni. Negli ambienti della cultura forense e giuridica si rilevarono, in particolare, sia una inappropriatezza dello strumento del decreto ministeriale per una tale normativa, sia un presunto carattere generico dei vincoli imposti dal decreto secondo precise categorie territoriali: ad esempio, il lido del mare e le rive dei laghi e dei fiumi per un certo tratto, montagne e colline in base a certi parametri altimetrici, e così via. Gli enti locali, e in particolare le Regioni, ricorsero subito contro un provvedimento ritenuto lesivo di loro competenze territoriali e puramente amministrativo, e, quindi, incapace, in sostanza, per il suo rango normativo, di passare sopra le loro competenze e di produrre gli effetti voluti. Gli ambienti economici, e in specie quelli più legati alle attività edilizie, parlarono addirittura di una imbalsamazione del territorio prodotta da una normativa vincolistica definita rigidissima e contraria alle aspettative e possibilità di sviluppo economico e sociale.
Erano opposizioni prevedibili. L’abuso e il comportamento illegale nel settore edilizio costituiscono, infatti, un campo di gravitazione di interessi assai disparati. Si va dalle grandi operazioni della maggiore speculazione edilizia al piccolo o piccolissimo abuso di elevazioni o ampliamenti o recinzioni o aperture minime a uso assolutamente familiare. Si va dall’incuria e insensibilità totale di industrie e di aziende del più vario tipo e delle più diverse dimensioni, preoccupate solo delle loro esigenze di impianti, scarichi, complementi etc., all’arbitrio di minori e maggiori livelli della pubblica amministrazione operanti su questo piano, come se la propria qualificazione di struttura pubblica sanasse qualsiasi incongruenza o abuso. Si va da casi di vera e assoluta urgenza di interventi operativi a fini di prevenzione o di riparazione di danni effettivamente incombenti ai casi, ben più numerosi, di interventi effettuati con la miope leggerezza del più male inteso vantaggio personale e immediato, da cui susseguono prima o poi altre, non inevitabili urgenze. Si tratta, insomma, di una catena di comportamenti e di tentazioni che si snoda attraverso tutta la scala sociale e lega in una paradossale complicità i più macroscopici e i più microscopici interessi e determina un autentico, formidabile blocco sociale, spontaneamente aggregato da una deviante solidarietà. E di qui, anche, deriva la forza enorme e temibile delle opposizioni a ogni seria politica e governo dell’ambiente e del territorio.
Alle obiezioni si rispose con vigore, e ciò contribuì a mantenere molto accesa l’attenzione sul problema paesistico, ma, soprattutto, servì a preparare il terreno al passo ulteriore e decisivo della promozione legislativa decisiva da decreto ministeriale a decreto-legge del governo.
Per la redazione di tale nuovo decreto, si trattava di trasformare soprattutto la richiesta del primo decreto di «adozione di adeguati provvedimenti di pianificazione paesistica» in un obbligo della pianificazione paesistica, al quale gli organi competenti (cioè, le Regioni) fossero tenuti per legge ad adempiere entro precisi termini di tempo. Superando ostacoli politici gravissimi grazie anche al vento dell’opinione pubblica, allora molto favorevole alla causa paesistica, il decreto-legge fu, comunque, emanato il 27 giugno 1985, e fu convertito, nei tempi dovuti, nella legge n. 431 dell’8 agosto 1985. La conversione non fu del tutto indolore. Nelle Commissioni parlamentari il decretolegge, come si prevedeva, venne alquanto modificato, e così accadde pure nelle discussioni finali alla Camera dei Deputati e al Senato, ma le linee fondamentali rimasero immutate e riscossero, alla fine, un consenso molto più ampio di quello sperato.
La legge 431/1985 fu subito avvertita come una singolarità nella legislazione italiana, per l’ampiezza con la quale interveniva su una legge, la 1497/1939, che non per ciò disconosceva nei suoi meriti e tanto meno scalzava nella sua persistente efficacia di legge vigente. Soprattutto, però, determinò un riacutizzarsi del contenzioso anche istituzionale, che ebbe davvero termine soltanto quando la Corte Costituzionale non solo riconobbe le norme in essa contenute pienamente valide come «norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica», quali la legge le proclamava, ma dichiarò anche la priorità delle esigenze di difesa e di salvaguardia dei valori paesistico-ambientali rispetto alle stesse esigenze dello sviluppo economico e sociale. E fu in un certo senso una implicazione di questa sua generale singolarità il fatto che la legge (caso unico nella legislazione italiana) venisse indicata non già, secondo l’uso, col nome del ministro competente, bensì col nome del sottosegretario che l’aveva promossa.
Decisiva fu, dunque, la strategia seguita nel partire dal decreto ministeriale per ottenerne l’assunzione da parte del governo in un decreto-legge, poiché, una volta giuntisi a un tale provvedimento legislativo del governo, sarebbe stato assai difficile che la maggioranza parlamentare non lo convalidasse, specie considerando il non piccolo peso della cultura riformatrice, ambientale, paesistica, così viva e attiva anche nei settori dell’opposizione. Ipotesi tutte che, appunto, pur tra non poche resistenze e qualche non felice condizionamento puntualmente si verificarono2.
I punti forti del decreto ministeriale erano, infatti, tre: a) - un organico sistema di vincoli per grandi categorie di beni territoriali, e non più per singoli punti del territorio; b) - l’imposizione dell’obbligo di redigere i piani paesistici a tutti i poteri competenti in materia; c) - il divieto di modificazione dei luoghi per tutto il periodo fissato per la redazione di tali piani, al fine di garantire che la pianificazione trovasse ancora integre le condizioni del territorio almeno quali erano al momento in cui essa iniziava i suoi lavori. Ebbene, questi sono, nella sostanza, anche punti di forza della legge, tranne alcuni ampliamenti, mutamenti e miglioramenti.
Ciò è, del resto, evidente anche nelle non molte successive modificazioni delle norme in materia. Negli atti della Conferenza Nazionale per il Paesaggio, tenutasi nell’ottobre 1999, nel coevo Testo Unico delle norme vigenti nel settore e nell’Atto di indirizzo e coordinamento per la protezione e la gestione del paesaggio italiano, del 2001 (Conferenza, Testo Unico e Atto di indirizzo e coordinamento dovuti al ministro Giovanna Melandri) lo si può agevolmente constatare; e altrettanto si dica del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, del 22 gennaio 2004, dovuto al ministro Giuliano Urbani.
Il ministro Melandri agì soprattutto ai fini di formulare «principii generali che disciplinassero in maniera chiara e coerente l’attività di redazione dei Piani Paesistici da parte delle Regioni», ritenuti ancora mancanti. Per la verità, questi “principii generali” non solo esistevano, ma erano stati formulati fin dall’inizio nel decreto del 1984 e nella legge del 1985. Era giusto, però, notare quanto largamente disattese fossero le prescrizioni sia della legge che delle sue precisazioni ministeriali, quanto incoerenti ed eterogenee e fra loro difformi fossero le regolazioni paesistiche disposte in applicazione della legge e quanto si facessero sentire i conseguenti ritardi e le debolezze dell’attività ministeriale di tutela e di salvaguardia. Ci si può solo chiedere se quel che non era stato ottenuto con la legge, i decreti, le circolari e altre direttive ministeriali sia stato ottenuto con l’Atto del 2001.
Quanto al Codice del 2004, un osservatore autorevole come Salvatore Settis ha notato che in esso, «rispetto alla legge Galasso, l’innovazione più rilevante è che le Soprintendenze perdono il potere di annullare “a valle” le autorizzazioni edilizie concesse dalle amministrazioni locali, e acquistano la possibilità di partecipare, “a monte” alla redazione dei piani paesaggistici». Tuttavia, lo stesso Settis osserva che si tratta di una
buona idea, se non fosse che la collaborazione delle Soprintendenze (cioè degli enti preposti, secondo la Costituzione, alla tutela del paesaggio) viene lasciata alla buona volontà delle Regioni, che col Ministero “possono” (e non “devono”) stipulare “accordi per l’elaborazione d’intesa dei piani paesaggistici”. Anche il parere di merito espresso dalle Soprintendenze, su richiesta di Regioni o enti locali, sui singoli progetti, per quanto reso “entro il termine perentorio di 60 giorni”, non sembra avere valore vincolante, e non è nemmeno richiesto per modificare il colore delle facciate, su cui ormai impereranno i comuni, con conseguenze facilmente prevedibili.

E si sa che, comunque, il Codice del 2004 sollevò una serie di critiche, non tutte infondate, più ampie e radicali delle riserve di ordine tecnico-procedurale, benché certo non si possa dire alterato con esso il quadro dell’azione di tutela.
Tutto ciò non significa che la legge del 1985 non presentasse necessità e problemi sia di miglioramento o di modifica delle sue formulazioni e disposizioni, sia di integrazioni normative, sia di coordinamento formale e sostanziale con altri settori della legislazione e delle normative vigenti, sia di ulteriore sviluppo sostantivo e normativo alla pari di tali altri settori.
Un primo inconveniente, al quale nella genesi della legge del 1985 non conveniva pensare subito, era la mancanza di reale e profondo coordinamento della normativa paesistica con quella urbanistica. La materia urbanistica era un campo istituzionalmente trasferito dalla competenza dello Stato a quella delle regioni, e, come tale, non si prestava a un intervento come fu quello della legge 431, reso possibile dal fatto che la materia paesistica era un campo che lo Stato aveva delegato, non trasferito alle Regioni. E la rottura della continuità normativa fra aree di insediamento urbano e aree del plat pays determinava (e determina) una sfasatura da non sottovalutare per le sorti del paesaggio.
Un secondo inconveniente era nel fatto che delle 21 Regioni italiane 16 sono a statuto ordinario e 5 a statuto speciale; e in queste 5 Regioni (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia), più in Sicilia e meno altrove, il regime di speciale autonomia non consentiva allo Stato neppure l’intervento possibile per la materia paesistica nelle Regioni a statuto ordinario. Solo la qualificazione, come si è visto, della legge del 1985 come legge di riforma economica e sociale della Repubblica poté consentire che per le Regioni a statuto speciale lo Stato adottasse ugualmente atti di indirizzo generale, vincolanti, in quanto indicazioni di principio e di metodo, anche per tali Regioni.
Un terzo inconveniente era che competenze paesistiche di vario ordine e di varia portata erano e sono di altri centri e poteri normativi nell’apparato pubblico, a cominciare dalla struttura del governo centrale: si pensi soltanto al caso del Ministero per l’Ambiente. Da questo punto di vista, non era, invero, importante (a mio avviso) che quelle sparse competenze e poteri fossero riunite in un solo organo istituzionale (ad esempio, un Ministero). Era importante che vi fosse una linea politica e operativa univoca e chiara dell’esecutivo nelle materie in questione e un livello politico sufficiente e soddisfacente di coordinamento, promozione e controllo dell’attuazione di tale linea. E proprio, però, da tale punto di vista le deficienze del sistema politico e amministrativo del paese apparivano (e appaiono) negativamente condizionanti, e ciò senza contare che, passando dalle sedi centrali a quelle periferiche dell’apparato pubblico, queste deficienze si ritrovano ancora accresciute.
In un tale elenco di molteplici e non lievi negatività si potrebbe, comunque, continuare. Può essere, quindi, ancor più importante soffermarsi sulla imputazione maggiore e più frequente mossa nei confronti della legge del 1985. Ci riferiamo alla sua asserita scarsa efficacia pratica, per cui si cominciò a parlare, già quasi immediatamente dopo la sua approvazione, di un suo “fallimento”. Le cose, però, non stanno, in effetti, così, perché la legge ha costituito e costituisce nel suo campo uno dei maggiori strumenti di tutela.
È vero che ne è nato un contenzioso amplissimo e selvaggio, ma il contenzioso è, appunto, una riprova che essa toccava un nervo quasi del tutto scoperto in questo settore, e le sanzioni che ne sono derivate, checché se ne voglia dire, smentiscono l’affermazione della inefficacia della legge.
È vero pure che il contenuto normativo della legge, già non sempre fatto valere con la necessaria energia e costanza dagli uffici competenti, è stato in varie parti o occasioni o fattispecie alterato o addirittura svuotato dalla legislazione successiva. Questo mal costume legislativo, politico e amministrativo non è, tuttavia, e purtroppo!, una menda del solo settore paesistico. Si estende all’intera azione pubblica in Italia. In un numero davvero eccessivo di casi è accaduto, così, che leggi e leggine posteriori contemplassero eccezioni alla normativa della 431/1985. Tutti i pretesti sono stati buoni: l’urgenza di opere di pubblica utilità (o pretese tali), la necessità (o pretesa tale) di favorire attività o impianti per le esigenze dello sviluppo economico e sociale (o preteso tale). Soprattutto, poi, è stato deleterio il sistema del condono: ripetuto, irragionevole, conveniente anche economicamente per l’interesse privato e particolare (certo, non per quello pubblico e generale). E si spiega, quindi, che un’applicazione indolente, una ripetuta eccettuazione normativa e una pratica inconsulta di sanatorie e condoni abbiano fin troppo indebolito le barriere sempre problematiche che la legislazione può erigere contro la spinta particolaristica della miriade di interessi disparati colpiti dalla legge. Tanto più, poi, se nell’abuso o nella violazione della norma vigente la parte dei pubblici poteri riesce non minore di quella dei privati. E ciò senza contare episodi più sintomatici di qualsiasi lungo discorso. In quale altro paese – ci si può chiedere, ad esempio – avrebbe potuto esservi una “marcia” capitanata da pubblici ufficiali, quali sono i sindaci, per ottenere la sanatoria, se non proprio la santificazione, dell’abuso edilizio? In Italia è accaduto, come si sa, per iniziativa dell’indimenticabile sindaco siciliano Monello. E si è pure teorizzato – al momento della emanazione del Codice del 2004 – che sia opportuno distinguere tra grandi e piccoli abusi, con la singolare motivazione che senza tale distinzione si finiscono col colpire, e magari severamente, gli abusi minimi, che sono tali da poter essere notati solo quando si accumulano, e col lasciarsi sfuggire o lasciare impuniti quelli grandi.
Nel campo pubblico la norma più elusa della legge del 1985 è stata, comunque, quella dell’obbligo fatto alle Regioni della pianificazione paesistica. Solo con gravi ritardi, con incompletezze e insufficienze rilevanti, con pretestuosi espedienti surrogativi o elusivi le Regioni sono andate adempiendo, nella maggior parte dei casi, a quest’obbligo di legge. E sì che la legge, per facilitarne il compito, ha previsto esplicitamente che a tale pianificazione si possa attendere anche mediante la redazione di piani urbanistico-territoriali, purché questi contemplino una esplicita considerazione e salvaguardia dei valori paesistici: disposizione intelligente che aveva il pregio di connettere il piano paesistico con quello urbanistico e del contesto territoriale e, insieme, il pregio non minore, di operare la stessa connessione con le esigenze dello sviluppo economico e sociale perseguite o perseguibili attraverso il piano urbanisticoterritoriale. Resta solo da aggiungere che, sempre per una provvida disposizione della legge, il competente Ministero, scaduto il tempo previsto a tale scopo dalla legge, poteva sostituirsi alle amministrazioni regionali inadempienti nella redazione del piano paesistico regionale; e che, tuttavia, solo in qualche sporadico caso ciò è accaduto, e non nella maniera più persuasiva.
Da questa serie di elusioni e di delusioni e dalle ripetute proclamazioni di fallimento o di radicale insufficienza è stata tratta non di rado la conclusione che tanto valeva abrogare o riformulare in tutt’altri (magari opposti!) termini la legge o il suo contenuto sostanziale, recepito nel codice del 2004. Che sarebbe come se, constatandosi che il codice penale non impedisce che vi siano continuamente furti e assassinii, si proponesse che tanto valga sopprimere o riformulare in tutt’altri termini (magari opposti!) il codice penale.
In realtà, quel che si può dire è che nella scia della legge del 1985 c’è ancora molto cammino da fare, e che però non è apparsa ancora una concreta volontà di riprendere la materia e svilupparla, anche facendo tesoro, ovviamente, dell’esperienza fatta nell’applicazione della normativa vigente e, soprattutto, considerando i mutamenti intervenuti nel frattempo nella realtà delle cose che sono oggetto della legge.
Attualmente i tempi del governo non volgono favorevoli alla spesa pubblica. Per un ministero come quello per i Beni e le Attività culturali (tale è oggi il suo nome) è una prospettiva ancora meno lieta che per altri ministeri. Il bilancio dei Beni culturali ha rappresentato, fin dall’inizio, la cenerentola di quello dello Stato. Vero è pure che l’esiguità della spesa non assicura né il buon uso di quanto si ha a disposizione, né la capacità di spenderlo nei tempi dovuti. E tale è stata pure l’esperienza nel settore dei Beni culturali, e apre a sua volta un altro capitolo nella lunga storia dei fasti dell’amministrazione italiana. Anche questo si aggiunge, dunque, alla preoccupazione per l’entità delle risorse disponibili nel settore.
Quanto poi tutto ciò vada d’accordo con le ripetute e solenni proclamazioni per cui i Beni Culturali rappresentano il patrimonio più prezioso sia in sé che per l’identità nazionale, nonché uno dei settori più promettenti come fonte di reddito e di occupazione, è cosa che esula dalla facoltà di capire dei comuni mortali.
Errore gravissimo sarebbe, tuttavia, il credere che l’attività del ministero debba essere troppo condizionata da questi certamente spiacevoli e negativi dati di fatto. Già in tale attività rientra una potestà normativa che nel campo del paesaggio e di quelle che una volta venivano considerate “bellezze naturali” è particolarmente rilevante. Vi è, inoltre, un’attività di ordinaria amministrazione non meno rilevante, data la natura dei beni amministrati. E tutto ciò vale nonostante le riforme degli ultimi anni.
La materia non manca. Nell’ultima sistemazione codificata del 2004 – lo abbiamo già accennato – le questioni rimaste aperte o regolate in modo insoddisfacente non sono poche. Ci si aspetta, quindi, che su di esse si torni, sulla base delle esperienze passate e attuali in modo conforme a una garanzia di maggiore e migliore tutela del patrimonio nazionale. C’è poi tutta la questione della pianificazione paesistica che a molti appare ormai come una dispersa o profuga della guerra per una tutela preventiva, elastica quanto si voglia, ma davvero efficace. Non a caso, questo tipo di pianificazione, sancito come obbligo delle Regioni, che rappresentava – vale la pena di ripeterlo questo tipo di pianificazione, sancito come obbligo delle Regioni, rappresentò una delle migliori innovazioni della legge del 1985 – una delle migliori innovazioni della legge 431 del 1985, fu anche tra quelle che di essa furono più combattute. Quale ne è lo stato attuale? Da parte del ministero le cose si trovano nelle condizioni per cui si possa richiedere, in qualcuna delle Regioni, l’esercizio, previsto dalla legge, dei suoi poteri sostitutivi?
Abbiamo indicato qualche caso di problematicità immediatamente visibile, a titolo, si intende, puramente esemplificativo. Siamo anche convinti che siano casi pertinenti e importanti (e saremmo davvero lieti di apprendere che non lo sono). Anche per questo riteniamo che sarebbe una buona cosa se si riprendesse l’idea di una conferenza nazionale del paesaggio, di cui prese l’iniziativa, come si è detto, l’allora ministro Melandri nel 1999. Era la prima nel suo genere, e fu una conferenza che, forse troppo sovradimensionata, ma preceduta da un ampio lavoro di preparazione, diede luogo a dibattiti e conclusioni sicuramente interessanti.
Una conferenza annuale del paesaggio farebbe scadere l’iniziativa a una routine noiosa e inefficace. Una sua congrua periodicità potrebbe farne, invece, uno strumento non secondario del governo del settore. Da quella prima sono ora passati già sette anni. Una seconda – magari con finalità più chiaramente ricognitive e operativi e con una struttura migliorata sull’esperienza della prima – potrebbe, quindi, riuscire più utile e conveniente. Ed è certo, comunque, che, a parte lo strumento della conferenza, l’attività normativa e potestativa del ministero ha bisogno di un momento definitivo e consistente, efficace e visibile di rilancio. Né si dica che in Italia si pensa subito a questo tipo di attività. Si legifera troppo, è vero, ma si porta a norma ben poco, mentre le cose non restano affatto come erano, e ciò costringe, volenti o nolenti, a ripetere l’azione normativa.





NOTE
1 Si dà qui, ampliato, il testo della lectio magistralis tenuta dall’autore a Bologna il 21 settembre 2006, nell’ambito del convegno su Storia e ambiente, organizzato dal Consorzio Università-Città di Bologna. Una versione ancora più ampia dello stesso testo è apparsa in “L’Italia: paesaggio e territorio” (Catalogo dell’omonima mostra tenuta nel giugno-settembre 2006 per il ciclo Le radici della nazione, promosso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e realizzato dalla società Comunicare Organizzando), a cura di S. Cassese, Roma, ed. Gangemi, 2006, pp. 9-18. La versione più ampia costituisce anche l’introduzione al volume (G. Galasso, Un lavoro di Sisifo. La tutela del paesaggio in Italia. 1984-2005, Editoriale Scientifica, Napoli 2006), in cui l’autore ha raccolto i suoi scritti sul tema del paesaggio e che segue la parallela raccolta dei suoi scritti sui problemi dei beni culturali, nel volume Beni e mali culturali, già apparso presso la stessa casa editrice nel 1996.^
2 Ciò basta a dimostrare la completa inattendibilità di qualche ricostruzione (si veda, ad esempio, F. Erbani, Uno strano italiano. Antonio Iannello e la storia dell’ambiente, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 104-108), secondo cui l’idea di una legge sarebbe nata, contro ogni elementare evidenza politico-istituzionale, in ambienti parlamentari dopo l’emanazione del decreto-legge da parte del governo, o sarebbe nata da pressioni e spinte esterne al Ministero (come sarebbe stata quella di uno straordinario benemerito della causa ambientale, e legato da antica e grande amicizia a chi ora scrive qui, quale fu Antonio Iannello). Il decreto ministeriale del settembre 1984 fu, invece, una sorpresa anche per gli ambienti politici e culturali e per le persone più vicine al Ministero e al sottosegretario (anche per i suoi amici più stretti). Pressappoco lo stesso accadde poi col decreto-legge del giugno successivo, maturato, così come la sua conversione in legge, attraverso i contatti, i rapporti e i passi politici del sottosegretario con i responsabili del governo, della maggioranza e dell’opposizione di quel tempo. Si veda anche quanto diciamo nel più ampio testo pubblicato in L’Italia: paesaggio e territorio, cit.^
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