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Referendum, tessuto politico e tipologie sociali
di Giuseppe Galasso
1. La votazione del 4 dicembre ha poi posto in massima evidenza quel problema del tessuto politico italiano sul quale ci siamo già altre volte soffermati. È stato chiaro che in quella votazione hanno avuto una debole influenza le forze politiche organizzate di tipo tradizionale, anche quelle che propugnavano il “no” e che si sono considerate vincitrici. La persuasione elettorale è apparsa, infatti, determinata nella più gran parte del corpo elettorale soprattutto – oltre che dal battage dei media sia giornalistici che audiovisivi e dalla spinta dei gruppi politici più invertebrati o che tali sono sembrati – da un bisogno di espressione di umori ben più che di idee e di riflessioni, e da simili altri elementi lontani da riferimenti a strutture politiche consolidate o che tali appaiano o vogliano apparire.
Ciò fa capire ancora di più che, quando parliamo di crisi dei partiti nell’Italia degli ultimi anni, non parliamo di quelle crisi nel rapporto tra partiti e società tante volte deplorate nella letteratura e nella pubblicistica politica di sempre, e ricorrenti nella cosiddetta prima Repubblica così come nell’Italia liberale prefascista, nonché in molti altri paesi, europei e non.
Nella crisi attuale dei partiti si tratta di una crisi del tessuto politico ben più profonda e generale, nonché di nuovo tipo. Vi hanno parte, infatti, una crisi dei valori politico-sociali; una progressiva trasformazione dei mezzi e del linguaggio della comunicazione sociale; un bisogno di nuove forme di aggregazione e socializzazione politica rispetto all’organizzazione territoriale e verticale dei partiti tradizionali. Si aggiunga il bisogno di un nuovo tipo di partecipazione, non assidua e militante, né estesa a tutti i problemi di cui si parla, né volta a socializzare al di là del momento in cui si esprime, né molto sensibile agli appelli e a discorsi politici serrati e rigorosi. Questa partecipazione di nuovo tipo sembra postulare un impegno occasionale e saltuario non tanto su temi e problemi di fondo quanto sui temi e i problemi che sul momento hanno una maggiore eco e sollecitano una maggiore reattività. Sembra preferire aggregazioni imprevedibili, volta per volta, su un tema o un problema, per passare, senza nessuna preoccupazione di continuità o di coerenza, a un’aggregazione successiva. Postula, quindi, una presenza politica intermittente, ma sempre radicale, volta a un si o un no rotondi, semplificati al massimo.
La fortuna dei 5 Stelle è largamente legata a questo quadro di fondo per il carattere alquanto invertebrato e non obbligante della loro militanza, che ha compensato il difetto della loro strategia comunicativa e aggregante dovuto a una fiducia persistente e davvero eccessiva nel computer e nella rete. Sembra pure, però, che su questa via si stiano cominciando a meglio orientarsi, ponendosi il problema del rapporto tra azione politica e territorio.
Come si fa a ricostituire, su questo sfondo generale, un tessuto politico più organico e funzionale alle esigenze di una vita pubblica del nostro tempo e di alto livello? Che cosa è da raccogliere e proseguire dei moduli tradizionali? In che modo si debbono e si possono accettare e in quale misura le novità emergenti, e in quale altra misura le si deve combattere o trasformare? Come si fa a rilanciare e reimporre il discorso e l’aggregazione più schiettamente politica in queste nuove condizioni? Quale è, in tali condizioni, l’interferenza tra il discorso politico e quello sociale? E, più a fondo, può esservi un discorso politico che non implichi grandi ideali e sensibilità etico-politiche? E che c’è da restaurare saggiamente o da innovare anche audacemente sul piano di tali ideali e sentimenti?
Sono problemi che si impongono a tutti, 5 Stelle compresi, ma soprattutto agli sconfitti del 4 dicembre, ossia, in pratica, al partito democratico e a Renzi. E non sono problemi che si risolvano semplicemente con l’adozione di una legge elettorale, né è un problema solo di Renzi, ossia solo di una persona. È (lo ripetiamo) un problema di tutti, anche dei gruppi politici oggi sulla cresta dell’onda. È innanzitutto un problema di sollecitazioni e mobilitazioni che non obbediscano solo alle pulsioni e alle passioni del momento, ma si muovano nel segno di grandi slanci di idee e di pensieri, di ideali e di valori, componenti indispensabili a una grande azione politica. Fino a qualche decennio fa agivano in tal senso le idee di liberalismo e democrazia, socialismo e comunismo, popolarismo e democrazia cristiana, nazionalismo e altri –ismi. Poi,le idee sono finite con l’apparire, per un complesso processo storico, ideologie gravose e repulsive. Abbiamo celebrato la morte delle ideologie, ma con esse si sono dissolte anche le idee, e questo è il maggiore fallimento storico delle ultime due o tre generazioni.
Anche la discussione referendaria ha trattato i suoi punti (bicameralismo, rapporti Stato-Regioni, snellimento e costi della pubblica amministrazione) come problemi puramente tecnici, punti di diritto costituzionale considerati come inderogabili tecnicalità, occasioni di risparmio e di semplicità nella vita pubblica, senza mai diventare oggetto di un dibattito ideale su un tipo di Stato e di convivenza civile. E come si poteva fronteggiare, così, l’ondata di umori e di bisogni intanto maturata, come abbiamo detto, nel paese? Anche i vincitori dovrebbero porsi il problema di capire quanto la loro vittoria sia scaturita dai fatti, dalla condizioni della realtà italiana anziché dalla loro azione. E questo perché. Alla fine, una comunicazione efficace o una congiuntura favorevole e fortunata possono vincere ogni ostacolo, ma non la deficienza o carenza di slanci e ideali, che diano alla politica il suo indispensabile respiro etico e ideale. I tanti mutamenti di fortuna nell’Italia degli ultimi venti anni lo dimostrano abbondantemente; e, se alla vigilia del 4 dicembre potevamo tutti sottovalutare o non vedere queste cose, all’indomani di quella votazione i fatti dovrebbero farci aprire gli occhi e la mente.


2. La domenica di votazione avrebbe dovuto incitare a una pausa di riflessione più meditata sugli elementi di fondo della vicenda politica che stiamo vivendo. A me è accaduto. Mi è accaduto, infatti, di ricordare come più di una volta abbia avuto occasione di notare che nell’ultimo ventennio o trentennio non si è disgregato soltanto il tessuto politico sul quale il regime repubblicano si era retto fino agli anni ’90, bensì anche il tessuto sociale soggiacente a quel tessuto politico. Ho anche, perciò, notato che per delineare una qualsiasi politica occorreva avere anche qualche idea chiara sugli interessi e le forze sociali che in vista di una tale politica fosse possibile aggregare, senza, però, ricadere in nessun modo nelle rigidezze e nel determinismo dei facili criteri classisti.
La sociologia politica della seconda metà del Novecento non ci dà da questi punto di vista molti soccorsi di idee o di metodo.Una volta era facile: agrari e contadini; coltivatori diretti e proprietà parassitaria; capitalista e proletario; padronato e classe operaia; borghesia di un certo tipo o di un altro; classi popolari e classi borghesi, e così via in una serie variamente coniugabile.
Quelle tipologie sociali sono state frantumate e riaccorpate, innovate, soppresse o in mille altri modi modificate e superate dagli svolgimenti impetuosi della cosiddetta società post-industriale (qualcuno dice addirittura, e malissimo, post-moderna). La cultura e l’azione politica risentono molto, evidentemente, di questa carenza, ma la scorciatoia mediatica, che consente di disporre di una fonte molto produttiva di protagonismo e di consenso, non ne fa avvertire il peso negativo; anzi, non fa neppure avvertire il problema. Sappiamo bene, certo, che questa stessa scorciatoia mediatica non è soltanto un improvvisato compenso al carente approfondimento sociale dei problemi politici. Si sa che quella scorciatoia ha le sue forti ragioni, legate alle grandi trasformazioni dei nostri tempi. Si può aggiungere che essa è stata e resta pur sempre un salutare rimedio alle politiche ideologiche e alle sempre dannose ideologie classiste.Detto ciò, il problema, tuttavia, rimane; e non si creda che sia senza peso nella vita pubblica.
Ai suoi tempi Luigi Einaudi, in una pagina memorabile, deprecava “la moltitudine odierna delle leggi, il moltiplicarsi quotidiano di migliaia di leggi, decreti, regolamenti, ordini”, per cui “la parola legge non ha più alcun senso” e “la legge è diventata un arbitrio”, ed “essa non è più una norma generale applicabile in modo duraturo a tutti, ma una regola arbitraria, creata volta per volta a regolare il caso singolo: la legge non è più ordine, certezza di vita,ma disordine, fomento di incertezza”.
Einaudi lo diceva in polemica con i parlamenti ridotti a tavoli di compensazione delle pretese e degli interessi di partiti, gruppi di pressione, capi e sottocapi. Era, quindi una polemica contro il parlamentarismo, ossia contro la degenerazione personalistica e corporativistica delle istituzioni parlamentari. Perciò egli aggiungeva pure che “la virtù dei parlamenti non consiste nel legiferare ma nel discutere”, e che perciò non la si misura “dal numero delle leggi approvate”, bensì dal numero di quelle non approvate perché vanificate dalla discussione parlamentare.
Alla critica di Einaudi noi possiamo oggi riferirci, anche rafforzandola, in riferimento alla cultura e alle idee politiche oggi totalmente insoddisfacenti sul piano del contesto ideale e sociale in cui l’azione politica si muove. Siamo passati senza quasi accorgercene da un eccesso fuorviante e dannosissimo di ideologismo sociale a un vuoto di idee sociali sulle quali fondare la politica. È già manna dal cielo quando si dice, ad esempio, che si vuole operare pro o contro “le partite IVA” o si dà qualche altra specifica di forze e gruppi o parti sociali oggetto o fine dell’azione politica.
Anche per questa ragione mi ha colpito una pagina di Gianni Giannotti sul Mezzogiorno (Sociologia e sviluppo del Mezzogiorno, a cura di Franco Merico e di Luca Carbone, Besa Editrice, Nardò,. È una pagina dedicata allo sfruttamenti parassitario delle risorse pubbliche, in cui Giannotti discute con libertà di idee e di modi “le opportunità di sfruttamento delle risorse pubbliche a vantaggio di gruppi predatorii” che sono offerte “dal mantenimento del sistema di servizi del welfare”. Giannotti si diffonde a questo riguardo sull’importanza di questo campo anche nel reclutamento e nelle fortune di una parte non trascurabile della classe politica; e sull’ampia misura in cui vi sono coinvolte le stesse organizzazioni del non-profit e del volontariato.
L’interesse delle sue osservazioni va, però, oltre questa specifica critica a un settore sociale di rilievo. Sta nel presupposto di queste osservazioni, e cioè che l’arretratezza del Mezzogiorno ha radici lontane, fra le quali vi sono quelle che affondano nel controllo del potere locale e della sua gestione in un quadro sociale in cui le differenze di ceto e di classe sono, perciò, potenziate e rese più insidiose dagli effetti di quel controllo.
Qualcosa, insomma, di più profonda e storica radice di quanto non sembri ai periodici scopritori della questione meridionale, come quelli di recente fortuna, che hanno “scoperto” come il problema del Mezzogiorno sia dovuto alle sue classi dirigenti.Di radici tanto lontane che ne hanno parlato già i nostri riformatori del Settecento e, dopo il 1860, alcuni dei maggiori meridionalisti, da Franchetti e Sonnino a Salvemini.
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