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Una ragione sistemica del SI
di Maurizio Griffo
La campagna per il referendum costituzionale del prossimo dicembre si sta svolgendo su almeno due piani diversi, spesso non comunicanti fra loro. Da un lato abbiamo il confronto fra i partiti e le formazioni politiche che anziché svolgersi in un, magari serrato e polemico, apprezzamento dei pregi e dei difetti della riforma si è trasformato, in modo del tutto improprio, in una sorta di giudizio di Dio sull’attuale presidente del consiglio. Un confronto che contribuisce non poco a demotivare il cittadino medio. Dall’altro lato sta quella che possiamo definire la campagna dei giuristi che discutono tra di loro senza risparmio di tecnicismi, ma in modo poco attraente per l’elettore comune. Come ciliegina finale sulla torta non manca nemmeno un ricorso al Tar, promosso da un illustre costituzionalista, teso ad invalidare il referendum per una presunta non omogeneità dei quesiti.
Dato questo clima generale, può essere opportuno cercare di spostare la discussione su di un altro piano, provando a richiamare l’attenzione su di un aspetto sistemico, relativo cioè al funzionamento del sistema politico, che viene investito dalla riforma ma viene in genere trascurato dai commentatori.
In Italia, nella prima fase della vita repubblicana l’obbligazione politica era assicurata dai partiti. In questo lungo periodo, la sostanziale stabilità del quadro politico, l’elevata vischiosità elettorale, l’inamovibilità del principale partito di governo non rendevano evidente l’anomalia del bicameralismo paritario, cioè il fatto che il governo dovesse avere una doppia e distinta fiducia da ciascuna delle due camere. Certo i governi erano di breve durata ma le crisi avevano sempre origini non parlamentari e, soprattutto, venivano gestite in modo consensuale dalla segreterie dei partiti che erano parte della maggioranza. Con la fine di quella che convenzionalmente viene chiamata “prima repubblica” queste condizioni sistemiche vengono meno. A partire da quel momento i partiti controllano meno l’obbligazione politica. I cambi di casacca di parlamentari che fino ad allora erano attestati alla modifica cifra del 4%, diventano molto più frequenti salendo al 20% degli eletti. Contemporaneamente le elezioni non sempre assicurano una maggioranza di governo in entrambe le camere. Questo non avviene in tre elezioni su sei: nel 1994, nel 2006, nel 2013. Inoltre, anche quando esiste una maggioranza chiara, la mancanza di un potere di dissuasione nelle mani del primo ministro ne rende difficile la gestione. È quello che è accaduto nella sedicesima legislatura quando il centro destra, uscito nettamente vincitore dalle urne, vede man mano eroso il proprio consenso in parlamento. Tant’è vero che, nel dicembre 2010 ottiene la fiducia solo grazie ai voti di due transfughi di Italia dei valori, la non rimpianta formazione di Antonio Di Pietro. Questa dinamica che possiamo definire, avulatativamente, trasformistica si è ulteriormente accentuata dopo le elezioni del 2013 (i passaggi di casacca sono oramai al 24%).
C’è da ritenere che una simile centrifugazione della rappresentanza sarà una caratteristica non facilmente arginabile, ma con cui dovremo convivere anche in futuro. Con un quadro politico magmatico, in cui i partiti sono deboli e le affiliazioni volatili,pensare che un governo possa svolgere in modo continuo ed efficace la sua attività essendo obbligato a raccattare la fiducia da due assemblee diverse, elette con sistemi differenti, è del tutto illusorio.
La riforma costituzionale, com’è noto, restringe la fiducia alla sola camera bassa, dando ossigeno prezioso a quella stabilità di cui il paese ha estremo bisogno. In sostanza, il superamento del bicameralismo paritario, di cui molto si parla, non riguarda tanto lo snellimento del processo legislativo, quanto la funzionalità complessiva del sistema. Poste tali condizioni, appoggiare la riforma costituzionale significa dare un contributo utile alla governabilità del paese.
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