Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVII - n. 5 > Opinioni e Discussioni > Pag. 487
 
 
I liberali (laici e cattolici) coi liberali, i bergogliani coi bergogliani. Commento ad un editoriale di Francesco D'Agostino
di Dino Cofrancesco
Considero Francesco D’Agostino, un filosofo del diritto che si muove tra Tommaso d’Aquino e Immanuel Kant, l’allievo più geniale del compianto Sergio Cotta, un pensatore cattolico tra i maggiori del nostro tempo. Le sue prese di posizione in quel campo delicato che è la bioetica fanno sempre riflettere anche quando non le si condivida. In ogni caso, rappresentano un utile controcanto a quel superficiale neo-illuminismo che ritiene lecito quanto tecnicamente è possibile e diritto insindacabile quanto è oggetto di desiderio. Nell’editoriale pubblicato su ‘Avvenire’ il 7 agosto 2016, Occidente, cura te stesso1, D’Agostino, nella difesa generosa – e, va riconosciuto, impopolare – di Papa Bergoglio si avventura però in un campo, la storia moderna e contemporanea, con armi troppo leggere e inadeguate rispetto ai grandi temi sui quali richiama l’attenzione. L’espressione, peraltro assai discutibile, di Francesco I «non ci troviamo davanti a una guerra di religione» – parole che hanno suscitato il sarcasmo impietoso di Vittorio Feltri «e che cos’è, allora? La guerra dei bottoni» – diventa l’occasione per un contrattacco all’Occidente, che avrebbe fatto trasalire un cattolico liberale come Carlo Arturo Jemolo. In sostanza, sostiene D’Agostino, i fondamentalisti islamici non ce l’hanno con noi perché siamo cristiani (magari, ad avercela, è solo quell’infima minoranza che sputa sul crocifisso e vomita, per dileggio, l’ostia) ma perché siamo dei degenerati, sotto il profilo etico. Sia consentita una non breve citazione: «l’immagine che l’Occidente continua ad offrire al “resto del mondo” è inquinata da pregiudizi, ipocrisie, violenze tanto più odiose quanto più subdole. Non basta il canto corale della Marsigliese a ristabilire la dignità dell’Occidente, per chi non vuole ignorare che quel canto ha preceduto di pochissimi mesi il dilagare del Terrore giacobino. È insensato che l’Occidente insista nel difendere volgarità, maldicenze, pornografia, pornolalia, blasfemia, bestemmie, invocando la libertà di pensiero, come se non si sappia che in tal modo si umiliano le profonde ragioni della libertà. È ridicolo che l’Occidente reiteri formule vuote e pompose sulla difesa dell’ambiente, quando è il suo stesso modello di sviluppo industriale a minacciarlo. E non basta richiamare a ogni piè sospinto il nobile elenco dei diritti umani, e primi tra tutti quello dei diritti delle donne e dei bambini, per chi sa che mai come nel nostro tempo il corpo delle donne - e in particolare delle madri- e il corpo dei bambini sono diventati oggetto di accorte e sottili trattative contrattuali, alle quali schiere di giudici riconoscono incredibilmente validità giuridica».
Dico subito che condivido l’amara ironia sui ‘diritti umani’ e sulla trahison des clercs – giuristi, filosofi, sociologi – che, ad es., legittimano la pratica dell’utero in affitto e della fecondazione eterologa senza preoccuparsi minimamente dei diritti della donna, che, spesso per necessità, ha messo il suo corpo a disposizione di quanti «possono pagare». Tempo addietro, mi sono chiesto come possano militare in uno stesso partito cattolici con un senso alto e tradizionale della famiglia e laicisti, come Monica Cirinnà, che non vedono differenza alcuna tra la coppia gay e quella (pretesa) normale e che alla prima vorrebbero riconoscere tutti i diritti della seconda: l’accantonamento di una contrapposizione filosofica così rilevante potrebbe essere giustificato solo dinanzi a un terribile comune nemico – Hitler o Stalin o Pol Pot o Mao – ma, nell’Italia di oggi, cosa potrebbe giustificarlo, il ‘pericolo fascista’ rappresentato da Berlusconi e dai suoi eredi?
Fatta questa necessaria premessa, tuttavia, non vedo che senso abbia rievocare «pregiudizi, ipocrisie, violenze tanto più odiose quanto più subdole» che brutterebbero, pressoché indelebilmente, la nostra società occidentale, non da oggi attaccata da ogni parte ma oggi persino con la benedizione della suprema autorità religiosa cattolica. Esistono popoli, che hanno lasciato un segno nella storia, immuni da «pregiudizi, ipocrisie, violenze tanto più odiose quanto più subdole»? Lo furono forse gli Spagnoli quando recarono la ‘buona novella’ agli indios dell’America, in seguito ‘latina’? Lo furono i sovrani europei che, sull’ondata delle guerre di religione, consolidarono troni e dinastie? Sui massacri compiuti dall’uomo nella sua esistenza millenaria scrisse parole memorabili il grande de Maistre (la storia come immenso ‘mattatoio’) ma proprio perché, in virtù del peccato originale – del ‘legno storto dell’umanità’ nella sua laica trascrizione kantiana –, nessun regime, nessun governo, nessuna istituzione politica ha le mani nette, il criterio prudente ed empirico per giudicarle dev’essere ispirato non all’etica della convinzione ma a quella della responsabilità: siamo tutti colpevoli e meritevoli delle fiamme infernali o di soggiorni più o meno prolungati in Purgatorio, ma, in qualche caso, la violenza ha prodotto la Magna Carta, lo ‘stato di diritto’, la divisione dei poteri mentre in altri ha contribuito a corrompere ancora di più la nostra natura lapsa. Il che non significa che la violenza non sia da limitare e da tenere sotto controllo ma solo essere consapevoli che il discorso vale sicuramente per il presente non per il passato che non va né assolto né condannato ma solo compreso. (Quanto cristianesimo ‘sostanziale’ in quest’idea di Benedetto Croce!)
D’Agostino ricorda subdolamente che la Marsigliese «ha preceduto di pochissimi mesi il dilagare del Terrore giacobino» ma si guarda bene dallo storicizzare, dal riconoscere che quel canto, pur così violento in certe parti (la III Repubblica dovette cancellarne la strofa dei bambini desiderosi di morire per la patria!), è lo stesso che, nel memorabile film di Michael Curtiz, Casablanca (1942), unisce, nel locale di Rick Blaine, i perseguitati politici di ogni paese europeo, suscitando le ire del comandante delle truppe naziste di occupazione. E, soprattutto, si guarda bene dal citare i grandi liberali cattolici europei che, come Tocqueville nell’Antico Regime e la Rivoluzione, videro nell’89 il «tempo di giovanile entusiasmo, di fierezza, di passioni generose e sincere», «tempo d’imperitura memoria al quale si volgerà lo sguardo degli uomini con ammirazione e rispetto». Anche gli Inglesi, in fondo, tagliarono la testa a Carlo I: se l’avessero fatto pure i tedeschi con uno Hohenzollern, sospirava Max Weber, la storia della Germania sarebbe stata diversa.
Ma lasciando stare la storia che, con le sue luci e le sue ombre, non sembra essere il terreno privilegiato del teorazionalista D’Agostino, è lecito sostenere, venendo in soccorso del Papa, che il terrorismo «non è mosso da uno specifico odio anticristiano, ma dal disgusto nei confronti dell’Occidente» ignorando bellamente che quel disgusto non nasce (solo) dalle nostre «pornografia, pornolalia, blasfemia, bestemmie» ma anche (e soprattutto) dall’emancipazione della donna dal potere maschile, dalla libertà di seguire le proprie inclinazioni sessuali, di indossare la minigonna, di rifiutare burqa e chador, di scegliere il proprio sposo liberamente e di non vederselo imposto dal padre padrone, di rivendicare, nella gestione della comunità familiare, eguali diritti? E ancora più a monte, nei fondamentalisti islamici più alfabetizzati, non c’è la paura di aprire le Università a Montaigne, a Hume, a Kant (così caro a D’Agostino), insomma a un sapere ‘dissolvente’, a una Kultur avvertita come diabolica da chi vorrebbe preservare le sue virtuose ‘tribù’ dalla contaminazione occidentale?
In realtà, ‘Occidente’ è una Group Mind Fiction: non esiste l’Occidente giacché la parola è un contenitore che assembra una serie sterminata di eventi, di istituzioni, di fatti culturali, di lingue, di letterature, di religioni, di manifestazioni artistiche. Nel bene e nel male, tutto quel ‘materiale storico’ ci ha reso quel che siamo e, pur non potendo pensare che i momenti che ci piacciono sarebbero venuti alla luce anche senza gli altri – quelli che non ci piacciono –,ci sentiamo liberi di riconoscerci e di essere fieri dei primi – ad es. di Pascal e non di Torquemada – e di prendere le distanze dai secondi, di cui non ci riteniamo comunque responsabili come pretende la ‘cultura del piagnisteo’ (cosa c’entriamo noi con la Strage di S. Bartolomeo avvenuta secoli prima della nostra nascita?) e della quotidiana recita del ‘mea culpa’. Come negare che quand’anche il fondamentalismo islamico fosse ‘giustificato’ nel respingere il vaso di Pandora occidentale, trattandosi di mali e malesseri profondi che preoccupano e ripugnano anche a noi, quei mali, nella sua visione totalitaria dei nostri costumi e dei nostri istituti civili, sono indissolubilmente legati a beni per noi irrinunciabili e che sono la matrice della nostra identità e che, proprio per questo, ci garbi o meno, siamo dinanzi a un’conflitto di civiltà’ che Papa Bergoglio ha le sue buone ragioni per minimizzare ma che sicuramente non è il parto della fantasia belligena di Samuel P. Huntington (peraltro, uno dei più profondi political scientist del nostro tempo). È questa consapevolezza che ha indotto un sociologo cattolico di grande intelligenza e di raro equilibrio a scrivere, parlando del fondamentalismo islamico, «meglio le nostre qualsivoglia nefandezze morali e culturali che il fanatismo dei nostri assassini».
Quando si legge che la «libertà di pensiero» viene invocata per umiliare «le profonde ragioni della libertà» viene il dubbio che la ‘grande divisione’ tra cattolici (bergogliani) e liberali passi tra chi apprezza il dono della libertà come un bene in sé, finale, indipendentemente dagli usi che ne vengono fatti e chi, invece, ritiene la libertà un valore strumentale – libertà come diritto a compiere il dovere prescritto (da Dio, dalla Nazione, dalle varie Carte internazionali dei diritti) – «libertà di fare il bene» nella definizione del democratico Giuseppe Mazzini critico di Sismondi e di Constant. L’abuso della libertà – se con tale espressione s’intende il perseguimento del particulare ignorando o calpestando i diritti e gli ‘spazi vitali’ altrui – è come l’abuso della prestanza fisica, che può essere utilizzata per un’efficace autodifesa o per una aggressione ingiustificata: nessuno potrebbe dire, per questo, che è preferibile la malattia alla salute in considerazione del fatto che la prima non consentirebbe a un corpo malato di sopraffare nessuno.
Nel suo antioccidentalismo – che non è certo complicità con i terroristi, beninteso – D’Agostino giunge a scrivere che delle stragi perpetrate ai danni dei cristiani, non sono responsabili gli esecutori ma noi stessi, la nostra storia passata, la nostra ottusità, la nostra arroganza attuali. «Lasciandosi travolgere dal fanatismo omicida, il terrorismo non si è reso conto di essersi a sua volta lasciato occidentalizzare fino al midollo, se è vero, come è vero, che l’uso politico del terrore è elaborazione tutta occidentale e di certo non orientale».
In realtà, di sette fondamentaliste e assassine è piena la storia islamica e, per quanto riguarda l’uso del terrore-al fine di ‘bonificare’ una società dedita a cattivi costumi, dimentica del vero Dio, governata da ciniche élite o da tiranni corrotti – che sia un’invenzione dell’Occidente è assai dubbio, almeno se per Occidente s’intende la vasta regione del pianeta comprendente la vecchia Europa e la giovane America. Il terrorismo come violenza, che colpisce alla cieca solo per incutere paura e soggezione a un nemico tanto potente quanto nascosto, è qualcosa che le lotte civili delle repubbliche antiche hanno conosciuto assai bene. I giacobini, con il loro zelo sanguinario, lo hanno posto al servizio di idealità nobili e universali- la lotta contro il privilegio sociale e la superstizione religiosa- ma il ‘cambiamento di destinazione’ e l’uso sistematico della tecnica autorizzano davvero a considerarlo un tipico prodotto occidentale? Il terrore, del resto, non è stato sempre associato – forse per pregiudizio eurocentrico ma, innegabilmente, anche con lo sguardo rivolto alle peculiari fenomenologie delle lotte per il potere che hanno insanguinato, prima ancora dell’arrivo degli europei, tante contrade dell’Asia e dell’Africa –, al ‘dispotismo orientale’, e ciò a prescindere dallo stesso Montesquieu e dall’Esprit des lois? Non sono l’arbitrio assoluto, la totale noncuranza della vita umana, la crudeltà che può colpire dovunque e senza ragione apparente per indurre nei governati una sottomissione totale, le sue caratteristiche cruciali? Se, in riferimento alla pratica terroristica, diciamo che gli integralisti fanatici si sono lasciati «occidentalizzare fino al midollo» perché non lo diciamo anche in riferimento alle modernissime tecnologie (dalle armi alle reti informatiche) che essi utilizzano? Mutatis mutandis sarebbe come affermare che i pellirosse si occidentalizzarono fino al midollo quando cominciarono ad allevare e a servirsi dei cavalli nelle loro guerre intestine e negli agguati tesi ai ‘visi pallidi’ che avevano invaso le loro terre.
Sennonché, ammessa e non concessa l’occidentalizzazione (che, ripeto, mi riesce difficile capire che cosa sia in questo contesto), è difficile poi negare che la peculiarità dell’eliminazione fisica degli infedeli – che per la coscienza euro-atlantica è il fatto decisivo e sconvolgente – non ha nulla a che vedere non solo con le prassi del Lungo Parlamento inglese (cosa abbastanza ovvia) ma neppure con quelle del periodo più buio della Grande Rivoluzione, quando carrettate di aristocratici, preti e sospetti vari venivano portate nella più famosa Piazza di Parigi per la gioia delle tricoteuses. Carlotta Corday, tradotta dinanzi al Tribunale rivoluzionario per l’assassinio di Marat, rivendicò con fierezza la bontà del suo gesto: venne debitamente ascoltata e poi ghigliottinata senza tanti riguardi. La stessa bonifica antisemita fu la disinfestazione dagli animali immondi e nocivi che avevano fatto il nido nella bella casa tedesca: le cause d’inquinamento e di corruzione vennero soppresse in gran segreto, nei campi di sterminio, per evitare una qualche forma di solidarietà con le vittime. Ci troviamo dinanzi a fenomeni mostruosi caratterizzati da modalità diverse – la spettacolarizzazione, nel caso della ghigliottina e delle esecuzioni compiute dal Daesh, la ‘riservatezza’ nel caso dei Lager e dei Gulag – ma che non possono certo essere attribuiti tutti alla malvagità dell’Occidente, tradendo in ciò che li distingue veramente, tradizioni ed etiche politiche e religiose irriducibili. Mettere ogni bruttura, alla quale ci fa assistere il mondo contemporaneo, in conto alla ‘civiltà occidentale’ ricorda la deprecabile tendenza a definire ‘fascismo’ ogni forma di violenza, di prepotenza politica, di usurpazione di legittimi poteri di governo. È uno stile di pensiero che meraviglia non poco in uno studioso colto e raffinato come Francesco D’Agostino. E, tuttavia, al fondo del suo discorso, che per essere svolto in un editoriale, non pecca certo di superficialità e di pressappochismo, si avvertono uno sconcerto e uno sconforto che condivido in toto, sia pure per ragioni e con motivazioni diverse – molto diverse-dalle sue.
Anche a mio avviso, l’Occidente-sempre posto che il termine identifichi un complesso coerente e di unitario – attraversa una crisi profonda – e, temo, irreversibile –, ma lo è per la dissoluzione di quei caratteri che hanno creato solo in questa parte del mondo istituzioni e stili di pensiero unici che non hanno segnato tutta l’area geografica e culturale in questione ma hanno formato, per così dire, un arcipelago di civiltà che si ritrova solo nei nostri mari. Elenco a caso: lo scetticismo’ classico’ come capacità di autocritica e di rimettersi sempre in gioco; la distinzione tra i valori fondamentali che strutturano e definiscono l’uomo uscito dal suo stato di minorità -scienza e coscienza, arte e religione, politica e diritto, economia e charitas etc.; le garanzie della libertà e la tutela dei diritti degli individui uti singuli; la sovranità popolare e l’idea che lo Stato sia al servizio dei cittadini e non viceversa.
«Che nell’epoca della globalizzazione perfino usi linguistici plurimillenari tendano a destrutturarsi è davvero impressionante» scrive D’Agostino ed io concordo ma quando scrive (in altro luogo) che la libertà e il diritto si fondano sulla verità, non posso non fargli rilevare che è proprio questa fondazione che sta avvenendo e che rende le nostre società (un tempo) civili, sempre più ‘virtuose’ e ‘buoniste’ sia pure in una direzione che non è la sua e che, anzi, è opposta alla sua. Sulle due rive dell’Atlantico sta prevalendo una cultura che unifica e stritola quanto si allontana dagli standard ufficiali del politically correct e dalla road map di una Aufklaerung, che si pensava rimasta senza nemici dopo la fine dei totalitarismi di destra e di sinistra. A cominciare dal diritto, che non è più, secondo la definizione di Francesco Carnelutti, un ponte tra l’economia e l’etica ma è, ormai, divenuto il braccio secolare della seconda. L’etica, nella visione che ne hanno i nemici (vincenti) di D’Agostino, non solo fagocita il diritto ma tende a subordinare a sé la politica: un governo che intenda limitare il flusso di profughi verso i suoi lidi per mancanza di risorse e per non voler ricorrere alle tasche dei cittadini con ulteriori imposizioni fiscali diventa, ipso facto, un governo fascista e razzista. Ciò che si ritiene moralmente illegittimo (sempre all’interno dei parametri di una filosofia buonista) diventa quasi giuridicamente e politicamente illegale: la (supposta) ‘sostanza etica’ della società civile azzera quel sacro culto delle forme che era l’anima del liberalismo classico, ottocentesco.
Pensare, a ragione o a torto, come fa il filosofo del diritto, che il matrimonio ‘paritario’ produca almeno due effetti devastanti – «Il primo effetto è quello di una nuova forma di arroganza culturale, che dovrebbe indurre coloro che non riescono ad accettare il principio stesso del matrimonio “egualitario” a riconoscersi succubi di pregiudizi premoderni e ad operare per liberarsene al più presto. Il secondo effetto è più sottile, ma ben più devastante: esso consiste nella destrutturazione di un istituto, come appunto quello matrimoniale, che pur nelle sue molteplici e diversissime configurazioni storico-culturali, è sempre stato oggettivamente riconoscibile da parte di tutti (ed ovunque) come tale, nella sua tipica e insostituibile finalità strutturale, quella di riconoscere pubblicamente lo stato di marito ad un uomo e di moglie ad una donna e conseguentemente lo stato di figli alla loro prole» –, significa venir ricacciati nella categoria dei passatisti, dei reazionari, di quanti non dovrebbero avere il diritto di formare, nelle scuole di ogni ordine e grado, le nuove generazioni.
Quando si diceva che la versione razionalista e cartesiana dell’Illuminismo aveva sostituito al Dio dei preti la Raison che libera non dal peccato originale – un’invenzione dei chierici per tenere i popoli umili e sottomessi – ma dall’ignoranza e dall’etica del destino non si trattava di semplice metafora. In realtà, si sanciva la messa al bando di tutto ciò che si oppone all’incedere del gran carro del Progresso e che si rifiuta, appunto, di fondare l’etica e la politica, la scienza e l’arte sulla Verità – non quella di Bossuet ma quella di Lamettrie e di d’Holbach. In quest’ottica, l’unico spazio che si può concedere al ‘pensiero conservatore’, in senso lato, non dipende dal riconoscimento che i suoi valori contribuiscono a rendere il mondo ricco e complesso ma dalla funzione di freno prudente che esso potrebbe imprimere alla locomotiva della storia che, guidata da quanti vogliono tutto e subito, potrebbe deragliare. Una conservazione, quindi, che si candida essa stessa al servizio delle magnifiche sorti e progressive.
In molti paesi, però, il pensiero unico induce a contestare anche l’utilità di questo servizio di volontariato: si pensi alla rabbiosa intolleranza, al livore con cui, nei nostri quotidiani progressisti, filosofi e filosofe, giuristi e giuriste, sociologi e sociologhe hanno messo sulla gogna pubblica quanti, ad es., erano disposti a riconoscere alla coppie gay non pochi diritti ma non quelli di adozione. Giusta o sbagliata, realistica o velleitaria, che fosse tale posizione c’è mancato poco che la si assimilasse alla Weltanschauung nazista grazie al sofisma della slippery slope che vede una ‘china pericolosa’ in ogni riserva nei confronti del riconoscimento di diritti ritenuti ormai indifferibili. Il presupposto è sempre lo stesso: ci sono ‘verità’ che la ragione ha dimostrato inconfutabili e che solo in virtù di pregiudizi atavici si possono negare: se non si ha il buon senso di rassegnarsi, come invita a fare Gustavo Zagrebelsky, citato nell’editoriale di ‘Avvenire’, almeno ci si metta da parte e ci si chiuda in un rispettoso silenzio (in nome, beninteso del principio che le credenze religiose debbono restare un fatto ‘privato’, che è l’aureo principio del pensiero laicista: puoi pure credere al miracolo della Resurrezione e farti la comunione ma lontano dalla piazza pubblica…). Allo stesso modo, se non si intendono costituzionalizzare i ‘diritti sociali’, se li si continua a distinguere dai diritti civili e dai diritti politici, si resta al di fuori della Costituzione nata dalla Resistenza e dalla lotta antifascista e si inducono i montagnardi come Paolo Flores d’Arcais a chiedersi se abbiano diritto di cittadinanza quanti non sono affatto convinti della bontà della nostra Magna Carta.
Alla base di queste intolleranze, c’è, però, con buona pace di D’Agostino, la convergenza del bonum e del verum solo che l’uno e l’altro non vengono più definiti dalle dottrine sociali della Chiesa ma dagli Stefano Rodotà, dai Piergiorgio Odifreddi, dalle Chiara Saraceno ovvero da quel neo-illuminismo enragé che non si chiede più que sais-je? dal momento che sa già tutto e, soprattutto, sa che, per difendersi dalla barbarie, dal razzismo, dal fascismo sempre in agguato, basta seguire le prescrizioni della ragione e della scienza. Il dogmatismo degli antichi è la superstizione religiosa, il dogmatismo dei moderni è il fondamentalismo razionalista. Sconvolge profondamente, chi si è formato sul ‘canone occidentale’ e sui classici della letteratura e della filosofia, la totale mancanza di riguardo per le credenze e per i valori altrui che sta alla base del ‘pensiero unico’ progressista. Quest’ultimo, ormai, si è impadronito del monopolio della ‘normalità’ che non rinviene più nella natura universale quale era definita dal vecchio tomismo – che la riteneva identica per cristiani e non cristiani – ma nella natura qual è teorizzata da quello scientismo, che nei suoi esponenti più arditi e radicali, pare nutrire sotterraneamente l’ambizione di superare la Grande Divisione humeana tra giudizi di fatto e giudizi di valore per fondare stabilmente i secondi sui primi. Di qui l’idea (potenzialmente totalitaria) che tutto ciò che non passa al vaglio della ragione sia pregiudizio e superstizione e che tradizione e storia non debbano avere alcuna voce in capitolo quando sono in gioco le regole della convivenza umana. Significativo, in tal senso, il pamphlet di una filosofa particolarmente aggressiva come Nicla Vassallo, Il matrimonio omosessuale è contro natura. Falso (ed. Laterza 2015). Qui già nel titolo viene fuori la pretesa di far decidere dalla ‘natura’ il contenzioso tra laicisti e cattolici sulle nozze gay. Vengono in mente certe oziose dispute sull’omosessualità come patologia (tale la riteneva Sigmund Freud) o come normale diversità: non era praticata anche dai nostri ‘antenati’ greci e romani? E non si tratta di un comportamento sessuale che si registra anche in diversi animali, come i cani? D’accordo, replicano i tradizionalisti, ma perché dovremmo andare a scuola dai greci che disprezzavano come barbari gli altri popoli e avevano una ben scarsa considerazione della dignità della donna? O dai romani che si divertivano nel veder ammazzare i gladiatori nel circo e condannavano i colpevoli di reatie i cristiani giudicati tali – a essere sbranati dalle belve? Per non parlare poi degli animali come ‘maestri’: quali animali? Tutti i mammiferi? Tutti gli invertebrati?.
L’ideale dei giusnaturalismi – medievalizzanti e moderni – è quello di imporre a tutti la propria concezione del ‘normale’ e del ’patologico’ e l’ideale dei giusnaturalisti laicisti (oggi vincenti) è quello di non permettere ai giusnaturalisti di orientamento cattolico di legare le mani al legislatore. Gli uni e gli altri non si fidano della sensibilità etica, delle pulsioni profonde, delle inclinazioni mutevoli, delle sedimentazioni negli individui di ‘pregiudizi’ depositati nei secoli (ma i ‘pregiudizi’ non sono ‘valori’ che possono piacere o non piacere ma che, nondimeno, costituiscono l’identità?) ma vorrebbero che gli uomini si comportassero nel senso da loro auspicato, in obbedienza alla Storia, a Dio, alla Natura. Insomma è sempre dall’esterno che debbono provenire le ‘norme’ non da un ‘interno’ in cui si possano anche ritrovare Dio, Natura e Storia ma solo in quanto elementi elaborati autonomamente, succhiati, come si diceva un tempo, col latte materno. Ne deriva che, per gli adepti delle opposte scuole, almeno in linea teorica, non avrebbe senso mettere ai voti con un referendum allorché si tratta di ‘diritti indisponibili’: nel caso dei laicisti quello delle coppie gay di venir equiparate, in tutto e per tutto alle altre (il referendum fu indetto in Irlanda ma non nella Spagna di Zapatero, dove il matrimonio tra persone dello stesso sesso venne approvato da una maggioranza parlamentare, forse per sfiducia nel popolo ancora troppo cattolico…); nel caso dei tradizionalisti, quello di impedire la «destrutturazione di un istituto, come appunto quello matrimoniale, che pur nelle sue molteplici e diversissime configurazioni storico-culturali, è sempre stato oggettivamente riconoscibile da parte di tutti (ed ovunque) come tale, nella sua tipica e insostituibile finalità strutturale, quella di riconoscere pubblicamente lo stato di marito ad un uomo e di moglie ad una donna e conseguentemente lo stato di figli alla loro prole», per citare nuovamente le parole di D’Agostino. Sia per gli uni che per gli altri, le leggi non debbono creare i diritti ma limitarsi a ritrovarli nel Libro della Natura e della Ragione: per questo, se in un caso, la riforma del diritto matrimoniale «non s’ha da fare», nell’altro, sarebbe forse auspicabile che a farla siano le sentenze dei giudici, e se proprio le opposizioni non lo consentissero, sarebbe prudente e opportuno che la decisione venisse affidata all’organo legislativo piuttosto che alla democrazia diretta, solo se ‘ci sono i numeri’ per far prevalere la ‘giusta causa’. – Di qui il risentimento per gli ingiustificati ‘ritardi culturali’ che vedono l’Italia in coda alle nazioni civili nella tutela dei diritti dei ‘diversi’ – In pieno XXI secolo c’è ancora chi ritiene diritto del bambino il poter contare su una madre o un padre!» – nonché la stizza rabbiosa nei confronti di una legge incompleta, come quella varata da poco nel nostro paese, che, per colpa degli atavismi culturali, sarebbe venuta incontro solo parzialmente alle sacrosante richieste dei cittadini omosessuali.
Nei confronti degli anti-illuministi e della loro ‘morale’ non mi è mai capitato, nei giornali di area e nei dibattiti radiofonici e televisivi, di sentire espressioni di rispetto, pur nella ribadita contrapposizione ideologica. Né tanto meno di udire discorsi come questo: «abbiamo idee diverse sul matrimonio gay, sui diritti dei minori, sulle questioni bioetiche nate dalle nuove tecnologie, ci ispiriamo a morali diverse, siamo mossi da diverse preoccupazioni e formuliamo congetture diverse sulle conseguenze di determinate misure legislative: poiché nessuno di noi ha in tasca la verità, contiamo le teste e facciamo decidere al popolo sovrano, alla ‘gente comune’ se basta una semplice legge sulle unioni civili per venire incontro alle richieste di partner dello stesso sesso ingiustamente discriminati(ad es., in tema di eredità o di accessi a strutture sanitarie) o bisogna andare fino in fondo, in questa materia, con una legge di piena e totale equiparazione». Sarebbe bello davvero se il livello della discussione fosse così civile e pacato ma, purtroppo, è sempre più impensabile in Italia dove continuiamo vivere in una perenne stagione di ‘guerra civile’ in cui la lotta al pregiudizio non conosce pause ed armistizi e in cui pregiudizio è tutto ciò che non si può dimostrare con l’esercizio rigoroso della ragione.
Tra i ‘falsi’ che la collanina laterziana addita al pubblico ludibrio, ce n’è uno davvero emblematico, quello di Ugo Mattei, Senza proprietà non c’è libertà. Falso (Ed. Laterza 2014). In effetti, come può la raison dimostrare che la proprietà è indissolubilmente legata alla libertà? Il rapporto positivo può, tutt’al più, essere solo registrato dalla storia e non da tutta la storia del genere umano e corroborato, per quanto ci riguarda, dall’esperienza del nostro tempo e delle nostre ‘società civili’ dove non si vede come possano esserci mercato e imprenditoria privata senza l’istituto della proprietà. Ma mercato e imprenditoria privata sono poi istituti derivati dalla ragion scientifica? E come potrebbe, quest’ultima, prescrivere alcunché se non in relazione ai valori diffusi e alla loro gerarchia? Come si fa a convincere quanti considerano la proprietà un ‘terribile diritto’ che un’economia collettivista non assicura il benessere e un soddisfacente livello dei consumi? E se anche se ne convincessero, quali argomenti potrebbe addursi dinanzi all’obiezione che è meglio essere più poveri e più eguali che più ricchi e diseguali?
A ben riflettere, in un tempo in cui la retorica del rispetto del diverso celebra i suoi trionfi vocali e cartacei, essere diverso in senso conservatore è diventato quasi inconcepibile. Il fatto è che quando alla storia e alla tradizione non viene riconosciuto alcun diritto, quella retorica finisce per diventare la domestica della ragion raziocinante, diventa la falce acuminata per ripulire il prato dalle erbacce dei pregiudizi ‘atavici’ non lo spazio di tolleranza per comprendere le ragioni di tutti.
La convergenza del Bene e del Vero rinvia a una perdita, a mio avviso irreparabile che è destinata ad avere ripercussioni profonde sulla «nave senza nocchiero e in gran tempesta» quale è diventato il nostro Occidente. È la perdita dello storicismo ovvero della coscienza storica che si rifiuta di portare il passato in tribunale – come, peraltro, pur si è preteso con le leggi che condannano il negazionismo – ritenendo tale messa sotto accusa contraria alla pietas e, per di più, inutile e destinata solo a tenere sempre accese le passioni di parte. Storicismo – che non è ‘filosofia della storia’ nel senso di di K. R. Popper – non significa sterile giustificazionismo rivolto al mondo di ieri ma senso della complessità dell’umano, consapevolezza che non ci sono ricette infallibili per assicurare ai popoli l’ordine pubblico e la sicurezza economica e che tutte le linee politiche seguite dai partiti e dai governi si valutano dai loro effetti: dalla misura in cui hanno contribuito a rendere la vita su questa terra non bella ma meno brutta. Ed è proprio perché non ci sono ricette infallibili che spesso ho richiamato l’attenzione sulle grandi virtù della ‘democrazia dei moderni’ che registra le opinioni (la dimensione della doxa) e affida la cura dello Stato a quelle che risultano maggioritarie e che non sono, per definizione, le migliori così come non lo sono, d’altronde, neppure le opinioni delle minoranze.
Per un democratico liberale, ad esempio, nel quadro di uno ‘stato di diritto’ solido e inespugnabile, in un certo momento storico può rendersi necessaria la ricetta meno stato e più mercato e, in altri, la ricetta più stato e meno mercato: che si tratti di scelte legittime e ragionevoli sarà il tempo a dirlo. Un grande storico – purtroppo oggi poco letto – Giuseppe Are, nelle sue profonde e non conformiste ricerche sull’Italia moderna (affidate a testi magistrali come Economia e politica nell’Italia liberale.1890-1915, Ed. Il Mulino 1974 o quell’autentico gioiello che è La scoperta dell’imperialismo: il dibattito nella cultura italiana del primo Novecento, Ed. Lavoro 1985), mostrò, lui liberale a trecentosessanta gradi, le ragioni non superficiali della politica protezionista seguita dai governi post-unitari, poco sensibili alle ricette liberiste.
Un sano e prudente relativismo dovrebbe metterci, altresì, in guardia dalla demonizzazione, ad opera della political culture egemone, del nuovo populismo, ovvero di quei movimenti antipolitici che sconvolgono i suoi piani e non riconoscono nessun diritto alla guida dello Stato alle vecchie élite partitiche, sindacali, accademiche, episcopali. Ogni volta che sull’orizzonte compare uno di questi movimenti, le oligarchie imperanti – di governo e di opposizione – si ricompattano (come l’orso e il cane pastore di un cartone animato di diversi anni fa che, al termine della giornata, timbrano il cartellino e si stringono la zampa) e, grazie talora a meccanismi elettorali come il ballottaggio, riescono a sbarrare la strada – o meglio finora ci sono riuscite – agli irresponsabili che ingannano l’elettorato con slogan demagogici intesi a nascondere la drammatica complessità del reale.
Nell’incertezza ontologica in cui si trovano immerse le cose umane, non si può barare al gioco, fingendo di avere grazie alla scienza, i lumi per stabilire infallibilmente che cosa giova e che cosa nuoce all’uman genere. Ancora una volta, la politica – come l’etica in un celebre saggio neopositivistico di Uberto Scarpelli – è «senza verità», nel senso che sulle sue ‘ricette’ non potrà mai esserci quell’accordo intersoggettivo che caratterizza, invece, gli assiomi e i ritrovati scientifici. I criteri di giudizio di ogni misura intrapresa da un Governo o da un Parlamento si rapportano a valori sui quali non s’intenderanno mai tutti gli attori politici e sociali. Può essere stato un errore, per gli Inglesi, votare per il brexit (e, personalmente, avrei votato per il remain) ma errore rispetto a cosa? Con l’abbandono della nave europea, i sudditi di S.M. Britannica potrebbero ritrovarsi più poveri – almeno...i londinesi – ma se l’esito del referendum contribuisse a preservare l’identità (l’isolazionismo) inglese, non ci troveremmo dinanzi a valori alternativi rispetto ai quali nessun Tribunale della Ragione potrebbe pronunciarsi?
Se dovessi dire cos’è per me, sotto il profilo ‘spirituale’, quell’Occidente che per D’Agostino dovrebbe pensare a curarsi, potrei cavarmela con una battuta: è lo scetticismo preso sul serio ovvero lo scetticismo permeato di autentico agnosticismo e non quello,finto e strumentale, che mette in crisi le antiche credenze, per indurre gli uomini a seguire quelle nuove, che sono anch’esse (inevitabilmente) credenze. È lo scetticismo di chi è consapevole che l’esistenza umana è avvolta in un mistero insondabile, che nulla sappiamo di ciò che ci attende dopo la breve parentesi della vita e che perdere il senso dell’etica del destino, intesa come coscienza dei limiti insuperabili che si frappongono al nostro volere e ai nostri sogni significa solo dare la stura alle ideologie che intendono costruire, più o meno brutalmente, «l’uomo nuovo». Riconosciamolo, anche altre civiltà hanno avuto i loro Aristotele, i loro Hegel, i loro Marx, i loro santi, i loro poeti, i loro navigatori ma solo in questa parte di mondo potevano nascere Michel de Montaigne e David Hume e solo qui un geniale economista, che era anche un grande scienziato politico, Joseph A. Schumpeter, poteva dire che a distinguere l’uomo primitivo dal civilizzato, è il fatto che il secondo è consapevole della fragilità dei suoi valori (fragili perché non garantiti da alcuna autorità trascendente) ma che, nondimeno, è pronto a dare la vita per difenderli.
Una nazione, quella britannica, che resta pur grande anche se la sua storia contiene non poche pagine oscure, almeno finora è riuscito a sottrarsi al ‘dogmatismo dei moderni’, in virtù di quell’illuminismo anglo-scozzese (linea Hume/Smith/Burke), la cui vocazione empiristica definisce l’anima stessa dello storicismo non scolastico. Il suo rifiuto del giusnaturalismo – cattolico o laicista che sia l’ha portata a fondare la dignità della cittadinanza sui diritti storici del popolo inglese non sui dictamina rectae rationis noti solo alla ‘classe dei dotti peraltro mai unanimi nel riconoscerli e nel definirli.
Sono i diritti storici, le tradizioni, a fare l’identità dei popoli: se nella mente e nei cuori degli individui si indeboliscono, non saranno la respirazione artificiale della Ragione o il sermone del teologo a riportarli in vita. Se Dante, il presepe, il Risorgimento con le sue idealità, le grandi feste religiose che uniscono credenti e non credenti, i ‘luoghi dell’anima’ che la grande letteratura ha elevato a simboli di valori condivisi, le poesie, le canzoni, le leggende, i racconti che passano di generazione in generazione, i sepolcri e gli altari, si perdono non cambia granché nella storia del mondo – per non parlare di quella del cosmo. Altri simboli, altre etnie culturali prenderanno il nostro posto, altre culture si installeranno nelle terre dei nostri padri: si spezzerà la catena delle generazioni passate e se ne riallaccerà un’altra tra genti a noi estranee o ignote. E tuttavia solo chi quelle eredità storiche se le sente dentro è disposto a battersi per sottrarle almeno per poco al destino che attende tutte le costruzioni umane e che, nei Sepolcri Ugo Foscolo scolpiva in versi di imperitura bellezza; «involve /tutte cose l’obblío nella sua notte;/e una forza operosa le affatica/di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe/e l’estreme sembianze e le reliquie/della terra e del ciel traveste il tempo».
L’Occidente si salva – se proprio vuole e deve salvarsi – se le comunità politiche che ne fanno parte avvertono l’orgoglio della propria storia e delle proprie radici culturali, se sono disposte a battersi pro aris et focis, se non rimuovono il crocifisso nei luoghi pubblici perché, anche se non tutti i cittadini sono credenti, tutti poi onorano ‘la religione dei padri’, se hanno il senso della nazione che può anche significare una comunità politica più ampia dei vecchi stati nazionali ma non certo una Camera di Commercio elevata a federazione. Gli Stati, quali li ha modellati la storia, non sono funzionari del Genere Umano, incaricati unicamente di tutelare i diritti universali dell’uomo e nel cittadino nei territori (del tutto casualmente) di loro competenza: sono custodi di ‘specificità’ la cui perdita finisce per rendere il mondo più semplice ma meno vario e affascinante. Noi difendiamo la nostra ‘tana’ – così come amiamo nostra madre – non perché è più bella, più intelligente, più creativa delle altre, in base a parametri sanciti dal consensus gentium, ma perché è la nostra, perché ad essa dobbiamo quel che siamo anche quando ci confrontiamo dialetticamente con ciò che sta fuori in un confronto che arricchisce le nostre facoltà facendoci uscire dal guscio comunitario e conoscere altri valori, altre storie, altre culture, altre esperienze di vita. Il problema dell’Occidente, ha scritto il sociologo cattolico su citato, non è quello di fare autocritica «è soprattutto quello di difendersi». Ma non ci si difende invocando idealità astratte (astratte ovvero sradicate del terreno storico in cui sono fiorite) o in nome di universalismi laici o cattolici che non scaldano affatto i cuori dei popoli: non sono la Natura o la Ragione – neppure quella illuminata dalla Fede – a risolvere il ‘conflitto di civiltà’, realisticamente analizzato da S.P. Huntington, ma la determinazione a ben conservare il vino che ci è stato trasmesso in eredità dai nostri avi affinché non degeneri nell’aceto tribale e nazionalistico della destra totalitaria ma neppure perda le sue qualità peculiari (e pertanto preziose) annacquandosi nel buonismo dei fautori del diritto e dello Stato cosmopolita. «Le ideologie illuministiche, positivistiche laiciste» che D’Agostino vuole abbandonare «al loro destino», per consentire all’Occidente di curare se stesso, sono la versione atea e secolarizzata della filosofia terzomondista di Papa Bergoglio. Con le une e con le altre non ci si salva giacché l’acqua chiara, depurata dagli egoismi individuali e collettivi, di Francesco I e di Luigi Ferrajoli – il filosofo del diritto che nelle ‘radici’ e nella cittadinanza nazionale vede l’origine di tutti i mali del mondo contemporaneo – non nutre e l’aceto tribale degli sciovinisti rende i cibi immangiabili nonché le vecchie nazioni irriconoscibili. Dixi et servavi animam meam!







NOTE
1 Trascrivo l’editoriale: «Non ci troviamo davanti ad una guerra di religione, ha giustamente detto Papa Francesco, richiamando la nostra attenzione sul carattere endemico e diffuso della violenza nel mondo d’oggi. E la risposta positiva che ha ottenuto da parte di tanti rappresentanti delle comunità islamiche europee, nonché da tanti semplici fedeli nell’Islam, ci obbliga tutti a fare un profondo esame di coscienza. Perché. se è assolutamente vero che sangue “occidentale” continua ad essere assurdamente sparso in tante parti del mondo, è ancora più vero che l’immagine che l’Occidente continua ad offrire al “resto del mondo” è inquinata da pregiudizi, ipocrisie, violenze tanto più odiose quanto più subdole. Non basta il canto corale della Marsigliese a ristabilire la dignità dell’Occidente, per chi non vuole ignorare che quel canto ha preceduto di pochissimi mesi il dilagare del Terrore giacobino. È insensato che l’Occidente insista nel difendere volgarità, maldicenze, pornografia, pornolalia, blasfemia, bestemmie, invocando la libertà di pensiero, come se non si sappia che in tal modo si umiliano le profonde ragioni della libertà. È ridicolo che l’Occidente reiteri formule vuote e pompose sulla difesa dell’ambiente, quando è il suo stesso modello di sviluppo industriale a minacciarlo. E non basta richiamare a ogni piè sospinto il nobile elenco dei diritti umani, e primi tra tutti quello dei diritti delle donne e dei bambini, per chi sa che mai come nel nostro tempo il corpo delle donne – e in particolare delle madri – e il corpo dei bambini sono diventati oggetto di accorte e sottili trattative contrattuali, alle quali schiere di giudici riconoscono incredibilmente validità giuridica. In Occidente è ormai prassi consolidata che si possa nascere e si possa morire per contratto: di questa prassi, sostengono illustri giuristi, bisogna essere orgogliosi e coloro che fino a tanto proprio non riescono ad arrivare dovrebbero almeno avere il buon senso di “rassegnarsi “, come ha auspicato Zagrebelsky. Né le cose finiscono qui: l’ultima provocatoria invenzione dell’Occidente, quella del matrimonio “paritario” sta producendo nei confronti del “resto del mondo” due effetti che ben pochi sembra siano in grado di percepire (e tra questi, ahimè, dobbiamo inserire anche gli ultimi, strenui e inascoltati difensori di un “diritto naturale”, che la filosofia ha abbandonato da tempo e che la teologia, che non ha il compito di speculare sulla “natura”, ma di annunciare la parola di Dio, cerca disperatamente e infruttuosamente di difendere). Il primo effetto è quello di una nuova forma di arroganza culturale, che dovrebbe indurre coloro che non riescono ad accettare il principio stesso del matrimonio “egualitario” a riconoscersi succubi di pregiudizi premoderni e ad operare per liberarsene al più presto. Il secondo effetto è più sottile, ma ben più devastante: esso consiste nella destrutturazione di un istituto, come appunto quello matrimoniale, che pur nelle sue molteplici e diversissime configurazioni storico-culturali, è sempre stato oggettivamente riconoscibile da parte di tutti (ed ovunque) come tale, nella sua tipica e insostituibile finalità strutturale, quella di riconoscere pubblicamente lo stato di marito ad un uomo e di moglie ad una donna e conseguentemente lo stato di figli alla loro prole. Nel “matrimonio paritario”, che l’Occidente sta proponendo al “resto del mondo”, perfino parole semanticamente semplicissime come “moglie” e “marito” acquistano un’ambiguità irriducibile. Che nell’epoca della globalizzazione perfino usi linguistici plurimillenari tendano a destrutturarsi è davvero impressionante.
Scrivo queste cose per giustificare la violenza terroristica contro l’Occidente che il “resto del mondo” (sia pure attraverso l’azione solo di alcuni, che però se ne proclamano “rappresentanti”) sta ponendo in atto da anni? Ovviamente no e diffido chiunque dal pensarlo. Ciò che intendo sostenere è che il terrorismo del “resto del mondo” non è mosso da uno specifico odio anticristiano, ma dal disgusto nei confronti dell’Occidente e per come l’Occidente, quell’Occidente che almeno in Europa ha voluto misconoscere le sue radici cristiane, ha deciso ottusamente e arrogantemente di presentarsi al resto del mondo. Lasciandosi travolgere dal fanatismo omicida, il terrorismo non si è reso conto di essersi a sua volta lasciato occidentalizzare fino al midollo, se è vero, come è vero, che l’uso politico del terrore è elaborazione tutta occidentale e di certo non orientale. La complessità del momento attuale ci impedisce ogni prognosi; ma quando arriverà – e speriamo presto – il momento di costruire una qualsivoglia terapia contro le nuove forme di violenza che insanguinano questi anni che stiamo vivendo, bisognerà da parte nostra riconoscere con coraggio che prima di accingerci a curare gli “altri”, noi, gli Occidentali, dobbiamo imparare a curare noi stessi, abbandonando al loro destino tutte le ideologie illuministiche, positivistiche, laiciste con cui abbiamo costruito un mondo che il “resto del mondo” disprezza e nel quale nemmeno noi stessi (ma quando riusciremo davvero ad ammetterlo?) viviamo troppo bene.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft