Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVII - n. 5 > Interventi > Pag. 466
 
 
I Savoia (un saggio di Luigi Salvatorelli)
di Giuseppe Galasso
Il destino dei Savoia tra gli storici ha finito con l’essere infelice quanto il loro destino politico, deciso nel 1946 dal referendum istituzionale che nel 1946 instaurò in Italia la repubblica. Non è accaduto spesso che una casa reale, perduto il trono, abbia conservato un aplomb e una dignità regale tali da poter anche giovare a un loro eventuale ritorno al loro rango e ruolo, per i Savoia, comunque, certamente non è andata così.
L’esilio di Umberto II fu dignitoso in Portogallo dove cento anni prima si era già ritirato il nonno di suo nonno, Carlo Alberto. Per i figli di Umberto non si può dire altrettanto. Sono note le vicende amorose di Beatrice, e quelle di vario genere e di assai dubbia qualità del già principe ereditario e poi re in titulo e pretendente (si fa per dire) al trono di colui che sarebbe stato, se gli Dei non fossero stati avversi, Vittorio Emanuele IV. Quanto al figlio di quest’ultimo, Filiberto, il padre ebbe la molto peregrina idea di non dargli il titolo di principe di Piemonte o di Napoli come era accaduto dal 1861 in poi per gli eredi al trono, bensì di principe di Venezia, ossia di una città che meno di ogni altra città italiana, per tradizione storica e per sentimento civico, si prestava a un tale titolo. Poi Filiberto ha fatto anche di più, e si è procurato una certa notorietà televisiva e mondana, illustrandosi, fra l’altro, come danzatore. Molto meglio, indubbiamente, dei principi russi che, dopo la rivoluzione comunista del 1917, si adattarono a fare i camerieri a Parigi: un mestiere meno facile e banale di quel che pensano alcuni.
Tutto ciò non toglie che la Casa di Savoia resti in Europa una delle famiglie reali, in trono o non più in trono, di più antica ascendenza storica. Per l’Italia, in particolare, essa ha rappresentato per sei o sette secoli uno dei protagonisti e, almeno dal 1848 al 1946, un punto nodale della storia nazionale. Fu, infatti, come tutti sanno, all’ombra di Casa Savoia che l’Italia si preparò fra il 1848 e il 1859 all’unificazione e fra il 1859 e il 1861 effettivamente si unificò; e fu Casa Savoia, fra il 1861 e il 1946, alla testa dello Stato unitario come vertice istituzionale e con un suo ruolo strettamente e direttamente politico sempre importante e spesso decisivo nella vicenda di quello Stato. Ciò indusse una gran parte degli storici italiani a costruire un profilo della storia nazionale radicalmente inficiato da un doppio errore di prospettiva.
Il primo di questi errori era che la storia d’Italia, da quando se ne può parlare dall’invasione dei Longobardi nel 568, e in particolare dal Mille in poi, si fosse svolta all’insegna univoca ed evidente di un destino fatalmente unitaria. L’unità avrebbe rappresentato la logica motrice della storia italiana, i cui vari periodi, manifestazioni e protagonisti dovevano essere rappresentati e giudicati a seconda del contributo che si riteneva da essi dato alla realizzazione della fatale unità del paese compreso fra le Alpi e il Canale di Sicilia, con le sue appendici insulari.
Il secondo di quegli errori era che quale interprete del supposto destino unitario si raffigurava, fin da quando se ne può parlare, ossia dagli inizi del secondo millennio della nostra era, per l’appunto la Casa di Savoia. Annidati sulle loro rocche alpine del versante francese e di quello italiano, i conti e poi duchi di Savoia erano venuti facendosi strada nella Valle del Po, adottando decisamente, dopo una iniziale incertezza e duplicità, la direttrice padana, e quindi italiana, della espansione alla quale miravano dei loro domini. Così, nella seconda metà del Cinquecento avevano trasferito la loro capitale da Chambery a Torino, avevano adottato l’italiano quale lingua ufficiale e diplomatica e avevano continuato la loro marcia padana in uno sforzo consapevolmente volto ad assicurare all’Italia e agli italiani l’indipendenza dagli stranieri, dominanti per secoli nella penisola. Appena poi si era delineata la possibilità di una unificazione politica del paese, e si parlò di “risorgimento”, i Savoia se ne erano fatti portabandiera, e la denominazione di “padre della patria” adottata per Vittorio Emanuele II aveva, perciò, sancito con un doveroso riconoscimento storico-politico la millenaria missione assolta da Casa Savoia.
Contro entrambe queste prospettive, ma soprattutto contro la seconda insorse nel 1944, in un opuscolo al quale non mancò un largo ascolto, Luigi Salvatorelli (Casa Savoia nella storia d’Italia, ora riedito dalle Edizioni di Storia e Letteratura, con introduzione di Gabriele Turi). Nelle sue pagine i Savoia sono rigorosamente dipinti come una dinastia di mediocri personalità caratterizzate da un’insaziabile avidità di nuovi domini, da un mai smentito opportunismo nel cercare di soddisfarla, da una costante meschinità dei calcoli politici ispirati da un tale criterio di azione, dalla più completa indifferenza alle direzioni geografiche e a ogni possibile motivazione ideale o anche soltanto ideologica dei loro disegni espansivi. Collocati sul crinale delle Alpi, e storicamente legati all’ambito franco-borgognone, si erano concentrati sull’Italia solo perché il consolidamento della forte e potente monarchia francese e la stabilizzazione della confederazione svizzera avevano drasticamente sbarrato ogni varco per un’espansione oltralpe. In ultimo, i Savoia non avrebbero esitato ad alienare alla Francia la stessa Savoia, culla della dinastia, essendo intanto diventati re d’Italia.
Nulla, invero, i Savoia avevano avuto a che fare con le ragioni intime e, per così dire, sorgive della storia d’Italia; con il travagliato processo di maturazione ideale e culturale, prima ancora che politico, al quale diamo il nome di “risorgimento”. La monarchia sabauda in questo processo si era inserita solo in ultimo, seguendo per l’ennesima volta le sue tradizioni di opportunismo, ma senza un’adesione intima o un impulso proprio e genuino. Molte delle deficienze e delle meschinità della storia dello Stato unitario nato dal risorgimento erano dipese da questo rapporto surrettizio fra la nuova Italia e la vecchia dinastia, che aveva conservato un ampio e spesso determinante spazio di potere anche nell’ordinamento dello Stato liberal-democratico che era stato nei disegni del risorgimento. La finale acquiescenza, solidarietà e complicità col fascismo, che aveva sovvertito il regime liberale e aveva calpestato le già faticate e faticose libertà cui aveva portato il moto risorgimentale, aveva costituito la prova del nove dell’egoismo dinastico e, insieme, della inguaribile meschinità storicopolitica dei Savoia. Vittorio Emanuele III aveva confermato, con la sua condotta dal 28 ottobre 1922 all’8 settembre 1943, l’autentica impronta dei mille anni della storia dei Savoia.
Come abbiamo accennato, quello di Salvatorelli era un opuscolo ideato e scritto in un momento di grande, accesa passione politica. La liquidazione dei Savoia rappresentava un obiettivo politico a sé, benché connesso inestricabilmente con la scelta che gli italiani avrebbero dovuto compiere, di lì a meno di due anni, della forma da dare – di monarchia o di repubblica – all’Italia post-fascista. Un discorso volto a illustrare la parte dei Savoia nella storia d’Italia poteva essere un buon contributo per orientare su una larga base storica la scelta degli italiani nel 1946. Gabriele Turi chiarisce bene nell’introduzione il momento e il senso di questa iniziativa politico-culturale di Salvatorelli, richiamando anche la precedente storiografia italiana sui Savoia, rispetto alla quale lo stesso Salvatorelli aveva voluto stabilire o ristabilire la verità storica da un punto di vista diverso da quello della storiografia sabauda o sabaudeggiante, allora nettamente prevalente.
La genesi politica dell’opuscolo e gli intenti polemici di Salvatorelli rendono conto dell’asprezza dei suoi giudizi, per cui sembra quasi, a volte, che sul trono sabaudo non si succeda via via una serie di sovrani fatalmente diversi l’uno dall’altro, ma segga sempre lo stesso Savoia. Molti episodi e aspetti delle vicende sabaude non ricevono un apprezzamento persuasivo. In linea generale, appare difficile accogliere il giudizio di sostanziale estraneità dei Savoia alle radici e alle logiche della storia d’Italia. Già almeno dal secolo XIII in poi l’Italia appare il teatro principale della loro storia, ed è semmai il trasferimento della loro capitale a Torino tre secoli dopo ad apparire un atto tardivo rispetto a un orientamento emerso già da tempo, per quante incertezze o ritorni si siano poi avuti nel seguirlo e realizzarlo. E, in sostanza, è facile rintracciare le mende che si possono ritrovare nei Savoia in qualsiasi altra dinastia o Stato italiano prima dell’unificazione. Invece, la scelta costituzionale del 1848 con l’accettazione di una prassi politica molto, molto lontana da quelle anteriori al 1848 fu soltanto dei Savoia, né la finale, tenace adesione e complicità fascista può essere ritenuta una totale vanificazione del precedente ruolo dei Savoia nella storia italiana in generale e in quella del risorgimento in particolare.
Con tutto ciò l’opuscolo del Salvatorelli non rimane soltanto un documento della battaglia politica che si combatté in Italia fra il 1943 e il 1946 pro o contro la monarchia. L’autore era un troppo buon conoscitore della storia italiana per sostanziare le sue pagine tutte e soltanto con gli argomenti di un atto di accusa. Il suo rifiuto di vedere la storia d’Italia come marcia progressiva e univoca verso un fatale destino di unità è irrefutabile, e bisogna dire che tuttora non tutti gli storici italiani mostrano di averlo davvero e in tutto assimilato. Altrettanto irrefutabile è la sua demitizzazione della storia sabauda, con la congiunta riduzione delle sue dimensioni a quelle di uno Stato italiano che solo nel Seicento assunse un ruolo comparabile a quello che da secoli esercitavano Milano e Roma, Firenze e Napoli, Genova e Venezia. Uno Stato, per giunta, che non pare aver avuto nei suoi annali nessun gigante politico, poiché tali non si possono considerare il Conte Rosso e il Conte Verde, Emanuele Filiberto o Carlo Emanuele I o Carlo Emanuele III, tranne forse, ma solo per alcuni versi, Vittorio Amedeo II, e neppure i re d’Italia, tranne, ma solo in una certa misura, Vittorio Emanuele II.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft