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La politica estera e la diplomazia italiana da Cavour a Crispi. Alcune considerazioni1
di Guido Pescosolido
1. Risorgimento, politica estera e azione politico-diplomatica di Cavour

Per affrontare nella giusta prospettiva e in poche pagine il tema di questo mio intervento non potrò che procedere per sommi capi e iniziando da una considerazione riguardante lo spazio occupato negli ultimi decenni dalla politica estera e dalla diplomazia nell’ambito della storiografia sul Risorgimento e l’Italia unita. E la considerazione è che, nonostante l’ottimo e a tratti eccellente livello degli studi specifici di settore e le ricche raccolte di documenti diplomatici disponibili, tale spazio è stato via via declinante fino a ridursi ai minimi termini. Basta scorrere i più diffusi manuali scolastici di scuola media inferiore e superiore e anche le più recenti e autorevoli trattazioni specifiche di storia dell’età del Risorgimento e dell’Italia liberale, per rendersene conto. Emblematica al riguardo l’assenza quasi completa della dimensione politico-diplomatica degli eventi che portarono all’unificazione nel pur ricco e interessante 22° volume degli Annali della Storia d’Italia Einaudi dedicato al Risorgimento2.
Una tale scelta è evidentemente l’approdo di una sottovalutazione crescente nella storiografia del secondo dopoguerra dell’importanza delle relazioni internazionali nell’insieme del processo di unificazione politica della penisola col conseguente affermarsi nel comune sentire dell’opinione pubblica in senso lato di un giudizio storico sulla nascita dello Stato unitario distorto e riduttivo. Nel migliore dei casi infatti questa è vista come un evento di significativo rilievo della storia politica, economica e sociale interna della penisola, e non anche, come invece fu, anche della storia politico-territoriale dell’intera Europa, nella dimensione principe in cui nell’Ottocento una storia politica continentale esisteva, ossia quella delle relazioni internazionali e del principio dell’equilibrio di potenza che quelle relazioni governava da ben prima del Congresso di Vienna. Nel peggiore dei casi è vista come un evento o di scarso rilievo della storia d’Italia, o addirittura controproducente per la maggior parte delle regioni della penisola. Sempre comunque di rilievo trascurabile o nullo per la storia d’Europa. In altri termini non solo si sottovaluta pesantemente che, con l’Unità d’Italia, si chiuse l’età delle preponderanze straniere nella penisola apertasi con la discesa in Italia di Carlo VIII nel 1494, fu eliminata la presenza politico-territoriale dell’Austria dalla penisola, fu scardinata definitivamente la gerarchia di valori politico-istituzionali del sistema metternichiano imposto a Vienna nel 1815, difeso rigidamente nei congressi di Aquisgrana, Troppau, Lubiana, Verona, e messo in liquidazione con le rivoluzioni e le guerre del 1848-49 e poi con la guerra di Crimea (tutti eventi di grande portata non solo italiana, ma europea); ma soprattutto si passa in sottordine che con l’unificazione dell’Italia e con quella successiva della Germania scomparve dalla storia politico-militare d’Europa quella frammentazione dell’area italiana in decine e dell’area tedesca in centinaia di Stati che aveva trovato la sua sanzione ufficiale nella pace di Westfalia del 1648, contestualmente all’atto stesso della nascita del diritto internazionale e della diplomazia multilaterale. E la frammentazione politico-militare dell’area italiana e di quella tedesca, sedi territoriali di due tra le maggiori nazioni linguistiche e culturali dell’Europa moderna, era stata una costante che nessuna guerra successiva a quella dei Trent’anni aveva rimosso, neppure quelle di Napoleone I. Questi aveva promesso e usato la speranza di un’Italia unita per catturare consensi nella penisola, ma aveva accuratamente evitato di crearvi un grande stato nazionale e ancor meno aveva pensato di farlo in Germania. In questa prospettiva era stato l’ultimo esecutore testamentario della geniale strategia politica “delle porte” ideata dal cardinale di Richelieu negli anni Venti del Seicento e attuata sul piano diplomatico da Giulio Mazzarino con i già ricordati trattati di Westfalia. Secondo quella strategia la Francia poteva aspirare a spezzare l’egemonia asburgica di Spagna e Austria in Europa ed affermare la propria, solo se in Germania e Italia si fosse perpetuata una condizione di frammentazione politica e territoriale interna, che nel caso della Germania era per di più accentuata anche dalla divisione religiosa. Spagna e Austria a loro volta avevano potuto più facilmente mantenere il loro primato in Europa se Italia e Germania fossero rimaste espressioni di significato meramente geografico, e non fossero divenute due grandi Stati nazionali, dotati di autonomia e indipendenza.
Da ciò ancora nell’Ottocento conseguiva che, al di là di qualunque guerra che potessero farsi l’una l’altra per l’egemonia continentale, nessuna grande potenza europea era veramente interessata alla nascita di un grande Stato nazionale in Italia. Neppure la Francia, che pure fu alleata del Piemonte nel 1859 contro l’Austria, e neppure l’Inghilterra, i cui governi rimasero sempre timorosi, specie dopo la prova della Guerra di Crimea, di un rilancio dell’imperialismo bonapartista in Europa a danno della potenza asburgica, che era stata alleata dell’Inghilterra contro l’egemonia del primo Bonaparte.
La monarchia sabauda, Cavour e il movimento nazionale moderato, ma anche quello mazziniano, trovarono dunque l’ostacolo maggiore all’unificazione politica della penisola non nella capacità di resistenza dei sovrani degli antichi Stati italiani né nella difficoltà di mobilitazione di forze politiche popolari unitarie, bensì nel fatto che la formazione dello Stato unitario nella penisola avrebbe significato, al di là della stessa fine dell’egemonia austriaca, urtare contro una delle condizioni basilari sulle quali si era retto per secoli l’equilibrio delle grandi potenze in Europa.
Contro le recenti tendenze riduttive va dunque ribadito anzitutto che il Risorgimento fu una pagina di storia europea di importanza plurisecolare, nella quale le armi e la diplomazia italiana giocarono un ruolo di primo piano quale mai avevano avuto nei precedenti tre secoli e mezzo e che mai più ebbero in seguito, tanto più se si considera che la forza militare del Regno di Sardegna non era certo pari a quella né dell’Austria, né della Francia, né della Prussia. E sul piano della politica estera e dell’arte diplomatica i meriti maggiori furono sicuramente di Cavour, senza tuttavia dimenticare quelli dei due monarchi entrati nell’impresa: Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II. A Carlo Alberto non si può disconoscere di aver avuto nel 1848-49 la lucidità di comprendere che una guerra contro l’Austria era ineludibile se si voleva in qualche modo unificare politicamente l’Italia; e neppure il coraggio di aver affrontato a viso aperto e senza alleati di peso un conflitto che significava l’abbandono della plurisecolare politica estera sabauda di pendolarismo tra due schieramenti in lotta per l’egemonia in Europa, per porsi alla guida di un movimento di indipendenza nazionale. A Vittorio Emanuele II non si potrà disconoscere di aver avuto, dopo una sconfitta militare schiacciante, il coraggio di continuare su una linea di contrasto ideologico e politico con l’Austria, non revocando lo Statuto: una decisione che significava tagliarsi i ponti alle spalle non solo in politica interna, ma anche, e non meno, in politica estera. Quell’atto fu infatti anche un modo per tenere comunque aperta una sfida ai sovrani italiani e all’Austria che per il momento non era in grado di sostenere con le armi.
I meriti di gran lunga maggiori tuttavia sono stati, e giustamente, attribuiti al genio politico-diplomatico di Cavour. La sconfitta del 1848-49 aveva lasciato al Conte due certezze in ordine al progetto unitario: l’ineludibilità di una nuova guerra con l’Austria e l’impossibilità per il Regno di Sardegna e il movimento nazionale di affrontare quella guerra senza alleati. A differenza di buona parte dello schieramento moderato alla Balbo o anche alla D’Azeglio, Cavour non credeva che l’Austria avrebbe mai lasciato l’Italia senza passare per una prova delle armi, ma, a differenza di Carlo Alberto, si era convinto che il Piemonte, anche con l’aiuto dei volontari di tutta la penisola, non avrebbe mai avuto la forza militare per battere l’Austria. In altri termini la politica estera del Piemonte nel 1848-49 aveva contato troppo sull’azione militare e troppo poco su quella diplomatica. Invece solo un’efficace strategia diplomatica avrebbe potuto mettere l’esercito piemontese e le armi del movimento nazionale italiano nelle condizioni di vincere lo scontro con gli Asburgo. Ma avrebbe dovuto essere un’azione diplomatica fortemente politicizzata in senso liberale, espressione degli ideali e degli obiettivi di cui il Piemonte post-quarantottesco aveva raccolto la bandiera, non affidata esclusivamente alla tradizione dinastica sabauda.
Si spiega così l’arretramento che si ebbe, con Cavour presidente del Consiglio, di personalità di formazione militare nella guida del dicastero degli esteri a vantaggio di personalità di formazione puramente politica e/o diplomatica. Come anche si spiega l’avanzata di personalità di estrazione borghese nel reclutamento del corpo diplomatico, le cui basi erano state già poste dalle riforme di D’Azeglio dell’ottobre 1849 e del luglio 1850 (Grassi Orsini, Nicolosi, 2011, Ferraris, 1955). Prima dell’ascesa del conte alla presidenza del Consiglio, la maggior parte dei ministri degli esteri erano stati militari di carriera: Ettore Perrone di San Martino, caduto in battaglia a Novara, Agostino Chiodo, Vittorio Colli di Felizzano,Gabriele de Launay, Alfonso La Marmora. Dalla carriera militare proveniva anche il ministro degli esteri del primo governo Cavour, il generale Giuseppe Dabormida. Dalla guerra di Crimea in poi, però, Cavour, quando non tenne gli esteri per sé, non affidò più quel dicastero a un militare. I suoi ministri degli esteri furono Luigi Cibrario, Luigi Carlo Farini e Marco Minghetti e nelle more dell’unificazione ebbe il suo battesimo diplomatico Emilio Visconti Venosta.
Non che Cavour sottovalutasse l’importanza dell’esercito. Tutt’altro. Nessuna azione diplomatica avrebbe potuto avere successo senza la possibilità di ricorrere a un forte esercito. Le ragioni derivavano dalla sua concezione dello Stato liberale: una monarchia parlamentare nella quale il centro della vita politica e civile fosse non tanto il re quanto il Parlamento, rispetto al quale avrebbero dovuto essere responsabili il governo, l’amministrazione pubblica e le sue articolazioni periferiche. Una visione che non corrispondeva precisamente a quanto contemplato nello Statuto albertino, che configurava un regime costituzionale con forti poteri accentrati nelle mani del re (giudiziario, esecutivo, condivisione col Parlamento del legislativo) e che specificamente all’articolo 5 assegnava solo al re il potere di dichiarare guerra, fare trattati di pace, d’alleanza, “di commercio e altri”, e all’articolo 6 disponeva che “Il Re nomina a tutte le cariche dello Stato”.
Ora, è vero che in concreto, a partire proprio dal Connubio il re cominciò, sia pur malvolentieri, a rispettare la volontà del Parlamento nella designazione del capo del governo, accettando, di fatto, una torsione in senso parlamentare del regime costituzionale sabaudo, ma è vero anche che formalmente non vi fu alcuna modifica statutaria e che nello svolgimento concreto della vita politica, inclusi la nomina dei ministri e il reclutamento dei vertici dell’amministrazione pubblica, il ruolo del sovrano continuò ad essere molto forte e sempre nel senso di un rallentamento delle riforme liberali proposte da Cavour e di attribuzione dei posti chiave a uomini vicini alla monarchia. La dialettica tra la tendenza di Vittorio Emanuele II a gelosamente conservare e possibilmente accentuare la centralità del monarca nella vita politico-istituzionale contro la tendenza cavouriana a rafforzare il più possibile quella del Parlamento, fu sempre serrata e a tratti ebbe momenti di altissima tensione, come in occasione della crisi Calabiana o dell’armistizio di Villafranca, o anche di scontro personale come quando Cavour si oppose al matrimonio del re con Rosa Vercellana.
Dalla visione integralmente liberal-parlamentare dello Stato da parte di Cavour derivava anche il fatto che i due pilastri sui quali poggiava la politica estera, quello militare e quello diplomatico, non stavano per lui sullo stesso piano, ma il ruolo dell’esercito era di complemento all’azione politico-diplomatica, alla quale era primariamente affidata la soluzione dei conflitti, e anche quando la parola fosse passata alle armi, Cavour riteneva che solo un’adeguata preparazione e gestione politico-diplomatica dell’intervento armato avrebbe potuto assicurare un successo utile agli interessi del paese, come si vide in occasione della vivace dialettica intercorsa tra lui e il comando militare del corpo di spedizione in Crimea, dopo che l’intervento in quella guerra a fianco dell’alleanza franco-inglese, era stato sottoposto a un dibattito parlamentare. Essendo la guida degli Esteri una funzione eminentemente politica, sarebbe stato quindi preferibile affidarla a un politico piuttosto che a un militare, visto peraltro che per le forze armate esistevano i ministeri della guerra e della marina. Un ministro degli Esteri e un corpo diplomatico poco proveniente dalla carriera militare e possibilmente di estrazione sociale borghese divenivano pertanto una garanzia di equilibrio istituzionale.
Gli anni di Cavour al potere ebbero dunque un’importanza decisiva nel passaggio da una diplomazia al servizio personale del monarca a una diplomazia strumento di politica governativa dei sistemi rappresentativi di tipo moderno. Fu in questa prospettiva che, oltre all’arretramento dei militari nella guida del dicastero, su 76 funzionari degli Esteri entrati in carriera in quegli anni, 31 erano nobili, mentre 45 erano borghesi. E nella stessa prospettiva vi fu una redistribuzione di incarichi diplomatici e consolari tutta tesa a creare una struttura operativa in sintonia con gli indirizzi liberal-parlamentari cavouriani.
Su queste premesse di ordine teorico e pratico generale si sviluppò l’azione politico-diplomatica di Cavour, che portò all’intervento in Crimea, al Congresso di Parigi, agli accordi segreti di Plombières, al trattato di guerra contro l’Austria e soprattutto alla dichiarazione di guerra dell’Austria al Piemonte. Per altro verso Cavour riuscì a portare Napoleone III a combattere in Italia contro l’Austria, secondandone tacitamente l’aspirazione a ristabilire l’egemonia francese nella penisola, ma facendolo infine trovare nella condizione di accettare l’acquisto di Nizza e Savoia in cambio dell’assenso all’annessione da parte del Piemonte di quell’Italia centrale che invece l’Imperatore aveva pensato di dare al principe Gerolamo Napoleone. Inoltre, a conclusione dell’impresa dei Mille, lo mise nella condizione di accettare l’annessione al Regno di Vittorio Emanuele II di quel Regno delle Due Sicilie che in realtà egli, sin da Plombières, avrebbe voluto dare a Luciano Murat. Il che significava la nascita di quel grande Stato nazionale italiano che la diplomazia francese aveva sempre indicato come un evento contrario agli interessi nazionali francesi e che lo stesso imperatore non avrebbe voluto. Infine Cavour mise il governo inglese, che, dopo le ambigue aperture verbali al Congresso di Parigi, aveva sempre declinato ogni richiesta di alleanza con il Piemonte in funzione antiaustriaca, nella condizione di fare buon viso al ridimensionamento austriaco e all’unità politica della penisola, in cambio del blocco delle mire espansionistiche bonapartiste che la nascita dello Stato unitario, di fatto, sanciva. Tutto ciò a fronte dell’incapacità dei due ultimi sovrani borbonici di concepire una strategia diplomatica e militare idonea a contrastare il dinamismo piemontese, a partire dalla decisione di Ferdinando II di non accogliere l’invito russo a intervenire nella guerra di Crimea e le ripetute sollecitazioni austriache a non esasperare il contrasto con l’Inghilterra.
Quella di Cavour resta una delle più brillanti e importanti operazioni politico-diplomatiche che la storia delle relazioni internazionali dell’Europa in età moderna ricordi, realizzata in un contesto nel quale l’azione degli ambasciatori italiani nelle principali capitali italiane ed europee assicurò all’azione del governo un supporto di grandissima efficacia, che forse non ha ricevuto a livello storiografico tutto il dovuto rilievo.



2. Una pesante eredità

A quanti condussero la politica estera italiana dopo l’improvvisa morte di Cavour restò un’eredità molto scomoda da gestire.Qualunque pur positivo risultato ottenuto perdeva inevitabilmente il confronto con l’oggettiva eccezionalità e irripetibilità di quanto conseguito dal Conte nel 1859-61. In realtà se si guarda ai traguardi raggiunti dalla politica estera della Destra storica e della Sinistra prescindendo da impossibili e gratuiti confronti con il passato preunitario e tenendo conto delle gravissime condizioni economiche sociali e della finanza pubblica, il giudizio non può essere che largamente positivo, uno dei più positivi di tutta la storia dell’Italia contemporanea.
L’acquisizione del Veneto e di Roma fu un risultato di primo piano a livello europeo, ma nondimeno lo fu il riconoscimento del Regno d’Italia da parte dei maggiori Stati esteri, ottenuto grazie all’azione efficacissima del corpo diplomatico. Nell’autunno-inverno 1860, le maggiori potenze avevano richiamato i loro rappresentanti da Torino: per prima proprio la Francia, poi la Russia, la Spagna, la Baviera, mentre la Prussia aveva minacciato di farlo. Nella maggior parte d’Europa era diffuso un notevole scetticismo sulla capacità di sopravvivenza del nuovo Stato e conseguentemente all’indomani della nascita del Regno non si tenne alcun congresso internazionale per conferire ad esso il riconoscimento ufficiale della comunità internazionale. Il riconoscimento bilaterale da parte dei singoli Stati esteri rimase l’unica via per ottenere una legittimazione della comunità internazionale, senza la quale il Regno d’Italia, oltre a restare un soggetto politico istituzionalmente isolato, non avrebbe mai avuto sui mercati finanziari esteri e ancor meno su quello interno, la credibilità necessaria al collocamento delle cartelle del debito pubblico per far fronte al pauroso deficit di bilancio e all’eredità del già imponente debito degli Stati preunitari. Il lavoro bilaterale fatto con ciascuno degli Stati che via via riconobbero il Regno fu pertanto molto problematico e si protrasse per quasi cinque anni. E ciò avvalora l’importanza del successo ottenuto.
Anche se non pari alle aspettative, fu un successo soprattutto politico-diplomatico anche l’annessione del Veneto in seguito alla guerra del 1866: guerra vinta, nonostante due battaglie perse, grazie appunto alla strategia delle alleanze che aveva fatto ritrovare di nuovo l’Austria isolata contro Italia e Prussia, senza che si scatenasse una guerra continentale in suo soccorso. A meriti politico-diplomatici fu dovuta anche la presa di Roma, evento militarmente di modeste dimensioni ma di rilievo etico e politico di portata universale.
Sul versante dei rapporti tra organi istituzionale e nella configurazione della struttura del personale la scomparsa di Cavour segnò un inevitabile recupero di spazi di intervento da parte del re e una conseguente battuta d’arresto nell’imborghesimento del personale sia diplomatico, sia consolare, sia dell’amministrazione centrale del ministero. Ricomparvero quindi i militari di carriera alla guida degli Esteri e alla presidenza del Consiglio (Alfonso La Marmora, Giacomo Durando, Federico Pescetto, Luigi Federico Menabrea, e poi negli anni Ottanta di Robilant e Brin). I passi falsi di Rattazzi nelle vicende di Aspromonte e Mentana risentirono molto dell’influenza e del temperamento di Vittorio Emanuele II. Tuttavia furono solo parentesi poco felici e senza conseguenze irreparabili in una condotta della politica estera che completò il disegno politico-diplomatico concepito da Cavour e ottenne risultati non più superati nella nostra storia, se non con la vittoria nella Grande Guerra. E anche nella composizione del corpo diplomatico, nonostante l’uscita di scena entro il 1866 di quasi tutto il personale che aveva affiancato Cavour, le sostituzioni controllate da Emilio Visconti Venosta garantirono una continuità di prevalenza dell’indirizzo liberal-parlamentare-borghese, un potenziamento di sedi all’estero e di personale al centro, richiesto dalle accresciute dimensioni del raggio della politica estera di un grande Stato quale era il Regno d’Italia. Nel senso del recupero di linea parlamentare cavouriana avvenne ad opera di Visconti Venosta anche la riforma di poteri e funzioni diplomatiche e burocratico-amministrative nella quale, alla possibilità del ministro di scegliere i titolari delle missioni all’estero anche fuori dai ranghi della carriera diplomatica, corrispondeva una valorizzazione della figura del segretario generale al fine di porre l’amministrazione degli Esteri al riparo dalla volubilità dei governi e anche dalle influenze della Corona a garanzia della continuità dei processi politici e amministrativi.



3. Dalla politica di raccoglimento alla crisi di Tunisi

Tra la morte di Cavour e l’avvento di Crispi al potere i ministri degli esteri e il corpo diplomatico ebbero un’incidenza mai più avuta nella storia della politica estera e nella storia del paese tout court. In particolare vi furono tre ministri degli esteri, due dei quali con formazione e lunga esperienza nella diplomazia, che mai furono a capo del governo, ma che, nondimeno, furono i maggiori artefici di indirizzi e scelte di politica estera che segnarono svolte cruciali nella storia d’Italia: Emilio Visconti Venosta, Pasquale Stanislao Mancini, Carlo Nicolis di Robilant.
Il primo fu il vero erede di Cavour nei rapporti con l’estero. Mazziniano convertitosi al moderatismo nel 1853, era stato eletto deputato nel 1860 ed aveva accompagnato Luigi Carlo Farini nelle delicate missioni diplomatiche a Modena e Napoli. Soprattutto però era stato inviato da Cavour a Londra e Parigi per tenere i rapporti diplomatici con i governi inglese e francese nella fase decisiva dell’unificazione. Cosa che aveva fatto magistralmente. Nel 1863 assunse il dicastero degli esteri nel governoMinghetti e, comeministro, sottoscrisse con la Francia la “convenzione di settembre” relativa alla “questione romana”. Fu di nuovo nominato ministro degli Esteri con Ricasoli all’indomani della sconfitta di Custoza del 1866 per gestire la delicata fase della conclusione della guerra. Dopo una breve parentesi, riprese la guida del dicastero nel dicembre 1869 e la mantenne fino alla fine del governo della Destra, nel 1876. Affrontò dunque la posizione scomodissima nella quale si trovò l’Italia nel momento in cui la Francia fu attaccata dalla Prussia e l’unico soccorso italiano alle armi francesi fu quello portato dal corpo di volontari comandato daGaribaldi. E fu lui, caduto il regime di Napoleone III (al quale era stato legato da una consuetudine che non era stata solo di fredda relazione diplomatica) a far accettare all’opinione pubblica internazionale e al concerto delle potenze europee la presa di Roma e la fine del potere temporale della Chiesa. Quell’atto era uno strappo unilaterale e senza precedenti all’ordine politico territoriale della penisola, perché consumato violando per la prima volta un accordo internazionale ufficialmente sottoscritto dallo Stato italiano con una potenza straniera (la Convenzione di settembre), e nel contempo infliggeva un colpo durissimo alla sensibilità e alla coscienza di milioni e milioni di cattolici non solo d’Italia, ma di Francia, d’Austria e dell’intera Europa, compresa quella Spagna sul cui trono nello stesso 1870 salì il principe Amedeo di Savoia, anche se per soli tre anni.
Occorreva dunque raffreddare la tensione sul fronte asburgico e instaurare buoni rapporti con la Germania, e in tale prospettiva Visconti Venosta fu il regista sapientissimo delle visite di Vittorio Emanuele II a Vienna (1873) e Berlino (1875); ma occorreva anche riannodare i fili spezzati del rapporto diplomatico con la Francia della Terza Repubblica, la cui vita politica era fortemente influenzata da correnti clerico-monarchiche molto ostili all’Italia. Uno Stato, la Francia, che per Visconti Venosta restava pur sempre quello che con il suo intervento militare, al di là dei diversi intendimenti e interessi che lo avevano mosso, aveva di fatto dato il via alla fase decisiva dell’unificazione italiana, e col quale, last but not least, l’Italia realizzava oltre il 50% del proprio interscambio commerciale con l’estero. Prudenza e raccoglimento erano d’altronde consigliati anche dalla situazione finanziaria ed economica interna, per la quale non era minimamente ipotizzabile un’altra guerra.
Furono queste le linee che continuarono a prevalere anche dopo la “rivoluzione parlamentare” del 1876, quando Visconti Venosta dovette lasciare il dicastero e Depretis e Cairoli si alternarono alla guida del dicastero con due diplomatici di carriera come Luigi Amedeo Melegari e Luigi Corti, i quali però rimasero saldamente ancorati alla politica delle “mani nette”.
Le cose cominciarono a cambiare dopo il Congresso di Berlino, vissuto da larga parte dello schieramento parlamentare e dell’opinione pubblica come una forte umiliazione di fronte al protagonismo tedesco e austriaco. Cominciarono allora a farsi largo inquietudini e insofferenze rispetto a quella che per sette-otto anni era stata la linea politica della Destra nei rapporti con l’estero, imperniata sul binomio liberismo commerciale - pacifismo politico-territoriale a Roma conquistata. E le inquietudini avevano fondamenti abbastanza concreti, che non erano solo quelli destati dal fatto che a Berlino l’Austria aveva avuto il riconoscimento dell’occupazione della Bosnia, senza alcun compenso all’Italia nelle Venezie irredente in nome di quel principio dell’equilibrio in nome del quale lo stesso Congresso era stato convocato per imbrigliare l’espansionismo russo. Il fondamento maggiore delle inquietudini italiane, a livello di opinione pubblica e a livello di classe politica e corpo diplomatico, derivava dal fatto che a Berlino, in nome del principio dell’equilibrio, oltre che il riconoscimento all’Inghilterra dell’acquisto di Cipro, era stata data da Germania e Austria carta bianca alla Francia per Tunisi, che, e sia pure in forma meno chiara, era stata indicata anche all’Italia come possibile area di espansione. Situazione di fronte alla quale era chiaro che la politica delle mani nette aveva ormai dei termini di scadenza abbastanza ravvicinati, anche se Corti e Cairoli continuarono a ritenere non conveniente un passo in Africa e di primario interesse invece il consolidamento del confine orientale, senza tuttavia forzare concretamente i rapporti con i due Imperi dal 1879 ormai alleati nella duplice e sempre nella visione che il compenso dall’Austria dovesse essere semplicemente gratuito a compenso della Bosnia.
La situazione finanziaria e economica generale dell’Italia appariva d’altronde proibitiva rispetto a un eventuale impegno bellico su qualunque dei due fronti, e sul piano diplomatico a fronte della chiusura austriaca sul fronte orientale, sul versante africano esisteva il problema che un’occupazione della Tunisia avrebbe consegnato all’Italia il controllo completo del canale di Sicilia, cosa che non sarebbe piaciuta non solo alla Francia, ma neppure all’Inghilterra. A favore di un’occupazione di Tunisi militava però il fatto che in quella regione la colonia italiana era la più folta tra quelle straniere presenti e alla Tunisia si era stati naturalmente portati a pensare sin da quando l’annessione del Mezzogiorno allo Stato italiano nel 1860-61 aveva idealmente aperto la via di una proiezione italiana nel Mediterraneo e che comunque, ove la Francia, come poi fece nel 1881, avesse imposto il protettorato sulla Tunisia, l’Italia sarebbe rimasta, come rimase, l’unica delle grandi potenze partecipanti al Congresso di Berlino, a restare con le mani vuote. Né poteva bastare minimamente sul piano del prestigio internazionale, che nel 1878, senza collegamento con la delusione di Berlino, vi fu il primo segnale di cambiamento sul versante dei rapporti economici con l’estero con l’adozione della nuova tariffa doganale generale. Tariffa con finalità eminentemente fiscali piuttosto che dirigiste e che pure pose le premesse per un’inevitabile revisione anche dei trattati commerciali bilaterali, a partire da quello con il partner più importante, la Francia.
Quando quindi nel 1881 la Francia si impadronì di Tunisi, la politica delle mani nette giunse al suo capolinea assieme al ministro e al governo che l’avevano impersonata. L’avvento al dicastero degli esteri di Pasquale Stanislao Mancini, non per caso un meridionale, ne fu l’ufficializzazione a livello istituzionale.



4. La Triplice e la politica coloniale da Mancini a Crispi

Pasquale Stanislao Mancini fu la seconda delle tre grandi figure di politici e diplomatici che condussero la politica estera italiana giocando un ruolo superiore anche a quello dello stesso capo del governo di cui facevano parte. Dei tre Mancini ebbe sicuramente la più elevata e complessa statura politica e intellettuale. A differenza degli altri due aveva avuto formazione culturale ed esperienza professionale e pubblica al di fuori della politica estera e della carriera diplomatica. La sua cultura giuridica, l’attività forense, il suo vivacissimo impegno come pubblicista e promotore di iniziative editoriali nella Napoli degli anni Quaranta erano stati la solida base del suo impegno diretto nella vita politica e istituzionale che si era proiettato ai massimi livelli nell’esperienza costituzionale napoletana del 1848. Esule a Torino, nel 1850 quale membro della commissione per la revisione della legislazione civile e penale, aveva preparato per il governo piemontese vari progetti di legge, fra cui un “Progetto per la creazione di una scuola diplomatica” che si proponeva di fornire al ministero degli Esteri una nuova classe dirigente che non fosse di provenienza solo e prevalentemente aristocratica.
Divenuto titolare della cattedra di diritto internazionale pubblico e privato e diritto marittimo, nel 1851 aveva tenuto la prolusione La nazionalità come fonte del diritto delle genti. Grazie ad essa era divenuto il massimo teorico italiano del principio di nazionalità e della promozione ideologica delle nazioni a soggetti di diritto internazionale, dando una coerente veste giuridica a un concetto che avrebbe animato e regolato la storia d’Europa nei decenni successivi. Era stato quindi relatore nella commissione per la statistica giudiziaria e nel 1857 consigliere del ministero degli Esteri per gli affari diplomatici e il contenzioso diplomatico. Deputato al Parlamento nazionale dal 1860 nella sinistra democratica, era stato per qualche settimana ministro della Pubblica istruzione nel ministero Rattazzi (1862) e soprattutto aveva avuto un ruolo di primo piano nell’unificazione legislativa realizzata nel 1865. Nominato presidente dell’Istituto di diritto internazionale nel 1873, nel 1876 ebbe il dicastero della Giustizia nel ministero Depretis, per il quale prospettò varie riforme e istituì una commissione per la redazione del codice penale. Nel 1881, all’indomani dello “schiaffo di Tunisi” era sembrato la persona più adatta, per esperienza politica complessiva e per competenza giuridica nelle relazioni internazionali, a guidare il ministero degli Esteri e affrontare una situazione di difficoltà senza precedenti dalla presa di Roma in poi.
I risultati della politica estera di Mancini ebbero una cruciale importanza per le relazioni internazionali dell’Italia e un impatto ragguardevole sul mantenimento della pace in Europa. L’alleanza difensiva dell’Italia con la Germania e con l’Austria, che a gran parte dell’opinione pubblica sembrò la più innaturale delle alleanze possibili per l’Italia, dimostrò però concretamente alla Francia che l’Italia non sarebbe più restata inerte di fronte a un colpo come quello subito in Tunisia, e ciò apparve alla comunità internazionale come un segno inequivocabile dell’uscita dell’Italia da quello stato di sostanziale dipendenza dalla Francia, nel quale era apparsa relegata sin dalla sua nascita. A ciò si aggiungeva il fatto che, se speranze di una riapertura della questione romana qualcuno in Italia e all’estero aveva sino a allora creduto di poter coltivare, ora, con un patto che implicava la garanzia dell’integrità territoriale dei sottoscriventi, esse venivano di fatto definitivamente chiuse, sia sul fronte dei cattolici austriaci e tedeschi, sia sul fronte francese. In definitiva, e direi soprattutto, l’adesione dell’Italia all’alleanza austro-tedesca determinava un enorme rafforzamento del sistema difensivo tedesco contro il quale sarebbe stato impossibile qualunque tentativo revanchista francese, ponendosi quindi come una garanzia di mantenimento della pace in Europa che si sarebbe infranta solo nel 1914.
Meno eclatanti, sostanziali e duraturi furono invece i risultati della svolta impressa da Mancini alla politica coloniale italiana, che avvenne nell’impellenza di dare una risposta all’attivismo in primo luogo della Francia, ma anche dell’Inghilterra, del Belgio e della stessa Germania in campo coloniale ma soprattutto nel Mediterraneo. Le difficoltà in tal caso erano di ordine non solo finanziario e militare, ma anzitutto ideale, ideologico ed etico, e lo erano in particolare per chi come Mancini, era sin dal 1851 considerato a livello europeo come il massimo teorico del diritto delle nazioni all’indipendenza e alla libertà. Fu soprattutto per questo motivo che, nel 1882, mentre acquistava pacificamente la baia di Assab dalla Rubbattino e teorizzava il principio di una colonizzazione italiana pacifica e finalizzata a scambi commerciali, Mancini rinunciò all’invito dell’Inghilterra ad affiancarla nell’intervento armato in Egitto. E tuttavia, di fronte all’accesissima campagna di stampa che la rinuncia del 1882 aveva scatenato nel paese e nella speranza di un possibile invito dell’Inghilterra ad aiutarla a soccorrere Gordon assediato in Sudan, all’inizio del 1885 realizzò l’occupazione militare di Massaua sperando che, con un prosieguo in Sudan, gli avrebbe permesso di ritrovare nel Mar Rosso quella chiave per accedere alla sponda africana del Mediterraneo che aveva perso nel 1882 in Egitto. Ma quell’invito non ci fu mai e l’occupazione di Massaua si trasformò in un’operazione concepita senza prospettive di ulteriore seguito, causando dopo sei mesi la fine della carriera politica di Mancini.
L’Africa fu fatale anche al successore di Mancini, Carlo Felice Nicolis conte di Robilant,militare di gloriosa carriera, ferito gravemente nella battaglia di Novara, decorato, ambasciatore a Vienna dal 1871 al 1885, poi di nuovo ambasciatore a Londra dopo le sue dimissioni da ministro degli esteri nel 1887. Neppure a lui bastarono i successi guadagnati sul fronte europeo per rimediare al rovescio della sconfitta di Dogali. E non erano successi dappoco. Da parte della storiografia è considerato il vero artefice della Triplice alleanza. In effetti, oltre che essere l’esecutore diplomatico di Visconti Venosta non solo a Vienna,ma anche a Berlino in occasione degli incontri tra i sovrani dei tre paesi (1873-75), la sua pressione su Mancini a sottoscrivere il trattato del 1882 fu forte e prolungata; e fu decisiva la sua abilità nel trovare le formule diplomatiche adatte a superare la rigidità austriaca nella stretta finale delle trattative. Inoltre dalla sua corrispondenza è emerso che sin dalla metà degli anni Settanta, quindi ben prima dello schiaffo di Tunisi, egli sosteneva l’opportunità di risolvere il problema dell’irredentismo italiano sulle frontiere austriache in compenso dell’espansione dell’Austria nei Balcani, riprendendo con ciò la vecchia idea di Cesare Balbo. E tuttavia è difficile relegare in secondo piano i meriti di Mancini in un rovesciamento di alleanze che fu operazione di portata non semplicemente diplomatica, ma di politica generale e di competenza decisiva del governo e del re. Del tutto indiscussa invece l’attribuzione al di Robilant del rinnovo della Triplice del 1885-87, che non fu un semplice rinnovo, ma un nuovo trattato ben più efficace del primo nella tutela degli interessi italiani sulla frontiera orientale in caso di ingrandimenti austriaci nei Balcani, e nel Mediterraneo (Cirenaica, Tripolitania, Tunisia) col corredo di trattati separati con l’Inghilterra e la Spagna.
Di Robilant lasciò a Francesco Crispi un sistema difensivo praticamente perfetto e Crispi, non fece altro che seguire le strategie di politica estera avviate da Mancini e di Robilant sia in Europa che in Africa. Lo fece nella sua prima esperienza di governo tenendo per sé il dicastero degli Esteri, e lo fece anche nella seconda affidando l’incarico a un diplomatico di lungo corso, Alberto de Blanc, al quale tuttavia non consentì mai un livello di autonomia e iniziativa del tipo di quello avuto da Visconti Venosta,Mancini, o anche di Robilant. Ciò anche perché era convinto che la diplomazia che riceveva in eredità da Depretis e di Robilant non fosse all’altezza della stagione di politica estera che attendeva i suoi governi. Promosse infatti una nutrita serie di sostituzioni negli incarichi del personale sia nell’amministrazione centrale del ministero sia nelle missioni diplomatiche e nelle sedi consolari all’estero, che gli permise di tenere costantemente e saldamente nelle proprie mani le redini della politica estera, anche quando questa, nella sua componente africana, assunse indirizzi e significati che, al momento dello sbarco di Massaua e anche all’indomani di Dogali, erano rimasti in secondo piano o del tutto assenti. Nella fase della massima proiezione in senso triplicista sul fronte europeo, la politica estera crispina smise di porre al primo posto la ricerca di uno sbocco nella sponda nord-africana, che era stata l’arma vincente del Crispi nel 1882-85 contro le scelte eritree di Mancini – che comunque non aveva mai smesso di cercare le “chiavi” del Mediterraneo nel Mar Rosso, e puntò invece decisamente alla creazione di un grande impero coloniale nel corno d’Africa. Grazie ad esso tento di raggiungere due obiettivi fondamentali, entrambi mancati: soprattutto affermare nel contesto internazionale una prestigiosa dimensione colonialista e imperialista dell’Italia,ma anche risolvere in un colpo solo il problema dell’emigrazione meridionale all’estero, auspici i risultati degli esperimenti di colonizzazione dell’altipiano etiopico effettuati da Leopoldo Franchetti a Godofelassi, Gura e Asmara nel 1894 e il 1895, che lo convinsero di poter accantonare il suo progetto di spartizione del latifondo siciliano. La politica estera divenne quindi il campo sul quale Crispi giocò la sua partita politica decisiva, e la giocò assumendone di fatto direttamente la guida, giungendo alle note pressioni dirette sul generale Baratieri nell’imminenza della battaglia di Adua. E anche per questo quella sconfitta travolse non solo il de Blanc, come era avvenuto per Mancini e di Robilant, ma travolse lui stesso e definitivamente.
La caduta di Crispi impresse quindi una svolta incisiva nei rapporti dell’Italia con l’estero, assai più della sua ascesa. Nel 1896 si ebbe infatti il ritorno agli Esteri di Emilio Visconti Venosta, il quale avviò un’immediata distensione dei rapporti con la Francia e una sia pur lenta e prudente presa di distanze dagli Imperi Centrali: cosa che Crispi si era ben guardato dal fare, andando invece in direzione esattamente opposta.






Bibliografia essenziale

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NOTE
1 Testo dell’intervento tenuto il 5 novembre 2015 col titolo L’Ottocento italiano: da Cavour a Crispi, nell’ambito del Seminario Diplomazia multilaterale e interesse nazionale dal Congresso di Vienna (1815) all’atto finale di Helsinki (1975) e oltre. La tradizione diplomatica italiana. Atti in corso di pubblicazione.^
2 Il Risorgimento a cura di A.M. Banti e P. Ginsborg, Torino, Einaudi, 2007.^
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