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La «Venere Vaga e Ferina». Il dibattito su sifilide e prostituzione a Napoli nel Secondo Settecento
di Antonio Borrelli
Antonio Genovesi e la sifilide

Nel corso del Settecento la medicina napoletana, proseguendo metodi e sperimentazioni della secentesca Accademia degli Investiganti1, si rinnovò utilizzando le nuove scoperte della fisica, della chimica e delle scienze naturali e i suoi frequenti contatti con la cultura scientifica europea. Un processo, avviato dall’Accademia delle scienze di Celestino Galiani2 e proseguito dal lavoro di medici come Nicola Cirillo, Francesco Serao e Carlo Curzio, che trovò un primo significativo risvolto istituzionale nella fondazione della «Scuola di medicina degl’Incurabili», una sorta di clinica medica universitaria, inaugurata nel 1780 nel più importante ospedale della città3, nella quale operarono celebri scienziati come Domenico Cotugno, Michele Troja, Giuseppe Saverio Poli e Giovanni Vivenzio. Grazie soprattutto all’insegnamento di Antonio Genovesi, nella seconda metà del secolo la medicina prestò attenzione non solo alla salute del singolo ammalato, ma anche a quella della collettività nel suo complesso. La stessa figura del medico cambiò: oltre a intrattenere rapporti professionali privati con i pazienti, il medico fu sempre più un funzionario pubblico, ricoprendo un ruolo di primo piano nelle strategie sanitarie dei governi. Fu per questo che l’abate guardò con interesse alla formazione di accademie mediche, alle riforme delle facoltà scientifiche, al rinnovamento delle strutture ospedaliere. Nel secolo dei lumi la medicina divenne una preziosa alleata dei filosofi e degli economisti, uno strumento fondamentale per favorire l’incremento demografico, soprattutto fronteggiando le grandi e piccole epidemie di febbre, colera, vaiolo e sifilide. In tutta Europa i medici si impegnarono a trovare rimedi terapeutici e sanitari per combattere queste malattie contagiose che mietevano migliaia di vittime.
Intorno alla metà del Settecento, Giangiuseppe Origlia, nel tracciare un dettagliato quadro degli studi superiori nella capitale, si soffermava ovviamente anche sui medici e sulla medicina. Di quest’ultima aveva un’opinione così alta da pareggiarla, per importanza, alla
scienza delle leggi»: «Quanto al temporale quel che per lo suo regolamento [la società umana] in primo luogo ha bisogno – scriveva –, egli è sicuramente la scienza delle leggi, come quella la quale regolando la giustizia, che gli uomini tra lor si devono in ogni genere d’affare, il quale l’unioni, gl’impegni, e gli altri seguiti della società, può mai tra lor far nascere, e in ordine ad esso di un’assoluta necessità. E in secondo luogo par che richieda senza dubbio la medicina inventata per lo più grande di tutti i beni temporali, ch’è la sanità, e la buona disposizione; e sebbene questa non riguardi, che indirettamente l’ordine generale della società, non si può negare, ch’ella non sia di singolar vantaggio per i particolari; li quali essendo membri del corpo di quella, il lor ben comune è ragione, che si riguardi come ben pubblico. Or questa necessità sì assoluta, che ogni società umana ha dell’uso delle scienze, è stata appunto la cagione, come ben scrive un dotto Giureconsulto Francese [Jean Domat], per cui da ogni Nazione ben culta si pensò fin da’ suoi Principj all’instituzione dell’Università Letterarie […]4.


Nelle Lezioni di commercio, la cui prima edizione uscì a Napoli tra il 1765 e il 1767, Genovesi ricordò fra le malattie contagiose anche la sifilide, che descriveva in questo modo:

Questo morbo, che altri crede esser venuto di America, e altri essere stato antichissimo in Asia, e in Europa, nasce da un sottile, e penetrantissimo veleno, il quale non solo attacca le parti genitali, ma si dissipa, e si diffonde per tutte le membra del corpo umano: vi s’insinua, e nasconde, e per modo tale, che, benché sembri delle volte far tregua, nondimeno rarissime fa pace: imperciocché egli torna bene spesso col volgere degli anni sotto l’aspetto di diversi malori, e guasta in mille maniere la sanità, non solo abbreviando la vita, ma talora uccidendo repentinamente. Storpia i membri di chi n’è stato infetto, e talmente che moltissimi, come i seguaci d’Ulisse per le tazze di Circe, perdono l’aspetto umano5.


Un malattia terribile, quindi, che il filosofo descriveva con competenza scientifica, rilevando, tra l’altro, le conseguenze che avrebbe prodotto nelle future generazioni. Una malattia che non si fermava a coloro che ne erano stati colpiti, non permettendo loro più di generare, ma si trasmetteva, attraverso i germi, ai figli di coloro che erano riusciti a farlo.

Quindi spesso avviene – scriveva – non solamente, che altri non generino, ma che i fanciulli, i quali da infetti genitori nascono, vengano al mondo imbecilli di corpo, e di animo, e, se mi è lecito dir così, con questo secondo peccato originale: cosa, che non di rado sbarbica interamente le famiglie6.


Da un punto di vista sociale, la sifilide, a differenza delle altre malattie contagiose, appariva più pericolosa, più devastante, in quanto intaccava la capacità dell’uomo di mettere al mondo figli, di dare vita a nuclei familiari; fenomeno che, a sua volta incideva negativamente sull’economia delle nazioni. Senza la nascita di bambini, la popolazione e la forza lavoro non sarebbero aumentate e, di conseguenza, neppure la ricchezza generale. L’incremento della popolazione era il «primo fine dell’economia politica»:

Ora due essendo, come è detto, i fini dell’economia politica – scriveva Genovesi nel Ragionamento sul commercio in universale –, e due perciò le scienze ch’ella abbraccia, la prima e principale è quella di sapere come e per quai mezzi rendere la nazione il più popolosa che sia possibile, perché, quando ella sia tale, colui che n’è sovrano avrà anch’egli la massima possibile ricchezza e potenza, e saranno maggiori quelli beni onde nasce la naturale felicità degli uomini, e più grandi le forze da ribattere i mali che sogliono à popoli sopravvenire7.


Per quanto riguardava, in particolare, il Regno delle Due Sicilie, aggiungeva: «Ora quando fosse il popolo cresciuto del doppio, e tutto ben impiegato, sarebbero del doppio cresciute altresì le sue ricchezze e le rendite del sovrano, e con ciò la sua forza divenuta del doppio maggiore»8. L’incremento della popolazione dipendeva dall’aumento dei matrimoni, che bisognava incoraggiare con ogni mezzo, prevedendo anche «premi, franchigie, onori, ecc.». Solo con i matrimoni gli uomini si riproducevano e moltiplicavano. Al contrario, la sifilide, la «Venere vaga e ferina per mille e mille maniera» disperdeva «i frutti delle umane congiunzioni»9. Per questo, Genovesi considerava la sifilide una malattia che non poteva essere affrontata solo dalla medicina, ma richiedeva l’intervento del «governo civile».
In altre parole, per combattere il «mal francese o mal napoletano» che, come rilevava Michele Sarcone nel 176510, faceva «strapazzo della salute umana» ed era «più del bisogno» frequentissimo a Napoli, non erano sufficienti i rimedi terapeutici, non bastava la medicalizzazione della malattia; c’era bisogno di «qualche rimedio politico, il quale – scriveva ancora Genovesi – se non l’estirpasse, il riducesse almeno a tale, da non poter tanto nuocere alla popolazione di Europa, quanto egli fa di presente»11. Come era avvenuto con la lebbra, buoni risultati per estirpare questa malattia si ebbero quando i sovrani si convinsero di costruire i lazzaretti, ospedali dove venivano accolti e curati i lebbrosi, lontani da ogni possibilità di contatto con il resto della popolazione. Qualcosa di simile bisognava fare, secondo l’abate, con la sifilide. In questo caso, però, non si trattava di isolare i sifilitici, quanto piuttosto di accogliere le prostitute, principale veicolo della malattia, in appositi luoghi, ormai presenti, nella seconda metà del Settecento, nelle principali città europee.
Conoscendo bene la natura umana, Genovesi comprese con realismo che la prostituzione era un fenomeno non facilmente estirpabile dalla società12. Risultava pertanto molto più utile ed efficace creare le condizioni igienicosanitarie per rendere questo antico mestiere, «tutto questo mercato», come egli lo chiamava, il meno dannoso possibile alla salute dei cittadini. Citando un libretto, uscito da poco in Francia con il titolo Venus politique, l’abate condivideva la proposta dell’autore, del quale non si conosce il nome, di regolare con specifiche leggi i postriboli: «È una massima di tutti i Politici, e d’ogni uomo dabbene e savio, che dove alcuni mali civili non possono dell’intutto scamparsi per timore di maggior danni, si vogliono sottoporre a certe leggi, e regolarsi in modo, che danneggino il meno che si possa: per questa massima in tutti i paesi i più culti e politi si tollerano i lupanari. E in questo il citato autore fonda il suo sistema»13. Quello che Genovesi e altri pensatori coevi proponevano non era altro che l’istituzione di una «polizia medica» che regolasse, con specifici provvedimenti, la vita e la salute delle prostitute14. In pratica lo Stato doveva assumersi il compito e l’onere di garantire, per così dire, rapporti sicuri a quei cittadini che non intendevano abbandonare il «vizio dell’incontinenza sessuale»15.
Genovesi riprendeva le posizioni espresse alcuni decenni prima, in maniera molto più articolata, da un altro religioso, il beato Gennaro Maria Sarnelli, molto noto a Napoli per essere stato, insieme con sant’Alfonso Maria De Liguori, uno dei fondatori della Congregazione dei Padri Redentoristi. Sarnelli aveva dedicato parte della sua vita per combattere il fenomeno, sempre più ampio e diffuso, della prostituzione. Nel 1735 aveva pubblicato nella capitale il volume Ragioni cattoliche, legali e politiche in difesa delle repubbliche rovinate dall’insolentito meretricio16 nel quale elencava, con minuziosità certosina, gli innumerevoli mali che arrecava alla società il flagello della prostituzione. Come l’amico e confratello De Liguori, Sarnelli aveva una formazione giuridica, usava con abilità le armi della retorica e della persuasione. Lo stile delle sue pagine, molto diverso da quello pacato e razionale di Genovesi, anticipava quello del santo napoletano, in particolare degli Esercizi di missione, che apparvero a Napoli nel 1761. In fondo la lotta di Sarnelli alla prostituzione era una vera e propria missione redentorista: convincere i napoletani ad abbandonare la lussuria, mostrando loro la «Babilonia» in cui si trovavano da vivi e l’orrore che li aspettava da morti. Il mondo della prostituzione, le meretrici e i loro frequentatori, venivano descritti come l’attuazione dell’Inferno sulla Terra, con relativo accompagnamento di fiamme e diavoli, pianti e lamenti. L’autore intendeva trasmettere ai lettori l’immagine viva e concreta di ciò che sarebbe toccato in sorte a peccatrici e peccatori per aver suscitato, con i loro cattivi costumi, «l’ira divina». Il pensiero del beato andava soprattutto all’indifesa gioventù, quella stessa gioventù che leggeva di nascosto, nelle librerie e nelle biblioteche private, testi clandestini che provenivano d’Oltralpe, soprattutto dalla Francia. La lettura di un’opera libertina somigliava, per tanti aspetti, alla frequentazione dei lupanari. Le pagine di quelle opere e le canzoni cantate dalle prostitute contenevano «parole lascive», penetranti, che sconvolgevano i cuori e incitavano «gli ascoltanti a dare in eccessi»17.
Non a caso De Liguori intraprese una vigorosa battaglia per far proibire tali opere, a suo giudizio, «pernicciosissime». Fra i provvedimenti indicati da Sarnelli per risolvere il problema della prostituzione, vi era quello di rinchiudere, come suggeriva anche Genovesi e come suggerirà Gaetano Filangieri, in un luogo isolato, in una specie di ghetto, le meretrici, sotto la cura di «una donna attempata, timorata di Dio e di giudizio in abito di Vezzoca»18 che doveva esaminare le donne che intendevano prostituirsi, verificare la veridicità delle loro condizioni e invitarle a recedere dal loro proposito peccaminoso fidando nell’aiuto di Dio. Se dopo otto giorni la donna sarebbe ritornata, veniva iscritta in un «libro» e le veniva affidata un’umile abitazione. «Indi la mentovata donna la levatrice ed il medico vanno ogni settimana nel ridotto: ove trovando alcuna di quelle infetta, la privano del reo esercizio; e si conduce all’ospedale, affinché si guarisca»19. Era questa la regola stabilita nella città di Livorno e «quasi nella guisa medesima si regolano Venezia, e Firenze»20.




Filangieri e i «gran piaceri della vita»

Un quindicennio dopo le Lezioni di commercio di Genovesi usciva a Napoli presso la Stamperia Simoniana, un’altra grande opera dell’Illuminismo meridionale, la Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri. Nel secondo volume, apparso nel 1780, l’autore discuteva, nella prima parte, della popolazione (capitoli I-VIII) e, nella seconda, delle ricchezze delle nazioni (capitoli IX-XXXVIII); vale a dire degli «oggetti delle leggi politiche ed economiche», attraverso le quali si poteva tentare di raggiungere la tanta agognata «felicità pubblica», massima aspirazione degli uomini del Settecento. L’ultimo capitolo della prima parte era dedicato all’«incontinenza pubblica», uno degli ostacoli più difficili da rimuovere per incrementare la popolazione.
Passando in rassegna le leggi dei popoli dell’antichità, Filangieri documentava come presso gli Ebrei, i Greci e i Romani venisse combattuto il celibato e incoraggiata la procreazione dei figli. A proposito dei Greci scriveva: «La legge vedeva egualmente nel suicida che nel celibe un uomo che abusava de’ suoi dritti, un cattivo cittadino, un distruttore della società. Bisognava dunque allontanar l’uomo da questo delitto, bisognava animarlo alla virtù opposta»21. In Atene, oltre all’«agamia» (celibato) erano condannati anche i fenomeni dell’«opsigamia» (prendere moglie tardi) e della «cacogamia» (prendere una moglie in cattive condizioni fisiche)22. Gli Spartani arrivarono addirittura a prevedere pene non solo per l’«agamia», ma anche per l’«opsigamia» e la «cacogamia». Anche i Romani incoraggiarono il matrimonio e la nascita dei figli e fecero leggi contro la prostituzione. Quando poi i costumi mutarono e si diffusero i vizi e il lusso, diminuirono i matrimoni e la popolazione «s’indebolì». A nulla valsero le misure, anche severe, prese da Cesare e da Augusto per far fronte alla situazione. Fornito questo quadro dell’antichità, Filangieri prendeva in esame l’Europa, il Vecchio Continente, dove la popolazione era «piuttosto cresciuta che diminuita»23. Con tutto ciò, il filosofo riteneva che i governi non facessero abbastanza per farla crescere come avrebbero potuto e dovuto, soprattutto se si considerava che dal suo incremento dipendeva, come si è detto, la produzione della ricchezza e lo sviluppo economico delle nazioni. Filangieri elencava gli ostacoli che si frapponevano all’incremento della popolazione: dal numero ancora esiguo dei proprietari rispetto «all’immenso numero dei non proprietari, alle ricchezze esorbitanti ed inalienabili degli ecclesiastici, ai tributi eccessivi, ai dazi insopportabili, alla maniera violenta di esigerli, fino allo stato delle truppe in Europa e all’incontinenza pubblica». L’ultimo ostacolo era legato alla prostituzione e alla conseguente diffusione della sifilide.
L’apertura del capitolo VIII, dedicato interamente a tale argomento è, nella sua chiarezza e icasticità, esemplare del modo di analizzare e affrontare i problemi da parte di Filangieri:

Funesta riflessione: i vizi e i disordini hanno, per così dire, una filiazione reciproca fra loro. L’uno produce l’altro e il prodotto dà nuova forza al produttore. Così la miseria e ’l celibato violento d’alcune classi de’ cittadini, impedendo i matrimoni, cagionano l’incontinenza pubblica e l’incontinenza pubblica diminuisce il numero de’ matrimoni. Dove ci è corruzione, l’uomo sdegna una moglie e dove ci è povertà, dove ci sono molti celibi per forza, ivi ci deve esser corruzione. La natura vuol esser soddisfatta; pochi sono coloro che sanno vincerla. Bisogna dunque ricorrere o ad una moglie o ad una prostituta. La morale ci offre la prima, la povertà e ’l celibato violento ci condannano alla seconda»24.

Per Filangieri, il desiderio di celibi e giovani per la «vaga Venere» si diffondeva come una malattia contagiosa all’intero corpo sociale. Egli coglieva con finezza le caratteristiche psicologiche del rapporto uomo-prostituta, una volta che quest’abitudine sessuale si fosse diffusa in tutte le classi, e, nello stesso tempo, l’usura a cui andava inevitabilmente incontro il matrimonio con il passare del tempo. Il sesso con la prostituta costituiva un’altra cosa rispetto al sesso con la moglie: era autosufficiente, fine a se stesso, senza legami e senza pericolo di procreazione.

L’artiere – scriveva il filosofo – trova allora più conto a dividere il guadagno delle sue mani con una prostituta che può abbandonare, che può cambiare sempre che vuole, che con una moglie, la quale diviene subito noiosa allorché si è perduto il gusto à piaceri dell’innocenza. Tutte le altre classi, finalmente, de’ cittadini riguardano allora il coniugio come la tomba della libertà e della felicità. Gl’innocenti piaceri, che compensano i sacrifici che due sposi onesti fanno à preziosi vincoli della loro tenerezza, scompariscono agli occhi dell’uomo corrotto. Egli è incapace d’apprezzare quella placida e secreta soddisfazione che deriva dalla loro intima unione, dal loro reciproco amore, da’ loro mutui servizi e da’ piacevoli e sacri doveri che essi adempiono, formando lo spirito ed il cuore de’ loro teneri fanciulli25.

La ricerca affannosa in tutta Europa di quelli che Filangieri definiva i «gran piaceri della vita», aveva fatto sviluppare a dismisura un altro fenomeno che incideva sullo scarso sviluppo della popolazione: l’omosessualità, da lui considerato «un vizio che degrada l’umanità, dando ad un sesso tutte le debolezze dell’altro, un vizio voto di generazione, che spopola il mondo con quell’istrumento istesso col quale dovrebbe popolarlo e che cagiona una rivoluzione tale fra gli uomini che essi possono astenersi dalle femmine»26. In tale contesto, in questa crisi dei valori tradizionali, di perdita di peso sociale e cultuale del matrimonio, Filangieri calava il tema della piaga della prostituzione che finiva per spopolare doppiamente le nazioni, in quanto costituiva, come si è detto, il principale veicolo di diffusione della sifilide. Il filosofo usava parole di fuoco contro questa malattia verso la quale provava probabilmente una vera e propria ripulsa morale: la sifilide, scriveva, è

un veleno destruttore della fecondità, della virilità, della vita; un veleno che, dopo essere stato la pena del delitto, diviene anche la rovina dell’innocenza; un veleno, finalmente, che non risparmiando la posterità istessa di colui che l’ha intromesso nel suo sangue, fa nascere una razza degenerata, imbastardita, snervata, priva spesso della virilità, monumento della depravazione o della disgrazia d’uno de’ suoi autori27.

Contro questo flagello, Filangieri, come Sarnelli e Genovesi, pensava che lo Stato dovesse intervenire al più presto con misure efficaci, innanzitutto scoraggiando il celibato e favorendo il matrimonio, come succedeva nella giovane America, dove la prostituzione non aveva potuto «ancora allignare» perché ogni uomo era nelle condizioni «di prender moglie e di mantenerla senza stento»28, in quella terra dove negli stessi anni, un altro pensatore napoletano, Matteo Barbieri, vedeva emigrare, non a torto, la scienza e la tecnica29. Nel Nuovo Mondo, dove i costumi non si erano ancora corrotti, i cittadini avevano compreso che il futuro della nazione dipendeva tutto dalle scoperte scientifiche, dalla chimica, dall’elettricità, dalla macchina a vapore. Per Filangieri gli americani non avevano praticato il libertinaggio per le buone condizioni economiche del loro paese. Il libertinaggio era infatti, a suo giudizio, conseguenza della miseria, che corrompeva i costumi e faceva ricercare i piaceri estremi e «brutali». In America la popolazione maschile adulta non consumava gli anni migliori della vita in un «celibato vizioso». Uomini e donne d’Oltreoceano erano, per le loro condizioni di vita, antropologicamente e psicologicamente sani: gli uomini non arrivavano al matrimonio con gli organi «illanguiditi» dal «lungo uso della venere» e la sensibilità non si era snervata per i molti, troppi, «antecedenti piaceri»; le donne erano ancora come quelle di un tempo e come dovevano essere: «dolci, modeste, compassionevoli, benefiche, dotate di tutte quelle virtù che perpetuavano l’impero delle loro attrattive»30. Insomma l’America, con il suo attivismo, con la sua sete di progresso, con le sue radici ben salde nella tradizione degli avi, favoriva i matrimoni, gli amori che duravano per sempre. Filangieri concludeva il capitolo con un’immagine di speranza, quanto mai necessaria per la vecchia e ormai illanguidita Europa: «Ne’ boschi della Florida e della Virginia, dice Raynall, nelle stesse foreste del Canadà, si può amare per tutto il corso della vita ciò che si amò per la prima volta, vale a dire l’innocenza e la virtù, che non lasciano mai interamente perire la bellezza»31.
Un decennio dopo le analisi di Filangieri, Giuseppe Maria Galanti, amico e biografo di Genovesi, nel descrivere le classi e i costumi della «nazione napoletana», dedicava alcune pagine alla situazione delle donne. Ne tracciava un quadro ottimistico, soprattutto per lo stile di vita che il bel sesso conduceva nella capitale. «Deboli per natura ed imbecilli per educazione»32, le donne abbellivano e ravvivavano la società: si davano al lusso, vestivano con eleganza, leggevano romanzi alla moda, si sposavano. In tale contesto, Galanti rilevava che anche a Napoli, come nel resto d’Europa, il celibato prendeva piede.

Questo male politico si è fatto oggi maggiore – scriveva –, da che la dissipazione del sesso ed il lusso rendono il matrimonio un pesantissimo giogo»33. Usando quasi le stesse parole di Filangieri, aggiungeva che questo fenomeno dipendeva dal fatto che il celibato era, rispetto al matrimonio, «più sicuro e più tranquillo», e concludeva: «Il celibato era vergognoso nell’antica età, perché non si avevano le nostre leggi, né i nostri costumi […]. È uno spettacolo veramente bizzarro il vedere tanti individui de’ due sessi schivare il matrimonio, a cui la natura l’invita per essere migliori, e corrompersi co’ sentimenti naturali medesimi34.

Senza accennarne, nelle sue analisi sul celibato Galanti teneva certamente presente anche il fenomeno della prostituzione.




Terapie antisifilitiche: l’unguento di Cirillo

Le discussioni e le proposte di Sarnelli, Genovesi e Filangieri funsero da stimolo alle ricerche dei medici e all’azione delle autorità di governo. Alludiamo, in particolare, alle pubblicazioni di Domenico Cirillo sulla lue venerea e alla prammatica sulle prostitute emanata dalla Gran Corte della Vicaria il 23 gennaio 1781. Nel 1780 Cirillo pubblicò a Napoli l’Avviso al pubblico intorno alla maniera di adoperare l’unguento di sublimato corrosivo nella cura delle malattie venere, opuscolo tradotto in tedesco a Lipsia nel 1883 e in francese a Parigi nello stesso anno e De lue venerea, opera che ebbe una traduzione italiana, con il titolo Osservazioni pratiche intorno alla lue venerea, a Venezia sempre nel 1780, della quale uscirono edizioni ancora a Venezia nel 1786 e a Napoli nel 1783 e nel 1800 e due traduzione tedesche a Lipsia nel 1790 e a Vienna nel 179135.
L’Avviso, datato Napoli 5 aprile 1780, è una breve semplice e chiara esposizione del metodo usato da Cirillo nella cura della sifilide. Egli ricordava che il primo ad adoperare i sali mercuriali fu Hermann Boerhaave36, seguito dal suo allievo Gerhard van Swieten, medici le cui opere ebbero, fra l’altro, una notevole fortuna nella cultura medica e nell’editoria scientifica napoletane. Il preparato del secondo era costituito da sublimato (bicloruro di mercurio) sciolto nello spirito di frumento ed edulcorato «con qualche julebbe», che in Italia subì una variante: veniva sciolto nello «spirito di vino». Osservando che lo «spirito di vino» provocava agli ammalati diversi problemi, Cirillo pensò di unire al «sublimato in sostanza […] una discreta dose di opio»37. La maggiore novità contenuta nell’Avviso riguardava, comunque, la convinzione, avvalorata da rigorose prove sperimentali, che il sublimato ingerito dagli ammalati distruggeva «la debita consistenza de’ fluidi» e debilitava «gli elementi de’ solidi»38, provocando emorragie interne. Per questo Cirillo pensò che il sublimato doveva essere applicato all’esterno in quanto, venendo assorbito facilmente dai «vasi della pelle» e arrivando immediatamente al «sistema di glandole conglobate»39, non provocava danni e soprattutto non perdeva la sua efficacia terapeutica. Idee che furono poi esposte in maniera più ampia e organica nell’opera sulla lue.
La prima edizione napoletana delle Osservazioni contiene una lettera dedicatoria, datata 10 ottobre 1781, nella quale il grande medico giustiziato dai Borbone per la sua partecipazione alla Repubblica napoletana del 179940 si compiaceva che la sua opera fosse uscita sotto la protezione della Società letteraria italiana i cui membri avevano voluto richiamare, fin dal «suo primo nascere […], nell’antica sede, quella scuola di sapere, che abbandonando il terreno paterno, si vedeva dispersa, e stabilita presso le altre nazioni […]»41. Un programma, cioè, di riscatto dell’antica gloria nazionale a cui Cirillo si sentiva legato e per il quale intendeva dare un contributo con la sua opera: «Mi reputerò dunque fortunato – scriveva –, se si compiaceranno accettare la protezione di un’Opera, nella quale altro non si trova, che una serie di osservazioni, che possono riuscire vantaggiose nella guarigione di una malattia, che grandemente contribuisce ad interrompere la fisica, e la morale felicità del genere umano»42. Ciò era dovuto al fatto che la sifilide si diffondeva con estrema facilità, trasmettendosi non solo attraverso i rapporti sessuali, ma anche piccole ferite. Come avevano notato gli autori sopra indicati, la malattia colpiva i futuri nascituri e i neonati: infatti, avvertiva Cirillo, «da Parenti infetti, bambini nascono pieni della cagione medesima, e le balie inferme di lue, col latte questa malattia stessa nelle più tenere macchinucce infondono»43. Una malattia che aveva comunque la principale causa di contagio nelle «industrie praticate dal libertinaggio, ed ampiamente ricompensate dal vizio»44.
Nella Prefazione Cirillo ricordava, con una limpida prosa, il gran numero di ammalati che aveva potuto osservare nell’Ospedale degli Incurabili, molti dei quali «usciti a stento dalle mani dell’ignoranza, altri, malgrado tutte le ragionevoli diligenze, sembravano destinati a morire, per la insufficienza dell’arte»45. Fu il triste spettacolo di questo mondo sofferente che aveva spinto Cirillo ad approfondire la natura e l’origine della sifilide e a trovare cure efficaci per guarirla. Si era reso conto che le strade battute dalla medicina, rispetto a questa malattia, erano state, fino alla sua epoca, generalmente infruttuose e quando avevano dato dei frutti, compresi quelli nel campo della chirurgia, erano risultati addirittura dannosi per la salute dei pazienti. Tali errori dipendevano, secondo Cirillo, dall’errata analisi della malattia. Per questo illustrava il suo metodo che si basava, come allora si diceva, sui «fatti», vale a dire sull’osservazione e sulla sperimentazione e, da un punto di vista terapeutico, sulla chimica, una scienza ormai fondamentale nella medicina europea del XVIII secolo.

La chimica venne in mio soccorso – scriveva –, le cognizioni della economia animale mi furono di grandissimo ajuto, per determinare quali fossero precisamente le qualità di tutte le medicine mercuriali, e soprattutto quelle del Sublimato corrosivo; e se valevano più, ed erano più sicuri i Mercuriali introdotti dall’interno verso l’esterno, o pure quelli, che applicati alla cute, nelle interne sedi penetravano46.

Seguendo l’insegnamento di Giambattista Morgagni, Cirillo cercò di individuare con esattezza la sede della sifilide e la trovò, dopo l’esame di molti ammalati, nei vasi linfatici. Il contagio della sifilide avveniva nello stesso modo di altre malattie contagiose e come succedeva con l’inoculazione del «vajuolo artificiale». L’uso del sublimato non era nuovo nella cura della malattia; la novità introdotta da Cirillo riguardava, come già detto, il modo in cui veniva somministrato. Il ricordato van Swieten, archiatra della regina d’Ungheria, ne aveva fatto un abbondate uso interno, un metodo adoperato poi da buona parte dei medici europei del Settecento. Cirillo si soffermava sul metodo di van Swieten che diede certamente buoni risultati, ma provocava, per l’azione estremamente corrosiva del sublimato, effetti collaterali che debilitavano il corpo e perturbavano

gravemente […] la naturale economia: oltre agli abituali sputi di sangue, in molti ammalati a poco a poco la digestione si debilita, – scriveva il medico napoletano – cominciano le cardialgie, e i flussi ventrali, i quali per ordinario passano in ostinatissime dissenterie. Ma la malattia più atroce, che suol esser figlia del Sublimato interno è il vomito perenne di qualunque sostanza alimentizia, il quale o termina nella tabe, o pure nel morbo negro d’Ippocrate47.

Un’azione nociva che finiva, per giunta, per far perdere al sublimato la sua efficacia contro la sifilide.
La scelta di Cirillo di usare il sublimato per via esterna non dipendeva quindi solo dai gravi e spesso irreparabili danni provocati all’apparato digerente, ma anche dalla constatazione, avvalorata dalla sua lunga esperienza ospedaliera, che «l’effetto primario della cagione venerea consisteva nello addensamento, o sia accresciuta tenacità della linfa»48. L’uso esterno permetteva, cioè, di mettere, come si diceva anche nell’Avviso, il sublimato «immediatamente in contatto colle particelle della linfa viziosa, occiocché o esercitando la sua affinità colle molecole della Lue […], o facendo le veci di risolvente, o pure introducendo un principio di corruzione, ed in conseguenza di questa assottigliando la linfa, potesse dissipare, e vincere qualunque accidente della malattia»49. Si trattava di far raggiungere i ricettacoli della linfa senza danneggiare la cute del corpo. Per questo, l’unguento di Cirillo, composto da una dramma di mercurio sublimato in sottilissima polvere e un’oncia di sugna di maiale, doveva essere spalmato sulle piante dei piedi in modo che il medicamento potesse raggiungere le ghiandole inguinali50. L’applicazione dell’unguento richiedeva una preparazione dell’ammalato mediante clisteri, decotti di gramigna o salsapariglia e bagni di acqua tiepida per ammorbidire la pelle, che permettevano al sublimato di essere assorbito più facilmente. Sulla base poi della costituzione fisica dell’ammalato, bisognava stabilire il numero delle unzioni che potevano essere al massimo quattro, cominciando con frizioni fatte con mezza dramma di unguento, per arrivare man mano a due. Le frizioni dovevano essere effettuate preferibilmente in primavera o in autunno51, nelle ore serali quando la digestione era completata e l’ammalato si apprestava a dormire. Importante era anche il modo in cui venivano fatte. Cirillo suggeriva di spandere l’unguento con un «guanto, o pure con una specie di sacchetto di pelle ben ferma e compatta, ed anche dalla parte interna vestita di una vescica secca»52.
Nella Prefazione Cirillo polemizzava con quei colleghi napoletani che non avevano accettato il suo metodo, apostrofati come l’«ignorante volgo medico Napoletano, il quale a forza di maldicenza avrebbe voluto far scemare in altri quella gloria che non era capace di acquistare per sé». E nel chiudere la Prefazione rimarcava la differenza fra il suo metodo e quello dei suoi oppositori con queste parole: «Non mi sono molto servito di quel numero di libri, e di quelle tante pompose citazioni, che servono a mostrare, non la propria, ma l’altrui dottrina, e che spesso sono adattate male a proposito. Ho scritto quanto ho veduto, e notato, e quanto con serie meditazioni ho rivelato da’ fatti»53.




La prammatica sulle prostitute del 1781

Se le opere di Cirillo ebbero un effetto positivo sulla cura della sifilide negli ospedali di Napoli, la prammatica della Gran Corte della Vicaria del 1781 diede una svolta alla presenza delle prostitute nelle strade richiamando il bando del 14 settembre 1737, rinnovato il 3 gennaio 1739, prendendo misure più severe rispetto a quelle previste da questi ultimi54. In essi fu stabilito che le meretrici dovevano abbandonare le strade della capitale e stabilirsi in case e abitazioni situate nel luogo detto Ponte oscuro, nel Borgo di Sant’Antonio Abate. Le espressioni con le quali la prammatica descriveva gli effetti sulla morale pubblica delle prostitute ricalcavano quelle di Sarnelli: le meretrici, si legge in essa,

siensi esse moltiplicate all’eccesso, e stabilite per tutta la Città, ma specialmente nel recinto delle Parrocchie di S. Marco, di S. Anna, di S. Matteo, e di S. Maria della Neve con pregiudizio notabilissimo delle oneste famiglie, e de’ loro Individui per lo scandalo, che ne traggono colla rovina delle anime, e della salute del corpo di coloro, che quasi violentati da tali donne infami, miseramente soccumbono a commettere il male, e con positivo danno di questa numerosissima popolazione, e dello Stato55.

Ferdinando IV obbligava i proprietari delle case, comprese le comunità religiose, a «non affittarle a donne pubbliche, e sospette»56. Per evitare che le prostitute potessero aggirare, con le necessarie protezioni, il provvedimento, stabilì che le cause riguardanti lo «sfratto delle donne libere» dovevano essere avocate dalla Gran Corte della Vicaria, senza che gli altri supremi tribunali potessero intervenire. Inoltre il sovrano voleva che le prostitute, prima di essere mandate nei lupanari, fossero visitate dai medici e, se trovate infette, mandate negli ospedali.
Come avevano suggerito Sarnelli, Genovesi e Filangieri, la prammatica ribadiva che le prostitute presenti in città e quelle che sarebbero arrivate in seguito dovevano essere «rinchiuse» in un determinato luogo e sottoposte a visite mediche. Qualora tali donne fossero state trovate ad abitare o a dimorare in zone vietate, sarebbe state frustate «irremisibilmente». In fondo le pene riservate alle prostitute, piuttosto blande, erano per così dire dimostrative, da gogna pubblica, al contrario di quelle riservate ai proprietari, piuttosto severe. Con l’entrata in vigore della prammatica, il 4 maggio 1781, venivano considerati rescissi tutti i contratti di affitto stipulati tra proprietari e prostitute. Pene severissime erano previste per i proprietari che non avrebbero osservato tale provvedimento; si legge infatti nella prammatica:

[…] con soggiacere ancora i medesimi Padroni di dette case, o abitazioni parimente alla pena della perdita delle case, o altre abitazioni affittate da applicarsi a beneficio del Regio Fisco, ed in oltre di quel tanto, che importa l’affitto di ciascuna casa delle sudette per quel tempo, in cui vi abbia abitato la Meretrice, da calcolarsi a tenore del contratto d’affitto, o del solito, in caso che l’affitto non apparisca, ovvero apparisca gratis concessa l’abitazione57.

Pene gravi erano previste anche per coloro che affittavano a proprio nome case o abitazioni per farle poi occupare da prostitute. In questo caso, sia il «conduttore» che il locatore sarebbero stati condannati a sei mesi di carcere.
Un’ordinanza emanata durante la rivoluzione del 1799, firmata da Antonio D’Avella, detto Pagliuchella, mostrava che anche la prammatica del 1781 non era stata efficace in quanto le prostitute, pur abitando in quartieri stabiliti, durante la notte si spostavano in quelli che erano a loro vietati58. Non solo, nei decenni successivi, le prostitute, sfuggendo ai controlli della polizia, si spostarono con facilità nella capitale anche dai comuni vicini. In una circolare del ministro di Polizia dell’11 febbraio 184059 si ribadiva la necessità di maggiori controlli, dal momento che queste donne non solo arrecavano danno alla «morale pubblica», ma erano «spesso eziandio di nocumento alla salute della gioventù sconsigliata». Per questo nella circolare si esortava a fare di tutto affinché esse non si allontanassero dai loro paesi e, soprattutto, fossero assoggettate «con ogni riserva ad una visita cerusica», per evitare quanto più possibile la diffusione del «contagio venereo».
Nei primi anni dell’Ottocento, periodo in cui continuarono le polemiche fra i medici sulle cure più efficaci per la sifilide, mutò anche l’approccio al fenomeno della prostituzione e alla stessa malattia della quale era la principale causa. In particolare il governo francese (1806-1815) mostrò la sua laicità e la sua modernità anche sui problemi sanitari. Con il decreto del 23 agosto 1807 fondò la prima istituzione medica specializzata a Napoli nelle malattie veneree, dipendente dalla Polizia della città: l’ospedale di Santa Maria della Fede dove le prostitute infette venivano curate e quelle sane erano obbligate a sottoporsi a periodiche visite mediche, tutto a spese del governo60. Già nel corso del Settecento, nell’ex convento degli agostiniani, per volere della regina Amalia, moglie di Carlo III di Borbone, erano state – scriveva Carlo Conte – «accolte cento donne vaganti per la città, onde sottrarle alla miseria ed alla prostituzione; e più tardi divenne ospizio o pio ritiro di giovanette pericolanti nell’onore»61. Con il decreto del 18 novembre 1818, l’ospedale fu aggregato all’Albergo dei poveri con un assegno annuale di 29.000 ducati. Dopo il 1860, con il nome di Sifilocomio e non più unito all’Albergo dei poveri, fu riservato unicamente alla cura delle donne infette62.











NOTE
1 Su quest’Accademia vedi soprattutto M. TORRINI, L’Accademia degli Investiganti (1663-1770), in «Quaderni storici», 16 (1981), n. 48, pp. 845-883.^
2 Su Galiani e la sua Accademia, vedi F. NICOLINI, Un grande educatore italiano. Celestino Galiani, Napoli, Giannini, 1951, pp. 69-70; V. FERRONE, Natura scienza religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli, Jovene, 1982, pp. 501-525.^
3 A. BORRELLI, Medicina e società a Napoli nel secondo Settecento, in «Archivio storico per le province napoletane», 112 (1994), pp. 123-177; ID., Le origini della Scuola medica dell’Ospedale degl’Incurabili di Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», ivi, 118 (2000), pp. 135-149; R. MAZZOLA, La cultura medica a Napoli nella seconda metà del XVIII secolo. L’Ospedale di «Santa Maria del Popolo degl’Incurabili», in «Archivio di storia della cultura», 17 (2004), pp. 125-151, poi in ID., Saggi sulla cultura medica napoletana della seconda metà del Settecento, Napoli, La Città del Sole, 2009, pp. 21-65.^
4 G. ORIGLIA, Istoria dello Studio di Napoli. In cui si comprendono gli avvenimenti di esso più notabili da’ primi suoi studj fino à tempi presenti, con buona parte della storia letteraria del Regno, in Napoli, nella Stamperia di Giovanni Di Simone, 1753-1754, 2 voll., I, pp. XIJ-XIIJ.^
5 A. GENOVESI, Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile. Parte prima per il primo semestre. Terza edizione napoletana, in Napoli, nella Stamperia Simoniana, 1783, pp. 92-93.^
6 Ivi, p. 93.^
7 A. GENOVESI, Ragionamento sul commercio in universale, in J. CARY, Storia del commercio della Gran Brettagna, tradotta in nostra volgar lingua da Pietro Genovesi […] dedicata a S. E. Romualdo Sterlich de’ marchesi di Cermignano, in Napoli, per Benedetto Gessari, 1757; si cita da A. GENOVESI, Scritti economici, a cura di M.L. Perna, Napoli, nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1984, 2 voll., I, pp. 119-163: 128.^
8 A. GENOVESI, Annotazioni alla Storia del commercio della Gran Bretagna, in ID., Scritti economici, cit., pp. 283-387: 350.^
9 A. GENOVESI, Ragionamento sul commercio in universale, cit., p. 129.^
10 M. SARCONE, Istoria ragionata de’ mali osservati in Napoli nell’intero corso dell’anno 1764, Napoli, dalla Stamperia di Nicola Mosca, 1765, p. 36.^
11 A. GENOVESI, Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile, cit., p. 93.^
12 Al tema della sifilide e della prostituzione in Genovesi ha dedicato pagine importanti A. SAMPAOLI, Il problema della prostituzione negli scrittori del secolo XVIII, in «Nuova antologia», 85 (1950), pp. 170-182: qui 174-177; ma vedi anche G. GATTEI, La sifilide: medici e poliziotti intorno alla «Venere politica», in Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, Einaudi, 1984, pp. 741-798: qui 748-749.^
13 A. GENOVESI, Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile, cit., p. 94.^
14 E. TOGNOTTI, L’altra faccia di Venere. La sifilide dalla prima età moderna all’avvento dell’Aids (XV-XX sec.). Presentazione di G. Cosmacini, Milano, Angeli, 2006, pp. 143-149.^
15 Intorno alla metà Settecento circolava in Europa una letteratura che inneggiava al piacere dei vizi, spesso apertamente libertina e anticlericale, come il volume L’Aretin moderne ou la débauche de l’esprit en fait de bon sens, dell’Abate Henri-Joseph de Dulaurens, stampato ad Amsterdam, presso Rey, nel 1763, una raccolta di venticinque racconti. Il quindicesimo, dal titolo molto significativo di L’utilité des vices, proclamava, fra le altre cose, che i vizi erano «per società molto più utili che le virtù», che «una ragazza sensuale era più utile di una virtuosa», che una sola donna non poteva bastare a un uomo. Da qui la centralità della prostituta nella letteratura e nella vita sociale dell’epoca, «fino a divenire nella rivoluzione», come è noto, «l’incarnazione della dea ragione» (citazioni tratte da P. ENGLISCH, L’eros nella letteratura, trad. it., Milano, Garzanti, 1976, p. 450).^
16 Nel 1736 l’opera fu ripubblicata, sempre a Napoli, Coll’aggiunta delle maniere particolari da racchiudere, e rattener perpetuamente a freno le meretrici; da ricapitare le ravvedute; da conservar le fanciulle pericolanti e mantenere sempre purgata la Repubblica dalle carnali dissolutezze. Sulle Ragioni, vedi L. VALENZI, Sarnelli e le Prammatiche De Meretricibus, in «Campania sacra», 1-2 (1996), pp. 279-298, poi in EAD., Donne, medici e poliziotti a Napoli nell’Ottocento. La prostituzione tra repressione e tolleranza, Napoli, Liguori, 2000, pp. 7-28.^
17 G. M. SARNELLI, Ragioni cattoliche, legali e politiche in difesa delle repubbliche rovinate dall’insolentito meretricio. Coll’aggiunta delle maniere particolari da racchiudere, e rattener perpetuamente a freno le meretrici; da ricapitare le ravvedute; da conservar le fanciulle pericolanti e mantenere sempre purgata la Repubblica dalle carnali dissolutezze, Napoli, dallo stabilimento tipografico di A. Festa, 1851, p. 18.^
18 Ivi, p. 234.^
19 Ivi, p. 235.^
20 Ibid.^
21 G. FILANGIERI, La scienza della legislazione. Edizione critica. Volume secondo, a cura di M.T. Silvestrini, Venezia, Centro di studi sull’Illuminismo europeo “Giovanni Stiffoni”, 2004, p. 7.^
22 Ivi, p. 8.^
23 Ivi, p. 24.^
24 Ivi, p. 77. Su queste analisi di Filangieri, vedi A. SAMPAOLI, Il problema della prostituzione negli scrittori del secolo XVIII, cit., pp. 178-180.^
25 Ivi, pp. 77-78.^
26 Ivi, pp. 78-79.^
27 Ivi, pp. 79-80.^
28 Ivi, p. 81.^
29 M. BARBIERI, Notizie istoriche dei mattematici e filosofi del Regno di Napoli, in Napoli, presso Vincenzo Mazzola-Vocola, 1778.^
30 G. FILANGIERI, La scienza della legislazione, cit., p. 81.^
31 Ibid.^
32 G.M. GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a cura di F. Assante e D. Demarco, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1969, 2 voll., I, pp. 285-287: 286. L’opera uscì, presso i Soci del Gabinetto Letterario, tra il 1786 e il 1794.^
33 Ivi, p. 287.^
34 Ivi, p. 287.^
35 Su Cirillo e le sue opere, vedi U. BALDINI, Cirillo, Domenico, in: Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960, 25 (1981), pp. 789-794; A. BORRELLI, Introduzione a D. CIRILLO, Discorsi accademici, a cura dello stesso, Napoli, Denari libri, 2013, pp. 7-39.^
36 «Conobbe questo valentuomo – scriveva Cirillo – che i mercuriali salini, trovandosi più sottilmente divisi, ed avendo acquistata una notabile acrimonia, ed una forza corrosiva insigne, potevano prontamente insinuarsi in tutte quelle sedi, che si trovano occupate da sostanze tenaci ed inerti, quali sono appunto quelle che costituiscono l’essenza della Lue» (D. CIRILLO, Avviso al pubblico intorno alla maniera di adoperare l’unguento di sublimato corrosivo nella cura delle malattie venere, s.n.t., pp. III-IV).^
37 Ivi, p. V.^
38 Ivi, p. VI.^
39 Ivi, p. VII.^
40 G. SANGIOVANNI, L’addio di Cirillo. Da un archivio di famiglia affiora un manoscritto inedito sugli ultimi giorni del grande medico, a cura di A. Sangiovanni e A. Armone Caruso, Napoli, Magmata, 1999.^
41 D. CIRILLO, Osservazioni pratiche intorno alla lue venerea. Napoli, s. e., 1783, pp. 3-4 n.n. Su quest’opera, vedi G. CORBELLINI, Domenico Cirillo e la medicina del Settecento, in Domenico Cirillo e l’evoluzione della medicina dall’arte alla scienza. Atti del Convegno. La medicina dall’arte alla scienza; in onore di Domenico Cirillo anni dalla nascita della Repubblica napoletana. Napoli, 14 maggio 1999, Napoli, La Città del Sole, 2001, pp. 31-37.^
42 Ivi, pp. 4-5.^
43 Ivi, p. 4.^
44 Ivi, p. 7.^
45 Ivi, p. VII.^
46 Ivi, p. VIII.^
47 Ivi, p. 132.^
48 Ivi, p. 137.^
49 Ivi, pp. 137-138.^
50 Alla fine del 1809 Pietro Ruggiero, allievo di Domenico Cotugno e curatore delle opere postume del maestro, costruì una macchina per spalmare l’unguento mercuriale senza provocare danni agli «spalmatori» (vedi Torno frottore mercuriale, o sia nuova machina per le frizioni mercuriali. Memoria letta nella Società Reale d’Incoraggiamento nel mese di novembre 1809, Napoli, presso Domenico Sangiacomo, 1810, opera che contiene due tavole illustrative della macchina).^
51 Una critica a quest’aspetto della cura di Cirillo fu fatta dal medico francese Louis Vincent Lagneau che la riteneva un’abitudine tutta meridionale (vedi, L. V. LAGNEAU, Trattato pratico delle malattie sifilitiche. Nuova versione italiana sull’ultima francese del signor S.S. Annotata dal dottor Felice de Rensis. Volume unico, Napoli, presso G. Jovene libraio editore, 1841, pp. 274-276).^
52 D. CIRILLO, Osservazioni pratiche intorno alla lue venerea, cit., p. 154.^
53 Ivi, p. XII.^
54 Su bandi e prammatiche sulle prostitute, vedi L. VALENZI, Donne, medici e poliziotti, cit., pp. 23-28.^
55 Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli. Tomo VII, Napoli, nella Stamperia Simoniana, 1804, De meretricibus, pp. 221-247: 245.^
56 Ibid.^
57 Ivi., pp. 246-247.^
58 L. VALENZI, Donne, medici e poliziotti, cit., p. 27.^
59 SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA PATRIA. BIBLIOTECA, Circolare del ministro di Polizia sulla prostituzione dell’11 febbraio 1840, manoscritto XXVI B 3, carte 140r-141v.^
60 G. BOTTI, L’organizzazione sanitaria nel Decennio, in Studi sul Regno di Napoli nel Decennio francese (1806-1815), a cura di A. Lepre, Napoli, Liguori, 1985, pp. 81-98: 93; V.D. CATAPANO, Medicina a Napoli nella prima metà dell’Ottocento. Con la collaborazione di E. Esposito, Napoli, Liguori, 1990, pp. 101-102.^
61 C. CONTE, La civiltà di Napoli testificata con monumenti, con istituti, con documenti da beneficenti cittadini, da artisti, letterati, scienziati. Ricordi, Napoli, R. Tipografia Francesco Giannini & figli, 1890, 2 voll., II, p. 156.^
62 Ivi, p. 157.^
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