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«Il Mondo» di Pannunzio e gli Stati Uniti*
di Maurizio Griffo
La guerra fredda e l’alleanza occidentale

La letteratura storica dedicata a «Il Mondo» di Pannunzio ha privilegiato gli aspetti relativi alla politica interna1. Si tratta di un orientamento ampiamente giustificato, perché il settimanale ha sempre perseguito, nel corso della sua quasi ventennale parabola (1949-1966), precisi obiettivi rispetto alla vita politica italiana. In una prima fase il sostegno al centrismo degasperiano, successivamente una convinta opzione in favore del centro sinistra. Tuttavia le vicende nazionali non esauriscono l’orizzonte politico della testata, che ha dedicato molto spazio anche ai temi internazionali. Un aspetto che viene ancor di più in primo piano se si deve affrontare il tema de«Il Mondo» e gli Stati Uniti, che va declinato in chiave anzitutto di politica estera. Il rotocalco diretto da Pannunzio nasce in piena guerra fredda, il primo numero compare nelle edicole nel febbraio 1949, poche settimane prima dell’approvazione del Patto Atlantico. La contrapposizione est/ovest e la necessità di una alleanza delle democrazie occidentali contro le dittature comuniste sono da subito argomenti centrali. L’editoriale di apertura del primo numero, firmato Anonimo, rivolge una critica serrata ad un giornalista americano, J. Kingsbury Smith, che ha intervistato Stalin chiedendogli se fosse disposto a una dichiarazione congiunta con l’America, in cui i due paesi si dessero reciproca assicurazione di non avere intenzioni di guerra. L’iniziativa, che ha riscosso l’adesione del tiranno sovietico, appare alla redazione del settimanale dannosa nella sua ingenuità. Stalin, si ricorda, «è il più grande conquistatore della storia moderna», per cui occorre non prestarsi al suo gioco, dove si alternano le lusinghe alle minacce. In questa altalena tattica le «dichiarazioni pacifiche servono ad ammutinare le folle dei paesi occidentali e dell’America contro i loro governi»2. Nei numeri successivi il tema del patto atlantico e della sua approvazione da parte del parlamento italiano dà spunto, in genere nel «Taccuino» in seconda pagina, a numerosi commenti e messe a punto polemiche, verso i comunisti, ma anche verso coloro che si mostravano timidi o esitanti rispetto alle scelte del governo italiano3.
Com’è risaputo, il settimanale ha sempre avuto una posizione di lealtà atlantica e di allineamento occidentale. Una posizione che discendeva da una nitida valutazione degli interessi nazionali dell’Italia, così sinteticamente riassunta da Vittorio de Caprariis in una lettera a Pannunzio di qualche anno dopo: «la politica estera italiana è in certo senso obbligata»4.
All’interno di questo più generale scenario geo-politico mondiale, agli Stati Uniti spetta un ruolo guida che discende da precise benemerenze etiche e politiche, «la difesa della libertà e della democrazia, compiuta nella seconda guerra mondiale e successivamente mantenuta». Una leadership che a partire da questi indiscutibili meriti si traduce poi, quasi naturalmente, anche «in primato economico e militare»5.
Tale atteggiamento solidale ed amichevole non è però inerte, tutt’altro. Ha invece un preciso indirizzo assiologico. Se «Il Mondo» si sforza di comprendere sempre le ragioni americane, al contempo è assai attento a battere in breccia e a stigmatizzare le posizioni isolazioniste, presenti in una parte del mondo politico di oltre Atlantico. Una tastiera analitica e una propensione politica che si ritrovano da subito anche nelle cronache e nei commenti che accompagnano la ratifica del patto atlantico da parte delle istituzioni statunitensi.
Nell’editoriale del terzo numero, anche questo firmato Anonimo, si analizzano in modo critico le discussioni americane sul patto atlantico. L’intervento ricorda che il testo proposto, dove all’articolo 5 si prevede un’entrata in guerra automatica dell’America in caso di aggressione di uno dei membri dell’alleanza, rischia di non essere ratificato dal Senato americano con la maggioranza richiesta dei due terzi perché incompatibile con la clausola della costituzione che prescrive che sia il Congresso a dichiarare guerra. Discussioni queste che «hanno prodotto un’impressione terribilmente deprimente nei paesi del Continente». Poco soddisfacente viene giudicata anche la soluzione che si è trovata, cioè il richiamo alla carta delle nazioni unite dove c’è già l’impegno dei paesi membri a resistere «alle aggressioni mettendo le loro forze a disposizione del Consiglio di Sicurezza». Le conclusioni dell’editoriale, infatti, mantengono una nota apertamente polemica. Il patto sarà di certo approvato, secondo «Il Mondo», «perché la forza della necessità è più potente dei cavilli dei legulei; ma si sono fatte molte chiacchiere inutili, si è perduto un tempo prezioso, e si sono messe alcune piccole nazioni in una situazione pericolosa»7.
Qualche settimana dopo lo stesso argomento viene trattato con toni più pacati in un commento di Augusto Guerriero. Dopo aver riassunto le posizioni emerse nel dibattito statunitense, l’articolista ricorda che se la costituzione stabilisce che sia il Congresso a dichiarare la guerra non vieta che «si facciano guerre senza dichiarazione di guerra e, anzi, ha previsto alcuni casi in cui il governo deve fare la guerra, faccia o non faccia il Congresso la dichiarazione», come è appunto nel caso ipotizzato dalla carta delle Nazioni unite. Pare, perciò, che nel nuovo articolo che verrà approvato «un attacco armato contro uno dei firmatari sarà considerato un attacco contro tutti i firmatari». In sostanza, conclude Guerriero, con la nuova formulazione dell’articolo «l’impegno è lo stesso di prima, ma i senatori americani preferiscono che di certe cose si parli, come direbbe Molière, in modo delicato»8.
La fiducia nella leadership americana, la messa in guardia dalle tentazioni isolazioniste, e lo sforzo di intendere le ragioni dell’alleato, sono atteggiamenti costanti de «Il Mondo», riemergendo in tutte le fasi critiche delle relazioni internazionali, dalla guerra di Corea, fino al Vietnam.
Sotto questo profilo, può essere interessante analizzare quanto si veniva scrivendo sul settimanale al momento della crisi di Suez che, com’è noto, segna una divisione nel campo occidentale8. Richiamiamo sommariamente i fatti. Nel luglio 1956 il dittatore egiziano Nasser decide di nazionalizzare il canale di Suez, sottraendolo al controllo internazionale. A seguito delle energiche proteste inglesi, francesi ed americane, durante l’estate, viene convocata una conferenza internazionale ad hoc che si risolve negativamente. A fine ottobre, dopo un attacco israeliano all’Egitto, truppe paracadutate francesi e britanniche occupano Porto Said. Un’assemblea straordinaria delle Nazioni unite ordina il cessate il fuoco. L’Unione Sovietica minaccia rappresaglie nucleari. L’America esercita pressioni sui due paesi europei perché accettino, come poi avviene, il dettato dell’Onu. Vale la pena di ricordare, inoltre, che la crisi è quasi contemporanea all’insurrezione ungherese e alla dura repressione sovietica della rivolta.
Sulla vicenda di Suez intervengono diversi articolisti de «Il Mondo». Oltre ad Aldo Garosci, titolare in quella fase della rubrica di politica estera, che torna più volte sull’argomento, abbiamo due articoli di Nicolò Carandini e di Vittorio de Caprariis9. In tutti gli interventi, pur in una diversità di toni e con approcci analitici differenti, risuona una nota critica nei confronti dell’America. Naturalmente, non si mette in discussione la leadership americana, ma si chiede con insistenza che essa venga esercitata con maggior impegno e consapevolezza.
Per Garosci le responsabilità di quanto accaduto vanno divise fra i diversi paesi occidentali colpevoli di scarsa lucidità nella politica mediorientale. Riguardo all’America non manca di rilevare come avesse torto chi, al momento della nazionalizzazione del canale, riteneva che «l’atteggiamento dilatorio degli Stati Uniti, l’assenza di solidarietà mostrata verso le giuste preoccupazioni franco-inglesi, salvavano la pace». I fatti hanno mostrato che «era vero invece il contrario; fu proprio quell’atteggiamento evasivo, quella mancanza di solidarietà anche dopo l’assoluto rifiuto egiziano a trattare che precipitò la guerra». Garosci è piuttosto ruvido anche verso il segretario di stato americano, Foster Dulles, tacciato apertamente «di sordità politica»10.
L’articolo di Carandini, pubblicato la settimana successiva e subito dopo la rielezione di Eisenhower, ha un tono accorato. In quella che definisce senza mezzi termini, alludendo evidentemente tanto alla vicenda di Suez quanto agli avvenimenti di Ungheria, «più oscura ora del nostro tempo», l’ex ambasciatore italiano a Londra si sente di «chiamare in causa la più grande fra le democrazie tutrici della pace», richiedendo ad essa «una più comprensiva visione e un più fermo polso nella disciplina delle cose internazionali ultimamente abbandonate a un’angosciosa deriva». Per superare questo momento di smarrimento e di crisi è necessario che le nazioni occidentali trovino l’energia per stringersi «in un più fermo patto e in una più recisa volontà di resistenza al male». Un concetto condiviso anche dal neoeletto presidente americano che, sottolinea Carandini citandone le parole, non ha mancato di ricordare come, «nonostante le divergenze con la Gran Bretagna e la Francia per la crisi di Suez, l’alleanza fra le tre grandi potenze occidentali diventerà sempre più forte»11.
Rispetto al richiamo alla responsabilità, alla vigilanza e all’unione contenuto in questo editoriale, l’articolo di de Caprariis, che si pubblica a fine novembre, quando lo sgombero delle truppe anglofrancesi è stato accettato, ha un tono nettamente più critico12. L’articolista svolge anzitutto una rassegna degli interventi sulla vicenda di Suez comparsi sulla stampa statunitense, rilevando come mai in passato siano state rivolte tante critiche a un’amministrazione in carica, anche da parte di giornali non pregiudizialmente contrari al governo. Questa considerazione è la premessa a una denuncia impietosa di quella che viene giudicata una sostanziale debolezza americana nella politica mediorientale. Dopo gli ultimi avvenimenti, non solo si è registrato uno spostamento di potenza in Medio Oriente, con un peso crescente dell’Urss, ma l’amministrazione repubblicana che, nel 1952, aveva vinto le elezioni forte della «denuncia dell’appeasement se non addirittura del tradimento democratico, che si voleva nuova e vigorosa […] è giunta infine, proprio nei giorni di maggior trionfo elettorale del suo principale protagonista, ad un appeasement più grave di tutti gli altri, quello di oggi, che nasconde non si comprende bene quale misteriosa vocazione isolazionista». Torna anche il motivo della necessaria unità del mondo occidentale, già espresso in chiave di ideale regolativo da Carandini, ma connotato da un più forte accento critico. «Pensare – scrive de Caprariis – che gli anglo-francesi possano fare una certa politica e gli Stati Uniti un’altra […] vuol dire non essersi resi conto della realtà effettuale». La crisi di Suez mostra che la distensione che l’Urss persegue non contraddice la sua volontà di espansione, ma può drammaticamente convivere con essa. La posta in gioco è ancora il controllo dell’Europa, una questione da cui l’America non può pensare di tirarsi fuori, pena la sconfitta dei comuni ideali. Ed è proprio in nome dei comuni ideali che l’articolo si conclude con una considerazione pessimistica. Ciò che è successo a Suez e in Ungheria, ricorda de Caprariis, è fonte di preoccupazione per tutti «quelli che sono stati sempre amici degli Stati Uniti per vocazione democratica prima ancora che per interesse politico», perché alimenta «il giustificato timore che la politica estera americana si sia messa su una strada sbagliata»13.
Un punto di attrito forte del confronto tra est ed ovest è costituto dalla vicenda di Cuba. Nel 1959, nell’isola caraibica, la caduta del regime di Batista e l’affermazione della rivoluzione castrista rimettono in discussione gli equilibri continentali e mondiali. In particolare si registrano due momenti critici. La spedizione della “Baia dei porci”, nell’aprile 1961, quando lo sbarco americano volto a rovesciare la dittatura di Castro fallisce. La cosiddetta crisi dei missili dell’ottobre 1962, quando la scoperta di installazioni missilistiche nucleari sovietiche nell’isola provoca una dura reazione americana. Com’è noto, il blocco navale americano, condiviso dagli altri stati del continente, apre un confronto diretto tra i leader delle due superpotenze che si conclude con il ritiro dei missili14.
In questa circostanza l’atteggiamento del settimanale è sostanzialmente analogo, sia pure con toni polemici meno pronunciati, a quello che abbiamo visto manifestarsi durante la crisi di Suez. Un’attitudine che comporta una piena adesione alle ragioni ideali e politiche dell’alleanza occidentale, ma che non manca di svolgere critiche anche severe all’amministrazione americana quando questa non si dimostra all’altezza della leadership dei paesi del mondo libero.
Il fallimento della spedizione a Cuba è giudicato in modo particolarmente severo dal rotocalco pannunziano. Aldo Garosci, in un commento pubblicato nel numero del 2 maggio 1961, rileva che esso rappresenta per l’amministrazione americana e per il «mondo occidentale in generale, un disastro di prima grandezza». Questo giudizio, largamente condiviso da tutti i commentatori internazionali, si articola poi in una precisa denuncia del modo in cui si è operato. La spedizione era basata su di un radicale errore di valutazione, si trattava di «una
scommessa sulla fragilità del regime di Castro», che avrebbe dovuto crollare per defezioni interne al momento dello sbarco. L’errore iniziale ha prodotto conseguenze negative a catena. Castro ha visto aumentare la sua popolarità in tutta l’America latina, e ha anche riscosso la solidarietà dei paesi non allineati, gli Stati Uniti sono stati sottoposti «a un’offensiva generale dell’Unione sovietica e dei paesi del blocco sovietico», infine si sono registrati «dubbi e defezioni in seno allo stesso campo occidentale, se non nei governi, tra l’opinione pubblica»15. Al momento in cui scrive la sua analisi Garosci teme che gli Stati Uniti non escludano un nuovo intervento militare, ipotesi che gli appare foriera di possibili complicazioni. Perché una guerra, anche se inizialmente limitata geograficamente, può avere sempre esiti imprevedibili. Il pessimismo è alimentato anche da un giudizio poco rassicurante sulla dirigenza sovietica. A suo parere Krusciov è un interlocutore meno affidabile di Stalin, perché sembra puntare a quella che definisce una «balcanizzazione del mondo». Il leader sovietico è portatore di una «singolare dottrina che dichiara intangibile il blocco conquistato e sottomesso alla rivoluzione comunista» e, al tempo stesso, si consente «le più audaci avventure al di là della zona sotto immediato controllo». Posta tale angolazione analitica, si comprende come l’articolo si concluda con un invito alla maggiore collaborazione fra gli alleati occidentali che debbono procedere in modo solidale «alla elaborazione di metodi e di fini che evitino il pericolo di un proseguimento dell’avventura senza conoscere ciò che sta al fondo di essa»16.
A dimostrazione che il fallimento della spedizione cubana dell’aprile 1961 aveva lasciato il segno, ancora un mese prima della crisi dei missili, nell’ottobre del 1962, il commento de «Il Mondo», che prendeva spunto da un minaccioso discorso di Krusciov su Cuba, era tutt’altro che ottimista. I rapporti, ricordava in quell’occasione Aldo Garosci, tra Usa ed Urss si erano modificati perché «alle porte, si può dire, del continente americano, uno Stato che aveva con gli Stati Uniti forti legami economici e politici è passato apertamente nel capo dei suoi avversari». Segue poi un’osservazione che può parere profetica, ma che è solo una constatazione realistica quando osserva che «Cuba può diventare sede importante di minaccia nucleare e aerea in questa fase di guerra fredda»17.
Del tutto differente è il tono dei commenti che troviamo un mese dopo. Nel numero del settimanale successivo alla chiusura della crisi, che per cinque giorni aveva tenuto il mondo con il fiato sospeso, compaiono due articoli dedicati a questa vicenda. Il commento di Aldo Garosci e di nuovo, come all’indomani della questione di Suez, un intervento di Niccolò Carandini. L’ex ambasciatore italiano a Londra dà al suo articolo il tono di un excursus storico, prendendo le mosse da un’affermazione di Krusciov che nel 1960 aveva definito la dottrina di Monroe come una cosa morta.
Carandini ricorda che la dottrina è sempre valida, tant’è vero che anche il presidente Kennedy in una dichiarazione fatta alla conferenza stampa di fine settembre ha adoperato, in riferimento all’America, la locuzione “questo emisfero”, formulazione che riprende «letteralmente i termini integrali di salvaguardia panamericani in cui nel 1823 il Presidente Monroe aveva concepito e pubblicato la sua dottrina», proprio per rispondere alle pretese dello zar di Russia Alessandro I a proposito del limite di navigazione delle acque vicinali dell’Alaska. Da allora la dottrina non solo ha sempre il «suo valore affettivo e sentimentale»18, ma è stata rafforzata da varie conferenze panamericane che ne hanno ampliato il principio di solidarietà. Carandini ricorda che fino a quando il sostegno sovietico a Cuba si è mantenuto nei termini di un’azione difensiva gli Stati Uniti lo hanno tollerato. Le cose sono mutate con la scoperta dei missili strategici. A quel punto la reazione americana è stata immediata. Forti del consenso di tutte le repubbliche americane si è posto l’ultimatum all’URSS anche senza consultare gli alleati europei e senza chiedere la convocazione del consiglio di sicurezza dell’ONU. Un comportamento giustificato, ricorda Carandini, perché il presidente americano, quale capo dell’alleanza occidentale con il controllo quasi esclusivo del deterrente atomico, «ha il diritto e il dovere di difendere se stesso e i suoi alleati anche a costo di provocare uno scambio di bordate nucleari»19.
Il commento di Garosci esprime un orientamento ideale del tutto analogo a quello di Carandini, ma si concentra sugli aspetti politici più diretti. In primo luogo elogia il presidente americano per aver tenuto il confronto «entro un preciso terreno (le basi missilistiche di Cuba) scartando tutti gli altri motivi di intervento o di vendetta ideologica». Così il problema del rovesciamento del regime cubano non è stato preso neanche in considerazione, perché la questione è stata ristretta a un ambito «di equilibrio strategico tra i due blocchi e questo aspetto dominava tutto il resto». Un simile approccio limitava di molto anche i pericoli di guerra. Se l’URSS, argomenta Garosci, fosse stata disposta a correre il rischio del conflitto nucleare non per difendere il regime di Cuba, ma per mantenervi delle basi missilistiche anche di fronte a una precisa ingiunzione «ciò avrebbe significato semplicemente che la guerra era stata già decisa». Nel complesso, anche se ancora cauto nel trarre conclusioni definitive dall’accaduto, l’articolista rileva che il caso cubano ha dimostrato che «i sovietici non sono disposti a scatenare la guerra mondiale a sostegno di puntate locali». Più in generale, poi, «la fermezza incontrata a Cuba può averli resi consci che possono incontrare analoghi ostacoli a Berlino»20. L’ottimismo che trapela in queste prime analisi viene confermato nei commenti delle settimane seguenti. Nel numero del 27 novembre, Garosci rileva seccamente che nell’isola caraibica, «si è svolta una prova di forza» tra i sovietici e gli americani e che «il successo è toccato a questi ultimi». Un successo che apre prospettive positive per il futuro perché si è registrato «un certo rafforzamento del sistema di alleanze capeggiato dagli Stati Uniti […] e un certo allentamento del sistema opposto»21.
Dall’analisi relativa a tre momenti particolarmente significativi, delle relazioni internazionali di quel periodo, appare con nitore il modo in cui «Il Mondo» valuta le scelte americane nello scenario della guerra fredda.
Peraltro, la traccia della politica estera e dell’alleanza occidentale come baluardo di civiltà spiega anche le scelte del settimanale rispetto alla politica interna della repubblica stellata. Se «Il Mondo» è in generale solidale con gli Stati Uniti, esso esprime però precise preferenze al momento delle elezioni presidenziali. Nel 1952 e nel 1956 appoggia la candidatura del democratico Adlai Stevenson contro Dwight Eisenhower e così farà anche nel 1960 nella sfida che oppone il democratico John F. Kennedy al repubblicano Richard Nixon. Opzioni che si intendono proprio facendo riferimento alla situazione internazionale. Il partito democratico, nel giudizio del settimanale di Pannunzio, rappresenta la tradizione di interventismo in difesa della libertà, incarnata dalle scelte di Roosevelt nell’ultimo conflitto, mentre il partito repubblicano è l’erede dell’isolazionismo che nell’entredeux guerres ha favorito l’affermazione e la crescita dei regimi totalitari in Europa. A una originaria matrice isolazionista viene riportato anche il fenomeno del maccartismo, che il settimanale non manca di commentare e analizzare con attenzione, anche perché si tratta di un argomento sul quale la polemica comunista, e in generale delle sinistre, era assai forte e insistita, presentando quel fenomeno come sicuro indizio di un processo degenerativo della democrazia americana22.


L’esempio americano: un modello di civiltà liberale

Le relazioni internazionali, per quanto importanti, non esauriscono però il nostro argomento. «Il Mondo», infatti, dedica ampio spazio all’America anche da altri punti di vista. Assai numerose e varie sono le corrispondenze che arrivano da oltre oceano. Reportages e commenti che spaziano su ogni ambito della vita americana. Dalla politica interna, alle istituzioni civili e amministrative, alla vita associata, al costume e al tempo libero, alla cultura popolare. E questo senza dimenticare la costante attenzione che nelle rubriche letterarie e culturali si riserva alla letteratura e al cinema americani o lo spazio crescente che nelle recensioni di libri si conquista la storia d’oltre oceano. Non abbiamo fatto una statistica precisa ma, compulsando gli indici del settimanale e sfogliando la collezione de «Il Mondo», salta agli occhi che all’America viene dedicato uno spazio molto ampio, forse maggiore che quello riservato ad ogni altro paese. Certo, alla base di questo costante interesse sta una considerazione politica. Lo sforzo di presentare un quadro aggiornato della realtà americana è anche un modo per sottolineare i comuni legami di civiltà che legano gli Stati Uniti all’Europa e all’Italia, e per illustrare l’esempio di democrazia funzionante e viva che l’America rappresenta. Un ampio spazio è dedicato anche al tema della discriminazione nei confronti dei negri, avvertito come il problema più serio che la democrazia americana deve fronteggiare23. Ma la politica non copre tutto l’orizzonte americano, perché sulle colonne del settimanale pannunziano si possono incontrare i più vari argomenti delle mode di oltre oceano, dalla fantascienza, alle scuole di scrittura, alla settimana corta, alle condizioni attuali dei nativi americani, ai persuasori occulti, alla televisione e ai telefilm di grande successo24. Una sorta di epitome esemplare di questa apertura a tutto azimut sulla vita americana, si può trovare nei numerosi articoli che Alberto Arbasino invia, a varie riprese, dagli Stati Uniti tra il settembre 1959 ed il dicembre del 1964. Scritti che, spogliati della loro cifra letteraria, offrono un variegato campionario della vita sociale americana e dei luoghi topici dell’immaginario statunitense. Il festival del jazz a Newport, il sabato sera al Greenwich Village, il cinema nel quartiere newyorkese del Bronx, la redazione del «Christian Science Monitor», la mensa aziendale della General Motors, le università della California; e poi gli incontri e le visite a intellettuali famosi (James Burnham, John Kenneth Galbraith, David Riesman, Arthur Schlesinger jr.)25.
Per l’economia del nostro discorso non è possibile svolgere, neanche in modo sommario, una rassegna esaustiva del modo in cui il settimanale di Pannunzio presenta la realtà americana. Ci limiteremo, pertanto, a fornire dei ragguagli su come i collaboratori de «Il Mondo» vanno a definire e interpretare alcuni temi specifici. In premessa, però, occorre tenere a mente una caratteristica di fondo, che informa l’orientamento del settimanale. Non solo «Il Mondo» sottolinea sempre le comuni radici di civiltà che legano l’Europa all’America, ma non perde occasione per ricordare che oltreoceano, per quanto si sia in presenza di una società proiettata verso una modernità senza limiti, si fa quanto è necessario per salvaguardarle. Massimo Salvadori, in un articolo pubblicato nel marzo del 1950, nel descrivere il sistema educativo statunitense, rileva che attualmente si «cerca di valorizzare le discipline umanistiche anche a costo di perdere un po’ di terreno nei corsi tecnici»26. Circa un decennio dopo una considerazione analoga viene svolta in un articolo di Corrado Sofia. L’articolista riporta una conversazione avuta con un italiano che insegna a Los Angeles da parecchi anni, Pier Maria Pasinetti. Questi dice che le sue lezioni sui classici (L’Odissea, Il Faust, Guerra e pace), che sono obbligatorie per gli studenti dei corsi di arte drammatica e cinematografica, «gli provano che, accanto ai progressi della scienza, i valori della cultura non vengono trascurati, come spesso noi immaginiamo in Europa»27.
Va poi considerato il desiderio di offrire utili spunti comparativi rispetto alla politica italiana, indicando le scelte operate oltre oceano come possibili modelli virtuosi.
Indicativo, a tal proposito, risulta l’intervento di Leo Wollemborg sui venticinque anni della Tennessee Valley Authority, un ente di sviluppo per le aree depresse che rappresenta una delle più cospicue realizzazioni dell’era rooseveltiana. L’intento esemplare si coglie fin dal titolo (La cassa del Tennessee), che allude ad un possibile parallelo con le politiche meridionaliste perseguite in quel periodo nel nostro paese. Nel suo intervento Wollemborg non manca di ricordare che il progetto della TVA venne promosso e sollecitato da un senatore repubblicano, George W. Norris, che convinse il presidente democratico dell’utilità dell’iniziativa. Non un ente rivolto a sfruttare solo l’energia idroelettrica, creata con una diga, ma un esperimento più ampio «per soggiogare e aggiogare le forze della natura, in base ad una pianificazione razionale ed integrale», che investe «la terra, i fiumi, le foreste, le risorse minerali, l’agricoltura, le industrie, la popolazione»28. Tuttavia, il richiamo alla volontà di favorire la crescita di una zona sottosviluppata con un’energica e attiva politica pubblica viene riportata a una dimensione liberale, implicitamente polemica nei confronti della pianificazione sovietica o dell’economia di comando. Wollemborg, infatti, conclude citando un brano da un editoriale del «Washington Post» dedicato a ricordare l’anniversario dell’ente: «Senza dubbio la TVA è in un certo senso un’istituzione a carattere socialistico, ma lo è nello stesso senso in cui lo sono le scuole pubbliche oppure le strade statali»29.
Un significato esemplare ancora più netto si riscontra negli interventi dedicati alla legislazione antimonopolista americana. La lotta ai monopoli era stato il tema del primo convegno degli amici de «Il Mondo» nel febbraio 1955, e rimaneva uno dei cavalli di battaglia polemici del giornale30. Enrico Zanelli, in un articolo del novembre 1957, a partire da una sentenza della Corte suprema americana, che dichiarava illegittima la detenzione di un controllo azionario della General Motors da parte della E.I. du Pont de Nemours, rifaceva la storia della legislazione antitrust americana dallo Sherman Act del 1890, al Clayton Act del 1914 e alle successive modifiche e integrazioni. Dopo aver ricordato che la giurisprudenza della corte americana era soggetta a oscillazioni legate alle tendenze dei giudici in carica, l’autore sottolinea, non senza una percepibile intenzione polemica, che alla politica antitrust «gli americani si sono sempre dedicati sgombri di ogni prevenzione ideologica e, potrebbe dirsi, massimalistica; ma bensì con accurata e paziente analisi scientifica»; perciò riferire e riflettere su questa sentenza recente è utile – aggiunge – perché aiuta a capire come «poche disposizioni di legge, e l’alterno periodico intervento dei massimi organi costituzionali e giurisdizionali hanno contribuito» alla positiva «evoluzione di una disciplina che condiziona e rende vitali le moderne strutture economiche». Queste considerazioni preludono a una conclusione centrata sulla situazione italiana. Zanelli, infatti, ricorda con rammarico che «i progetti di legge elaborati in materia in Italia non saranno discussi in questa fallimentare legislatura», auspicando che la legislatura seguente sappia «meditare e risolvere questi fondamentali problemi»31. Il richiamo alla situazione politica italiana trapela anche in articoli dedicati ad opere di studio e a recensioni di argomento storico. Parlando di un libro sulla pubblica amministrazione americana, Alberto Aquarone conclude il suo argomento con accenno diretto alla situazione del nostro paese. L’articolista si augura che alla traduzione del libro di cui si è occupato, ne seguano altre di libri sullo stesso tema, in tal modo si potrebbe «sperare che a poco a poco qualcosa cominci a muoversi in Italia anche in questo campo della riforma burocratica nel quale fino ad oggi non si è andati sensibilmente più in là dell’aggiunta di un’altra, forse non del tutto indispensabile, poltrona ministeriale»32.
L’altro aspetto che prenderemo in considerazione è la volontà di far intendere il sostrato culturale e morale della vita politica americana, quello che la caratterizza e ne fa un modello di democrazia da comprendere e da seguire. A tal proposito trascegliamo tre interventi, pubblicati a distanza di tempo che, da punti di vista diversi, affrontano questo stesso tema.
Massimo Salvadori, in un articolo del 1955, partendo da due libri recenti di due autori di divergente orientamento politico e storiografico33, ricostruisce una succinta genealogia della tradizione politica americana. Richiamandosi ai padri fondatori della repubblica stellata, Salvadori ricorda che loro «per libertà intendevano un regime costituzionale, un governo piuttosto debole che forte, la divisione dei poteri, l’impero della legge». Un orizzonte che ancora oggi è quello di «una nazione in cui […] predomina la tradizione che si richiama a John Locke, ampliata per alcuni da Jefferson, ristretta per altri da Adams (ed ancora di più da Hamilton); una nazione in cui questa tradizione si scinde continuamente in una destra che si dice conservatrice ed in una sinistra che si dice liberale ed è liberal-radicale o liberal-socialista». Tuttavia non ci sono ruoli fissi assegnati, perché, dato il retroterra comune da cui originano entrambe le principali correnti politiche, «le parti a volte si invertono»; se questo avviene non è il frutto di un’indebita confusione ma solo il necessario risultato «di forze contrastanti che agiscono nell’ambito di una medesima tradizione»34.
Considerazioni di tenore analogo, volte a cogliere e a definire in una sintesi la particolarità della vita pubblica americana, si ritrovano in un articolo di Guido Calogero pubblicato nel novembre 1956. Prendendo spunto dalla campagna elettorale per la presidenza della repubblica, lo studioso italiano svolge delle considerazioni su quella che possiamo definire la religione costituzionale americana. La campagna elettorale, osserva, si svolge in un clima assai più pacato che in Italia. Una mancanza di enfasi che non è sintomo di «indifferenza, ma piuttosto senso diffuso di sicurezza democratica». La consapevolezza cioè «che, comunque le cose vadano, nessuno mette in pericolo quello che per tutti è più importante: quell’ordine delle cose per cui la nazione si regge in piedi». Non si tratta solo del rispetto della legge. Anzi, sotto questo profilo, Calogero si preoccupa di specificare che anche oltre oceano «il problema del far osservare leggi che non vengono rispettate è non meno vivo che da noi», bensì di una più generale lealtà a «quella legge fondamentale che ogni cittadino sente come il proprio contratto di appartenenza alla società». Gli americani appartengono a molte e diverse confessioni e sette religiose, professano idee politiche spesso assai lontane tra loro, ma sono tutti d’accordo nel «rispettare il diritto di ognuno di far valere pariteticamente le proprie idee e le proprie preferenze, secondo le regole sancite nella Costituzione». Ed è proprio questa lealtà il patto fondativo della vita pubblica che, parere di Calogero, costituisce «la vera religione degli Stati Uniti, il contenuto più autentico della American way of life»35.
Sulla stessa linea d’onda, con un più insistito richiamo storicista, troviamo, tre anni dopo, un intervento di Alberto Aquarone, in cui si recensisce il libro di Frederick Jackson Turner sulla frontiera nella storia americana36. Aquarone trova nella tesi turneriana molto di vero, perché «le continue smisurate possibilità di espansione verso Occidente», che caratterizzano i primi secoli di vita americana, il «clima pioneristico, lo stesso carattere della gente che se la sentiva di affrontare i rischi e le fatiche della colonizzazione di terre vergini […] contribuirono in maniera sostanziale all’individualismo, […] all’amore per l’eguaglianza che dovevano caratterizzare la democrazia americana». Tuttavia è importante non trasformare questa utile intuizione in un canone di lettura naturalistico o primitivistico. Sostenere, come fa Turner, che la democrazia americana nacque nelle foreste significa trascurare una verità essenziale. La costituzione americana, ricorda Aquarone, non è un prodotto automatico della frontiera, ma «è il frutto di una tradizione politica intimamente vissuta e sempre operante, il punto di confluenza, sul piano politico, di una cultura che più di ogni altra nella storia affondava le sue radici nel concetto di libertà, il termine di riferimento permanente e concreto di tutti gli aspetti essenziali della vita pubblica americana sotto forma di organizzazione politica»37.
La rivendicazione del costume civile e dell’orizzonte liberale della repubblica stellata che traspare da queste analisi rimanda poi a una precisa opzione assiologica. In precedenza abbiamo ricordato come l’America che il settimanale pannunziano addita come modello è un paese che non resta chiuso in se stesso, non persegue l’isolamento ma si pone come leader dell’alleanza occidentale. Questa idea che informa le analisi di politica internazionale si ritrova anche sul versante della riflessione storica. Per intenderlo si possono prendere in considerazione due recensioni di libri dedicati a Franklin Delano Roosevelt. Un articolo di Panfilo Gentile, pubblicato nel gennaio del 1950 e un altro di Vittorio de Caprariis uscito nel maggio di undici anni dopo38.
Gentile è molto critico rispetto alla politica economica rooseveltiana che giudica fallimentare, perché ispirata a una logica di pianificazione antieconomica; de Caprariis, invece, esprime una valutazione positiva per le riforme del presidente americano, soprattutto per la fase che comincia nel biennio 1935-56. Le due recensioni, nel loro contenuto, rispecchiano due momenti diversi della vita del settimanale. Nel primo caso siamo negli anni del centrismo e del sostegno alla politica economica degasperiana, per cui si è diffidenti verso l’intervento statale in economia; nel secondo caso si è fatta la scelta per il centro sinistra e c’è la volontà di presentare la stagione rooseveltiana come un possibile esempio. Tuttavia pur nella diversità delle posizioni dei due articolisti e del settimanale i due interventi concordano su di un punto essenziale. Il merito maggiore di Roosevelt è stato quello di ribaltare la politica isolazionista, portando l’America a una politica estera di attivo sostegno della libertà. Si tratta di posizioni che i due autori argomentano in maniera non troppo dissimile. Gentile, dopo aver riassunto le critiche che vengono rivolte al presidente americano (un demagogo senza scrupoli, sleale e fatuo), ne prende apertamente le difese ricordano che in un momento critico Roosevelt «gettò il peso decisivo della potenza degli Stati Uniti in favore di una causa, che non era la causa dell’Europa, ma quella dell’umanità e della civiltà»39. De Caprariis, per parte sua osserva che nella sua azione di governo Roosevelt incarnava la migliore tradizione democratica americana, «così come, di lì a qualche anno, avrebbe interpretato la coscienza della indivisa umanità inorridita per la tirannide nazista e risoluta ad abbatterla»40.
In conclusione per «Il Mondo» è questa l’America cui fare riferimento, una nazione fedele agli ideali di libertà, cosciente del proprio ruolo di guida del mondo libero.














NOTE
* Intervento tenuto al convegno: «Stati Uniti e culture politiche italiane nel ’900. Max Ascoli: un caso paradigmatico», Roma, Archivio storico del Senato della Repubblica, 20-21 novembre 2014.^
1 Indicativi di un simile approccio sono i due primi libri volti a ricostruzione la vicenda del settimanale: P. Bonetti, «Il Mondo» 1949/66. Ragione e illusione borghese, prefazione di V. Gorresio, Roma-Bari, Laterza, 1975 e M. Del Bosco, I radicali e «Il Mondo», prefazione di R. Romeo, Torino, ERI, 1979. Un’analisi dell’europeismo del settimanale e di come esso sia connesso con le scelte di politica estera in Y. Guaiana, L’Europa e «Il Mondo»: l’europeismo ne «Il Mondo» di Mario Pannunzio, in «L’Acropoli», VIII (2007), pp. 182-207. Una bibliografia su «Il Mondo» in P.F. Quaglieni, «Il Mondo», in Idem (a cura di), Mario Pannunzio da Longanesi a il «Mondo», Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pp. 125-128.^
2 Anonimo, Offensive di pace, «Il Mondo», a. I, n. 1, 19 febbraio 1949, p. 1.^
3 Vedi, per esempio, i “taccuini” non titolati dedicati alla discussione parlamentare del Patto Atlantico, alla mancata partecipazione al voto da parte dell’onorevole De Nicola, alla petizione popolare contro la ratifica del patto, rispettivamente «Il Mondo», n. 6, 26 marzo 1949, p. 2; ivi, n. 8, 9 aprile 1949, p. 2; ivi, n. 12, 7 maggio 1949, p. 2.^
4 Lettera del 25 settembre 1954 da Parigi, in Fondo Pannunzio, Archivio storico della Camera dei deputati, busta 25. Come è stato ricordato, il settimanale di Pannunzio «fu il più fedele portavoce dell’occidentalismo laico e liberale», M. Teodori, Pannunzio. Dal «Mondo» al Partito radicale: vita di un intellettuale del Novecento, Milano, Mondadori, 2010, p. 155. Sull’atlantismo de «Il Mondo», e del suo direttore, vedi anche A. Cardini, Mario Pannunzio giornalismo e liberalismo. Cultura e politica nell’Italia del Novecento (1910-1968), Napoli, ESI, 2011, pp. 145-146.^
5 A. Cardini, Tempi di ferro. «Il Mondo» e l’Italia del dopoguerra, Bologna, il Mulino, 1992, p. 169. In questo volume troviamo anche un giudizio di carattere generale sull’atteggiamento del settimanale nei confronti dell’America, ivi, pp. 169-173. Sullo stesso argomento vedi egualmente G. Carocci, Introduzione a Idem (a cura di), «Il Mondo». Antologia di una rivista scomoda, Roma, Editori Riuniti, 1997, pp. XXIV-XXXV.^
6 Anonimo, La grande alleanza, «Il Mondo», n. 3, 5 marzo 1949, p. 1.^
7 A. Guerriero, La Costituzione e il Patto atlantico, «Il Mondo», n. 6, 26 marzo 1949, p. 4.^
8 Sulla vicenda di Suez cfr. R. Crockatt, Cinquant’anni di guerra fredda, Roma, Salerno, 1997, pp. 252-257.^
9 Aldo Garosci sarà titolare della rubrica di politica estera dal novembre 1956 alla chiusura del settimanale nel marzo di dieci anni dopo. Vittorio de Caprariis era stato titolare della stessa rubrica tra il novembre del 1954 e il luglio del 1956, firmando con lo pseudonimo di Turcaret. In precedenza il commento settimanale di politica estera era stato affidato prima ad Augusto Guerriero e poi ad Antonio Calvi. Sui titolari della rubrica cfr. A Cardini, Mario Pannunzio giornalismo e liberalismo, cit., p. 135.^
10 A. Garosci, Spedizione d’Egitto, «Il Mondo», n. 45, 6 novembre 1956, p. 4. Gli altri interventi di Garosci sull’argomento sono: Armistizio, ivi, 20 novembre 1956, p. 4, Il reagente. Francia tormentata. Un’astensione, ivi, 4 dicembre 1956, p. 4 e Resa dei conti, ivi, 11 dicembre 1956, p. 4.^
11 N. Carandini, Un’alleanza più forte, «Il Mondo», n. 46, 13 novembre 1956, p. 1.^
12 Sulla circostanza che de Caprariis, assieme a Renato Giordano, avesse, sulla questione di Suez, una posizione più vicina agli anglo-francesi e non coincidente con quella di altri esponenti dell’area di terza forza laica, cfr. P. Craveri, La democrazia incompiuta, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 257. Sullo stesso tema vedi anche E. Capozzi, Introduzione a V. de Caprariis, Storia di un’alleanza. Genesi e significato del Patto Atlantico, a cura di E.C. e G. Buttà, Roma, Gangemi, 2006, pp. 16-18. Anche dopo la chiusura della crisi il settimanale di Pannunzio continuerà ad ospitare interventi sulla crisi di Suez, con prese di posizione favorevoli all’atteggiamento anglo-francese, cfr. P. Perbellini, Bancarotta di Nasser, «Il Mondo», n. 52, 25 dicembre 1956, p. 3, o apertamente critici, cfr. L. Piccardi, La libertà degli altri, ivi, 19 febbraio 1957, pp. 11-12, ora in G. Carocci (a cura di), «Il Mondo». Antologia di una rivista scomoda, cit., pp. 242-251.^
13 F. Gozzi [V. de Caprariis], Americainfortezza, «Il Mondo», n. 48, 27 novembre 1956, pp.1-2.^
14 Su questi episodi, cfr. R. Crockatt, Cinquant’anni di guerra fredda, cit., pp. 166, 183, 273-274, 223-234. Vedi anche B. Bongiovanni, Storia della guerra fredda, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 109-110 e 116.^
15 A. Garosci, La rotta di Cuba, «Il Mondo», n. 18, 2 maggio 1961, p. 4. Perplessità su di un possibile intervento americano a Cuba erano state espresse in un commento di qualche settimana prima, cfr. Idem, Intervento a Cuba, ivi, n. 16, 18 aprile 1961, p. 4.^
16 Idem, L’ostinazione di Kennedy, ivi, n. 18, p. 4. In una corrispondenza da New York comparsa due settimane dopo si segnala il largo consenso che la spedizione cubana aveva registrato anche tra i liberals americani, cfr. P. Maranini, La paura di Babbit, ivi, n. 20, 16 maggio 1961, pp. 1-2.^
17 A. Garosci, Tra Cuba e Berlino, ivi, n. 40, 2 ottobre 1962, p. 5. In questa occasione, Garosci conferma un giudizio del tutto negativo sulle vicende dell’aprile 1961: «la stessa spedizione della ‘baia dei porci’ fu condotta nel modo più assurdo: nel nome del comitato democratico, ma affidandola a ufficiali batistiani; fornendo e allenando volontari, ma rifiutando loro l’appoggio dell’aviazione», ibidem.^
18 N. Carandini, Da Monroe a Kennedy, ivi, n. 45, 6 novembre 1962, p. 3. Molto probabilmente per la stesura dell’articolo Carandini ha fatto riferimento a uno studio da poco pubblicato in Italia: D. Perkins, Storia della dottrina di Monroe, Bologna, il Mulino, 1960.^
19 N. Carandini, Da Monroe a Kennedy, cit., p. 4.^
20 A. Garosci, Al largo di Cuba, «Il Mondo», n. 45, 6 novembre 1962, p. 5.^
21 Idem, La grande corrente, ivi, n. 48, 27 novembre 1962, p. 5. Vedi anche Idem, Liquidazione a Cuba, ivi, n. 46, 13 novembre 1962, p. 5. In un articolo pubblicato in questo stesso numero del settimanale Furio Colombo rileva come la soluzione della crisi dei missili abbia riscontrato nell’opinione pubblica americana un consenso presso ché unanime. Cfr. Le giornate della crisi, ibidem, pp. 1-2.^
22 Su questo aspetto cfr. M. Salvadori, «Il Mondo», L’inquisitore d’America, a. V, n. 24, 13 giugno 1953, pp. 3-4, ora in G. Carocci (a cura di), «Il Mondo». Antologia di una rivista scomoda, cit., pp. 204-208 e G. Calogero, Il tramonto dell’isolazionismo, «Il Mondo», n. 42, 16 ottobre 1956, pp. 5-6.^
23 Vedi per esempio, ma si tratta di un elenco solo indicativo, A. Roselli, Un bianco ad Harlem, «Il Mondo», n. 39, 27 settembre 1955, p. 7; Idem, Lo sciopero dei negri, ivi, n. 18, 1 maggio 1956, pp. 1-2; M.M. Silvi, La scelta di Robert E. Lee, ivi, n. 19, 8 maggio 1956, pp. 1-2; F. Colombo, I negri in America/La segregazione e l’uomo invisibile, ivi, n. 19, 7 maggio 1963, pp. 6-8; Idem, I negri in America/L’avventura di Rosa Park, ivi, n. 20, 14 maggio 1963, pp. 6-8; Idem, I negri in America/La palla nera al circolo del tennis, n. 21, 21 maggio 1963, pp. 6-8.^
24 Sui temi enunciati nel testo cfr. nell’ordine A. Roselli, L’interplanetario, «Il Mondo», 6 ottobre 1953, a. V, n. 40, p. 5; Idem, Le «Vanity presses», ivi, n. 37, 13 settembre 1955, p. 5; M. Vianello, La settimana breve, ivi, n. 22, 10 ottobre 1957, p. 5; G.A. Roggero, Storie di Pellerossa, ivi, n. 47, 25 novembre 1958, p. 7; A. Todisco, Il persuasore occulto, Ivi, n. 6, 9 febbraio 1960, p. 16, F. Colombo, La televisione in America/ Il dottor Kildare e la cultura di massa, ivi, n. 4, 28 gennaio 1964, pp. 6-8.^
25 Per l’elenco degli articoli di Arbasino dedicati all’America cfr. Il Mondo. Indici analitici 1949-1966, 2 voll., prefazione di G. Spadolini, Firenze, Passigli, 1987, ad vocem.^
26 M. Salvadori, 30 milioni di scolari, «Il Mondo», n. 11, 18 marzo 1950, p. 6.^
27 C. Sofia, Il professor Pasinetti, «Il Mondo», n. 44, 3 novembre 1959, p. 15.^
28 L.J. Wollemborg, La cassa del Tennessee, «Il Mondo», n. 25, 24 giugno 1958, p. 3.^
29 Ivi, p. 4.^
30 Sul convegno antimonopolistico tenuto nel febbraio 1955, cfr. M. Del Bosco, I radicali e “Il Mondo”, cit., pp. 74-75, vedi anche G. Spadolini, La stagione del “Mondo” 1949-1966, Milano, Longanesi & c., 1983, p. 213n. Gli atti del convegno sono raccolti nel volume: L. Piccardi, T. Ascarelli, U. La Malfa, E. Rossi, La lotta contro i monopoli, a cura di E. Scalfari, Bari, Laterza, 1955.^
31 E. Zanelli, Il risveglio del gigante, «Il Mondo», n. 46, 12 novembre 1957, p. 3. Un’attitudine del tutto analoga, volta cioè a sollecitare la legislazione antimonopolistica italiana a partire dall’esperienza americana, si ritrova in un altro articolo pubblicato circa due anni dopo, cfr. L. Raccà, America anti-trust, «Il Mondo», n. 4, 26 gennaio 1960, pp. 1-2.^
32 A. Aquarone, Il sistema americano, «Il Mondo», n. 40, 6 ottobre 1960, p. 8. Il libro recensito è: L.D. White, Introduzione allo studio della pubblica amministrazione, Milano, Comunità, 1959.^
33 Si tratta di C. Rossiter, Conservatism in America, New York, Knopf, 1955, e di L. Hartz, The Liberal tradition in America: an Interpretation of American political Thought since the Revolution, New York, Hartcourt, Brace & World,1955, quest’ultimo sarà tradotto qualche anno dopo: La tradizione liberale in America: interpretazione del pensiero politico americano dopo la rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1960. Questa edizione verrà prontamente recensita sul settimanale, cfr. A. Aquarone, America liberale, «Il Mondo», n. 14, 5 aprile 1960, p. 8.^
34 M. Salvadori, Conservatori e liberali, «Il Mondo», n. 22, 31 maggio 1955, pp. 3-4.^
35 G. Calogero, Anche Iddio sta ai patti, «Il Mondo», n. 46, 13 novembre 1956, pp. 1-2.^
36 Il libro era stato da poco tradotto: F.J. Turner, La frontiera nella storia americana, introduzione di M. Calamandrei, il Mulino, Bologna, 1959.^
37 A. Aquarone, La civiltà della frontiera, «Il Mondo», n. 20, 19 maggio 1959, p. 9.^
38 Cfr. P. Gentile, Roosevelt imputato, «Il Mondo», n. 4, 28 gennaio 1950, p. 8 e V. de Caprariis, Il secondo New Deal, n. 22, 30 maggio 1961, pp. 11-12. I libri recensiti sono, rispettivamente, J. Flynn, Il mito di Roosevelt, Milano, Longanesi, 1949 e A. Schlesinger jr., The Politics of Upheaval, Boston, Hougton Mifflin,1960.^
39 P. Gentile, Roosevelt imputato, cit., p. 8.^
40 V. de Caprariis, Il secondo New Deal, cit., p. 12.^
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