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L’affare Vivaldi di Federico M. Sardelli
di Tommaso Rossi
La musica cosiddetta “colta” soffre in Italia di una strana sindrome. È ritenuta, per misteriosa quanto generalizzata credenza, troppo carica di contenuti tecnici per essere considerata divertimento di massa, e per questo è relegata nei retrobottega della diffusione mediatica, sospinta nei peggiori e più notturni orari della programmazione televisiva e infine considerata cultura di élites un po’ noiose, sussiegose e fuori dal tempo; dall’altra parte essa però non è ancora considerata degna di uno status universitario e scientifico, laddove la ormai chimerica “riforma dei Conservatori di musica” stenta a parificare la figura del docente di Conservatorio con quella di docente universitario. Per questi motivi il mondo della musica fatica, nel nostro Paese, ad avere il ben che minimo peso o ruolo, che pure sarebbe di sua pertinenza, visto che la tradizione musicale italiana dovrebbe rappresentare la spina dorsale della Cultura dell’Italia, nazione culla della musica come nessun altra, essendo simultaneamente la patria dell’opera lirica e della musica strumentale, nonché – addirittura – dell’inventore delle stesse note musicali, il monaco Guido d’Arezzo.
Questa è la doverosa premessa che serve a introdurre qualche breve riflessione su L’affare Vivaldi di Federico Maria Sardelli (Sellerio Editore, Palermo, 2015) un libro appassionante e bellissimo, che, raccontando, nella forma del romanzo storico, la storia del ritrovamento dei manoscritti di Antonio Vivaldi, avvenuta negli anni ’20 del XX secolo, in piena epoca fascista, tocca con mano proprio questa “sindrome”, facendoci capire come il nostro essere italiani sia caratterizzato, e non da pochi anni, dalla totale incapacità di apprezzare il tesoro musicale sul quale siamo seduti, purtroppo quasi del tutto inconsapevolmente.
Il libro, in realtà,è molto di più di questo e vedremo perché. Innanzitutto qualche nota sull’autore. Federico Maria Sardelli è flautista, direttore d’orchestra e preparatissimo musicologo, tanto da essere oggi considerato proprio uno dei massimi esperti della musica di Antonio Vivaldi, di cui ha trattato in molte pubblicazioni. L’affare Vivaldi però non corre il ben che minimo rischio di essere considerato qualcosa di simile a un prodotto musicologico.
È un romanzo a tutto tondo, in cui la piacevolezza della scrittura, l’efficace rievocazione degli ambienti, la sapiente costruzione dei dialoghi immerge il lettore in un appassionante viaggio attraverso la storia. La vicenda dei manoscritti vivaldiani, passati, dalla morte del grande compositore attraverso le mani di collezionisti, nobili bibliomani, preti ignoranti, è rivissuta e ricostruita fino al suo momento decisivo; il loro salvataggio, dall’oblio e dalla possibile distruzione, avviene per merito di due illustri intellettuali italiani: Luigi Torri e Alberto Gentili, il primo direttore della Biblioteca Nazionale di Torino, l’altro docente di storia della musica presso l’Università del capoluogo piemontese. Luigi Torri e Alberto Gentili si ritrovarono, nel 1926, a dover dare un parere su una raccolta di manoscritti musicali proveniente dal collegio salesiano di Borgo San Martino, al quale, qualche anno prima, il marchese Marcello Durazzo aveva lasciato in eredità il suo fondo musicale. I salesiani non avevano minimamente compreso il valore del lascito e avevano relegato i preziosi manoscritti autografi su una polverosa soffitta, salvo poi porsi il problema del loro mero valore commerciale, quando furono alla disperata ricerca di risorse per realizzare lavori di restauro nel collegio. Per questo motivo avevano chiesto un parere alla Biblioteca Nazionale di Torino inviando i manoscritti per una valutazione economica. Quando il direttore della Biblioteca, Luigi Torri, e l’amico musicologo Alberto Gentili, convocato in qualità di esperto, si videro aprire le casse con centinaia di opere autografe di Vivaldi, non poterono credere ai propri occhi e immediatamente cercarono di capire come fare per acquisire allo Stato italiano questo straordinario bene librario e musicale. Da un punto di vista narrativo, Sardelli alterna il racconto degli eventi novecenteschi con dei fatti avvenuti nel XVIII secolo, ricostruendo in successione tutti i vari passaggi di mano della raccolta vivaldiana, fino all’arrivo presso gli ultimi proprietari, i marchesi Durazzo. Il libro quindi si snoda su più piani e a più voci, creando un bellissimo effetto di suspence, restituendoci, con nitida mano, gli ambienti e i personaggi che ne furono protagonisti. Torri e Gentili, che era di origine ebraica, risolsero brillantemente il problema dell’acquisizione del fondo vivaldiano. Avendo avuto un diniego dalle autorità fasciste per un eventuale contributo statale (in questo lo Stato italiano si mostra perfettamente coerente in ogni epoca storica) ottennero una donazione dall’imprenditore ebreo Roberto Foà, che, allo scopo di commemorare il piccolo figlio Mauro, morto prematuramente, decise di finanziare l’acquisto della raccolta, chiedendo in cambio che fosse intitolata con il nome del figlio.
La gioia per il brillante esito dell’operazione dura però lo spazio di un momento. Gentili e Torri, si accorgono, dopo un esame più accurato della raccolta, che il fondo è incompleto: per la precisione manca la metà dei volumi. Comincia qui la ricerca vera e propria, che si concentra immediatamente sul ramo genovese della famiglia Durazzo, che era stata destinataria, attraverso complessi meccanismi ereditari, dell’altra parte del fondo. La ricerca di Gentili e Torri, a cui si aggiunge il contributo determinante del marchese Faustino Curlo, dipendente della Biblioteca Nazionale di Torino, nonché nobiluomo in grado meglio di altri di penetrare nella complessa e respingente psicologia degli eredi genovesi della famiglia Durazzo, va a buon fine. Non solo. Gentili e Torri riescono anche, attraverso una nuova donazione, stavolta della famiglia ebrea Giordano, ad acquistare la seconda tranche della raccolta dei manoscritti di Vivaldi.
La storia si concluderebbe dunque nel migliore dei modi, se però non fossimo in Italia, e, nel caso specifico, nell’Italia fascista. Con l’avvento delle leggi razziali Gentili fu costretto ad abbandonare l’insegnamento universitario e a lasciare l’Italia. Fu espropriato anche della responsabilità di occuparsi dell’edizione critica delle opere di Vivaldi, compito che fu dato al compositore Alfredo Casella, all’interno dell’attività del Centro di Studi Vivaldiani presso l’Accademia Chigiana di Siena, con l’intervento del poeta Ezra Pound, di chiare simpatie fasciste, e della violinista americana Olga Rudge, sua compagna, i quali, sin dal 1936, avevano cominciato, nell’ambito dei Concerti Tigulliani, a proporre musiche di Vivaldi, anche se con assoluto spregio di un consapevole spirito critico e senza rispetto per la corretta interpretazione delle indicazioni originali dell’autore. Il libro di Sardelli, ricostruendo le vicissitudini di un bene, che è allo stesso tempo librario e musicale, ha il merito di restituire a Gentili il ruolo avuto in questa fondamentale riscoperta. Ma questo libro racconta anche il male tutto italiano della sottovalutazione della nostra tradizione culturale, in particolare musicale, dell’approssimazione delle istituzioni statali, e della coraggiosa determinazione di chi, all’interno di queste istituzioni, riesce comunque a farsi carico dell’idea e del ruolo dello Stato soltanto perché, dotato di senso di responsabilità e di principi etici, non solo svolge il suo compito con rigore, ma oltrepassa di gran lunga i suoi doveri, per il bene della collettività. Il rispetto e l’amore che Gentili e Torri hanno manifestato per le opere di Vivaldi andrebbe comparato oggi con il disprezzo che i responsabili della Biblioteca dei Girolamini hanno manifestato, in tempi recentissimi, per i beni colà custoditi, venduti al miglior offerente per pura sete di denaro, senza alcun controllo da parte degli organi dello Stato. È un libro importante, L’Affare Vivaldi, che andrebbe letto e conosciuto soprattutto da quella classe politica che oggi avrebbe il compito di difendere i nostri beni culturali, immaginando, al di là di una semplice e mera conservazione, le condizioni per una loro continua e duratura conoscenza. E questo, nel campo musicale, significherebbe comprendere quanta importanza potrebbe svolgere un proficuo e sinergico rapporto tra ricerca, studio ed esecuzione musicale, debitamente sostenuto dalle istituzioni, con evidenti ricadute economiche sulla valorizzazione del territorio e dunque anche sul turismo. Qui, purtroppo, non parliamo più di romanzo storico ma di pura fantasia.
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