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Un'antropologia filosofica della persona
di Giovanni Carosotti
Per dare ragione in modo esaustivo della proposta filosofica e politico-culturale contenuta nell’ultima pubblicazione di Emilio Renzi (Emilio Renzi, Persona.Una antropologia filosofica nell’età della globalizzazione, ATì editore, Brescia 2015) è bene fare riferimento, innanzitutto, alle prime e alle ultime pagine, l’inizio e la fine di uno studio, al cui interno si dipana una ricca e originale ricerca storico-filosofica e storico-concettuale.
Il titolo è già di per sé emblematico; l’espressione «globalizzazione» riferisce infatti l’analisi alla più stringente contemporaneità. Un’epoca difficile, attraversata da problematiche economiche e conflitti geopolitici che da diversi decenni non assumevano valenze tanto drammatiche. Di fronte a un tale contesto, Renzi sostiene l’opportunità di una risposta di ordine filosofico; un pronunciamento importante, che sfida uno degli effetti probabilmente più regressivi, dal punto di vista culturale, dei nostri tempi, ovvero il disconoscimento del contenuto veritativo della disciplina filosofica, estranea allo spirito produttivistico e funzionalistico della mentalità dominante. L’Autore ne difende invece la capacità di individuare un possibile orizzonte di senso verso il quale orientare la prassi umana.
La globalizzazione sembra avere portato a compimento una riserva nei confronti della riflessione teoretica in realtà già avanzata in epoca novecentesca, a seguito del ruolo dominante assunto dalla tecnica; Renzi riporta a proposito un significativo passo di Dewey del 1929 («Il nostro diritto e la nostra politica, i rapporti tra le persone dipendono da una nuova combinazione tra macchine e denaro, il cui risultato è la cultura monetaria caratteristica della nostra civiltà»). Da questo punto di vista, la globalizzazione si presenta come «il vaso di Pandora con cui il Novecento si è congedato da se stesso e il Duemila si è presentato alla nuova ribalta». Un contesto, quello della cultura monetarista, in cui trovano spazio i violenti conflitti di ordine geopolitico e le ideologie fondamentaliste e nazionaliste, destinate, nel loro dogmatismo, a mortificare la ricchezza del pensiero e dell’interpretazione, e ancor più della disciplina filosofica.
Pensare a una possibile via d’uscita, a un principio che possa costituire la base per un’autentica emancipazione, è ovviamente impresa ardua. Non è possibile proporsi una tale finalità intellettuale senza confrontarsi con la storia dei totalitarismi novecenteschi, e al modo in cui essi hanno stravolto l’idea stessa di liberazione.
La presa di distanza dai momenti più drammatici della storia novecentesca non deve però impedire di recuperare – alla maniera di Ernst Bloch – l’aspirazione umana a un modello comunitario fondato sull’assoluto riconoscimento dei reciproci diritti. Questa esigenza giustifica la prospettiva antropologica dell’analisi di Renzi. Anche in questo caso, scegliendo un percorso in parte controcorrente, l’Autore mostra un pacato ottimismo verso questa possibilità. In effetti, in questi ultimi anni, non sono stati pochi gli studiosi che, di fronte alla crisi degli ideali solidaristici, hanno chiamato in causa un’inevitabile limite antropologico, che impedirebbe all’umanità di compiere un effettivo progresso verso la realizzazione dei diritti individuali e sociali. Di recente Luciano Canfora ha fatto riferimento all’antropologia hobbesiana per giustificare il fallimento di tutti i tentativi storicamente affermatasi di creare una società di eguali.
Non è questa la posizione di Renzi, il quale avanza la proposta di una «epoca dei diritti», pur non nascondendosi il carattere utopico (ma l’Autore preferisce l’espressione «eutopico») del modello sociale che intende proporre, simile all’«utopia concreta» di Ernst Bloch. Sulla base di questa prospettiva assume un ruolo centrale il concetto di «persona», da intendersi proprio come principio antropologico il cui riconoscimento diventa fondamento di un modo di vivere la comunità estraneo alla violenza e all’intolleranza. Quando Renzi, all’inizio del suo studio, fa cenno a un «rimorso della filosofia», probabilmente intende riferirsi a un’occasione mancata del pensiero filosofico novecentesco, che più volte ha incontrato questo concetto, senza mai dedicarvisi in modo stabile e continuo, non accorgendosi che esso avrebbe permesso il superamento di molte aporie, non solo teoriche, ma che hanno coinvolto in modo drammatico la stessa prassi emancipatrice.
Nessuna liberazione è possibile e nessuna teoria del progresso sociale può evitare di avvilupparsi nelle contraddizioni totalitarie se non pone come fondamento a se stessa il principio dell’«irriducibilità della persona a ogni istanza». Renzi definisce la persona come «un fatto fondamentale del diritto», o come «pienezza dei diritti inalienabili», ovvero come valore e fine in sé che nessuna strategia politica, rivoluzionaria o no, può sacrificare in vista dell’affermazione dei propri ideali. La valorizzazione della persona, anzi, diventa l’ideale supremo di riferimento, il criterio su cui organizzare le prassi politiche e le ragioni della convivenza. È per questo che, come viene chiarito al termine dello studio, la prospettiva eutopica suggerita da Renzi, denominata «età dei diritti», si impernia sul riconoscimento incondizionato dei diritti umani.
Se però il concetto di persona appare evidente se riferito all’ambito del diritto, secondo una logica oppositiva rispetto alle tendenze autoritarie o totalitarie, più difficile è configurarlo dal punto di vista filosofico. Come abbiamo visto, la persona è considerata da Renzi il «rimorso» della filosofia contemporanea: essa non va intesa come soggettività metafisica, o identificata con qualsiasi certezza cogitante. Anzi, secondo una modalità evidentemente anticartesiana, l’idea di persona indica anche quella parte di se stessi che è a volte estranea al sé, ben espressa da Ricoeur attraverso la dialettica tra «idem e ipse», e declinata in varie modalità, dalla psicoanalisi all’antropologia filosofica. In altre parole, la persona implica la «relazione», la dimensione dell’intersoggettività, da intendere anche verso se stessi. La persona è dunque pluralità, differenza, e si oppone a qualsiasi meccanismo identitario che si fonda sulla negazione del rapporto, sul carattere impositivo delle relazioni intersoggettive; ed è, nello stesso tempo, incompatibile con un modello di vita in comune orientato sulla logica dello scambio in denaro.
Prima di configurare la propria «utopia concreta», Renzi, nella parte centrale del volume, compie una articolata disamina storico-filosofica: da una parte per individuare le correnti di pensiero che hanno valorizzato l’ontologia della persona (e, in queste pagine, ritornano le principali frequentazioni di Renzi, la fenomenologia, Antonio Banfi ed Enzo Paci); dall’altra, egli intende comprendere le ragioni per cui, in molti casi, nonostante l’intuizione del carattere fondante del concetto, esso non abbia assunto un peso centrale, non sia stato avvertito come decisivo e capace di imporsi come una sorta di efficace paradigma del pensiero novecentesco. Una delle finalità del saggio, in effetti, è proprio quello di attribuirgli quella centralità che gli spetta nel dibattito filosofico.
L’analisi di Renzi si avvia a partire dal personalismo cattolico, l’unica corrente di pensiero che ha sviluppato l’idea di «persona» quale riferimento imprescindibile di qualsiasi discorso filosofico; centralità del concetto in ambito cattolico che forse giustifica, sul piano storico, la cautela e la riserva nei suoi confronti da parte di alcuni studiosi, che pure ne avevano colto la pregnanza. Alla riflessione sulla persona in ambito cristiano Renzi riconosce, giustamente, tutti i meriti storici che gli competono; questo perché, nelle riflessioni di Renouvier o di Mounier vengono dedotti quegli elementi di valorizzazione della libertà e della dimensione comunitaria che sono gli stessi che stanno a cuore all’autore: il rifiuto del determinismo delle filosofie della storia, sostenuta da Renouvier proprio a partire dal principio della «relazione», intesa come «forma vivente e attiva, prioritaria rispetto al reale», che impedisce qualsiasi assolutizzazione del futuro quale processo storico che, inverandosi, relegherebbe alla marginalità il ruolo dell’individuo. Concetto di relazione che si ritrova in Mounier, direttamente riferita all’idea di comunità (da lui definita «una persona di persone»), senza la quale non potrebbe aversi concreta individualità, quell’insieme plurale e libero del sé che vive in continua simbiosi con la dimensione comunitaria.
Ma la parte quantitativamente più significativa dell’attenta riflessione storica di Renzi riguarda il «personalismo fenomenologico». Queste pagine prendono avvio dai padri del movimento: Husserl, in cui la centralità del soggetto costituisce sempre «un’emergenza teoretica», e viene declinata comunque nell’orizzonte dell’intersoggettività; a Scheler e Marleau-Ponty, in cui emerge il rifiuto del dualismo cartesiano corpo-spirito, preludio necessario alla rivalutazione ontologica della persona.Ma è ad Antonio Banfi e ad Enzo Paci, autori su cui Renzi torna nel corso dei suoi studi a riflettere con continuità, che sono dedicate le pagine più numerose. Pagine in cui viene mantenuta aperta la dialettica tra maestro e allievo che si instaurò fra i due. Non a caso i paragrafi a loro dedicati si alternano, quasi a voler instaurare tra i due un dialogo postumo su una tematica che avrebbe forse dovuto avere maggiori sviluppi. Per quanto riguarda Antonio Banfi, Renzi fa iniziale riferimento a due testi inediti e incompiuti, La crisi del 1934-35, e Persona, scritto tra il 1943-44. Due scritti il cui valore emerge proprio se posti a confronto con le riflessioni dell’allievo Paci, il che giustifica la cadenza alternata di questa parte dello studio. Da una parte, Banfi definisce la realtà dell’uomo non assimilabile alle «speculari astrazioni dell’idea e della realtà naturali», e manifesta un’ansia, ma anche una difficoltà, nel trovare un’adeguata risposta teoretica; probabilmente perché Banfi, pur intuendo l’irriducibilità di questo concetto, diffida delle sue interpretazioni spiritualistiche. Dall’altra Paci che, a partire dalla frequentazione di Abbagnano, individua nel termine «persona» una componente fondamentale dell’esistenza. Una prospettiva che lo allontana da Banfi e dal suo radicale rifiuto dell’esistenzialismo, testimoniata anche dalle diverse interpretazioni relative a Kierkegaard e a Nietzsche.
L’aspetto forse più interessante, da Renzi posto giustamente in evidenza, è che, nella loro riflessione sulla persona – e probabilmente grazie a un approccio laico al problema del personalismo – Banfi e Paci, sia pure a partire da percorsi diversi, valorizzano quegli aspetti di dialettica interna della personalità individuale, le sue componenti nascoste, il suo intrattenere un rapporto di tipo intersoggettivo anche con se stessa. Secondo le parole di Banfi, la filosofia della persona è «relazione antinomica tra le due sfere di naturalità e spiritualità». Si può tracciare una «fenomenologia della spiritualità personale […] scandita da una serie di sfere non gerarchiche fra loro: libertà, erotica, tecnica, economica, diritto, Stato, educazione, etica, religione». Da questo punto di vista si giustificano le importanti monografie di Banfi dedicate a Socrate, Galilei, Pestalozzi. Senonché qualche anno dopo, nella fase “marxista” del pensiero di Banfi, quando l’economia – ambito considerato inizialmente in posizione secondaria rispetto alla cultura e alla psicologia– diventa riferimento dominante, il filosofo sostiene la realizzazione della persona «all’interno della dialettica storica»; a suo parere è necessario che l’individualità «nella stessa particolarità della storia riconosca una legge di sviluppo universale». Come fa notare Renzi, si tratta dell’annullamento della ricchezza concettuale del personalismo: «la persona viene insomma dissolta nella partecipazione alla costruzione politica di un mondo nuovo in una predeterminazione di fini e di mezzi e di obiettivi». Compare di nuovo una sorta di determinismo storico che risulta incompatibile con la ricchezza delle riflessioni iniziali di Banfi.
In quegli stessi anni Paci valorizza lui pure la dimensione della «prassi», intesa come ambito in cui si dispiega positivamente la dimensione intersoggettiva, attraverso il lavoro, concetto che permette di superare e integrare «gli orizzonti di Personalità e Trascendenza». Egli però non giunge a dissolvere in un’identità storica assoluta la ricchezza della dimensione personale, caratterizzata, come scrive in Diario fenomenologico, «dall’incontro concreto del finito e dell’infinito, della luce e dell’ombra». Da questo punto di vista il suo percorso mantiene un’estrema coerenza; Paci – scrive Renzi – «insegue e inseguirà durante tutta la sua vita activa di filosofo l’io, la persona, il suo valore, la sua libertà, la sua realizzazione, la sua concretezza». Non è un caso che Renzi dedichi a Paci un’intera appendice, intitolata «Le quattro stagioni di Enzo Paci», in cui ne ripercorre, dagli anni Trenta ai Settanta, il percorso filosofico: dalle riflessioni sul pensiero di Croce, all’elaborazione del relazionalismo, fino al tentativo di coniugare fenomenologia e marxismo. Sempre però per confermare la centralità, e la dedizione assoluta al tema della libertà della persona, della sua realizzazione attraverso il confronto serrato anche con le parti oscure di sé.
Nel Capitolo IV, Renzi si chiede come sia possibile recuperare l’idea di «comunità» nell’epoca della globalizzazione, questo «moderno Leviatano» in cui si identifica «il nuovo potere mondiale o capitalismo finanziario». Renzi dedica alcune riflessioni alle nuove forme di comunità della nostra epoca, realizzatesi a partire dalla rete. L’Autore è convinto che in esse l’individuo tenti di «diventare ciò che è: persona. Cerca uno spazio vitale che non tolga la vita all’altro, pena la ritorsione e il conflitto». L’Autore propone a questo punto un altro breve excursus sulle diverse forme in cui è stata concepita la comunità, per trovare possibili riferimenti positivi alla proposta che egli vuole avanzare a conclusione del suo studio. Di particolare rilievo – e anche qui è richiamata una personalità a cui Renzi ha già dedicato uno dei suoi migliori studi – sono le pagine dedicate a Adriano Olivetti, la cui attività fu ispirata dalle riflessioni di Maritain e Mounier: principi come «unità di autogoverno locale», «decentramento e autonomia», «parità valoriale di democrazia, lavoro e cultura», partecipazione politica dei lavoratori alle scelte politico-economiche, valore della cultura quale sapere disinteressato, si ritrovano non solo nell’attività imprenditoriale, ma nello spirito della effettiva comunità che egli seppe creare nel contesto delle proprie imprese, e che propose come modello di sviluppo all’esterno. Non abbiamo tempo di soffermarci sulle riflessioni dedicate ad Aldo Capitini e ad Angela Zucconi, che permettono – insieme alle righe dedicate in precedenza a Norberto Bobbio – di individuare nel liberalismo democratico e nel socialismo libertario e comunitario, oltre che in una concezione relazionale dell’economia, i pilastri della proposta culturale che Renzi vuole sottoporre alla riflessione dei lettori.
Nell’ultimo capitolo di Persona, intitolato Persona e cosmopolitismo, Renzi prova a configurare in modo concreto l’«età dei diritti». In essa, l’emancipazione può essere realizzata solo attraverso l’assoluto riconoscimento dei diritti umani («in cui filosofia ed etica si intrecciano con il diritto naturale, il diritto internazionale, il diritto positivo degli Stati che volenti o nolenti si riconoscono in esso»), intesi quali riferimenti normativi che soli possono garantire il rispetto dell’integrità della persona. In particolare, l’«epoca dei diritti» potrà realizzarsi quando in essi assumeranno un’assoluta centralità le figure sociali della donna e dello straniero. Nella capacità di garantire loro la dignità in quanto «persone», si misura l’effettiva libertà realizzata da un contesto comunitario. Non è un caso che queste due declinazioni dei diritti umani siano le più problematiche da assicurare nella nostra epoca, nonostante il loro affermarsi sul piano storico-politico sembrasse, alla fine del Novecento, un dato acquisito.
A Renzi non sfugge quanto il fenomeno dell’immigrazione e la relazione con l’altro abbiano contribuito a inasprire la coscienza dei popoli europei. Di conseguenza, egli affronta in modo lucido le problematiche insite in questo rapporto. L’autore motiva l’insufficienza del concetto di «multiculturalismo», che si intende quale risposta a un problema, ma in verità produce esso stesso delle contraddizioni. Implica infatti una situazione conflittuale tra il principio democratico della tolleranza proprio delle società occidentali, e modelli di esistenza che non prevedono la libertà dell’interpretazione, né assicurano a tutte le figure sociali eguale libertà ed emancipazione; e non riesce a risolvere in modo convincente il tema della coesistenza tra un modello intollerante e il suo opposto. In questo modo, è destinato a generare conflitti, non solo sul piano della coesistenza ma anche su quello del diritto. La convivenza fra culture può quindi aversi solo sulla base di un reciproco riconoscimento, solo se tra le due si instaura una relazione fondata sul confronto e sulla conoscenza reciproca. È questo il principio della «interculturalità», che Renzi riprende dalle riflessioni di Giangiorgio Pasqualotto. «L’interculturalità è una pratica dei rapporti tra le persone e le comunità, specialmente mediata dalla cultura». Come dice altrove lo stesso Renzi, in quanto presuppone la conoscenza reciproca, l’interculturalità è anche pratica pedagogica, e chiama in causa direttamente la responsabilità della scuola pubblica, luogo da concepire principalmente come modello di comunicazione tra culture e metodi, non certo come centro anonimo di trasmissione di un sapere avente come fine unicamente la logica produttivistica. A parere dell’Autore, in questo modo è possibile realizzare compiutamente il vecchio ideale del «cosmopolitismo», definito da Fulvio Papi come «la circolazione delle differenze». Per Renzi, un mondo inteso come «cittàmondo», che rappresenta più mondi e li ospita. Una proposta ancora una volta originale, in quanto prende le distanze da chi, per reagire alle sfide della globalizzazione, riporta in auge la necessità di ridare sovranità al singolo stato nazionale, quale entità politica capace di opporsi ai poteri senza nome – identificabili per lo più con l’oligarchia finanziaria – che impediscono ai popoli di scegliere secondo procedure realmente democratiche il proprio modo di gestire la ricchezza comune. Per Renzi, invece, non c’è alternativa alla sovranazionalità; solo in ambito sovranazionale si «può raggiungere la pienezza dei dirittidoveri»; solo cioè dove si ha relazione tra le diversità, le quali convivono nel «reciproco riconoscimento di più punti di vista». Nel riconoscimento, però, dei diritti individuali che possono affermarsi solo nella dimensione più autentica della libertà, e dei diritti sociali, senza il cui riconoscimento non può aversi giustizia.
Renzi però non si ferma a queste valutazioni generose, ma che potrebbero sempre apparire di principio; lancia proposte dirette, indica provvedimenti precisi, che potranno anche apparire ad alcuni di natura utopica, ma che hanno il merito di mostrare le contraddizioni insanabili del nostro presente e additare un orizzonte ideale di possibile cambiamento in cui i principi della libertà individuale e della relazione comunitaria e collaborativa siano valorizzati al massimo grado. Partendo dalla necessità di salvaguardare i «beni comuni», Renzi propone un «socialismo comunitario», ovvero il tentativo di «far interagire la giustizia economica per ciò che riguarda i beni naturali […] e il bene delle persone». Nell’ottica della sovranazionalità, quale dimensione in cui può effettivamente realizzarsi un autentico comunitarismo, Renzi avanza l’idea di una «leva civile europea», un’operazione culturale che mobiliti le coscienze dei cittadini europei per il «ritorno allo spirito e alle caratteristiche della stagione fondativa» dell’Europa che, ricorda Renzi, è alternativa al «liberismo economico e al darwinismo sociale» oggi dominanti nel vecchio continente. La seconda proposta riguarda un progetto di educazione permanente, rivolto in particolare agli esclusi, i sans papiers, gli «extra Schengen», i carcerati. Quindi la diffusione, su base volontaria, di uno «scambio non monetario», che elimini «l’intermediazione del denaro» e introduca «un rapporto di reciprocità». Velata di più evidente ironia e la sesta proposta, quella di «Premio al dettaglio»; forse in polemica contro l’ossessione dei nostri tempi per una falsa meritocrazia, l’Autore propone un premio a quei soggetti, individuali e collettivi, che hanno mostrato attenzione anche alle esigenze minime del benessere delle persone, mostrando in modo autentico, proprio nel dettaglio, l’attenzione per i valori comunitari. L’ultimo punto, e forse il più impegnativo, riguarda l’«Alta qualità» del lavoro. Renzi è consapevole che, nell’epoca della globalizzazione, proprio nell’ambito del lavoro tendono a stridere i principi comunitari di giustizia, diritti sociali e libertà. Gli esempi storici del passato, a cominciare da quello di Olivetti, sono lì a testimoniare la possibilità di coniugare i grandi numeri della produzione, necessari per sopravvivere nel contesto dell’economia globale, nel rispetto però dei diritti. Approfittando finalmente in modo positivo della fine del modello fordista, nel quale è possibile affidare alle macchine gli aspetti più alienanti del lavoro.
Si tratta di una prospettiva che, oltre ad avere il coraggio di recuperare positivamente la dimensione utopica, indubbiamente investe i nodi teoretici più decisivi per qualsiasi teoria dell’emancipazione, che non si rassegni alle degenerazioni del presente, ma che pure non si rifugia nel recupero di prospettive socio-politiche ormai relegate nel passato, spesso rivissute con una totale dimenticanza delle contraddizioni e violenze che pure avevano generato. In questo senso il cosmopolitismo si presenta, secondo l’Autore, come un’alternativa credibile all’ideale del «socialismo», del quale recupera la dimensione di giustizia sociale, di eguaglianza nella diversità, senza però le tentazioni omologanti, di carattere totalitario.
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