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Partiti e Stato in Italia
di Aurelio Musi
Negli ultimi anni sono stati pubblicati molti studi sul sistema politico italiano. Generalmente a caratterizzarli è un metodo che privilegia l’adozione di schemi astratti, di modelli che non sempre fanno i conti con il processo storico concreto. Rispetto a tale tendenza non sono pochi i meriti e gli elementi originali del volume di Luigi Musella, Il potere della politica. Partiti e Stato in Italia (1945-2015), edito da Carocci. L’impostazione non politologica ma eminentemente storica del saggio di Musella consente in primo luogo di comprendere il rapporto tra la lunga, la media e la breve durata della vita dei partiti dal dopoguerra ad oggi, con riferimenti particolarmente illuminanti al periodo compreso tra fine Ottocento e primo Novecento. È una politica incarnata negli uomini quella ricostruita dall’autore attraverso il racconto anche di episodi minuti, si direbbe microstorici, la ricostruzione biografica di personalità particolarmente rilevanti al centro come alla periferia del paese. In secondo luogo l’attenzione di Musella si rivolge anche ai contesti, ai mutamenti sociali, di costume, culturali che creano un intreccio dialettico con la vita politica del paese. Il terzo elemento di originalità è il riferimento frequente al quadro internazionale: così è per i partiti italiani degli anni Cinquanta visti dagli USA e per i cambiamenti epocali determinati dal reaganismo e dalla politica della “lady di ferro” Margaret Thatcher.
La tesi centrale dell’autore è la seguente: durante il periodo repubblicano i partiti italiani hanno vissuto prima una fase di massima forza, quindi un processo di indebolimento contemporaneo all’aumentato peso dell’alta burocrazia e di altri corpi dello Stato.
Lo sguardo dell’autore agli anni tra fine Ottocento e inizi Novecento consente di cogliere il passaggio da quello che Gaetano Mosca aveva chiamato il “grande elettore” alla formazione della classe politica nei partiti. Il rapporto tra partiti e Stato ha assunto un carattere decisivo. Essi hanno svolto la funzione di intermediari tra lo Stato e gli interessi locali.
A partire dalla fine degli anni Cinquanta sono registrabili elementi di trasformazione ed elementi di continuità. I primi sono identificabili nel passaggio dal “partito di notabili” al “partito pigliatutto”. Ma è altresì evidente la continuità della classe politica italiana. Essa non presenta un ricambio sostanziale, ma conferma la natura oligarchica della leadership. Insomma il notabile resta il modello permanente della politica italiana, ma rafforza il suo potere attraverso lo Stato. La produzione della legge in Parlamento diventa allora lo strumento della mediazione degli interessi rappresentati dai partiti: ecco perché le maggioranze parlamentari, nella storia repubblicana italiana, sono quasi sempre diverse da quelle governative.
Musella sostiene a ragione che il “partito personale” non è stato inventato da Berlusconi. Populismo e personalismo oltre i partiti sono un fenomeno di lunga durata. Ne sono eloquenti esempi, tra anni Cinquanta e Sessanta, il sindaco di Bologna Dozza, quello di Firenze La Pira e quello di Napoli Lauro. Al di là delle inevitabili differenze, essi hanno rappresentato un fenomeno ricorrente nella storia italiana: il primato della personalità oltre i partiti, capace di guadagnare consensi nel rapporto diretto con gli elettori.
Alla fase di massima forza dei partiti nel sistema politico italiano, che si prolunga fino agli anni Settanta, segue la fase del loro indebolimento negli anni Ottanta. Un “sistema personalizzato di massa a configurazione oligarchica” si accompagna allo squilibrio dei poteri. Le parole-chiave della crisi della decisione politica diventano “supplenza” ed “emergenza”: e il potere dei giudici riempie il vuoto. Arriviamo così al contesto di “tangentopoli” e “mani pulite”. Musella ricorda che tra il 1976 e il 1980 ben 11 magistrati vengono assassinati. E naturalmente questo elemento è destinato a creare una forte emozione nel paese. Ad esso si aggiunge la riforma dei codici che consegna più potere ai pubblici ministeri e produce notevoli squilibri nell’amministrazione della giustizia. Corruzione, tangenti, intrecci paralegali e/o illegali tra affari e politica sono certo all’origine dei processi e della crisi del sistema politico tra il 1992 e il 1994. Ma il linguaggio costruisce scale di valori, induce spesso a scambiare i fatti con le loro rappresentazioni. Insomma le parole fanno le cose: e il fenomeno Di Pietro viene originalmente interpretato da Musella in questa luce. La rappresentazione mediatica di “mani pulite” va dunque ben al di là della stessa sostanza, della realtà giudiziaria che il fenomeno ha evidenziato. Musella non lo dice: ma la stessa ricostruzione storiografica degli anni 1992-94 ha avuto in alcuni casi, tra gli altri, il grave limite metodologico di utilizzare come fonti esclusivamente le requisitorie dei pubblici ministeri, senza preoccuparsi di confrontarle con tutte le fasi processuali fino all’ultima istanza.
La svolta liberista di Reagan e della Thatcher ha avuto, secondo l’autore, un’influenza importante anche nella vita politica italiana. Le privatizzazioni degli anni Novanta, la supremazia politica dei tecnici, il caso Draghi si iscrivono proprio nel mutato clima internazionale, che ha visto il superamento della tradizionale divisione fra Destra e Sinistra e l’affermarsi di una “terza via” tra liberismo e statalismo sfrenati.
I partiti non sono finiti. Oggi il partito lo si gestisce dai vertici dell’amministrazione centrale, dalle regioni, dai comuni. Esempi di politici che grazie allo Stato e agli enti locali si sono costruiti una forte leadership sono tanti. Un esempio per tutti: Bassolino, prima sindaco di Napoli poi governatore della Campania. Insomma il “partito personale” dal centro si è spostato in periferia. Per ritornare al centro con Matteo Renzi.
Alcuni temi affrontati nel volume meritano un ulteriore approfondimento. Il primo è il rapporto tra lo schema politologico ormai classico e quello proposto da Musella. Quando parlo di schema politologico classico, mi riferisco allo sviluppo in tre fasi: dal partito prebellico, formato prevalentemente da quadri, al partito di integrazione di massa, che ha avuto nella Democrazia Cristiana e nel Partito Comunista le sue realizzazioni più compiute, fatte salve tutte le differenze, al cosiddetto “partito pigliatutto”, caratterizzato dalla marginalità delle ideologie, dal primato della ricerca del consenso rispetto al sentimento di appartenenza, dalla struttura interclassista, dalla selezione della leadership. Lo schema di Musella, come già scritto in precedenza, tende invece a rappresentare il caso italiano come un intreccio fra elementi di continuità, il sistema notabiliare, ed elementi di novità, il passaggio dal clientelismo dei notabili al clientelismo di partito, fondato sul suo strettissimo intreccio con lo Stato.
Originale, ma meritevole di ulteriore approfondimento, è poi l’interpretazione di “mani pulite”. Par di capire che per l’autore quel processo non fu né un colpo di stato della magistratura, come si sostiene da destra, né una rivoluzione giudiziaria come si sostiene da sinistra. La visione più storicizzata di Musella tende invece a interpretare quel processo come la logica e prevedibile conclusione di una condizione preesistente del sistema dei partiti in Italia, riferibile al ventennio Settanta-Ottanta.
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