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Il giornalismo e la democrazia moderna
di Maurizio Ambrogi
“Ho seri problemi con chi dice che i giornalisti non ci servono più, perché abbiamo i leakers, i citizensjournalist, il crowdsourcing o i blogger. È un cammino che porta a una cittadinanza disinformata, oppressa e uniformata, perché non c’è nessuno che cerca responsabilmente di riportare cosa succede”. Coglie un punto chiave Jonathan Franzen in una intervista di qualche tempo fa alla Stampa per presentare il suo ultimo romanzo Purity. Con la sensibilità dello scrittore particolarmente attento ai paradossi del tempo presente (come i rapporti fra ambientalismo e potere, in Freedom) avverte, come tanti, il rischio insito nella rete, dove circolano “solo opinioni personali, spesso opposte e violente, non digerite. Chi urla più forte ha ragione. Penso che sia sbagliato – conclude - diffondere così l’informazione”. Analoga tesi, espressa in modo più ruvido, l’aveva espressa da noi Umberto Eco, suscitando molte polemiche: “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli – aveva detto il professore – prima parlavano solo al bar e venivano messi a tacere, ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.
La parola chiave è responsabilità. Ed interroga la comunicazione del nostro tempo, non solo internet. Giornali, televisione, new media, hanno in diverso grado lo stesso problema: la gerarchia, la connessione, il senso. E quindi appunto la responsabilità. Cosa è importante comunicare, come si connette ad altre notizie e al contesto, qual è il suo profondo significato e dunque il suo valore. Questione che va molto al di là del pericolo segnalato dalla crescita esponenziale della rete e dei suoi vizi. Tra il commento rozzo della rete e quello del premio Nobel evocato da Eco, c’è tutto il problema dell’organizzazione delle notizie e dunque della formazione della pubblica opinione che passa attraverso la mediazione giornalistica. Oggi evidentemente in crisi per molte ragioni. La più antica fa capo ad un mutamento culturale che in parte coincide con il passaggio di secolo. Il ’900 è stato il secolo degli intellettuali: loro, consapevoli, riconosciuti e ascoltati, hanno dominato il dibattito culturale e condizionato quello politico, organizzando le visioni del mondo e contribuendo a consolidare le istituzioni politiche democratiche. Nel nuovo secolo il loro tramonto (insieme a quello delle ideologie) si è completato, complice anche l’enorme sviluppo delle comunicazioni di massa. La modalità di comunicazione hanno un peso nel progressivo affievolimento del ruolo degli intellettuali. La semplificazione è un nuovo modello espressivo dominante. Per essa divulgare è più importante che approfondire e distinguere. Uno slittamento che trascina quella parte del ceto intellettuale che sono i giornalisti. La cui mediazione evidenzia diversi punti di criticità.
La prima questione, dovuta alla velocità con cui si diffondono e si distorcono le notizie, è la disconnessione che si crea sempre più spesso fra i fatti e il loro contesto, fra le notizie e la verificabilità e completezza delle fonti. Distorsione evidente e ben nota in tutti i casi in cui sono in ballo inchieste giudiziarie e intercettazioni. Affermazioni estrapolate creano scenari illusori, sia per volontà di chi gestisce le fonti, sia per la ricerca delle frasi ad effetto che prevale talvolta nel racconto. I casi che si sono accumulati negli ultimi anni sono innumerevoli, fino all’ultima inchiesta importante, cosiddetta Mafia Capitale, dove la stessa attribuzione mafiosa, accettata spesso senza discussione né verifica, configura di fatto già una distorsione in mancanza di un dibattimento che la confermi con completezza di prove. Ma l’episodio forse più significativo negli ultimi tempi è quello che ha riguardato l’intercettazione, mai dimostrata vera, relativa al governatore siciliano Crocetta: un caso in cui dichiarazioni citate de relato, e non verificate, hanno quasi provocato la crisi di un governo regionale.
Non ci sono solo le intercettazioni, vere o inventate, in questo modello distorsivo. Basti pensare al recente caso Marino per capire un’altra dinamica della distorsione informativa: poiché le sue dimissioni sono arrivate non sulla base di una campagna stringente sull’efficacia di governo della città di Roma, come inchieste approfondite e serie sulla condizione dei trasporti o della raccolta dei rifiuti, ma sullo scatenamento di “indagini” giornalistiche sulla correttezza delle ricevute di pranzi e cene, documenti peraltro messi a disposizione con evidente approssimazione, dallo stesso sindaco. Abbiamo letto interviste di ristoratori che, a memoria, alimentando dunque il sospetto di falsità a distanza magari di mesi, testimoniavano sugli ospiti del Sindaco. Dalla sua capacità si è passati a mettere sotto i riflettori la sua integrità. Sulla base peraltro di una percezione da tempo altrettanto distorta, su quali debbano essere i compensi e i benefit legittimi dell’amministratore di una grande città (in questo caso la capitale del paese). L’impressione è che, condizionati dalle parole d’ordine a volte contraddittorie che dividono il mondo politico, anche i giornalisti in qualche caso perdano la necessaria distinzione fra terreno politico e terreno morale, involontariamente diventando strumenti di operazioni condotte per fini poco chiari.
E questo ci porta alla seconda questione, che riguarda la propensione tutta italiana ad una sorta di giornalismo militante: una visione della funzione giornalistica non devota solo alla notizia, ma ad una missione insieme pedagogica e purificatrice. Negli ultimi anni, in sintonia con i tempi, dalla vocazione ideologica si è passati a quella moralistica, dunque dalla lotta di classe alla lotta di casta, in un infinito prolungamento del sessantottismo. Un caso recente è quello della polemica sul cosiddetto decreto “salva-banche”, dove la foga impiegata nell’accertamento delle responsabilità e l’attenzione alle perdite subite dai risparmiatori (in molti casi peraltro avvertiti del rischio), ha finito per mettere sotto accusa l’intero mondo bancario, intaccando quel patrimonio di fiducia che regge l’intero sistema e il cui crollo può creare danni assai più rilevanti di quelli provocati dal fallimento (peraltro evitato) di quattro piccole banche.
Naturalmente non si vuole mettere in discussione l’attenzione e la vigilanza contro gli abusi e i privilegi legati a posizioni di potere - politico, amministrativo o professionale – ma l’impressione è che la vastissima pubblicistica che si è sviluppata sul tema in questi ultimi anni abbia contribuito a deviare l’attenzione dalla questione vera (la gestione del potere) alla sua manifestazione esteriore (il privilegio o l’abuso);abbia finito col mettere sullo stesso piano posizioni di effettiva ingiustificata rendita, con altre che hanno la loro ragion d’essere nel merito, nella competenza o nella rappresentanza. Col risultato di indebolire strutture vitali per la democrazia (i partiti, il parlamento, ad esempio) senza peraltro scalfire quelle che davvero frenano il paese (la burocrazia, le corporazioni, certa finanza). Una campagna stampa che in fin dei conti ha dato un contributo essenziale alla crescita del populismo, malattia da cui l’Italia sembrava fino al secolo scorso immune.
La terza questione è l’intreccio con la politica. Si lamenta spesso che il servizio pubblico radiotelevisivo sia il più appesantito dalla presenza di politici e partiti. Ma l’anomalia riguarda tutto il sistema dell’informazione in un senso più complesso. Lo spazio dedicato alla politica sui mezzi di comunicazione è abnorme. In televisione lo spazio è distribuito con un meccanismo rigorosamente proporzionale. Ma anche nei maggiori quotidiani lo spazio dedicato alla politica interna è superiore a quello dedicato alla politica estera o alla cronaca, ed è superiore a quella dedicata ai temi interni in qualsiasi grande giornale del resto del mondo. Basta aprire qualsiasi quotidiano per scorrere ogni giorno pagine e pagine di articoli, commenti, interviste, retroscena, editoriali. Tanto maggiore è lo spazio quanto meno la politica appare interessante, veramente dinamica, profonda, capace di affrontare i problemi concreti e di avere memoria di se stessa. Si creano e si alimentano polemiche che durano lo spazio di un giorno. Si dà più importanza ai personaggi che alle questioni politiche, ma poco ci si sforza di mettere i personaggi di fronte alle proprie contraddizioni. Si mescola continuamente alto e basso, livello istituzionale e società civile, ciò che è rappresentativo con ciò che non lo è, notizia e gossip: col risultato di annullare le distanze e le differenze e di far apparire tutto molto significativo e insieme, per ciò stesso, nulla veramente importante. Il solo fatto di mettere sullo stesso piano voci di “qualità” e rappresentatività diversa è una rinuncia a svolgere una funzione giornalistica di mediazione per fornire ad ascoltatori o lettori elementi corretti per la formazione del loro giudizio.
È un teatrino che viene perennemente alimentato con dinamiche sproporzionate. I politici invadono la televisione e la radio, vengono invitati come star ad esprimere il loro parere su ogni cosa e magari a parlare del loro privato. Basta essere il leader di un piccolo gruppo, figlio dell’ennesima scissione, per aver diritto ad una quota di spazio mediatico, un giro sotto i riflettori. Una situazione che è l’inevitabile conseguenza di un sistema che produce decine di formazioni politiche, così come inutili convegni nei quali la stessa compagnia di giro si confronta sugli stessi temi.
La crisi del talk show di cui tutti oggi si rendono conto nasce da queste distorsioni. Da meccanismi in cui la polemica prende sempre più spesso il sopravvento sull’approfondimento, dove la discussione è frammentata e superficiale, dove l’inchiesta è un solo un intervallo nel grande flusso di un dibattito senza fine.
La quarta questione che indebolisce il giornalismo è il distacco dal senso storico degli avvenimenti, dalla profondità che solo una interpretazione fondata su solide basi storico-politiche può consentire. Certo era più facile negli anni della democrazia bloccata, del mondo bipolare, dello scontro di (poche) ideologie. Ma non si può semplificare troppo il racconto e l’opinione, ad esempio sulla guerra irakena, su quella libica o sulla crisi ucraina, fino alla recente crisi siriana, senza correre il rischio di perdere di vista la complessità degli intrecci internazionali, degli interessi in gioco, della storia, ma anche della collocazione e degli interessi del nostro paese. La mancanza di consapevolezza di sé si rivela come uno dei punti deboli della condizione italiana. Questione che riguarda la politica, in primo luogo, ma anche il giornalismo e la sua funzione, in seconda istanza. In generale resta trascurata, se non assente, la dimensione europea e internazionale dei problemi e della loro soluzione. Come si è visto, ad esempio, sulla crisi greca, in cui si è giocata la sopravvivenza stessa dell’Unione europea, mentre in Italia la questione diventava il secondo tempo di una resa dei conti fra le culture del novecento: e dunque povertà contro ricchezza, cittadini contro banchieri, rigore contro sviluppo, paesi del sud contro paesi del nord e via semplificando.
Un sistema informativo così debole affronta male i grandi cambiamenti che sono in atto nelle democrazie occidentali. Di fatto, quali che siano i sistemi costituzionali ed elettorali, la spinta è verso un parlamentarismo più sbiadito e un leaderismo più deciso. Il modello che ovunque si impone è quello presidenziale, oppure di premierato o cancellierato forte. Anche su questo il dibattito italiano appare arretrato su schemi novecenteschi e non riesce a prendere atto che le democrazie moderne,a fronte di una partecipazione elettorale calante, esprimono un forte bisogno di governabilità, cui si risponde ovunque con sistemi maggioritari. Chi vince le elezioni, anche senza raggiungere il 50 per cento dei voti, governa per la legislatura. Poi si sottopone alla prova elettorale, per la riconferma del mandato o la sostituzione con lo schieramento avverso. Una democrazia “decidente” non è, giova ricordarlo ai costituzionalisti più nostalgici, uno scivolamento verso l’autoritarismo, ma il necessario adattamento alle esigenze di governo della complessità dei moderni sistemi economico-sociali.
In effetti la democrazia, proprio in quanto tale, riesce spesso a risolvere la questione della rappresentanza; ma il suo grande problema resta sempre la governabilità del sistema-paese. Per realizzarla, alla capacità di afferrare tempestivamente i fenomeni che movimentano la società dovrebbe corrispondere la rapidità delle decisioni, l’efficienza della macchina amministrativa e, infine, l’accoglienza nell’opinione pubblica: qualcosa di diverso dal consenso elettorale, assorbito più in profondo dal corpo della società. È qui che interviene la novità comunicazionale da cui è segnato il mondo contemporaneo. Ed è chiaro che la funzione mediatrice della comunicazione non può essere assunta con continuità dal personale di Governo. Si è già sperimentato che l’affollamento delle presenze, la ripetitività dei moduli personali, la brillantezza indispensabile a formulazioni brevi, comporta nel pubblico un effetto-stanchezza che è un pessimo contributo al rifiuto generalizzato della politica. Ma l’informazione corretta dell’opera politica -intesa in tutta la sua complessità, dal Governo al Parlamento, dalle forze politiche alle forze sociali, dal centro alla periferia -è un obbligo fondamentale ai fini del governo efficace di un paese. E coincide con la funzione propria del giornalismo moderno: fornire un’informazione capace di mettere in grado i cittadini di esprimere giudizi con cognizione di causa. Una funzione che non può essere svolta né dalla lottizzazione né dalla prevenzione ideologica trasformata in giornalismo. E che coincide invece niente più che con il mestiere del giornalista, come interprete attivo dei fenomeni,e ciascun giornalista con la sua cultura,la sua visione, la sua concezione delle priorità;non come recettore passivo di carte altrui.
È puramente retorica invece la consueta richiesta che l’informazione sia “obiettiva”. L’obiettività non esiste neppure nella storiografia figuriamoci se può esistere nel giornalismo. Serve piuttosto che un nuovo modello corrisponda ad un salto di qualità. Una informazione meno frammentata, emotiva, dispersiva. Che risulti essenziale, approfondita, concreta. Meno persa dietro le polemiche di giornata e più attenta ai movimenti di fondo, capace di approfondire, spiegare, cogliere i nessi. Meno ideologica, più responsabile e consapevole. Più autonoma, anche: non solo “banalmente” dal potere, dal governo, dai partiti, ma da quell’enorme “flusso di coscienza” che sta diventando la comunicazione sui social media, e dalle nuove gerarchie che vorrebbe imporre.
In conclusione, resta una questione di fondo che non riguarda solo l’informazione, né solo la televisione, ma torna a chiamare in causa la “classe dirigente intellettuale”: la sua debolezza, l’ancoraggio a schemi novecenteschi, la difficoltà di riflettere sull’identità del paese, la sua storia, le sue motivazioni ideali. Negli ultimi vent’anni si è arrivati a mettere in discussione le stesse fondamenta risorgimentali e resistenziali della Repubblica, senza che ciò aprisse una discussione vera e generasse una reazione non semplicemente retorica. Una paese affondato in una modernizzazione senza riforme e senza sviluppo ragiona sempre meno su se stesso, la sua storia, i suoi ancoraggi ideali e, naturalmente, le sue trasformazioni. Dalla Tv alla letteratura, con poche eccezioni, il paese si rappresenta ma non si racconta, non riesce più a produrre una narrazione adeguata del suo fondo identitario e delle ragioni storiche delle sue trasformazioni. È un problema che nel mondo della comunicazione riguarda soprattutto il servizio pubblico, che in tanti anni ha guadagnato in pluralismo, ma perso il senso originario della sua funzione: quella capacità non di rappresentare acriticamente la realtà, ma di contribuire a costruire il tessuto di una comune identità attraverso la realtà e le ragioni del quotidiano.
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