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L’Università italiana 15 anni dopo il varo della riforma dell’architettura degli studi*
di Ortenzio Zecchino
Non è facile, a quindici anni dall’entrata in vigore, stendere un bilancio su ciò che la riforma dell’architettura degli studi ha realmente prodotto nel nostro sistema universitario, anche perché, a tacer d’altro, vistosa è la disomogeneità tra i campi in cui essa viene applicata.
Certamente non poche sono le emergenze di segno negativo. Necessità non rinviabile è focalizzarle e approfondirne la matrice: la normativa in sé o i modi della sua applicazione.
Il tema delle possibile deviazioni, in sede applicativa, dalla lettera e dallo spirito di una normativa appartiene alla vita stessa del diritto. Dal suo assumere la forma di testo scritto è sorta infatti la disputatio fori, che lo ha reso, perciò stesso, ius controversum. Non casualmente la questione s’è posta già col primo codice scritto che si ricordi, quello di Hammurabi (1792-1750 a.C). Il previdente sovrano, conscio dei rischi di ‘pervertimento’ che le sue leggi avrebbero corso in sede applicativa, volle iscrivere nello stesso testo questa formula: “... Posto che quell’uomo abbia pervertite le mie parole, che nel mio monumento scrissi, il padre degli dei... maledica il suo destino..., anni di fame, oscurità senza luce, morte subitanea il destino gli destini”. Ovviamente, è lecito supporre che le minacce furono tanto crudeli quanto vane. Da Hammurabi a Dante (“le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”), le citazioni potrebbero essere tante, a dimostrazione che il ‘pervertimento’ delle leggi appartiene alla vita stessa del diritto, in ogni tempo e sotto ogni latitudine.
Prima di tentare una sommaria analisi degli esiti della riforma – che, vogliamo subito anticiparlo, ci sembra, aver subito non pochi ‘pervertimenti’ in sede applicativa – è forse utile una premessa. Resiste in non pochi critici il convincimento che essa sia nata da decisioni solitarie e improvvisate dei responsabili pro-tempore del governo politico dell’Università italiana, frutto, se mai di quella certa smania riformista che non di rado pervade gli uomini di governo, speranzosi di lasciar così imperitura traccia della loro presenza. A tacere dell’intima consapevolezza in chi parla dell’ammonimento aristotelico a non fiaccare l’autorità delle leggi con continui cambiamenti, pena il discredito delle stesse istituzioni da cui promanano, v’è subito da ricordare a quei critici che la nostra riforma, nel suo nucleo essenziale, non è null’altro che l’obbligata attuazione di precisi accordi internazionali.
Anche per questo è utile ricordare, sia pur in estrema sintesi, le tappe del lungo dibattito culturale e politico che ha preceduto la sottoscrizione dell’accennato accordo internazionale che è la Dichiarazione di Bologna del 19 giugno 1999.
Il primo passo fu segnato dalla Magna Charta Universitatum, sottoscritta il 18 settembre 1988, dai Rettori delle Università europee, in occasione del nono centenario della nascita della più antica tra esse, quella di Bologna.
In sede politica seguì la Direttiva del Consiglio del 21 dicembre 1988 (89.48.CEE) che sancì l’obbligo, per l’esercizio di qualunque professione, di una formazione post-secondaria triennale.
L’Italia vi si adeguò (L. 341/90 e D. Lgs. 115/92), rompendo allora lo schema monistico con l’introduzione, accanto alla laurea tradizionale, del diploma triennale (che non ha avuto gran fortuna).
Su queste premesse si giunse nel maggio del 1998 a quell’ulteriore passo che è la Dichiarazione della Sorbona, sottoscritta per l’Italia dal mio predecessore, il collega Berlinguer.
Sempre a Parigi, pochi mesi dopo (Ottobre 1998), la prima conferenza mondiale dell’UNESCO sull’insegnamento superiore fissò l’obiettivo della formazione universitaria obbligatoria (come in un passato ormai lontano era avvenuto per la scuola primaria, poi per la media e poi ancora per la media superiore), con l’ovvia conseguenza della necessaria offerta di percorsi e titoli differenziati.
Un anno dopo (19.6.1999) si giunse all’atto conclusivo, la Dichiarazione di Bologna, che ebbi l’onore di sottoscrivere per l’Italia (Dichiarazione puntualmente confermata dalle successive conferenze di Praga, Berlino, Berghen, Londra, Lovanio….).
Dopo un preambolo politico sull’istruzione, come forza unificante e volano di sviluppo, la Dichiarazione individua due linee strategiche:
– Accrescimento della compatibilità e comparabilità dei sistemi universitari
– Accrescimento della competitività internazionale del sistema europeo
Subito dopo essa impegna gli Stati ad azioni concrete, “per conseguire in tempi brevi i seguenti obiettivi”:
– “Adozione di un sistema di titoli di semplice leggibilità e comparabilità, al fine di favorire l’employability e la competitività internazionale”.
– Adozione di un sistema fondato su due cicli principali. “L’accesso al secondo ciclo richiederà il completamento del primo, di durata almeno triennale.
Il titolo rilasciato al termine del primo ciclo sarà anche spendibile quale idonea qualificazione nel mercato del lavoro”. Il secondo ciclo è invece teso a realizzare più elevati livelli di conoscenza.
– “Consolidamento di un sistema di crediti didattici”, come strumento per assicurare comparabilità di curricula e mobilità di studenti.
– Cooperazione nelle politiche di valutazione della qualità.
Obiettivi tutti imposti dalla necessità di superare il tradizionale modello, di cui l’Italia è stata culla. Talvolta il miglior modo per rispettare l’eredità di un passato glorioso consiste proprio nel saperla aggiornare ed anche superare. Le università della tradizione – quelle medievali, ma soprattutto quelle che chiamiamo “humboldtiane” – erano mono-funzionali, assolvevano cioè al solo compito di formare la classe dirigente del Paese, sulla base di un modello fortemente unitario di sapere. Erano Università vissute nel segno dello Stato, per quel rapporto di esclusività tra Stato e saperi che s’è realizzato con la nascita stessa dello Stato moderno e che oggi è in gran parte venuto meno nel crescente pluralismo delle nostre società. Le Università del nostro tempo debbono invece essere “polifunzionali”. Giocando con le parole e la loro storia, qualcuno ha scritto che stiamo assistendo alla trasformazione dell’“Università” – ad unum vertere – in “Multiversità” (con un neologismo forse azzardato). Esse devono assolvere cioè a compiti diversificati e lo devono fare riferendosi a paradigmi scientifici molto meno unitari che in passato. Devono continuare a formare élite di alti specialisti, produrre senza sosta nuova ricerca e nuove idee. Ma devono anche formare milioni di tecnici e operatori nei diversi rami della conoscenza (questo è il senso dell’obbligatorietà dell’istruzione universitaria auspicata dall’UNESCO), che hanno comunque bisogno di accedere a culture di tipo superiore per poter svolgere adeguatamente compiti, senza il cui assolvimento quotidiano le società contemporanee non potrebbero sopravvivere.
Nell’accelerata dinamica della società della conoscenza l’Università deve inoltre superare la logica della formazione acquisita una tantum, per assicurare invece una formazione continua lungo tutto l’arco della vita.
Firmata dunque la storica Dichiarazione nel giugno ‘99, si ritenne di avviare subito il lavoro in vista del varo dei provvedimenti attuativi. In verità, essendo per grandi linee ben noto da tempo il suo contenuto, l’attività preparatoria s’era fatta intensa già dal finire del ‘98, con l’insediamento di un gruppo di lavoro che, tra gli altri contava sulla presenza dei presidenti del CUN e della CRUI (molti furono al tempo gli incontri e i dibattiti particolarmente nelle sedi universitarie). A render spedito il lavoro, in una prospettiva di esito positivo, concorreva la felice condizione di poter il Governo utilizzare un’ampia delega legislativa per il varo dei provvedimenti, ovviamente con l’obbligo del parere parlamentare. Apparve questa come occasione eccezionalmente propizia al raggiungimento dell’obbiettivo, in una materia particolarmente divisiva. Che quella universitaria sia storicamente tale lo conferma una furba trovata di Cavour. Si narra infatti che quando il grande statista voleva allentare il controllo parlamentare sull’attività del suo Governo, faceva presentare da suoi fedelissimi una proposta in materia universitaria, nella certezza del divampare immediato di interminabili e inconcludenti dibattiti.
Si giunse cosi al varo del DM 509 del 3 novembre 1999, che non solo ha realizzato la nuova architettura degli studi, secondo le prescrizione della Dichiarazione di Bologna, ma ha anche aperto nuovi spazi all’autonomia universitaria, in tardiva attuazione del dettato costituzionale ed ha tentato di ovviare ad antichi mali.
Nella convinzione che al nuovo assetto – proprio per gli accresciuti margini di autonomia – dovesse accompagnarsi finalmente un sistema sanzionatorio, a carattere prevalentemente premiale, si volle la preventiva approvazione di una legge sulla valutazione (la 370 del 19.10.99), in assoluto la prima mai varata, che proprio per il suo carattere innovativo, non pretendeva d’essere perfetta. Nacque così il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, (fino allora esisteva solo un Osservatorio, con mere funzioni di monitoraggio), con la rete dei Comitati d’Ateneo, vincolati a procedure omogenee. In sede di prima applicazione, furono disposti i primi accantonamenti finanziari per rendere concreta la premialità. Dopo poco, però, tutto si fermò nel miraggio di una legge ‘perfettissima’. Ci son voluti quasi tre lustri di annunci e vani tentativi per partorire un nuovo sistema di valutazione, quello vigente affidato all’ANVUR (che, anch’esso, non a tutti, pare ‘perfettissimo’). Quello della valutazione è oggi il nodo centrale di una seria politica universitaria. L’autonomia finanziaria delle Università rende sempre più pressante una verifica della ‘qualità. Un tempo, quando la vita di ciascuna di esse era di fatto in toto governata centralmente (risorse finanziarie, organici, stipendi) e le entrate dalle tasse degli studenti avevano una rilevanza molto relativa, paradossalmente le cose andavano meglio.
Ad illuminare il senso di una tale affermazione soccorre con eloquenza la comparazione di due piccole storie istruttive che mi sembra utile raccontare. In una nostra Università, pur nella carenze di risorse per chiamate di professori, è stato assunto in organico uno statistico-informatico con l’esclusivo compito di monitorare l’andamento degli esiti degli esami nelle singole discipline. Il diagramma dei risultati è poi reso pubblico, con la particolare evidenziazione delle discipline (e ovviamente dei relativi docenti) nelle quali il tasso di bocciati
risulti al di sopra della media. Una sorta di gogna pubblica per ‘ammonire’ quei docenti che col loro zelo ‘danneggiano’ l’Università, favorendo con la loro severità la fuga degli studenti.
L’altra è una storia d’altri tempi che m’è tornata alla memoria recentemente, in occasione della morte del prof. Antonio Guarino, centenario. Indiscusso Maestro di diritto romano, era tanto affascinante e scrupoloso nelle lezioni, quanto autentico terrore degli studenti all’esame. Agli occhi di tutti, allora, la sua serietà/severità era però motivo d’accresciuto prestigio per l’Università, orgogliosa d’averlo tra i suoi docenti!
Nel nuovo contesto, unico antidoto alla dequalificazione è un efficiente sistema di valutazione, capace di premiare la qualità, comprimendo la valenza degli aspetti quantitativi. C’è poi da sperare che la selettività del mercato del lavoro (che richiede però il consolidarsi del nuovo sistema) faccia il resto. Il tempo che finora ingiustificatamente abbiamo perso nel far partire le attività di valutazione è stato di recente stigmatizzato dall’ultimo rapporto sul Processo di Bologna, l’Implementation report 2012 che, per l’Italia, ha appunto segnalato come il ritardo nell’attività di valutazione, abbia inciso negativamente sulla tenuta stessa della riforma.
Al vuoto di queste politiche s’è ovviato in questi anni con l’imposizione centralistica di egualitari vincoli quantitativi, che contraddicono palesemente il principio costituzionale dell’autonomia universitaria, ispiratore del processo riformista del 1999, senza incentivare la qualità. Il riferimento è ai cosiddetti requisiti minimi, uniformemente calati su di un sistema universitario fortemente disomogeneo (non solo per ragioni storico-strutturali, ma anche per ragioni di differente status giuridico tra Università statali e non statali), con la conseguenza di penalizzare i deboli e comunque di frenare tutti nella ricerca delle soluzioni più idonee a raggiungere risultati di qualità (è difficile, in proposito, non comparare la rigidità di queste scelte con la flessibilità adottata, nello stesso tempo, dalla Central European University di Budapest, che ottiene risultati di alta qualità, unanimemente riconosciuti, ignorando rigidi vincoli di organico e ricorrendo massicciamente alla figura del visiting professor).
Nel varare il DM 509/1999 si pensò, come accennato, di cogliere l’occasione per affrontare anche nodi antichi.
Si pose fine – non senza aspri contrasti in sede politica – al retaggio sessantottino della nefasta liberalizzazione degli accessi, originalità tutta italiana. Per il primo livello fu prevista la necessità “del possesso o dell’acquisizione di un’adeguata preparazione iniziale”, verificata con modalità da definirsi successivamente dai regolamenti didattici di ateneo (questo il disposto dell’art. 6, c. 1, DM 509, che fu il frutto di un faticosissimo compromesso parlamentare, imposto da agguerriti settori di sinistra). Per il secondo livello fu prescritta “l’adeguatezza della preparazione personale verificata dagli atenei”, ma anche “il possesso di requisiti curriculari” (art 6, c.2). È sotto gli occhi di tutti il fatto che queste statuizioni, generalmente, vengono sistematicamente eluse.
Nell’occasione furono soppresse le 4207 discipline d’insegnamento, formalmente riconosciute, per far posto alla più elastica previsione di 371 settori scientifico-disciplinari.
Contemporaneamente si volle avviare un processo di riequilibrio nel molto disomogeneo sistema universitario, nella convinzione che, premessa di ogni spinta competitiva tra le Università, dovesse essere la progressiva riduzione di antichi squilibri (basti pensare che per sette secoli l’intero Mezzogiorno peninsulare ha potuto contare su di una sola Università, a fronte del proficuo pullulare di storiche sedi universitarie nel Centro-Nord). Nella considerazione che le Università ubicate in aree svantaggiate non possono contare sulla vendita di servizi (che in talune aree del Paese concorre invece ad incrementare le entrate) si dispose l’accantonamento di una quota del Fondo di finanziamento ordinario per ripartirla tra le Università in funzione di due criteri prevalenti: 1) ubicazione in area svantaggiata (secondo oggettivi parametri ufficiali); 2) nuova istituzione (le nuove Università sono nate spesso con l’ipocrita e devastante formula del costo zero).
In un sistema universitario con questi storici punti deboli (aggravati dalla cronica insufficienza di finanziamenti) e avviato su di un percorso di profonda trasformazione, di tutto v’era bisogno, fuor che della improvvida sua espansione, realizzata invece con la disinvolta istituzione di numerose Università telematiche. Senza chiudersi alle benefiche innovazioni tecnologiche, sarebbe stato preferibile incentivare le Università tradizionali nella direzione dell’elearnig e concedere l’autorizzazione per nuove Università solo dopo positivi riscontri nelle sedi storiche. La già denunziata assenza di seri controlli qualitativi ed il rispetto di soli criteri quantitativi, in questo caso, ha aggravato le distorsioni sul versante del valore legale dei titoli di studio.
Ritornando alla Dichiarazione di Bologna, va detto che l’attuazione del suo impianto presentava una difficoltà di fondo: conciliare nel primo ciclo due funzioni con obiettivi non coincidenti, realizzare una formazione tendenzialmente professionalizzante (la Dichiarazione recita: “Il titolo rilasciato al termine del primo ciclo sarà anche spendibile quale idonea qualificazione nel mercato del lavoro”), ma costituire anche base di accesso al secondo ciclo, a
sua volta teso ad ancor più alti livelli di conoscenza.
La questione era ed è di primaria importanza, ancor più in un tempo in cui non esiste più una formazione capace di sorreggere un’attività lavorativa per tutta la vita.
V’è da dire che già da tempo nelle nostre Università si è andato pericolosamente diffondendo la pratica che, di fatto, pone come obiettivo dell’insegnamento non l’instituere, il porre cioè le basi metodologiche della singola disciplina, ma la pretesa, pericolosamente vana, di offrire il sapere ‘totale’ della stessa, con l’imposizione di testi a pagine annualmente crescenti. È evidente che in tale logica la laurea triennale, più breve delle antiche e con la necessità (imposta dal sistema dei crediti) di rapportare i programmi al tempo di durata dei corsi, è stata spesso accolta come una maledizione. Volendo, sarebbe possibile attingere ad una ricca casistica dimostrativa del fatto che molti docenti si sono limitati a ‘zippare’ nel triennio i programmi dei vecchi corsi, adottando gli stessi manuali, con il trucco di offrirli in edizioni stampate con corpo più piccolo e prive di note: una palese elusione della ratio della riforma, un’autentica frode alla legge!.
Le soluzioni prospettate nel Decreto 509/99 per realizzare la difficile conciliazione – presentate senza pretese di definitività e con la dichiarata previsione della necessità di puntuali, stringenti verifiche – furono due:
1. Vincolare nel primo ciclo un certo numero di crediti per le materie e attività ‘istituzionali’, quelle cioè capaci di porre le basi delle singole discipline
2. Affidare ai successivi master di primo livello la full immersion nelle attività professionalizzanti.
La prima soluzione fu attaccata da posizioni opposte. Per alcuni troppo blanda, per altri troppo ‘dirigista’ (in un appello di notissimi docenti si lanciò, dalle colonne del “Corriere della Sera”, la campagna “per spezzare la gabbia d’acciaio”, in nome della sacra autonomia universitaria). Il successivo DM 270/2004, com’è noto, ha poi rivisitato la questione.
Proseguendo in questa disamina, a fronte di aspetti positivi, vanno segnalate altre non piccole negatività.
È positivo l’incremento dei laureati (nella fascia 22-29 anni). Pur nel calo delle nascite il numero è cresciuto in assoluto e in percentuale. Dal 17,5% del 1999 si è passati nel 2011, al 30% per i laureati di primo livello ed a più del 20% per i laureati di secondo livello. Apprezzabile l’abbassamento dell’età media dei laureati.
Positivo è anche il ridimensionamento del patologico fenomeno dei fuori corso. Dall’80% nel regime del vecchio ordinamento si è passati a circa il 55% per il primo livello ed a meno del 50% per il secondo.
Fonte di non poche criticità sono state, come già accennato, gravi distorsioni applicative e omissioni.
In proposito va rilevato che contro la riforma, in modi spesso occulti, hanno remato oppositori di varia tipologia: i contrari ‘ideologici’, la categoria più attrezzata, ma non la più numerosa, quella cioè di coloro che continuano ad essere legati alla tradizionale idea di Università deputata a formare solo le ristrette elites del Paese; i pigri che ancor’oggi non padroneggiano realmente la logica della riforma (a cominciare dal suo lessico) ed infine i profittatori che, complice l’accresciuta autonomia, nel passaggio dal vecchio al nuova hanno badato solo al loro particolare. Non va però sottaciuto che, a rendere difficile il cammino della riforma, hanno contribuito omissioni, incertezze e culpae in vigilando anche degli organi centrali di governo del Sistema.
La vulgata ha accreditato la nuova architettura degli studi come 3+2, dove il segno + ha progressivamente fatto acquisire, nel sentire generale, l’incompletezza del 3 ed il suo essere base di un imprescindibile 2. Occorre, in tutta onestà, riconoscere che a ciò ha contribuito l’infelice dizione iniziale dell’art. 7 del 509/1999 (“Per conseguire la laurea specialistica lo studente deve aver acquisito 300 crediti…”), dizione che ha finito per assecondare tendenze conservatrici, ostili all’idea di un’Università ‘polifunzionale’ e aperta alle esigenze del mondo del lavoro. Positiva è perciò stata la modifica introdotta dal Decreto 270/2004 che, nel nuovo art. 7, più correttamente recita: “Per conseguire la laurea magistrale lo studente deve aver acquisito 120 crediti” (positività di un intervento che non attenua il suo essere però esempio non positivo dell’innanzi accennata ‘ambizione’ del nuovo che ‘deve’ a tutti i costi cancellare le tracce dell’antico, nel momento in cui si propone come testo integralmente nuovo, ma in realtà ingloba il contenuto del precedente 509/99, con pochi aggiustamenti che potevano assumere la forma più propria di emendamenti).
Nonostante, comunque, quest’opportuna modifica normativa, non pare che le cose siano cambiate. L’architettura degli studi generalmente non sembra aver acquisito la forma piramidale sua propria, mantenendo piuttosto quella di un corpo più vicino ad un parallelepipedo, con poca differenza tra superficie inferiore e superiore. Non è fisiologico che oltre il 60% dei laureati acceda alla laurea magistrale. Il dato nasconde la perdurante ‘viziosa’ tendenza a considerare il 3+2 un unicum (il CUN, qualche tempo fa saggiamente sanzionò la previsione, in taluni atti d’autonomia, della possibilità d’iscrizione alle laurea di secondo livello ancor prima del completamento del primo ciclo, in barba all’espresso divieto della Dichiarazione di Bologna).
Questa distorsione è figlia di molti fattori: 1) la riconosciuta infelice iniziale formulazione normativa; 2) la mancata definizione puntuale di sbocchi lavorativi della laurea triennale (che, tenuto conto del valore legale dei titoli di studio,connota d’incompiutezza la riforma); 3) l’accessibilità alla laurea magistrale senza severe selezioni; 4) la generalizzata mancanza di posti di lavoro che continua a fare dell’Università un’area di parcheggio.
Negativa per la complessiva qualità del nostro sistema universitario è la diffusa elusione dell’obbligo di selezione negli accessi, nel primo e, ciò che è più grave, nel secondo livello (sotto tale aspetto continuiamo a costituire un’anomalia nel panorama europeo).
Negativo è che l’attribuzione dei crediti sia stata troppo spesso piegata a logiche di potere accademico e, comunque, svincolate da ogni seria programmazione degli studi, vanificando così lo spirito stesso della riforma. Non va infatti dimenticato che il sistema dei crediti risponde a due esigenze fondamentali: garantire lo studente sulla congruità dei carichi didattici rispetto al ‘peso’ delle singole discipline ed al tempo di durata legale dei corsi ed essere strumento idoneo a favorire la mobilità degli studenti.
Negativo è che le fondamentali funzioni di orientamento e tutorato siano, nel nostro Paese molto più che altrove, ancora, generalmente, considerate degli optional.
Il raccordo col mondo produttivo continua ad essere evanescente: resta generalmente elusa la prescrizione della consultazione delle organizzazioni del mondo della produzione e del lavoro nella definizione dei piani di studio, con responsabilità egualmente distribuite tra Università e organismi di settore.
La piena autonomia universitaria, infine, da più parti invocata a tardivo adempimento del dettato costituzionale, si è non di rado rivelata il miglior brodo di coltura di particolarismi e corporativismi (occorrerebbe un libro bianco per mettere in chiaro, con la necessaria dovizia di particolari, l’inqualificabile scempio dell’irresponsabile proliferazione dei corsi di laurea non realizzato certo per offrire agli studenti una più vasta gamma di possibilità aperte a sbocchi lavorativi!). Particolarismi e corporativismi che non sono stati bilanciati né dal tempestivo avvio del sistema di valutazione, né dalla selettività del mercato del lavoro (che presuppone il consolidarsi nel tempo del nuovo corso).
Un caso specifico che ci sembra meritevole di attenzione, come segno delle incertezze e delle contraddizioni che hanno regnato in questi anni nel governo politico dell’Università, è quello dell’architettura degli studi giuridici, isolato oggetto di controriforma.
Mentre per dare un senso al doppio livello, al fine di definire i relativi sbocchi professionali, fu costituita un’apposita commissione (il cui prezioso lavoro s’e poi fatto cadere nel nulla), per le lauree giuridiche si potette offrire subito una soluzione. L’iniziale previsione del doppio livello sembrò infatti particolarmente calzante con il molto vario ventaglio di attività e professioni aperto da quegli studi. È noto che solo il 15% circa dei laureati in Giurisprudenza imbocca le classiche professioni forensi (avvocatura, magistratura, notariato, carriera universitaria), mentre il restante 85% circa ha come sbocco l’impiego nella Pubblica Amministrazione e nel settore privato. Per tale più ampia platea di ‘giuristi’ la laurea di primo livello (con l’aggiunta di possibili master annuali di aggiornamento e specializzazioni, nella logica del lifelong learning) ben poteva essere sufficiente. Sulla base di questa considerazione – con circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica, d’intesa con il Ministro dell’Università, del 27 dic. 2000 – si chiarì che il possesso della laurea triennale, unito ad un quinquennio di servizio, poteva consentire l’accesso anche ai massimi livelli della burocrazia statale. Ciò avrebbe consentito a quell’85% di studenti,orientati in quella direzione, una più rapida conclusione degli studi – sgravati del peso delle materie specificamente professionalizzanti in ambito forense – e avrebbe realizzato un’automatica selezione nelle iscrizioni alla laurea specialistica, rendendola più adeguata alle sue specifiche finalità, con grandi vantaggi anche per il sistema giudiziario nazionale (allo stato gravato dall’esorbitante numero di avvocati, incentivato dall’unicità del percorso degli studi). Senza dar tempo alla riforma di assestarsi a regime, dopo pochi anni, una controriforma, com’è noto, ha portato per la sola Giurisprudenza (e perché non anche per le altre umanistiche?) alla nuova laurea quinquennale a ciclo unico. Così, partiti anche con l’intento di abbreviare la durata degli studi e consentire un più rapido accesso al mondo del lavoro (anche per assicurare ai nostri giovani par condicio rispetto ai coetanei degli altri paesi), siamo riusciti ad allungare per tutti la durata degli studi (prima della riforma la laurea in giurisprudenza era quadriennale), con un aumento di cattedre a beneficio della sola corporazione e con un’evidente violazione degli accordi sanciti nella Dichiarazione di Bologna. Tutto ciò è destinato ad arrecare ulteriori danni all’Italia che già patisce lo sproporzionato numero di avvocati e che senza alcun filtro d’accesso (originariamente previsti in modo stringente per la laurea magistrale), continua oggi ad offrire ad una massa di studenti, priva di vocazioni specifiche, il pigro ingresso in un corso di studi per di più allungato di un anno(da segnalare che i ministri Severino e Profumo – Corsera 12.8.2012, p. 8 – hanno adombrato il ritorno alla logica della laurea a doppio ciclo).
Ultima notazione e ricordo: per ‘sistematizzare’ la complessa materia e agevolare il miglior utilizzo degli strumenti legislativi, si avviò la procedura formale per la realizzazione di un testo unico della legislazione in materia universitaria, giungendosi ad un compiuto progetto di testo (la cui redazione fu affidata al prof. Sabino Cassese), mai purtroppo portato poi ad approvazione definitiva.
Queste dunque le tappe della complessa manovra riformista e queste le evidenze che finora ne hanno compresso le potenzialità.
In conclusione luci, ma anche molte ombre, che è dovere di tutti – mondo accademico e mondo politico – tentare di diradare, nella consapevolezza che una riforma così radicale, calata in un mondo complesso come quello universitario, richiede innanzitutto una diffusa conoscenza della sua ratio tra tutti i protagonisti e deve poi essere accompagnata da un ininterrotto processo di verifiche capaci di suggerire aggiustamenti ed emendamenti.








* Relazione al Convegno “Bologna and beyond” svoltosi, per iniziativa delle Università La Sapienza e Link Campus di Roma, il 24 novembre 2014 nella Sala Igea dell’Istituto Treccani di Roma.^
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