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Il futuro possibile dell’Unione Europea. Ragionando sulle opinioni di Paolo Savona e Mario Draghi
di Massimo Lo Cicero
1. Struttura e contenuto

Affrontiamo in questo articolo quali potrebbero essere, in un futuro prossimo, alcuni sviluppi radicali negli assetti dell’Unione Europea e come, grazie agli sviluppi di una politica economica adeguata ed alla trasformazione dei sistemi economici e sociali degli Stati europei, si possa e si debba superare l’handicap, ormai riconosciuto, di una moneta unica che non è supportata e collegata ad un ordinamento statale compiuto1.
Dopo la crisi del 2009, e la lunga stagnazione che ha fatto seguito alla crisi, sembra evidente che siano almeno tre le questioni da affrontare per fare un ulteriore passo in avanti e consolidare la identità economica e politica dell’Unione: il meccanismo istituzionale, la politica economica necessaria per ripristinare in Europa un ragionevole regime di crescita, la trasformazione delle relazioni tra economia, istituzioni e società che devono riportare verso una convergenza, che non sia solamente economica, l’insieme delle popolazioni dell’Unione2.
Governance, regime di politica economica e “riforme”, come vengono definite le strade della trasformazione dei comportamenti e delle organizzazioni nei singoli perimetri nazionali che segmentano l’Unione Europea, rappresentano i tre pilastri intorno ai quali si può sviluppare un futuro diverso dal presente.
Nel primo semestre del 2015 hanno dominato la scena due circostanze rilevanti in relazione ai tre pilastri in questione.
La lunga e difficile trattativa tra la Grecia, ancora una volta in default rispetto alla sua posizione finanziaria, ed i suoi creditori – il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea, la Commissione Europea ed il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione – ha ottenuto non solo un risultato di compromesso accettabile ma ha anche posto sul tavolo i limiti e le trasformazioni necessarie per la stessa Unione Europea: il suo regime di Governance, le modalità con cui riforme e politiche economica devono essere realizzate nell’ambito degli Stati nazionali. In parallelo con i negoziati di questa trattativa si sviluppava il primo semestre del 2015 e si metteva in moto una strategia che, sulla base del quantitative easing e della politica monetaria non convenzionale della BCE, e sull’onda del piano Junker, promosso dalla Commissione Europea, creava i presupporti di una ripresa della crescita. Confrontando il ritmo degli Stati Uniti con il ritmo, più lento, dell’Unione Europea e ricercando, di conseguenza, i modi e gli strumenti di una maggiore convergenza tra le due coste dell’Atlantico.
In questo contesto l’Italia non ha brillato particolarmente, pur avendo agganciato il ritmo, modesto, della crescita europea.
Le ragioni di questa lentezza dell’economia italiana e della fragilità nazionale, che discende dal dualismo economico – che rimane unico, nella sua fattispecie rispetto alle altre nazioni europee – ha generato importanti confronti sui temi della nostra politica economica nazionale3.
Un pamphlet edito da Rubbettino e scritto da Paolo Savona, individua i punti critici e gli attriti che hanno rallentato il ritmo della crescita italiana negli ultimi decenni, certamente a partire dal 1992. Tre interventi di Mario Draghi4, alla Camera dei Deputati (marzo 2015), al Fondo Monetario Internazionale (maggio 2015) ed all’ECB Forum on Central Banking svoltosi a Sintra in Portogallo (maggio 2015) hanno offerto una gamma interessante ed approfondita dei temi che riguardano la relazione tra la politica monetaria, la strategia fiscale dei Governi, la esigenza di mettere in movimento processi di cambiamento, appunto le “riforme” di cui si parla, forse con qualche eccesso di ambiguità implicita nei contenuti che quelle riforme dovrebbero esprimere nell’ambito di ognuno dei perimetri statali europei.
In questo articolo partiamo dalle circostanze del 2015, che abbiamo ricordato, e dalle opinioni di Savona e di Draghi, per individuare quali sono i punti controversi delle analisi in campo e quali dovrebbero essere gli strumenti relativi alle trasformazioni economiche e sociali, e quali effetti esse potrebbero generare, nell’ambito degli Stati nazionali europei. Ovviamente queste trasformazioni, come le politiche monetarie e fiscali in atto, dovranno generare, nei tempi e nei modi che saranno compatibili, gli sviluppi ulteriori dell’Unione Europea come tale.
Partiamo dalla crisi del 2009 per arrivare alla definizione di un assestamento che si propone di rappresentare una base strutturata per consolidare la ripresa della crescita in Europa.



2. Le politiche di Draghi e Juncker e la ripresa della crescita: «Abbiamo bisogno di ambizione nei fini e pragmatismo nei mezzi».

Dal dicembre del 2014 all’inizio della primavera, del 2015, si erano create tutte le condizioni necessarie per attivare una ripresa della crescita. Certificavano queste affermazioni le istituzioni internazionali, come il Fondo Monetario e la Bce, ma anche i Governi dell’area euro ed i Governi delle altre nazioni dell’Unione Europea. Nella seconda metà del 2014 si era manifestata una crescita disordinata nei paesi emergenti ed il riapparire di una incertezza diffusa. Situazioni, entrambe, che avevano minato la fiducia nella possibilità dello sviluppo in Europa. Ma, con un profondo ed intenso lavoro Juncker e Draghi avevano mantenuto le condizioni per una ripresa adeguata, e si aspettavano, di conseguenza, che una ripresa della crescita avrebbe dovuto essere l’obiettivo di imprese, banche e governi del vecchio continente.
Le basi erano adeguate allo scopo e, su quelle basi, si doveva fondare la ripresa economica dell’Europa. Ma la strada è ancora in salita perché ci sono anche una serie di problemi che le istituzioni e le popolazioni europee devono necessariamente affrontare.
Alcuni ritengono che l’Europa stia facendo troppo poco e che questo sia il problema. Vogliono un’Europa più integrata e solidale. Altri, i partiti populisti emergenti in Europa, credono che l’Europa stia facendo troppo e sia troppo invadente verso le singole nazioni. Costoro chiedono di riportare le singole nazioni a tornare nei propri confini e ritrovare la sovranità economica.
Purtroppo adattare gli strumenti della crescita solo alla forza della propria dimensione dell’economia nazionale costringerebbe quegli Stati ad una sorta di solitudine, certamente ad un isolamento che sia un preludio al contenersi nei perimetri dei propri confini; bisogna, insomma, trovare una strada condivisa ed escludere l’ipotesi di una ritorno indietro alle mere identità nazionali. Del resto la demografia europea, stagnante, ci impone di incrementare la produttività mentre nessun paese del mondo può prosperare e, nel medesimo tempo, restare fuori delle dinamiche imposte dalla globalizzazione.
Il mercato unico europeo esiste da tempo, grazie agli sforzi originari di un ceto politico cosmopolita e determinato. Non si può e non si deve invertire il processo di integrazione o prospettare esiti improbabili. Si tratta di completare l’unione monetaria e quella bancaria e trovare soluzioni politiche condivise per la convergenza economica e le riforme istituzionali.
In una parola, Mario Draghi ha indicato che abbiamo bisogno di ambizione nei fini e pragmatismo nei mezzi.
L’integrazione economica produce posti di lavoro e crescita ma non risolve del tutto la contraddizione che alimenta lo scontento in Europa: chi guadagna e chi perde? Se vogliamo fiducia da parte della popolazione, le èlites devono agire collegando l’economia dell’integrazione, l’efficienza, con la politica dell’integrazione, l’equità. La terza leva sono le tecnologie che, a volte, favoriscono le risorse umane di alto profilo e relegano ai margini del mercato del lavoro le competenze più deboli. Investire nelle risorse umane accresce l’efficienza dell’economia e crea nuove occasioni di occupazione che consentono ai cittadini di cogliere quelle opportunità. Le riforme devono alimentare istruzione e formazione, migliorare la flessibilità dei mercati e ridurre la burocrazia sclerotizzata o ridondante5.
Mario Draghi ha realizzato una politica monetaria non convenzionale che ha ridato liquidità alle banche europee, ha ripristinato la circolazione della moneta e dei capitali attraverso i confini nazionali, ha creato le condizioni per una riduzione del cambio dell’euro, rispetto al dollaro americano, in parallelo con la caduta del prezzo del petrolio.
Jean Claude Juncker ha impostato un piano di investimenti che supera i 300 miliardi di euro ed impone rigorose soluzioni tecniche ma anche una grande dimensione dei progetti da finanziare. Questo piano, insomma, alimenta un grande shock positivo nel mercato europeo ed è, per certi versi, anche il risultato di uno sforzo del Governo e delle Imprese italiane: in favore della ripresa della crescita e dell’allargamento dell’occupazione, anche grazie al Job Act approvato dal nostro Parlamento.
Un pericoloso punto dolente di questo contesto, che potrebbe davvero animare e supportare la crescita Europea, è ancora una volta, e dopo cento anni, la struttura dualistica dell’economia italiana. Il nostro Mezzogiorno, in particolare, presenta una pesante desertificazione delle grandi imprese, una piccola dimensione delle imprese minori, una larga base demografica che incrementa le dimensioni della disoccupazione e dell’economia sommersa. La prima ondata della politica monetaria espansiva di Draghi è andata a buon fine e si prepara, ora, la seconda ondata. La più grande banca di sistema del nostro paese, Unicredit, ha realizzato, grazie al supporto della BEI e della BCE, una vera e propria spinta creditizia nel trapasso tra il 2014 ed il 2015. Proprio per la sua rilevanza nazionale, e per la sua presenza importante nel Mezzogiorno d’Italia, l’Unicredit potrebbe essere la leva di una forte spinta al rifinanziamento delle piccole imprese, alla riconversione dei grandi complessi industriali in crisi, allo sviluppo tempestivo dei progetti di investimento annunciati da Juncker. La ricaduta di questi interventi attiverebbe un enorme domanda di consumi ed investimenti nel mercato del Mezzogiorno. Attorno a questa banca dalla dimensione continentale in Europa, le altre grandi banche italiane, e le banche regionali che agiscono nel Sud, potrebbero a loro volta alimentare lo sviluppo e la realizzazione di progetti collegati al riordino delle città metropolitane ed al coordinamento delle reti logistiche e di trasporto: ridisegnando la struttura urbana e le grandi aree territoriali del Mezzogiorno.
Questa sorta di “tenaglia” – tra la macroeconomia di Draghi e Juncker, collegata con le banche di sistema, e la capacità delle imprese edili di trasformare il contesto urbano ed alimentare, per questa strada, una rete di microprogetti da diffondere sui mercati meridionali – sarebbe una ipotesi di soluzione per chiudere la forbice del dualismo meridionale e ridare all’Italia una posizione di primo piano tra le economie e le nazioni europee.
Grazie al fatto che i tassi di interesse sono bassi, l’euforia delle Borse europee è stata abbastanza sostenuta e la politica non convenzionale di Draghi ha ridimensionato il cambio tra euro e dollaro. Nonostante questo cauto ottimismo, che si affacciava nella primavera del 2015, risulta chiaro che l’Unione Europea è ancora troppo fragile mentre i singoli Stati sono ancora e vogliono essere vincolati alla propria sovranità. Servono istituzioni più robuste e regole meno numerose: solo in questo caso la fiducia alimenterà la crescita.
Dalla crisi del 2008/2009 discendono due conseguenze nell’Unione Europea: un contagio finanziario molto rischioso per i debiti pubblici, per gli Stati sovrani, che aderiscono all’Unione, ma anche per le banche; la necessità di accelerare la convergenza tra le singole economie nazionali6.
La convergenza tra le economie nazionali non è facile da gestire. Anche perché non esiste nell’Unione un’area monetaria ottimale. Non si possono travasare merci, risorse umane e servizi tra i mercati dei singoli Stati ad un ritmo uniforme e condiviso. Sarebbe necessario trovare soluzioni adeguate per rimuovere la separazione tra il club della moneta (l’area dell’euro) ed il club del mercato (i paesi che sono stati cooptati nell’Unione ma non ancora nell’area dell’euro).
I due gruppi hanno regimi diversi e producono una crescita asimmetrica: debole l’area dell’euro mentre coloro, che non sono vincolati alle regole della moneta unica (Maastricht), crescono più rapidamente. Anche perché hanno mercati del lavoro flessibili ed un regime fiscale molto soffice. I due effetti – governare i rischi della crisi ed accelerare la convergenza tra le economie del sistema – ci hanno rivelato un errore basilare nella costruzione monetaria europea: l’Unione non è un’area monetaria ottimale, sia perché le economie si presentano con tratti diversi e divergenti, sia perché l’ordinamento delle istituzioni europee non è riuscito ancora ad unificare la sovranità fiscale degli Stati.
Una fiscalità diseguale, inoltre, induce un’amministrazione molto diversa tra gli Stati e questa differenza genera il costo crescente degli interessi sul debito pubblico.
Nei paesi fiscalmente aggressivi – e contemporaneamente assai propensi alla spesa corrente, ma penalizzando quella per gli investimenti e le infrastrutture necessarie alla crescita – maturano le condizioni dell’austerità e lo spiazzamento di consumi ed investimenti rispetto alla gestione dei fondi pubblici. In questo modo l’austerità comprime la crescita. Mentre la politica monetaria, guidata dal 2011 da Mario Draghi, ha prodotto una gamma di strumenti per governare sia la moneta che le relazioni tra le grandi banche e la vigilanza sui loro comportamenti. Se sulla struttura delle imposte e della spesa pubblica agiscono i governi nazionali – ciascuno nella sua prospettiva di politica economica e non essendo ancora convergenti le economie dei mercati nazionali – si manifestano in Europa squilibri persistenti, che divaricano, invece di rendere omogenei, i potenziali percorsi dello sviluppo.
La politica monetaria non convenzionale, invece, si alimenta della scelta iniziale di aver dato vita ad una organizzazione, la BCE, che avrebbe creato le condizioni per gestire se stessa e garantito gli effetti delle sue scelte. Le regole, delle politiche fiscali, ma anche delle riforme strutturali, che ogni nazione dovrebbe rapidamente realizzare, non hanno la medesima forza.
Bisogna, allora, cambiare le regole per ottenere uno spettro delle riforme possibili, dal fisco al mercato del lavoro ed alla tutela della competizione, se vogliamo accelerare la crescita. La crisi, che abbiamo alle spalle, ha ottenuto finora un risultato ambiguo: la recessione ed il ridimensionamento del mercato interno, per i consumatori e le imprese, ma ha anche svelato il nodo che strozzava lo sviluppo dell’Unione Europea. Ma adesso bisogna riportare alla convergenza sia la forza delle organizzazioni – come la BCE – che una efficace uniformità nelle regole nelle singole nazioni e tra le nazioni. Grazie a questo ulteriore strappo in avanti potremo vedere affiorare sulla scena europea la forza di una sovranità collettiva e non il rimpianto delle tante, troppe, forze, ciascuna rinchiusa nel proprio perimetro nazionale.
La crisi finanziaria della Grecia, ed il salto di qualità che ci attendiamo dall’Unione Europea, e dalle sue istituzioni, dovrebbe accelerare la sovranità condivisa nell’Unione e consolidare la qualità della politica monetaria ed il governo dei sistemi bancari. Ma dovrebbe anche tenere fede alla scommessa sul 2025 come punto di arrivo. Il momento nel quale deve essere raggiunto e consolidato il raccordo tra la politica monetaria non convenzionale della BCE, la politica fiscale proposta da Juncker, e dal suo piano, e gli effetti delle riforme strutturali: che sono la chiave di volta, tra atteggiamenti e comportamenti sociali, e garantiscono il funzionamento dei mercati nazionali, in termini di domanda ed offerta aggregata.
La sfida che l’Europa si trova davanti è molto impegnativa e non può essere costruita giorno per giorno in una miopia che confonda la natura dei problemi aperti oggi e le possibilità di progetti a lungo termine. L’Europa è l’unico continente che sia una penisola, dell’Asia: si confronta con il Mediterraneo, che la divide, ma la collega anche, con l’Africa e la cultura islamica7.
Unione Europea e Stati Uniti sono i pilastri dell’Occidente ma questa solidarietà andrebbe rafforzata e gestita. I paesi avanzati crescono poco, l’Europa anche meno dell’America, mentre nel resto del mondo accelerano i paesi in via di sviluppo: che hanno iniziato lo shopping delle imprese industriali dei paesi europei, comprando tecnologie che si tradurranno in mercati sui quali vendere ed alimentare, in questo modo, la crescita del reddito procapite nei paesi in via di sviluppo. Gli equilibri, politici ed economici del mondo, si trasformano mentre la penisola europea si presenta fragile, ed indebolita, dalla lunga stagione che ha attraversato nel ventesimo secolo.
L’Europa apre, dopo la seconda guerra mondiale, la sfida per superare i propri conflitti militari interni e creare una forza economica coesa, capace di allargare la prosperità ed il benessere delle nazioni europee. Si comincia con mettere in comune alcune produzioni, il carbone e l’acciaio; si diluiscono le frontiere e gli attriti tra i paesi; nasce il mercato unico e cresce grazie alla grande intuizione di Delors nel 1985. Nel 1993 si intravede la creazione di una moneta unica, l’euro: una moneta unica per un mercato unico e, si spera, per una prossima sovranità condivisa e federale. Dal primo gennaio del 2002 l’euro diventa la moneta legale per dodici nazioni europee, le banche centrali di quelle nazioni diventano la base organizzativa della Banca Centrale Europea. Una entità che cresce al crescere degli ingressi di altre nazioni nella sfera dell’euro.
Questa lunga marcia, dal 1951, misura mezzo secolo! Gli anni che seguono, invece, sono più incalzanti. Implode l’Unione Sovietica ed una larga parte di nazioni ad essa collegate migra verso l’Unione Europea, che si allarga rispetto all’area dell’euro. Nel 2009 la prima crisi finanziaria mondiale, dopo quella del 1929, produce una lunga stagione recessiva.
Nel 2011 Draghi diventa presidente della BCE ed afferma un diverso stile di governo ed un diverso impianto di contenuti nella politica monetaria. La crisi della Grecia, ed il salto di qualità che ci attendiamo oggi dall’Unione Europea, e dalle sue istituzioni, dovrebbe accelerare la sovranità condivisa nell’Unione e consolidare la qualità della politica monetaria ed il governo dei sistemi bancari. Ma dovrebbe anche tenere fede alla scommessa sul 2025 come punto di arrivo del processo istituzionale ed al raccordo tra la politica monetaria non convenzionale della BCE, la politica fiscale proposta da Juncker, e dal suo piano, e gli effetti delle riforme strutturali: che sono la chiave di volta, tra atteggiamenti e comportamenti sociali, ed il funzionamento dei mercati nazionali, in termini di domanda ed offerta aggregata.
Le principali istituzioni europee sono ormai tre: il Parlamento, la Commissione ed il Consiglio dei capi di Stato e di Governo. Nell’ambito di questo Consiglio domina la figura dell’Ecofin, cioè della riunione formale tra i ministri del Tesoro e delle Finanze delle 19 nazioni che adottano l’euro. L’Ecofin si fonda, a sua volta, su un ulteriore organismo, l’Eurogruppo, che prepara le riunione dell’Ecofin in relazione ai collegamenti ed alle relazioni tra l’area dell’euro e le nazioni che non appartengono a quell’area ma che sono incluse nell’Unione Europea. Questa catena che si colloca a cavallo tra i leaders dei Governi nazionali ed il coordinamento della politica economica nell’Unione Europea è molto delicata, perché rappresenta gli orientamenti, non sempre coordinati e convergenti, delle politiche nazionali.
Parlamento e Commissione sono alla prima esperienza di una condivisione tra eletti dalle singole nazioni, il Parlamento, e personalità nominate dai Governi nazionali, la Commissione.
Il Parlamento ha indicato, per la prima volta, Juncker, il più votato, come presidente della Commissione e, dunque, si sta creando un embrione di quello che potrebbe e dovrebbe essere un governo federale europeo. Così come la Bce sta progressivamente determinando la nascita di una istituzione che possa regolare e vigilare i mercati bancari e finanziari della Unione Europea. Esiste, insomma, un processo che sta realizzando effetti amministrativi e politici con una certa efficacia.
Il trait d’union tra questo processo amministrativo e la nascita di una identità politica europea sono, in ultima analisi, gli sforzi di creare riforme istituzionali, nelle varie nazioni, per generare processi di convergenza e rendere più veloce, anche sul piano degli orientamenti delle famiglie e delle imprese, le scelte che possano portare ad una dimensione di comunità la società europea.
Le riforme strutturali sono necessarie per modificare gli attriti interni alle singole nazioni. Modificando quegli attriti si mettono in moto, con una velocità crescente nelle nazioni in cui le relazioni tra gli attori sociali sono più rigide e meno leali, due direzioni di marcia. Se la domanda e l’offerta aggregata, nei mercati, si spostano verso l’aumento del reddito interno si aumentano le opportunità della crescita. Se, al contrario, gli effetti non accendono entusiasmi e speranze convincenti, si inizia una spirale recessiva. Se l’aumento delle spese si collega a quello delle tasse e delle entrate si allarga ulteriormente l’effetto recessivo: l’austerità impedisce la crescita, l’Italia ne è un caso emblematico.
Le riforme strutturali, insomma, sono la chiave di volta per andare oltre le nebbie dell’incertezza e costruire una dimensione espansiva del benessere europeo. Nel caso contrario – evitare le riforme strutturali – si spegne l’economia ed aumenta la disoccupazione. Aumentando anche la divergenza tra le nazioni e lo scoraggiamento verso il traguardo possibile, ma non necessariamente raggiungibile, di una sovranità condivisa tra i popoli europei.
Siamo ormai abbastanza lontano dalla crisi del 2008 - 2009. Ma siamo anche consapevoli del fatto che l’Europa (dell’euro) – al contrario dei paesi che si trovano nell’Unione Europea e ne condividono il grande mercato – stia crescendo meno delle economie emergenti, e di quelle in via di sviluppo, ma anche di quelle avanzate.
Inoltre l’Europa (dell’Euro) è fragile per un eccesso di divergenza nei comportamenti delle singole nazioni. E questa fragilità è emersa platealmente, nel 2015, durante il conflitto tra la Grecia e gli organi di Governo, ridondanti, dell’Europa stessa e del Fondo Monetario Internazionale. La nazione dall’economia più fragile, la Grecia, anche per ragioni tutte interne alla sua storia economica e politica, non è riuscita a reggere la convivenza con l’area euro e, di conseguenza, potrebbe avventurarsi, nonostante la pausa che le offrono i creditori per rimettere in ordine la propria finanza, verso un improbabile divorzio dal resto dell’Europa, che si potrebbe trasformare in una soluzione nella quale perdano entrambe: la Grecia e l’area Euro.
Gli sforzi in atto per evitare questo doppio danno sono fortunatamente nelle mani forti di persone adeguate: la BCE ed il Fondo Monetario Internazionale. Ma proprio questa estrema divaricazione tra la Grecia e la Germania, che è emersa durante la trattativa del 2015 tra le due nazioni e la mediazione dell’Unione Europea, dovrebbe esortare la classe dirigente del vecchio continente a trovare le soluzioni per una maggiore convergenza dei comportamenti delle economie europee e, nel medesimo tempo, affrontare la sfida di un tra passo che, attraverso riforme e modelli di Governo, possa trasformare ulteriormente la identità e la natura dell’Unione Europea.
Bisogna rendere efficace un Governo dell’Europa: hanno suggerito Zingales e Quadrio Curzio, sulle colonne de «il Sole 24 Ore»8 con un titolo comune che riassume e salda le loro opinioni: Stati (poco) Uniti d’Europa. Zingales sollecita la necessità di far convivere meglio la democrazia ed i mercati finanziari: una condizione oggettiva di stabilità. Quadrio Curzio avanza l’ipotesi che si possano trasferire risorse umane, di grande caratura, dalla dimensione della capacità tecnica a quella dell’arte della politica. Una dimensione soggettiva, un rinnovamento delle risorse umane e non delle regole reciproche tra finanza e democrazia: uno scambio, insomma, tra i tecnici del mercato e della moneta con quelli che governano le politiche e le aspettative delle nazioni.
A prima vista si dovrebbe pensare alla terza stagione di Luigi Einaudi, che seguì quella dell’economista, del giornalismo di opinione e poi della politica. Ma questa analogia non è calzante né adatta al caso di oggi: bisogna accelerare la trasformazione delle istituzioni che reggono l’Unione Europea con una nuova, ed innovativa, identità istituzionale che possa essere considerata come un soggetto pienamente politico. Del resto, di strada ne abbiamo fatta molta dal 2011: cioè da quando Draghi ha sostituito il presidente Trichet alla BCE. Nel 2012 Draghi (con Herman Van Rompuy, Presidente del Consiglio d’Europa, con José Manuel Barroso, Presidente della Commissione, e Jean-Claude Juncker, Presidente dell’Eurogruppo) elabora un robusto documento programmatico: Verso una unione economica e monetaria effettiva ed efficace. Si tratta di un testo che spinge ad una maggiore integrazione tra moneta e banche ed anticipa gli strumenti di un mercato finanziario per l’Europa. Perché possano essere intensificate le relazioni tra economia e politica9.
Sulla falsariga di quel documento, e dei cambiamenti manifestati dopo il 2012, ora siamo di fronte ad un ulteriore documento, più articolato e con un calendario definito: Completare L’Unione economica e monetaria dell’Europa; una relazione di Jean-Claude Juncker, in stretta collaborazione con Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz10.
Si tratta di un piano che offre due tappe di lungo periodo: il 2017 – per ottenere l’assestamento degli obiettivi che includono anche le politiche di bilancio e le politiche delle infrastrutture – ed il 2025. Nel 2017, in analogia al Libro Bianco – con cui Delors rilanciò il progetto Europeo – sarà pubblicato un ultimo volume che definirà gli assetti dell’Unione economica e monetaria nel 2025. Questo ambizioso progetto offre, come scrive nell’articolo che abbiamo citato Quadrio Curzio, l’ipotesi di scambiare la capacità tecnica dell’analisi con l’arte della politica: «Si direbbe che dove c’è un ruolo diretto di Mario Draghi, si accelera. Per questo dovrebbe diventare Presidente di una Eurozona politica forte». Non credo sia questa una soluzione adeguata ai problemi europei, allo squilibrio che democrazia e mercati, finanziari o reali che siano, presentano nel vecchio continente.
La forza di una prospettiva si misura sulla qualità, ed il comportamento, degli individui che devono intervenire nei processi di cambiamento. Ma le qualità della politica e quelle della capacità analitica di costruire e gestire organizzazioni sono molto diverse tra loro. Un politico progetta ed offre visioni ma propone anche aspettative condivise con larga parte della popolazione, che intende guidare, creando una maggioranza che lo sostenga e lo porti alla realizzazione materiale della sua visione. Alla dimensione della politica si contrappone la capacità analitica ed il governo delle grandi organizzazioni. Anche la burocrazia deve essere governata con una tecnica analitica e non dall’arte della politica. La sostenibilità della democrazia dovrebbe assestarsi sulla convivenza della visione che prefigura il futuro e della capacità che lo costruisce, con gli strumenti delle organizzazioni e dello scambio. La visione viene dalla politica, le riforme, se ci sono, rappresentano l’effetto del cambiamento grazie alla capacità di fare. Se la politica riesce a convivere, con quella capacità, si realizzano le riforme ma se la politica accusa una deficienza, che la ridimensiona rispetto alla tecnica dei processi di cambiamento, si manifestano due danni rilevanti: il fallimento delle visioni annunciate allontana gli elettori dalla politica partecipata; la qualità della democrazia si restringe alla dimensione della miopia e delle opportunità contingenti. Meno elettori e molti appetiti sul confine tra amministrazione e servizi, che si collegano con l’amministrazione: in una dimensione oligopolistica ed opportunistica.
La democrazia italiana ha sperimentato nel 1992 una prima regressione della politica e dei partiti politici. Ma ha anche sperimentato, nel 2011, lo scambio tra la tecnica e la politica: con Monti e Berlusconi, e successivamente, al contrario, tra Monti, Letta e Renzi. Priva di fondamenti elettorali, cioè di consenso ed adesione alle visioni, la democrazia italiana oggi affanna e l’elettorato si ritira come le maree nell’Atlantico.
Meglio la cooperazione tra arte della politica e capacità di fare – come si è visto dall’accelerazione che Draghi ha offerto all’Europa – che lo scambio dei ruoli. Certamente, e purtroppo, la qualità della politica, in Italia come in Europa, è scivolata sotto una media poco affidabile. Servono nuovi attori e serve che molti elettori tornino nelle urne a dire la loro. Serve nuova linfa per una politica ormai molto gracile e priva di forza: in Grecia, in Italia ed anche in Europa.



3. Le scelte strategiche di Mario Draghi dal 2011 al 2015

Nel paragrafo precedente abbiamo definite l’insieme dei processi che si sono manifestati dopo il trauma iniziale della crisi (nel 2009) e che ci hanno condotto al ritrovamento di un equilibrio possibile, ma non ancora stabile, tra crisi del debito pubblico nelle nazioni dell’area euro, problemi nel sistema bancario europeo e la ricerca di una ipotesi realistica per riaccendere la spinta della crescita in Europa, riallineando, in tal modo, le due sponde dell’Atlantico su una linea convergente di politica economica: lo stato dell’arte.
In questo paragrafo cerchiamo di individuare sinteticamente il percorso delle scelte che Mario Draghi ha guidato, dalla presidenza della BCE, nell’interesse dell’Unione Europea: distinguendo sempre la relazione, parallela ma non confusa, tra la politica monetaria, che viene esercitata dalla BCE, e le politiche fiscali e le trasformazioni istituzionali che si realizzano in parallelo alla politica monetaria da parte della Commissione e dei Governi degli Stati nazionali.
Gli Stati dell’area euro, come è noto, hanno ceduto la propria sovranità monetaria ad un attore unico, la BCE, mantenendo la relazione con le banche centrali delle singole nazioni come partecipanti attivi alle scelte della BCE: scelte che si manifestano attraverso la Governance della banca, dunque della struttura di cui il presidente è, appunto Mario Draghi. Le politiche fiscali e le trasformazioni istituzionali, genericamente indicate come riforme – una definizione abbastanza ambigua e troppo dilatata nello spazio che va dalla società all’economia e si conclude nei processi istituzionali – rappresentano certamente il completamento di un insieme di politiche economiche in cui si esprimono le nazioni aderenti all’Unione Europea. Ma, mentre la politica monetaria trova un suo centro di gravità nella BCE e nella sua governance ben architettata, le politiche fiscali e le “riforme” sono divise su due livelli: da una parte la Commissione ed il Parlamento Europeo; dall’altra parte il Consiglio dei capi di Stato e di Governo e, naturalmente i Governi ai quali quelle personalità si riconducono in ognuna delle nazioni partecipanti.
È molto difficile gestire politiche economiche che abbiano una simile diversificazione di organizzazioni dedicate alla modalità con cui intendono agire sulla fiscalità e le “riforme”, ed attivare le conseguenze delle ipotesi di politica economica immaginate dagli Stati nazionali e dalle aggregazioni della Commissione, del Consiglio dei capi di Stato e di Governo e del parlamento Europeo. Esiste, insomma, una rilevante asimmetria tra le opportunità che può realizzare la politica monetaria e le opportunità che dovrebbero realizzare le politiche della fiscalità e delle “riforme” nei singoli Stati nazionali e nel sistema complesso delle istituzioni europee.
La politica monetaria può costruire percorsi, che sta effettivamente realizzando, per espandere la quantità di moneta, ridurre il livello dei tassi di interesse, trasformare crediti ed altri asset delle banche europee in moneta per consentire una significativa offerta di moneta, capace di sostenere un rilevante volume di progetti di investimento. Questo rilevante insieme di progetti di investimento riguarda a sua volta la capacità delle imprese di progettare ed attivare quegli investimenti e la capacità delle famiglie di riprendere le spese per consumi senza accantonare eccessi di risparmio, come accade nei momenti in cui la trappola della liquidità scoraggia l’assunzione di rischi reali e traduce stock di moneta inutilizzata in titoli ed altre forme di risparmio finanziario. Il mercato del credito, insomma, non può essere attivato solo dalla potenziale offerta di liquidità esistente ma deve essere capace di trovare anche una domanda effettiva che possa assorbire le ulteriori spinte della offerta aggregata: una leva che si attiva con l’innovazione tecnologica, le riforme, la ripresa della fiducia, la scommessa per il rischio reale. Una sequenza che aumenta la produttività totale dei fattori di produzione e spinge verso l’alto anche la dimensione della domanda, accentuando il tratto competitivo della produttività crescente.
La politica monetaria ha uno strumento consolidato nella istituzione della BCE; la politica fiscale e quella riforme devono avere due livelli di strumenti, le istituzioni europee e le istituzioni di ogni singola nazione, che sono ovviamente diverse tra loro.
La prima crisi finanziaria mondiale del terzo millennio ha messo in luce gravi debolezze nell’assetto strutturale e istituzionale dei singoli paesi partecipanti all’Unione economica e monetaria che hanno mostrato da allora un calo considerevole del reddito reale pro capite. Se l’insieme dell’Unione europea ha registrato una convergenza reale dal 1999 – grazie al recupero del divario nei paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO) – negli Stati membri dell’UE non c’è stato un processo analogo.
Ogni Stato nazionale si affida ad istituzioni, più o meno deboli, rigidità strutturali, scarsa crescita della produttività e politiche inadeguate nella gestione dell’inflazione e della crescita. Mentre, per garantire una convergenza reale nell’intera Unione, si dovrebbero produrre, in ogni Stato nazionale, alcuni asset intangibili che sono la base della crescita: stabilità macroeconomica ed una solida politica fiscale; un grado elevato di flessibilità nei mercati (dei beni e dei servizi ma anche del lavoro); un efficiente utilizzo di capitale e lavoro per sostenere la produttività totale dei fattori; una crescente integrazione economica nell’area dell’euro; un ricorso più forte a strumenti nazionali che possano evitare cicli di forte ascesa e repentino calo dei prezzi, sia per le attività reali che per quelle finanziarie.
Mentre i PECO hanno ridotto il divario rispetto alla media dell’UE negli ultimi 15 anni, i paesi che hanno formato l’area dell’euro nei primi anni hanno registrato progressi deludenti verso una convergenza reale tra di loro. L’esperienza ha mostrato che la convergenza iniziale può rapidamente essere ribaltata dalla presenza di shock esogeni, se non è sorretta da un quadro istituzionale solido e da condizioni favorevoli alla crescita della produttività. La crisi ci ha dimostrato che l’afflusso di capitali nei paesi a basso reddito può favorire una convergenza reale sostenibile solo se le risorse sono allocate in modo efficiente nell’economia stessa. È altrettanto importante integrare la politica monetaria unica con strumenti macroprudenziali e fiscali anticiclici a livello nazionale. Insomma, ottenere una convergenza sostenibile costituisce, in larga parte, una responsabilità della classe dirigente di ogni nazione. Mentre, in parallelo, occorrono sforzi integrati da riforme strutturali a livello europeo per consolidare il mercato unico. Il rafforzamento del mercato unico permetterebbe di assorbire meglio gli shock nelle singole economie nazionali, ed in particolare in quelle a basso reddito. Ed, infine, bisogna rapidamente creare, nell’ambito dell’Unione Europea un mercato adeguato dei capitali finanziari, una volta creato il rapporto tra la moneta legale e la moneta bancaria.
Questi sono gli effetti e lo stato di fatto che Mario Draghi ha presentato sulla scena europea ed ha costruito con una attenta Forward Guidance: una guida che attraverso la comunicazione, e la reputazione, degli attori principali dei sistemi istituzionali indica una convergenza, ragionevole e sostenibile, nel cono dell’incertezza che avvolge il futuro prossimo dei mercati e delle grandi organizzazioni private e pubbliche. Una innovazione radicale nella politica economica ed in particolare nell’attività delle Banche Centrali. Viene, in questo caso, ribaltato il paradigma di un banchiere centrale che non esplicita ed anticipa la propria strategia. In questo caso la strategia viene esplicitata ed esposta in anticipo proprio perché gli elementi oggetto dell’esposizione possano indicare e definire un percorso possibile per uno sviluppo aderente agli obiettivi indicati. Questo metodo si è compiutamente realizzato dalla fine del 2011 all’estate del 2015. Mario Draghi ha assunto la carica di presidente della BCE il 1° novembre del 2011. Le parole chiave, che muteranno, in parte ed in ordine di importanza, negli anni seguenti, appaiono dalla sua prima uscita pubblica: «Continuity, consistency and credibility». Il discorso propone una sorta di prima indicazione nella quale Forward Guidance ed individuazione della catena che lega obiettivi intermedi ed obiettivi finali si manifesta. La leva della comunicazione, come supporto alle decisioni interne, ma anche alla capacità di ottenere consenso nella platea dei mercati e delle istituzioni, finanziarie e politiche, emerge immediatamente. Mario Draghi descrive la natura di questa terna
Let me use this occasion to dwell a bit further on monetary policy in the current environment. Three principles are of the essence: continuity, consistency and credibility. Continuity first and for most refers to our primary objective of maintaining price stability over the medium term. Consistency means to act in line with our primary objective and with our strategy both in time and over time. Credibility implies that our monetary policy is successful in anchoring inflation expectations over the medium and longer term. This is the major contribution we can make in support of sustainable growth, employment creation and financial stability. And we are making this contribution in full independence. Gaining credibility is a long and laborious process. Maintaining it is a permanent challenge. But losing credibility can happen quickly – and history shows that regaining it has huge economic and social costs. These three principles – continuity, consistency and credibility – are at the root of the Governing Council’s outstanding record during the past 13 years in terms of price stability and anchoring inflation expectations11.

Il suo secondo discorso, molto ravvicinato, si tiene al Parlamento Europeo. Draghi lo conclude in questi termini:
A new fiscal compact would be the most important signal from euro area governments for embarking on a path of comprehensive deepening of economic integration. It would also present a clear trajectory for the future evolution of the euro area, thus framing expectations. On the precise legal process that brings about a move towards a genuine economic union, we should keep our options open. Far-reaching Treaty changes should not be discarded, but faster processes are also conceivable. Whatever the approach, companies, markets and the citizens of Europe expect policy-makers to act decisively to resolve the crisis. It is time to adapt the euro area design with a set of institutions, rules and processes that is commensurate with the requirements of monetary union12.

Il corsivo è di chi scrive e serve per enfatizzare le parole chiave che ritorneranno nel seguito della sua presidenza ma, come abbiamo detto prima, in un diverso ordine e grado di importanza. Emergendo dalla incertezza molto spessa che caratterizza il futuro, nel momento della sua entrata in carica, ma sollevando nuovi percorsi o cambiamenti di approccio, ovviamente non radicalmente divergenti ma complementari e collegati secondo le informazioni che da quella spessa coltre di incertezza cominciano ad affiorare. Mentre la crisi diventa un sentiero stagnante ma arriva, nel 2015, ad una ipotesi plausibile di ripresa della crescita. Una ipotesi che sarebbe stato improbabile avanzare nel 2011 e che oggi potrebbe, anche se non è ancora certa questa opzione, avere una maggiore probabilità di realizzazione.
Il 26 luglio 2012 eravamo ad un giro di boa: sia per la utilizzazione della comunicazione, metaforica, questa volta, di Mario Draghi che per la forza della Forward Guidance che viene messa in campo: si tratta di affermare, rispetto ai mercati finanziari ed, in particolare, a coloro che intendessero speculare sui problemi aperti in Europa dalla crisi, che non sarà possibile espugnare la fortezza della BCE:
I asked myself what sort of message I want to give to you; I wouldn’t use the word “sell”, but actually I think the best thing I could do, is to give you a candid assessment of how we view the euro situation from Frankfurt – afferma Draghi all’inizio del suo discorso – And the first thing that came to mind was something that people said many years ago and then stopped saying it: The euro is like a bumblebee. This is a mystery of nature because it shouldn’t fly but instead it does. So the euro was a bumblebee that flew very well for several years. And now – and I think people ask “how come?” – probably there was something in the atmosphere, in the air, that made the bumblebee fly. Now something must have changed in the air, and we know what after the financial crisis. The bumblebee would have to graduate to a real bee. And that’s what it’s doing. The first message I would like to send, is that the euro is much, much stronger, the euro area is much, much stronger than people acknowledge today. Not only if you look over the last 10 years but also if you look at it now, you see that as far as inflation, employment, productivity, the euro area has done either like or better than US or Japan. Then the comparison becomes even more dramatic when we come to deficit and debt. The euro area has much lower deficit, much lower debt than these two countries. And also not less important, it has a balanced current account, no deficits, but it also has a degree of social cohesion that you wouldn’t find either in the other two countries. That is a very important ingredient for undertaking all the structural reforms that will actually graduate the bumblebee into a real bee.

Anche in questo caso il corsivo è di chi scrive e la metafora del calabrone è certamente nota ma viene confermata adeguatamente. La seconda affermazione di Draghi è una vera e propria dichiarazione di guerra, da parte di un generale che quella guerra è assolutamente certo di vincere: «Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough. There are some short-term challenges, to say the least. The short-term challenges in our view relate mostly to the financial fragmentation that has taken place in the euro area. Investors retreated within their national boundaries. The interbank market is not functioning. It is only functioning very little within each country by the way, but it is certainly not functioning across countries. And I think the key strategy point here is that if we want to get out of this crisis, we have to repair this financial fragmentation13».
Il 2014, lo abbiamo anticipato nel primo paragrafo, è invece un anno ambiguo: eccita la sensazione nelle opinioni degli analisti che il primo semestre abbia finalmente acceso la partenza della crescita ma sconta, nel secondo semestre, una flessione delle aspettative accese. Nel 2015, si ottiene una ulteriore svolta, nella platea degli osservatori internazionali, che ritorna sulla possibilità della crescita in Europa. Essendo già maturato il processo espansivo negli Stati Uniti già nel 2014. Mario Draghi scandisce tre ipotesi di lavoro in una successione molto stretta di tempo. Ancora una volta abbiamo una serie di ipotesi, la praticabilità delle quali, assume forme che appaiono dalla incertezza iniziale della mancata crescita nel secondo semestre del 2014. Sono ipotesi che offrono alcuni strumenti per valutare il rischio della mancata crescita e, di conseguenza, in forma stocastica e probabilistica, offrono informazioni agli attori dell’economia ed alle istituzioni14.
Questi temi si possono ricondurre a tre fattispecie: le dinamiche di una politica monetaria che agisce in condizioni di incertezza e che, comunque, genera effetti collaterali; la presenza contemporanea di shock che generano disoccupazione o andamenti divergenti nei mercati nazionali e la modalità con le quali si possano creare processi di riforma, che supportino la natura strutturale delle economie e la irrobustiscano in termini di produttività e capacità di competere; la valutazione degli effetti di interazione tra una politica monetaria, che agisce in condizioni di incertezza e che agisce sulla domanda di moneta riducendo i tassi di interesse, ed una politica di riforme strutturali del sistema, che agisce dal lato dell’offerta aggregata, se e quando quella offerta aggregata si manifesta tempestivamente rispetto agli spostamenti della domanda aggregata13.



4. Una breve parentesi: la trappola della liquidità; l’economia neoistituzionale;
la politica delle “Riforme”.


Nei paragrafi precedenti abbiamo individuato una serie di strumenti e di processi che hanno accompagnato la politica monetaria, non convenzionale, che Mario Draghi ha adottato a partire dal suo annuncio del 2012: «Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough». Da quel momento si entra in una dimensione che non può più essere considerata una mera riproposizione della trappola della liquidità, così come la descrive l’economia keyensiana16. La descrizione tradizionale di questa espressione deriva dalla formulazione che Hicks realizzò, nel recensire la teoria generale di Keynes: la costruzione del modello IS ed LM.
Il modello esprime due insiemi di punti, due luoghi geometrici, nei quali vengono espressi il valore del reddito nazionale e quello dell’interesse sui titoli. La curva IS rappresenta l’insieme dei punti (livello del reddito e livello del tasso di interesse) per i quali sono in equilibrio i flussi di risparmio e di investimento; nella curva LM si rappresenta l’insieme dei punti (livello del reddito e livello del tasso di interesse) per i quali sono in equilibrio la domanda di moneta e la offerta della stessa.
La trappola della liquidità si ottiene quando diventa orizzontale e prossimo allo zero il tasso di interesse ed in quella parte del grafico, fino a quando non si sposta abbastanza verso sinistra la curva IS, non esiste alcuna possibilità di utilizzare la domanda di moneta come leva per spostare positivamente il livello del reddito.
Questa interpretazione, statica, della trappola della liquidità viene riformulata nella macroeconomia neokeynesiana con alcune variazioni ed integrazioni.
Eggertsson, un economista della Federal Reserve, e Krugman, (Princeton), tra gli altri, hanno proposto alcune nuove ipotesi, che includono aspettative ed inflazione nello studio della trappola della liquidità. Ipotesi che rendono anche dinamica e non statica l’analisi di questa circostanza: tassi di interesse prossimi allo zero, ampia liquidità ma anche una probabilità di shock improvvisi relativi all’interazione tra la dimensione macroeconomica del fenomeno e le perturbazioni che possono interferire con lo stesso da parte dei mercati finanziari17.
Larga parte di questa interpretazione neokeynesiana appare nelle fonti bibliografiche dei discorsi e delle conferenze di Mario Draghi sulla politica monetaria non convenzionale, e si collega al tema delle “riforme”, considerate come gli effetti relativi ad un miglioramento della relazione tra mercati ed istituzioni, che consentano di aumentare la produttività, allargare lo spettro delle tecnologie innovative grazie a processi di catching-up (rincorse tecnologiche che costano meno di quanto abbiano pagato in passato le economie avanzate rispetto a quelle emergenti che le acquistano oggi)18; modificare comportamenti ed atteggiamenti verso lo scambio, l’impresa, i mercati del lavoro e le organizzazioni private che operano come gerarchie.
Nelle tre ultime conferenze, tenute nel secondo trimestre del 2015, Mario Draghi propone con forza questa contaminazione tra trasformazioni nei comportamenti di mercato e nelle relazioni con le istituzioni, e le loro relative gerarchie, per spostare rapidamente la curva dell’offerta aggregata piuttosto che aspettare tempi migliori per la ripresa della crescita. In effetti questa prospettiva delle “riforme” non solo come leggi e norme proposte dalle istituzioni ma come una operazione congiunta, nella quale possano convivere i dati normativi e quelli comportamentali – la legge e la comunità, il mercato e le organizzazioni, pubbliche o private che siano – esprime una sorta di attenzione all’economia neoistituzionale di Coase e Williamson19.
E questa cerniera, cioè le “riforme” come supporto dell’offerta aggregata e della crescita, si presta ad essere un raccordo complementare tra domanda ed offerta aggregata. Un raccordo nel quale le riforme possono essere anche la chiave di volta di un collegamento, nel breve periodo, di un aumento dell’offerta aggregata ma anche di un parallelo aumento della domanda effettiva aggregata: una relazione che potrebbe spingere oggi verso la crescita dell’area europea.
Le “riforme” strutturali, che aumentano la concorrenza nei mercati dei beni e del lavoro sono indicate spesso come la principale opzione politica disponibile per i paesi dell’Unione “periferici” che vogliano recuperare competitività e incrementare la produzione. Ma, dopo una crisi che induce la politica monetaria a spingere il tasso di interesse nominale al suo limite più basso, queste riforme non supportano l’attività economica nel breve periodo, e potrebbero addirittura generare un crisi recessiva dell’economia. Nel senso che, essendo assente un appropriato stimolo monetario in questo caso, le riforme alimentano aspettative di una prolungata deflazione, incrementano il tasso di interesse reale, e deprimono la domanda aggregata.
Le “riforme” e la fiscalità, in questa ottica, dovrebbero essere la spinta, dal lato dell’offerta, attivata dai singoli Stati nazionali, che in questo modo potrebbero rinnovare radicalmente le condizioni delle proprie economie. Come è accaduto dal 2000 ad oggi per i paesi PECO che, grazie ad una fiscalità leggera ed ad una forte spinta sull’offerta aggregata interna, hanno potuto ottenere un processo di convergenza molto accentuato rispetto a quello dei paesi dell’area euro.
Ritornando alla macroeconomia, dalla quale avevamo preso spunto per inserire nello schema IS ed LM una dimensione dinamica e stocastica, secondo le ipotesi di Eggertsson e Krugman, si può completare ulteriormente questo approccio triangolare (trappola della liquidità, riforme ed equilibri, temporanei e causali, tra domanda ed offerta aggregata) come un completamento dello schema IS ed LM con quello della domanda e dell’offerta Aggregata20.



5. Il pamphlet di Paolo Savona: un giudizio sull’ennesima occasione perduta della politica economica in Italia.

Se Mario Draghi ha orientato il proprio comportamento ad un coordinamento interno all’Unione Europea sul piano della sua macroeconomia complessiva, Paolo Savona ha sviluppato, negli ultimi anni, una critica radicale alle politiche economiche che l’Italia ha impiegato essa stessa per uscire dalla crisi del 2009 senza subire danni ulteriori.
Questa critica si è sviluppata sulla base di una notevole produzione di volumi e di scritti sulla stampa economica specializzata. Un riepilogo denso e molto puntuale si può trovare nel suo ultimo volume21.
Ci sono almeno tre percorsi nell’impianto del libro: l’analisi dei processi che hanno dato forma alla storia economica ed istituzionale dell’Unione Europea, così come oggi si è venuta configurando, seppure ancora in termini parziali e da integrare ulteriormente; la valutazione della politica economica italiana degli ultimi tre Governi (Monti, Letta e Renzi), negli effetti che quella politica ha trasmesso all’economia italiana e nelle relazioni che ha condiviso con la politica economica dell’area euro, relazioni che si articolano tra il nostro Governo nazionale ed il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo ma anche con la Commissione Economica Europea, alla presidenza della quale è stato per un semestre il presidente Renzi; la descrizione delle opzioni alternative a quelle che sono maturate, e la individuazione delle inefficienze che sono emerse, nelle strategie dei principali attori che hanno governato questo ciclo di politica economica (Juncker, Draghi, Visco, Padoan, Governi italiani e Banca d’Italia). I tre percorsi non coincidono con i capitoli del volume: essendo intersecati tra loro e tornando, di volta in volta, rispetto ai capitoli stessi, a collegare la relazione tra attori, ipotesi strategiche e risultati di questo lungo ciclo della politica economica italiana. Ovviamente, anche se in modo rapido e sintetico, emergono le analogie ed i problemi insoluti che si ritrovano negli anni precedenti al 2011.
Sappiamo che il declino italiano si afferma proprio nella crisi del 1992; quando la svalutazione della moneta si mostrò notevole e la stretta sui vincoli di bilancio interno dovette affrontare una imponente manovra recessiva di bilancio. Ciampi ed Amato governarono questi due processi. Il decennio venne orientato alla introduzione dell’Italia come uno dei paesi che avrebbe potuto accedere, tra il primo gruppo che vi accedeva, all’ingresso della stagione dell’euro nel terzo millennio. Conseguito l’ingresso nella moneta unica l’Italia non ebbe la capacità o la possibilità di utilizzarne tutte le opportunità, comunque trascurò la realizzazione di “riforme” che avrebbero fatto aumentare una produttività declinante dalla crisi precedente degli anni Settanta. La Germania, al contrario, sviluppò un marcato intervento di “riforme” che le dettero stabilità finanziaria ed una forte ripresa della produttività totale dei fattori economici, e di conseguenza una nuova dimensione competitiva rispetto alle altre Nazioni.
La crisi del 2009 ha svelato la forza della Germania e la debolezza dei paesi dell’Europa latina, in particolare dell’Italia che, pur essendo la seconda economia manifatturiera dell’Europa, aveva accumulato una elevata varianza tra la produttività sia tra le industrie che nelle varie branche della economia pubblica e privata. Il paradosso si manifestava nella dimensione del cambio tra euro e dollaro. Il paese forte nella capacità di produrre e vendere, che avrebbe dovuto aumentare la forza della propria moneta, aveva un cambio medio con il dollaro che era inferiore al cambio virtuale che il paese forte avrebbe dovuto subire dal mercato. Il contrario avveniva con l’Italia, dove il cambio dell’euro, troppo forte verso il dollaro per la capacità di competere dell’Italia, ne comprimeva le opportunità di crescere.
La divergenza, nell’area dell’euro e tra l’area dell’euro e quella dei PECO, generava un vantaggio per i rischi ed uno svantaggio per i paesi incapaci di crescere. La incapacità derivava da due circostanze per i paesi più “poveri”: aver trascurato le “riforme” che avrebbero dovuto trasformare gli attriti che comprimevano la produttività e dunque la competizione nazionale ed internazionale; subire una penalizzazione nel cambio tra euro e dollaro non essendo la moneta unica adatta ad una optimal currency area (OCA) proprio perché quelle mancate riforme generavano varianze eccessive nelle grandezze economiche comparabili e divergenze tra i paesi europei. Nell’area euro questa contraddizione si leggeva tra Germania ad area baltica verso i paesi latini; nell’Unione Europea le nazioni che utilizzavano l’euro, ma non ne scontavano la politica monetaria e fiscale e, nel medesimo tempo utilizzavano il mercato unico, convergevano verso l’area euro e si proiettavano in una crescita accelerata.
Ma veniamo, ora, ai contenuti del J’accuse di Savona.
Le modalità della sua accusa sono determinate, dure ed in alcune parti molto aggressive. Ma questa aggressività appare giustificata da una circostanza storica: Savona ha partecipato alla lunga storia economica dell’Italia che, dal miracolo economico, ci ha condotto all’area dell’euro. Ed ha partecipato con impegno, passione ed anche una buona dose di responsabilità, in una serie di ruoli che lo hanno portato nel cuore della classe dirigente.
Constatare che, a partire dal dopo crisi, ancora una volta la soluzione dei problemi da affrontare fosse stata tralasciata e si sia tracciata una strategia di politica economica, che non ha affatto risolto i problemi aperti nel paese, e nei rapporti con i paesi europei e la complessa governance dell’Unione Europea, non è certamente una circostanza gradevole e da accettare.
Savona enuncia i punti più critici degli obiettivi che sono stati indicati come strategici per la crescita nell’insieme dei tre Governi (Monti, Letta e Renzi) che si sono succeduti dopo il 2011: la redistribuzione del valore prodotto rispetto alla produzione stessa dei valori economici; la mancata gestione di medio e lungo periodo della dimensione del debito pubblico; aver trascurato gli strumenti per l’innovazione tecnologica, l’aumento della produttività totale dei fattori, la dimensione della ricerca e dello sviluppo della conoscenza; l’aumento della pressione fiscale per ridurre il debito, che si traduce nell’inseguire una spesa pubblica corrente e non realizzare investimenti per infrastrutture materiali ed intangibili; generare stagnazione e, di conseguenza disoccupazione per la caduta della domanda effettiva e della capacità di produzione. Ma quest’ultima circostanza è piuttosto l’altra faccia della medaglia, e dunque la conseguenza, del penultimo obiettivo che abbiamo indicato.
Dovendo esprimere una graduatoria tra i tre capi di Governo che hanno guidato l’Italia negli ultimi anni, Savona giudica impropria la strategia di Monti mentre vede come fragili ed instabili, quindi forse anche effimere, le strategie di Letta e di Renzi.
Ma Savona giudica anche alcune questioni che hanno una storia più lunga di questa terna di Governi. E le propone nel suo pamphlet: perché l’euro è stato ed è ancora un problema? Perché i Governi italiani non hanno adeguatamente sviluppato la propria partecipazione alla costruzione europea ed ai suoi sviluppi?; perché, insomma, la classe dirigente italiana non si sia impegnata per modificare le assunzioni che sono oggi riepilogate nel Trattato di Lisbona?; perché non sia possibile aderire ad un progetto di riscatto per il Mezzogiorno che si possa ricondurre, mutatis mutandis, all’esperienza congiunta della Banca Mondiale, guidata da Eugene Robert Black, della Cassa per il Mezzogiorno, con la partecipazione attiva di Donato Menichella, allora governatore della Banca d’Italia, alle strategie di Black?; infine, ma non è ultima per importanza, perché si debba porre al centro la questione dei diritti di cittadinanza, cioè la redistribuzione del reddito, invece che la creazione del valore, la crescita? Mentre proprio dalla crescita economica si possono, e si devono, ridistribuire i valori necessari per agire in condizione di eguaglianza e di equità nel rispetto della popolazione delle Nazioni22.
Leggere il Pamphlet di Savona è una esperienza che merita. Sia per l’essenzialità che per la minuziosa esposizione dei contenuti, oltre che per la forza con cui si esprimono le opinioni.
Ma ci fermiamo a questa dimensione del problema per trovare una ulteriore questione nel prossimo ed ultimo paragrafo.



6. Terre incognite? Una ipotesi che non è una conclusione

Paolo Savona guarda e critica gli sbagli e le approssimazioni dell’economia italiana e dei suoi attori dominanti, e gioca di rimando proprio sugli attori che non hanno, a suo giudizio, trovato un impianto adeguato o sostenibile nelle proprie scelte.
Mario Draghi si aggira in “terre incognite”23, l’Unione Europea ed i rapporti con gli Stati nazionali, come in questo caso la Grecia, ed il mercato globale e le sue grandi istituzioni, come il Fondo Monetario Internazionale. Nel medesimo tempo, tuttavia, Mario Draghi sperimenta sia una dimensione pratica del proprio compito nella BCE ma anche le opportunità che la ricerca scientifica gli offre grazie agli sviluppi della teoria economica.
Nelle ultime pagine del suo pamphlet Savona indirizza una delle cinque lettere alla classe dirigente a Mario Draghi ma aggiunge una sorta di Post Scriptum nelle ultime pagine del volume: un addendum sul modello economico di riferimento scelto da Mario Draghi. Il tema in questione è proprio il discorso che a Sintra Draghi ha tenuto il 22 maggio 2015 e che abbiamo discusso nelle pagine precedenti, a proposito della natura singolare delle “riforme” che sono in discussione piuttosto come strumenti di cambiamento sociale ed economico. Non solo come strumenti normativi che possano ma debbano incidere sulle strutture istituzionali. Le ultime pagine di questo testo, dunque, non possono essere una conclusione perché almeno un punto di riferimento condivisibile da Savona e Draghi esiste: entrambi sono consapevoli di viaggiare in “Terre incognite”: nello spazio dell’economia italiana e dei suoi molti problemi, Savona, ed in quello della ricomposizione dell’Unione Europea e soprattutto della strada che occorre per dare un maggiore slancio alla sua capacità istituzionale ed economica. Come ha detto Mario Draghi nelle sue conclusioni al Parlamento Europeo: «I will not be able to tell you more than what I have already said repeatedly: That we will need to put our institutional framework on a much stronger footing; that we need, as I just said, a quantum leap. I am now looking forward to our discussion».
I temi di cui discutere sono sostanzialmente tre: i contenuti e le conseguenze delle “riforme”; gli sviluppi di una prospettiva economica keynesiana nelle dimensioni attuali del mondo contemporaneo; le soluzioni per riportare l’economia italiana ad essere la seconda industria manifatturiera dell’Unione Europea ma ad essere anche un partner politico di primo piano nello sviluppo futuro della medesima Unione. Partiamo dalle “riforme”.
L’analisi economica studia l’efficacia delle riforme strutturali attraverso un modello, keynesiano, di economia aperta con due settori (tradable and non–tradable) e due paesi che formano un’unione monetaria. I due paesi si differenziano solo rispetto alle dimensioni che le barriere politiche concedono al potere di monopolio per imprese e sindacati. I due paesi, o un multiplo di essi, si definiscono come periferia e nucleo principale dell’unione che li accoglie. Gli effetti di lungo periodo, in questo contesto analitico, delle riforme strutturali sono positivi. Una riduzione permanente delle revisioni dei prodotti e del mercato del lavoro aumenta il livello di uscita, in quella regione, con ricadute positive per il paese principale. Questi dati suggeriscono che le riforme ambiziose attuate in paesi dell’UEM periferici potrebbero ridurre notevolmente il divario di reddito e di competitività tra centro e periferia. Nonostante questi vantaggi di lungo periodo il meccanismo di trasmissione di breve periodo di tali riforme dipende dalla capacità della banca centrale.
In tempi normali le riforme aumentano il reddito permanente degli agenti e stimola i consumi. La banca centrale taglia il tasso di interesse nominale e l’unione monetaria sperimenta una crescita vigorosa. Questi effetti sono completamente rovesciati in tempi di crisi. Quando il tasso di interesse nominale della banca centrale si riduce quasi a zero, le riforme sono depressive, la deflazione diventa recessione prolungata, aumenta il tasso di interesse reale e si deprimono i consumi. Dopo e nella crisi le aspettative si deprimono; nella crescita si gonfiano: entrambe oltre una misura razionale. Una dimensione analitica che racchiuda tre variabili, come abbiamo già detto prima nel testo, e cioè la trappola della liquidità, le aspettative e la introduzione di una variabilità delle aspettative secondo i contesti nelle quali esse maturano, integra lo schema IS / LM in quello della domanda e dell’offerta aggregata. In questo modo le “riforme” che in un momento di crisi vengono rimandate al lungo periodo possono, in presenza di una domanda effettiva aggregata, manifestare miglioramenti verso la crescita anche in seguito ad una crisi ed alla recessione che ne consegue. La variabile decisiva dunque si impone come la capacità delle politiche di orientare comunque le aspettative verso il successo delle “riforme” se si vuole che si realizzi la crescita e dunque quel successo.
Ne segue che il Foreward Guidance, che la BCE utilizza, può, ma non deve, necessariamente, essere utile per il governo atteso della crescita. Ma certamente migliora le condizioni di contesto che costruisce: a cavallo tra la retorica e la scoperta, tra la spinta alla convinzione e quella alla consapevolezza delle conoscenze.
Anche se la politica monetaria non convenzionale di Draghi deve arrestarsi ad un certo punto di fronte alla prossimità allo zero dei tassi di interesse. È qui che si ripropone la spinta fiscale – cioè di una spesa della Commissione non solo pubblica ma con un effetto di leva da parte dei mercati finanziari – che nelle prospettive dell’Unione Europea dovrebbe sviluppare il piano Junker come effetto di un importante aumento della domanda aggregata, consentendo anche un crowding in nelle politiche fiscali degli Stati nazionali per le famiglie e le imprese, se venissero ridotte sia la spesa corrente che gli eccessi di pressione fiscale.
Secondo Savona, nel Post Scriptum dedicato a Draghi nelle ultime pagine del volume, ci troviamo in una situazione analoga a quella che Kregel descriveva, nelle pagine precedenti, illustrando i limiti dell’euro. E quindi «l’analisi di Draghi poggia su (due) assunti: 1. che non esista dualismo nell’euroarea, ossia che essa sia almeno un area potenzialmente ottimale, le cui politiche macroeconomiche indistinte sono in condizione di far convergere i tassi di crescita della produttività; 2. Che il modello di sviluppo verso cui l’euroarea deve tendere è di tipo export led. Questi sono i due presupposti sui quali è basata l’intera costruzione europea».
Ma, sempre nell’analisi di Savona, se fossimo in grado di cambiare l’architettura istituzionale europea definendo che l’euroarea non sia un area ottimale e che la crescita debba essere creata attraverso i consumi interni, la costruzione logica di Draghi dovrebbe cambiare. «La BCE – scrive Savona – dovrebbe chiedere alla Commissione Europea di avere un deficit fiscale emettendo obbligazioni europee sul mercato globale oppure essa stessa finanziare il piano Juncker, avendone già i poteri per farlo. Stretta in questo circolo vizioso di tipo istituzionale, l’euroarea non solo è costretta in prospettiva a una bassa crescita ed elevata disoccupazione, che sottrae efficacia alla credibilità delle riforme, ma presenta nell’immediato crescenti eccessi di risparmio inutilizzato all’interno. Le politiche che segue e raccomanda aggravano queste condizioni e la lieve ripresa che ottiene attraverso il combinato effetto sulla domanda estera (la gran parte) e della domanda interna (molto meno) non affrontano il problema del reddito e dell’occupazione. Nel frattempo Stati Uniti e Regno Unito crescono quasi del doppio rispetto all’euroarea ed hanno ricondotto la loro disoccupazione a livelli di quasi pieno impiego sconfiggendo la domanda interna e finanziandola attingendo risparmio dal resto del mondo; essi non puntano a maggiori esportazioni, anzi hanno accettato gli effetti deflazionistici delle rivalutazioni del dollaro».
La contrapposizione che Savona mette in evidenza dipende dalla opzione di una scelta orientata ad una bilancia corrente dei pagamenti in avanzo, grazie alla svalutazione dell’euro sul dollaro, contro una bilancia dei pagamenti che attinga capitali, come fece la Banca Mondiale negli anni Cinquanta, guidata da Black, per finanziare la crescita del Mezzogiorno in Italia. Mentre Menichella convertiva i dollari, derivanti dalle esportazioni italiane che davano luogo al miracolo economico in fieri, in lire, che venivano utilizzate per i pagamenti delle spese per la Cassa del Mezzogiorno. Incrementando anche la domanda interna.
I tre temi, dai quali siamo partiti all’inizio di questo paragrafo, sono assolutamente incomprimibili nella sua dimensione e non si concludono neanche nella dimensione dell’intero articolo.
Così come sembra difficile trovare una soluzione dominante ed unica, adeguata all’analisi di Savona oppure a quella di Draghi.
Credo di poterci fermare davanti alla scoperta delle prossime e vicine “terre incognite” che ci riserveranno i prossimi mesi.
In fondo, e per ora, questa è solo una cronaca.














NOTE

1 Scrive Paul Krugman, su «Il Sole 24 ore» del 2 agosto 2015: «Quello che è successo nel cammino verso l’euro è che le élites europee, innamorate del simbolismo di una moneta unica, non hanno voluto vedere gli avvertimenti che la moneta europea – a differenza dell’abolizione delle barriere commerciali – era come minimo ambigua, per non dire una pessima idea. Una argomentazione alternativa che sta venendo dalle economie depresse d’Europa come quella finlandese, è che i presunti grandi vantaggi di un’integrazione economica sono maggiori dei costi di inflessibilità di breve termine»; e poi conclude «Come ho detto, forse di argomentazioni valide che provino che l’euro non è stato un errore ce ne sono. Ma dire che bisogna tenere conto della politica e che le economie crescono non basta: non sono quelli i fattori che andrebbero cercati». Questa presa di distanza di un grande economista americano preannuncia una ulteriore questione, che affronteremo nel corso di questo articolo: la circostanza che il problema della crescita mondiale sia inficiata dal tentativo che l’Europa possa cedere ad accordi con la Russia e che questi accordi siano ostacolati dagli Stati Uniti. La diffidenza, sui temi della moneta come su quelli delle alleanze strategiche, rappresenta insomma una forte deterrenza nei confronti della fiducia tra gli Stati nazionali: sia nell’ambito dell’Unione Europea che in quello più generale della scena mondiale del mercato globale.^
2 Un interessante e documentato articolo pubblicato sul Bollettino Economico della BCE, numero 5 del 2015, presenta un’analisi della convergenza e della divergenze tra l’economia degli Stati che partecipano all’Unione Europea dal 2000 ad oggi. Si veda: La convergenza reale nell’area dell’euro: riscontri, teoria e implicazioni sul piano delle politiche, in «Bollettino economico BCE», numero 5 / 2015, pp. 34-50.
Si può leggere in lingua italiana at https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/bollettinoeco-
bce/2015/bol-eco-5-2015/bolleco-bce-05-15.pdf.^
3 Si vedano i paper, anticipati dalla Svimez a luglio del 2015, per quanto riguarda la divergenza tra Unione Europea, Italia e Mezzogiorno: Conferenza stampa di anticipazione del Rapporto SVIMEZ 2015. Roma, Intervento di Riccardo Padovani, Direttore della SVIMEZ, 30 luglio 2015; Anticipazioni sui principali andamenti economici dal Rapporto SVIMEZ 2015 sull’economia del Mezzogiorno, il Mulino, Conferenza stampa; SVIMEZ, Sud alla deriva- Paese sempre più diviso e diseguale, SVIMEZ 2015.^
4 I testi di Mario Draghi sono reperibili nel sito web della BCE.
Si tratta di tre interventi: Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, alla Camera dei Deputati, Roma, 26 marzo 2015; Le recenti misure di politica monetaria della BCE: efficacia e sfide, Camdessus Lecture di Mario Draghi, Presidente della BCE, FMI, Washington D.C., 14 maggio 2015; Riforme strutturali, inflazione e politica monetaria, Intervento introduttivo di Mario Draghi, Presidente della BCE, in occasione dell’ECB Forum on Central Banking, Sintra, 22 maggio 2015. I testi si possono scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/speaker/pres/html/index.en.html^
5 Il 18 marzo 2015 viene inaugurata la nuova sede della BCE, a Francoforte. Mario Draghi sviluppa un breve discorso che ripercorrerà nella camera dei Deputati in Italia il 26 marzo 2015. Nella sintesi iniziale del testo si legge un passaggio importante dei modi in cui cerca di definire una prospettiva strategica, adeguata ai problemi ed alle sfide che stiamo affrontando: «La risposta non sta nell’invertire il processo di integrazione e neppure nel prospettare esiti irraggiungibili per questo processo. Abbiamo bisogno di ambizione nei fini e pragmatismo nei mezzi. Dobbiamo coniugare l’economia dell’integrazione, incentrata sull’efficienza, con la politica dell’integrazione, che si fonda sull’equità. Il programma delle riforme deve dedicare a istruzione e formazione lo stesso spazio che riserva all’aumento della flessibilità dei mercati e alla riduzione della burocrazia».
Il corsivo è di chi scrive. Il testo completo, Intervento per l’inaugurazione della nuova sede della BCE, Mario Draghi, Presidente della BCE, Francoforte sul Meno, 18 marzo 2015, si può leggere at http://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp150318.it.html.^
6 Si veda G. Tabellini, Il trilemma dell’Europa e la scelta delle priorità, in «Il Sole 24 Ore», 2 agosto 2015. «Quali lezioni trarre dalla crisi finanziaria che ha travolto l’area euro? Qualunque dibattito su come rinforzare le fondamenta della moneta unica deve partire da questa domanda» – scrive Tabellini – La lezione più importante l’ha indicata il nuovo capo-economista del Fondo monetario internazionale, Maurice Obstfeld. L’area euro si trova di fronte a un trilemma: non può avere sia piena integrazione finanziaria che stabilità finanziaria e politiche fiscali indipendenti. Deve scegliere a quale delle tre rinunciare. L’integrazione finanziaria espone i paesi più deboli al rischio di un arresto improvviso, cioè dell’improvvisa interruzione dei flussi finanziari internazionali. È quanto è successo nell’area euro durante la crisi. Questo rischio può essere ridotto da misure preventive di sorveglianza ed evitando l’accumularsi di situazioni insostenibili, ma non può essere eliminato, soprattutto durante crisi finanziarie sistemiche». E conclude che «Per mantenere l’integrazione finanziaria ed evitare crisi future, l’area euro deve disporre di risorse fiscali comuni con cui affrontare crisi bancarie sistemiche e crisi di fiducia sul debito sovrano. La nascita dell’Esm e la centralizzazione della supervisione bancaria sono passi nella giusta direzione, ma non sono sufficienti. L’unione bancaria non sarà realizzata fino a che non avremo un sistema europeo di assicurazione dei depositi e risorse comuni adeguate per la ricapitalizzazione delle banche. Inoltre l’Esm non ha risorse sufficienti per affrontare crisi del debito sovrano e il suo operato è soggetto ai veti nazionali». Il testo si può leggere at http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-08-02/il-trilemma-europae-scelta-priorita-140607.shtml?uuid=ACGmdkb^
7 Si veda, in proposito: M. Lo Cicero, Italia: una porta tra Mediterraneo ed Europa, in Rapporto sulle economie del mediterraneo (a cura di E. Ferragina e P. Malanima), Il Mulino, Bologna, 2014 ed anche Idem, La “Virgola di Ponente”. Sistemi industriali ed aree vaste territoriali: una ipotesi per superare dualismi e microregionalismi, in «Rivista Economica del Mezzogiorno», 28 (2014), pp. 881-922.^
8 L. Zingales, I tempi della finanza, i tempi della democrazia, in «Il Sole 24 ore», 28 febbraio 2015, che si può scaricare at http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-06 -28/itempi-finanza-tempi-democrazia-081428.shtml?uuid=ACBLCNI ed A.Q. Curzio, L’Unione che manca e i passi mai fatti, in «Il Sole 24 Ore», 28 giugno 2015 che si può scaricare at http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-06-28/l-unione-che-manca-e-passimai-fatti-094759.shtml?uuid=ACKpyNI^
9 Si tratta di un documento dal titolo Towards a genuine economic and monetary union, Consiglio di Europa, Dicembre 2012 che si può scaricare at http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/ec/134069.pdf^
10 In questo caso il rapporto in questione sarebbe Completare L’Unione economica e monetaria dell’Europa, relazione di: Jean-Claude Juncker in stretta collaborazione con Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz, Commissione Europea, 2015. Che si può scaricare at http://ec.europa.eu/priorities/economic-monetary-union/docs/5 presidentsreport_it.pdf^
11 Si veda Continuity, consistency and credibility, Introductory remarks by Mario Draghi, President of the ECB, at the 21st Frankfurt European Banking Congress “The Big Shift”, Frankfurt am Main, 18 November 2011, che si può scaricare at https:// www.ecb.europa.eu/press/key/date/2011/html/sp111118.en.html^
12 Draghi propone un discorso molto asciutto che intende solo dare una idea dei problemi insorti nel 2010 e nel 2011, relativi alla sovrapposizione della crisi dei titoli del debito sovrano e delle banche ma, subito dopo, Draghi descrive anche la sfida alla quale andrà incontro l’Unione Europea. Si tratta di un Hearing before the Plenary of the European Parliament on the occasion of the adoption of the Resolution on the ECB’s 2010 Annual Report, Introductory statement by Mario Draghi, President of the ECB, Brussels, 1 December 2011. Il testo complete si può leggere at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2011/html/sp111201.en.html^
13 In questo caso si tratta di un discorso di Mario Draghi, che viene pronunciato come Verbatim of the remarks made by Mario Draghi, Speech by Mario Draghi, President of the European Central Bank at the Global Investment Conference in London, 26 July 2012. Il testo completo si può leggere at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2012/html/sp120726.en.html^
14 Come abbiamo scritto nella nota 4 di questo articolo, questi tre testi di Mario Draghi sono reperibili nel sito web della BCE. Alla radice di queste conclusioni ci sono certamente un crescendo di ricerche che, progressivamente, sono state presentate da Draghi negli anni compresi tra il 2011 ed il 2015. In particolare si possono consultare questi argomenti in alcuni articoli pubblicati su «L’Acropoli»: M. Lo Cicero, Il nodo europeo: crescita e sovranità. Una prospettiva neoistituzionale, oltre la dicotomia tra Stato e Mercato, 15 (2014) pp. 403 sgg., at http://www.lacropoli.eu/articolo.php?nid=1022#.VcSAqfntmko; Idem, Economia globale instabile & riordino dei sistemi bancari in Europa: Scilla e Cariddi?, 15 (2014) p. 136 at http://www.lacropoli.eu/articolo.php?nid=992#.VcSBqfntmko; Id., Mario Draghi ed una “Unione più perfetta”. Una prospettiva americana in Europa?, 15 (2014) p.7 at http://www.lacropoli.eu/articolo.php?nid=980#.Vd7H3fntmko Idem, Draghi & Fischer: accademia e management. La macroeconomia micro fondata. Politica monetaria e politica fiscale, 16 (2015), - p. 7 at http://www.lacropoli.eu/articolo.php?nid=1041#.Vd7Hpfntmko^
15 Mario Draghi, sui temi della politica monetaria e dell’inflazione in condizioni di incertezza, conclude la sua relazione a Sintra in Portogallo, la terza tappa rispetto all’audizione al Parlamento Italiano, si ricordi la nota 4 di questo testo, in questi termini: «In un contesto di una complessità senza precedenti, la BCE ha adottato una serie di misure non convenzionali volte a evitare un periodo troppo prolungato di bassa inflazione e assolvere al proprio mandato. Tali misure si sono finora dimostrate molto valide, più di quanto anticipato da molti osservatori. La loro grande efficacia è tuttavia dovuta anche al fatto che hanno interagito con altre politiche grazie alle quali l’economia e il settore finanziario sono divenuti meglio in grado di rispondere ai nostri impulsi monetari. Tra queste figurano la valutazione approfondita delle banche dell’area dell’euro e le riforme strutturali nei casi in cui sono state attuate. Alla stessa stregua, riforme strutturali che accrescono la fiducia nelle prospettive economiche e incoraggiano gli imprenditori a sfruttare le attuali condizioni finanziarie estremamente accomodanti renderanno la nostra politica in proporzione più efficace. I responsabili delle politiche nell’area dell’euro sono indipendenti, ma gli effetti delle politiche da essi attuate sono interdipendenti. Per questo, alla fine, solo una combinazione di politiche complementari e reciprocamente coerenti permetterà alla nostra politica di esplicare appieno i propri effetti e determinare un ritorno duraturo a condizioni di prosperità e stabilità nell’intera area dell’euro». Come si nota chiaramente la relazione tra macroeconomia e finanza, in questa conclusione, genera una innovazione significativa rispetto alle indicazioni tradizionali sulla politica monetaria. Così come la politica delle riforme si affianca ad una percezione dell’offerta aggregata come stimolo necessario, ma difficile da realizzare, di fronte alle aspettative depresse di imprese e famiglie dopo una stagione deflattiva, e senza la possibilità di attivare comunque, di fronte alla’offerta aggregata una domanda effettiva capace di attivare finalmente il processo di crescita. In questo caso le riforme devono agire tempestivamente ed avere effetti altrettanto tempestivi e coerenti con le attese.^
16 Si vedano le due voci dell’Enciclopedia Treccani on line: sia Macroeconomia sia Liquidità. Che si possono leggere at http://www.treccani.it/enciclopedia/macroeconomia/ ed anche at http://www.treccani.it/enciclopedia/liquidita/^
17 Si vedano in particolare G. Eggertsson (NY Fed), P. Krugman (Princeton), Debt, Deleveraging, and the liquidity trap: A Fisher Minsky Kooapproach, slide, SF Fed, February 2011,The views expressed reflect the views of the authors and not the NY Fed or the Fed System; G.B. Eggertsson, liquidity trap, From The New Palgrave Dictionary of Economics, Second Edition, 2008, Edited by S.N. Durlauf and L.E. Blume; G.B. Eggertsson e P. Krugman, Debt, deleveraging and the liquidity trap:a Fisher-Minsk-Koo approach, in «The Quarterly Journal of Economics», (2012), 1469-1513.
I tre paper possono essere letti at http://www.frbsf.org/economic-research/files/eggertsson.pdf; at http://www.econ.brown.edu/fac/gauti_eggertsson/papers/EggertssonPalgrave.pdf; ed infine at http://www.econ.brown.edu/fac/Gauti_Eggertsson/papers/QJE.pdf^
18 Sul Cathcing Up (CU) si veda il Dizionario di Economia e Finanza della Treccani che lo definisce come «Termine usato nelle teorie di crescita economica per indicare l’ipotesi secondo cui i paesi più poveri mostrano tassi di crescita più alti dei paesi più ricchi, raggiungendo nel tempo il loro stesso livello di PIL pro capite. L’ipotesi di CU deriva dai modelli di crescita ispirati dal lavoro dell’economista Robert Solow alla fine degli anni 1950. In essi il livello di tecnologia determina la produttività di un paese, ovvero il grado in cui vengono sfruttati le risorse economiche di lavoro e il capitale (i paesi più poveri sono tali perché dispongono di tecnologie meno avanzate di quelle usate dai paesi più ricchi). Viene inoltre ipotizzato che l’uso della tecnologia abbia rendimenti di scala decrescenti e che la conoscenza tecnologica possieda le proprietà di un bene pubblico». Si può leggere at http://www.treccani.it/enciclopedia/catchingup_(Dizionario-di-Economia-e-Finanza)^
19 Esiste una letteratura interessante su questa ridefinizione, più economica ed istituzionale che non politica o normativa, della individuazione del contenuto delle “riforme” nell’Unione Europea. Si vedano in proposito R. Bouis, O. Causa, L. Demmou, R. Duval and A. Zdzienicka, The short-term effects of structural reforms: an empirical analysis economics department working papers, No.949, OECD, Economic Department, ECO/WKP(2012)26, 26-Mar-2012; G. Eggertsson, Brown University, A. Ferrero FRB New York, A. Raffo Federal Reserve Board, Can Structural Reforms Help Europe? May 24, 2013, Prepared for the 2013 Carnegie-NYURochester Conference on “Fiscal Policy in the Presence of Debt Crises.” Che si può leggere at http://www.econ.brown.edu/fac/Gauti_Eggertsson/papers/CR_April15.pdf^
20 Si veda, in particolare, nella letteratura recente, il volume di C. Imbriani ed A. Lopes, Macroeconomia, Mercati, Istituzioni Finanziarie e Politiche, Utet, Torino, 2013.^
21 Si veda P. Savona, J’accuse, Il dramma di un’ennesima occasione perduta, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015. Si vedano anche i due volumi che precedono quest’ultimo: Idem, Eresie, esorcismi e scelte giuste per uscire dalla crisi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012 ed Id. - G. Farese, Il banchiere del mondo. Eugene Robert Black e l’ascesa della cultura dello sviluppo in Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2014.^
22 Sulla questione dell’euro riportiamo uno stralcio dell’opinione di Jan Kregel che Savona offre come spiegazione alla sua domanda. «In termini semplici, poiché il governo non può creare euro ma solo generarli tassando il settore privato, esso deve raggiungere un surplus di bilancio sufficiente a coprire il servizio del debito e il suo ammortamento, se vuole garantire la sua credibilità di saper fare fronte a questo impegno. Questo surplus deve essere anche più elevato per raggiungere i limiti stipulati con il Patto di Stabilità e Crescita …. Le preoccupazioni della Banca Centrale Europea di blindare i deficit di bilancio pubblico sono perciò comprensibili se – nel rispettare la proibizione di prestare direttamente ai governi e permettere ai governi di rifinanziare che sono le condizioni di base per la sopravvivenza dell’eurozona – pone limiti precisi all’indebitamento ed ai deficit governativi. Tuttavia una siffatta poltica contiene effetti paradossali per i paesi che hanno un debito che supera i limiti stabiliti del pil. Un surplus di bilancio crescente può solo essere raggiunto attraverso una combinazione di crescita reale e di tassazione più elevate. La risposta ai problemi dell’eurozona si trova perciò in una maggiore capacità di crescita. Ma i paesi non possono produrre questa crescita con il deficit spending: essa dovrebbe provenire dalla domanda interna ed esterna. La riduzione della spesa pubblica o l’incremento delle tasse per generare il surplus fiscale richiesto può solo ridurre la domanda interna Ciò lascia il compito solo alla domanda esterna. Ma senza stimolare la competitività con l’estero con svalutazioni del cambio, occorre che queste vengano sostituite da una riduzione dei salari e un incremento della produttività, mentre sarebbero necessari incrementi salariali». Si veda J. Kregel, Economic Development and Financial Stability, Selected Essays, Anthem Press, London / New York, 2014. Ovviamente Savona ricorda anche che la deflazione salariale o l’aumento della produttività comprimono la domanda interna neutralizzando i benefici di una domanda estera più elevata. Un paradosso in atto nell’Italia contemporanea, grazie alla riduzione del cambio tra euro e dollaro, che purtroppo sconta ancora la dimensione della pressione fiscale aumentata negli ultimi tre anni, che sul piano reale si manifesta in una caduta della capacità produttiva e della occupazione, in particolare nell’area del mezzogiorno^
23
L’espressione “terre incognite” emerge nel dibattito, che si svolge tra Draghi e la Commissione Affari economici dell’Europarlamento, e diventa una ulteriore espressione collegata alla comunicazione metaforica di Draghi sulla stampa mondiale. Si vedano questi due ritagli di stampa at http://it.sputniknews.com/economia/20150616/570440.html ed at http://www.osservatoreromano.va/it/news/grexit-terra-sconosciuta. Ma si veda anche il testo presentato da Mario Draghi alla Commissione: Hearing at the European Parliament’s Economic and Monetary Affairs Committee, Introductory statement by Mario Draghi, President of the ECB, Brussels, 15 June 2015. Anche questo testo si può leggere at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp150615_1.en.html.
In particolare emerge nelle conclusioni che «It should be absolutely clear that the decision on whether to conclude the review of the current programme and disburse further financial support to Greece lies entirely with the Eurogroup, so ultimately with euro area Member States. Hence this is a political decision that will have to be taken by elected policymakers, not by central bankers. In the meantime, we will continue to provide our advice on the adjustment programmes. It is within this context, that we need a strong and comprehensive agreement with Greece, and we need this very soon. By strong and comprehensive I mean an agreement that produces growth, that has social fairness, but that is also fiscally sustainable, ensures competitiveness, and addresses the remaining sources of financial instability. I can assure you that the ECB is doing all it can to facilitate a successful outcome. Such a strong and credible agreement with Greece is needed, not only in the interest of Greece, but also of the euro area as a whole. While all actors will now need to go the extra mile, the ball lies squarely in the camp of the Greek government to take the necessary steps.
The situation in Greece reminds us again that the Economic and Monetary Union is an unfinished construction as long as we do not have all tools in place to ensure that all euro area members are economically, fiscally and financially sufficiently resilient. To complete the Economic and Monetary Union, we need a quantum leap towards a stronger, more efficient institutional architecture. As you know, my colleagues and I are currently working on a report that will aim at showing a roadmap for this. We are in the final stages of this process, and I hope you understand that also out of respect for my colleagues, I will not be able to tell you more than what I have already said repeatedly: That we will need to put our institutional framework on a much stronger footing; that we need, as I just said, a quantum leap. I am now looking forward to our discussion».^
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