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Nicola Chiaromonte: un umanista indipendente nel tempo della malafede
di Maurizio Griffo
La riflessione intellettuale di Nicola Chiaromonte (1905-1972) si sviluppa a partire dall’esperienza dei totalitarismi novecenteschi. Giovane esule antifascista a Parigi, negli anni Trenta del secolo scorso, Chiaromonte mette a fuoco analisi illuminanti del fascismo e della sua maniera di indirizzare e dirigere l’opinione, e di manipolare le masse sollecitandone gli istinti meno nobili. Non minore è la sua opposizione al comunismo sovietico, che lo porta dapprima ad allontanarsi dalla guerra di Spagna, dove aveva operato come mitragliere nella brigata aerea di Malraux, poi, durante la seconda guerra mondiale, a scegliere l’esilio americano perché non convinto dell’unità antifascista, comprensiva anche dell’URSS, che caratterizza la seconda fase del conflitto. Nel dopoguerra la militanza anticomunista di Chiaromonte rimane costante e semmai si intensifica. Molto attivo nella Associazione per la libertà della cultura dalla sua fondazione, dà vita, assieme ad Ignazio Silone, alla rivista “Tempo Presente” che per dodici anni (1956-1968) rappresenta una delle voci più interessanti del dibattito culturale dell’epoca. Su “Tempo Presente” non solo la discussione sul totalitarismo si articola sulla scorta del dibattito internazionale, ma gli autori del dissenso nei regimi sovietici e filosovietici dell’Europa centrale trovano uno spazio molto ampio.
Pure, nonostante la centralità della critica al totalitarismo, che affonda in un retroterra che prima ancora che culturale è anzitutto esistenziale, la politica non costituisce il nucleo principale della sua meditazione intellettuale. Semmai essa risulta progressivamente marginale rispetto ad una riconsiderazione critica degli aspetti costitutivi del mondo contemporaneo. In altri termini, per Chiaromonte se il totalitarismo è un fenomeno che marca una degenerazione inconciliabile con la pratica della democrazia liberale, nella sua dinamica interna esso costituisce una amplificazione estrema e parossistica di radici autoritarie e di logiche strumentali che sono proprie della cultura moderna e delle sue forme di organizzazione sociale.
Speculare e parallela alla svalutazione della dimensione politica è la diffidenza per la dimensione storica. La storia non è lo svolgimento di un disegno provvidenziale o finalistico, ma resta un succedersi di eventi non razionalizzabili in cui l’individualità umana rimane esposta al caso. Sotto questo profilo, anche la diffidenza verso quella che Chiaromonte chiama ironicamente la “storiosofia” origina dall’esperienza del mondo dopo la guerra del 1914-18, in cui non ci sono più stabili punti di riferimento, e dei decenni dell’entre deux guerres, quando il richiamo strumentale ad una presunta necessità storica era il mezzo per giustificare la ragione di stato o di partito delle tirannie contemporanee.
Nell’opera di Chiaromonte sono percepibili motivi presenti nella cultura del suo tempo, dalla riflessione sull’era delle tirannie di Élie Halévy, alle polemiche antitotalitarie di Albert Camus, a tematiche mutuate o affini a quelle proprie dell’esistenzialismo e della fenomenologia, all’utilizzo critico di alcuni aspetti dell’antropologia e dello strutturalismo. Tuttavia essa presenta una originalità che non solo la rende immediatamente riconoscibile a chi ne abbia avuto una qualche frequentazione, ma continua a suscitare interesse e a richiamare attenzione come mostrano alcune pubblicazioni recenti.
Negli ultimi anni di vita, soprattutto tra il 1967 ed il 1972, Chiaromonte intrattenne un’assai nutrita corrispondenza con una monaca benedettina che viveva negli Stati Uniti, suor Jerome al secolo Melanie von Magel Mussayassul, da lui conosciuta precedentemente in Italia, quando ancora non aveva compiuto la scelta monastica. Di quello scambio epistolare è stata pubblicata una scelta, comprensiva solo delle missive di Chiaromonte, operata dalla destinataria d’intesa con la vedova dello scrittore, che copre un arco di tre anni, dal 1966 al 1969 (N. Chiaromonte, Fra me e te la verità, lettere a Muska, a cura di Wojciech Karpi ski e Cesare Panizza, Una Città, Forlì, 2013, pp. 282). Quasi contemporaneamente ha visto la luce la traduzione francese di un volume che Chiaromonte pubblicò nel 1970, rielaborando largamente, per un seminario tenuto presso l’università di Princeton nel 1966, saggi pubblicati su “Tempo Presente”. La raccolta, che nell’edizione italiana s’intitolava Credere e non credere, in questa traduzione riprende il titolo dell’edizione inglese, The Paradox of History (N. Chiaromonte, Le paradoxe de l’histoire, Préface d’Adam Micnik, Introduction de Marco Bresciani, Paris, Cahiers de l’Hôtel Galliffet, 2013, pp. 225).
I temi che si sono di sopra sommariamente riassunti sono ampiamente presenti tanto nelle lettere quanto nei saggi sia pure con una diversa intonazione. Nelle corrispondenze la riflessione si svolge in modo più rapsodico, annotando suggestioni suggerite dall’attualità o spunti offerti dalla esperienza personale. Nei saggi, il discorso si articola in modo più ordinato, come una meditazione unitaria sul senso della storia a partire da alcuni romanzi famosi (La Certosa di Parma, Guerra e Pace, I Thibault, Il dottor Zivago, l’opera letteraria di André Malraux).
La critica convinta al totalitarismo e ai dittatori contemporanei emerge a più riprese nelle lettere a suor Jerome. Nel settembre 1969 qualifica asciuttamente Mao Tse Dung come “un vero tiranno” (p. 236), osservazione ancora più significativa perché fatta in un periodo in cui l’infatuazione per la Cina comunista era molto diffusa. Il 16 novembre 1967, svolgendo delle considerazioni sugli hippies, e sul loro desiderio di evadere dalle costrizioni del mondo attuale, ricorda come “al tempo della mia gioventù, i giovani si scaricavano della responsabilità, inquadrandosi nel fascismo e nel nazismo, più tardi nel comunismo – fatto più serio, questo, ma anche più tirannico” (p. 96). Il 17 gennaio 1968, raccomanda i libri Bulgakov e di Pasternak come opere utili “a distruggere la storia ‘ufficiale’ della Rivoluzione russa: quella che ancora domina i giudizi anche in occidente” (pp. 113-114). Nel maggio dell’anno successivo loda Solženicyn perché leggendolo ha sentito “in lui il fatto della libertà seriamente riconquistata: la libertà degli antichi filosofi e dei monaci” (p. 187). Come si coglie anche da queste citazioni, però, la critica ai regimi tirannici e il richiamo alla libertà non sono fatti in nome di un ideale immediatamente politico, ma in nome della irriducibile singolarità umana. Anzi Chiaromonte in una lettera del dicembre 1967, segnala la distanza che lo separa dal caro amico Gustaw Herling (importante collaboratore di “Tempo Presente”), sottolineando come questi sia “ancora ‘attaccato’ agli eventi politici come se fossero l’essenza del mondo” (p. 108).
La diffidenza concettuale rispetto ad un approccio politico si coglie molto bene in un brano di una lettera del 22 giugno 1967, in cui bolla come “falso il fanatismo politico, basato com’è sulla cieca convinzione che l’esistenza esteriore sia l’essenziale e che l’uomo, per dir così, viva di solo pane davvero e non d’altro”. Il richiamo alla metafora evangelica introduce, infatti, una dichiarazione di fede in quello che possiamo definire un individualismo creaturale. Il senso della vita umana, ricorda Chiaromonte, “sta tutto nell’essere vissuta al singolare” perché anche “il più sventurato e abbrutito degli esseri umani, sprofondato com’è nelle tenebre”, può riuscire a vedere la luce “e se la vede per un attimo basta” (pp. 45-46). E poche settimane dopo, il 4 luglio, ribadisce che “la vita si vive al singolare sempre”, perché ogni vita “è unica e, in certo senso, assoluta – perché il rapporto con il mondo (e con il divino) si stabilisce dal didentro – e non è dettato – non può essere mai dettato – da norme esterne, da ragioni cosiddette ‘obiettive’”. Mentre invece il mondo di oggi “pretende appunto questo: che il rapporto fra l’individuo e il mondo – il fatto più intimo e geloso di ogni altro – sia invece affare di calcolo, di ragione ‘obiettiva’, di ‘utilità’ sociale e via dicendo” (pp. 57-58).
La svalutazione della politica è conseguenza della sfiducia nella razionalità che si vuole assoluta, quella che in un’altra lettera definisce sinteticamente “l’avventura razionalistica-utilitaria-edonistica (direi quasi che sono, questi, tre aspetti inseparabili di un medesimo fatto)” (p. 219). Una più dettagliata condanna della ragione strumentale si ritrova anche in Credere e non credere (che citiamo dalla recente edizione francese), in particolare nel saggio intitolato Il tempo della malafede, uno dei capitoli finali in cui Chiaromonte tira le fila della precedente analisi sul senso della storia a partire dai romanzi di Stendhal, Tolstoj, Martin du Gard, Malraux. Ad essere messa sotto accusa è la ragione “che non solo specula, scopre e inventa, ma soprattutto opera per il bene dell’umanità”. Per chiarire il suo punto di vista l’autore riporta un lungo brano del cartesiano Discorso del metodo, in cui il filosofo francese tesse l’elogio della scienza moderna, che reca in sé la promessa di un miglioramento delle condizioni dell’umanità. Un ragionamento, commenta Chiaromonte, che presenta “l’immagine del paradiso terrestre ottenuto a forza d’ingegnosità e d’instancabile terrestre sforzo” (p. 196).
Questa fede nel progresso, che caratterizza la vicenda dell’Europa moderna, viene a cadere con la prima guerra mondiale. Il lungo e terribile conflitto “contraddiceva radicalmente la fiducia nell’evoluzione se non pacifica del tutto, almeno non catastrofica, della società e nel potere della ragione di dominare gli eventi umani”. Una guerra insensata, “guerreggiata a costo di milioni di vite per scopi al tempo stesso meschini e grandiosi: per una rettifica di frontiere e una rapina di territori o per la pace perpetua”, a seconda delle intenzioni dei governanti o delle promesse che si facevano per giustificare l’entità del massacro. Alla fine, però, “nessuno scopo fu raggiunto, neppure i più meschini, dato che non si trovarono neppure criteri abbastanza chiari per soddisfare i maniaci delle frontiere” (p. 199). La conclusione della guerra non portò a una catarsi ma cronicizzò un’ambiguità di fondo nella condizione dell’uomo contemporaneo. Anche dopo che la fede nel progresso fu svanita, la ragione strumentale, il dominio dei fatti, continuò a prevalere. Da quel momento viviamo appunto il tempo della malafede, che ulteriori miglioramenti materiali sopravvenuti nel frattempo, non hanno scalfito, non solo per la minaccia totalitaria che continua ad incombere anche nel secondo dopoguerra, ma anzitutto per il diffondersi di un’attitudine che Chiaromonte definisce egomaniaca. Un’attitudine il cui “effetto sull’individuo è quello di un’empietà radicale, in quanto essa porta a ignorare tutto ciò che non serve a fini immediati” e correlativamente a negare “tutto quello che nel mondo è intimo, indicibile, arcano: il ‘divino’ insito in ogni cosa e in ogni moto dell’animo” (p. 204).
In questa diagnosi impietosa dei mali del suo tempo Chiaromonte trasfonde la propria esperienza biografica. In una lettera a suor Jerome del 23 ottobre 1968 rileva sconsolatamente “veramente, nel giro delle nostre vite, abbiamo avuto troppa bruttezza, troppa brutalità, troppa stupidità”. Ricordando come, “a parte la prima guerra mondiale, che in fondo vidi soltanto come una specie di film senza mai sentirne la tragedia, avevo appena sedici anni quando si scatenarono attorno a me violenza e stupidità”. Una condizione da cui non è più uscito, perché “le ondate di stupidità si sono dopo d’allora succedute quasi regolarmente – lasciando appena il tempo di apprendere dai libri o dai più anziani che ci sono stati altri tempi” (p. 152). Tuttavia la matrice esistenziale della sua riflessione non fa velo a una capacità di analisi spregiudicata dei mali della proprio tempo. Soprattutto, poi, la denuncia dello scientismo totalizzante e onnipervasivo, la critica della ragione utilitaria non assumono mai toni apocalittici. Chiaromonte non ha da offrire nessuna ricetta soterica, non fa appello a rimedi universali che sarebbero la riproposizione dell’attitudine da lui criticata. Al contrario svolge un invito a coltivare la misura, a riscoprire l’equilibrio, la verità dei rapporti umani. Da qui il richiamo alla Grecia classica, con il suo senso del limite e la coscienza della Hybris che incombe sulle pretese eccessive o sulle aspettative smisurate. Un invito alla moderazione umana che troviamo riassunta nel saggio conclusivo del volume che dà il titolo alla edizione italiana. Interrogandosi sul senso e il significato della fede, rileva che “la resurrezione della carne, la palingenesi socialista o il trionfo finale della tecnica sulla natura, tuttavia sono credenze che hanno senso in quanto prendano forma di speranze animatrici di azioni, anzi di buone azioni“. Ma quelle stesse credenze, che possono essere lievito di incremento etico, “diventano idee insensate e funeste non appena si trasformino in dogmi che impongono la mortificazione del corpo e dello spirito in vista di scopi inflessibilmente prescritti”, perché allora “entrano in contraddizione violenta con la natura delle cose e con quella dell’uomo” (p. 223).
Come ha scritto Wojciech Karpi ski, nel saggio che completa il volume delle lettere a suor Jerome, Chiaromonte era “un umanista indipendente che non si lascia rinchiudere nella definizione di ‘pensatore politico’ perché è interessato all’individuo nella sua interezza” (p. 259). Ed è forse proprio il rifiuto della dimensione totalizzante della politica che rende ancora attuale il suo contributo. Questa attitudine personale lo rendeva, citiamo sempre le parole di Karpi ski, “una guida delle anime priva di dogmatismi e aggressività”, e ne faceva un uomo che “osservava il mondo, se stesso e noi con grande attenzione e senza isterismi. Era capace di dialogare. Questo dialogo non si è ancora concluso” (p. 274).
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