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Asterischi
di Giuseppe Galasso
LA RESISTENZA IN ITALIA – Non è facile un esame soddisfacente della Resistenza in Italia dal settembre 1943 al maggio 1945 sul piano della sua consistenza ed efficacia militare. Non lo è, del resto, anche per gli altri paesi europei in cui vi fu un’analoga vicenda (l’unico movimento resistenziale a prendere in Europa un vero rilievo militare fu quello jugoslavo). Ancora più difficile è, comunque, l’esame degli aspetti politici della Resistenza, e in Italia forse più che altrove.
Nella Resistenza sussisteva, infatti, una pluralità di posizioni politiche, che aveva un duplice aspetto. Era, da un lato, un chiaro indizio della sua aderenza alla realtà del paese. Compresse dalla lunga dittatura fascista, le tendenze e le convinzioni dell’Italia prefascista non erano sparite. Continuarono a mantenersi latenti e, per così dire, dormienti in gran parte degli italiani. Per una minoranza avevano, invece, significato, con nuovi orientamenti di pensiero e progetti per un diverso domani, una scelta antifascista, pagata col carcere, con l’esilio e, in molti casi, con la vita.
Una minoranza fu anche quella che nei primi tempi prese l’iniziativa e fornì le leve della resistenza armata ai tedeschi e al mal risorto fascismo di Salò nell’Italia del Centro-Nord. All’inizio sembrò, anzi, che il regime di Salò potesse ancora contare su un’adesione alquanto vasta. Poi nel corso del 1944 quell’adesione finì col limitarsi ai soli militanti e ai pochi simpatizzanti di Salò. Ciò ha fatto parlare della “zona grigia” dell’Italia sotto i tedeschi. Vi erano, si dice, i fascisti, gli antifascisti e gli altri. Si può ammettere. Ma, innanzitutto, non era un fenomeno da porre al passivo nel sempre pessimistico bilancio delle “anomalie” italiane: è accaduto e accade fin troppo spesso anche altrove. In secondo luogo, nel prosieguo della guerra la zona grigia si ridusse di molto, l’adesione a Salò ancora di più e si può ben dire che agli inizi del 1945, se non la Resistenza attiva, le sue finalità antifasciste e antigermaniche erano ormai entrate nel sentire della grande maggioranza degli italiani.
Fu un “secondo Risorgimento”? Questa formula prestigiosa fece la sua comparsa già allora, ma (com’era giusto) durò poco e già dopo il 1960 era difficile ritrovarla. Ha resistito, invece, e a lungo indiscussa, la tesi, che è stata ed è anche una profonda e fondamentale convinzione etico-politica, per cui la Resistenza va considerata come la matrice ideale e politica del regime liberal-democratico sancito nella vigente Costituzione italiana, e la fonte legittimante delle forze politiche protagoniste della vita politica italiana dopo il 1946.
Come in tanti casi, in questa tesi e convinzione c’è un duplice aspetto. Da un lato, sono stati in molti, e talora autorevoli, a far presente che il mondo della Resistenza comprendeva forze politiche in netto e frontale antagonismo. Vi erano almeno tre posizioni diverse. Vi era un orientamento già allora nettamente liberal-democratico, che si proponeva una ripresa e un rinnovamento della tradizione liberale italiana, stroncata dal fascismo con la violenza. Vi erano di quelli che questa tradizione apprezzavano solo in parte, e desideravano una sua radicale trasformazione in senso democratico. Vi erano di quelli che verso quella tradizione erano molto critici e pensavano anch’essi a una trasformazione radicale del paese, ma in senso socialista o comunista.
È, ovviamente, una semplificazione schematica, ma rende forse la realtà delle cose meglio di molte, pur pregevoli, analisi dettagliate e, soprattutto, meglio di ogni ideologismo o mitizzazione.
Dall’altro lato, però, se questo è vero, ciò non toglie che nel biennio resistenziale si sia formata una nuova tradizione politica italiana, che trascendeva senz’altro le diversità politiche della Resistenza. Le trascendeva a tal punto che nel 1944 il governo dell’Italia già libera – solo legittimo rappresentante del paese nelle relazioni internazionali, che già combatteva come “cobelligerante” al fianco degli anglo-americani – riconobbe, da Roma, il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia come proprio legittimo rappresentante nell’Italia ancora sotto i tedeschi. Inoltre il generale Raffaele Cadorna, uomo della più autentica tradizione militare sabauda, fu nominato a capo del Corpo Volontari della Libertà (cioè l’insieme delle formazioni partigiane), con Ferruccio Parri e Luigi Longo come vice. E, anche se si volesse considerare, per assurdo, soltanto formale questa integrazione e coordinamento, questa specie di “compromesso storico” tra la Resistenza e il governo di Roma, si sa che le forme non sono mai un nulla, e nella vita pubblica più che mai.
Era nata, invero, una tradizione politica che comprendeva Roma e la Resistenza al di là di ogni distinzione o contrapposizione. Comprendeva, perfino, la “zona grigia” di prima e di dopo del fascismo. E che fosse così lo dimostra il fatto che la vita politica nell’Italia repubblicana si è svolta in sostanza sulla base di quel “compromesso storico”, che consentì poi una scelta “occidentale” di libertà, che ha finito col condizionare anche le forze che su una tale scelta non convenivano o la interpretavano in tutt’altro senso e avrebbero voluto svolgerla in tutt’altra direzione.
Si è spenta la valida efficacia di tutto ciò nell’Italia di oggi? Può anche darsi. Nonché l’Italia, il mondo è così profondamente mutato in settant’anni! Le stesse forze politiche che della Resistenza furono le protagoniste maggiori, anche se tutt’altro che esclusive, sono tutte finite, e non tutte o del tutto bene: gli azionisti, quasi subito; democristiani, comunisti e socialisti dopo una cinquantina di anni. Altri fiori sono nati nel giardino della Repubblica, ma – francamente – troppo spesso non leggiadri e non di delicato e rinfrescante profumo.
Fosse solo per questo, la Resistenza vive ancora. Ma si può anche azzardare il pronostico che nella nuova Italia, ancora in gestazione da ormai venti anni, il “compromesso storico” e l’integrazione e il coordinamento nazionale in cui la Resistenza trovò il suo contesto, nel segno di una indiscutibile opportunità e legittimità storica, avranno ancora molto da dire.


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LIDIA CROCE – Con Lidia (6 gennaio 1922 – 7 aprile 2015) si è spenta l’ultima delle quattro figlie di Benedetto Croce (il suo secondogenito Giulio perì subito): tutte così accomunate da un’educazione alla cultura come ragione e prassi di vita e da una vita domestica di signorile semplicità, e tuttavia così diverse fra loro. È naturale pensarle tutte insieme, quali esse si sentivano, dividendo affetti ed esperienze: Elena, con la sua straordinaria eleganza, fantasia e severità creativa; Alda, che celava con il suo pragmatismo e buon senso le sue grandi doti; Lidia, cosi fine e discreta, eppure di così immediata cordialità; Silvia così estrosa e talora sorprendente.
Anche Lidia era donna di grande cultura. Era bello e a volte impressionante sentirla talora recitare a memoria, come le sorelle, ampi squarci di classici italiani e ragionare di non comuni letture della tradizione antica e moderna. Lidia condivideva con le sorelle il culto del padre, ai cui manoscritti aveva dedicato molto lavoro, di alcuni curando anche l’edizione (come, con Alda, gli straordinari Taccuini di lavoro). E segno tangibile di un tale culto fu l’istituzione, insieme alle sorelle, della Fondazione Biblioteca di Benedetto Croce, che rimane un prezioso e ben curato patrimonio della cultura europea.
Lidia aveva sposato in prime nozze Vittorio de Caprariis, uno studioso di storia e dottrine politiche di non comune levatura, che fu anche una colonna del Mondo di Mario Pannunzio e di Nord e Sud con Francesco Compagna. Divorziata, aveva sposato il polacco Gustav Herling, conosciuto nel 1944 e aveva anche tradotto Un mondo a parte, uno dei libri più notevoli sui lager sovietici. Herling si affermò poi come grande scrittore polacco, e Lidia ebbe gran parte nel secondarne il lavoro e nel curarne il ricordo, nel quale rimane a lui strettamente associata.



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LA CALABRIA MEDIEVALE – Che la Calabria quale noi la conosciamo sia nata nel Medioevo è un’affermazione che può sembrare tanto netta quanto infondata. Eppure, è proprio così. Fu nel giro di un paio di secoli intorno al Mille che la regione acquisì l’immagine e la caratterizzazione, poi ininterrottamente evolutesi nel successivo millennio.
Questo non vuol dire, naturalmente, che la storia della Calabria cominci allora. La Calabria antica ha occupato la scena mediterranea in modi e misure fin troppo rilevanti. Basti pensare alla sua intensa, originale, creativa partecipazione alle vicende del mondo e della civiltà ellenica, cui organicamente apparteneva, tanto da esserne, come è noto, insieme con la vicina Sicilia, magna pars e da apparire, distinta dalla grande isola, come megale ‘Ellas, Magna Grecia, una proiezione più estesa di quel mondo e di quella civiltà. Né di rilievo marginale sono le vicende della regione in epoca romana o quelle della sua prima cristianizzazione. In epoca post-romana le sue vicende fra bizantini, musulmani e, più tardi, dal IX secolo in poi, l’impero franco e poi germanico ne fecero un paese di frontiera, in cui si decisero volta a volta questioni rilevanti per l’equilibrio nel Mediterraneo e in Italia. Infine, la riconquista bizantina con la sua organizzazione politico-amministrativa, prima, e la conquista operatane da Roberto il Guiscardo coi suoi normanni, poi, determinarono più o meno fra il 900 e il 1100 il consolidamento dei tratti con i quali la Calabria è stata costantemente individuata – negli studi, nell’opinione corrente a livello politico e sociale, nell’immaginario regionale ed extraregionale – fino ai nostri giorni.
Costantemente, ma non staticamente. Nel corso del tempo quei tratti sono andati evolvendosi, mutando alternamente fra tradizione e innovazione, in una dialettica che basterebbe da sola a contraddire il luogo comune di tanto in tanto rifiorente della Calabria gelosa custode di antiche mentalità, di antichi comportamenti, di antichi più o meno preziosi valori del mondo mediterraneo, del mondo contadino o, in generale, di qualche “mondo che abbiamo perduto”: quasi una regione, insomma, fuori della storia, o, almeno, storicamente così marginale da apparire più sullo sfondo che nel pieno della scena storica moderna.
Come in tanti altri casi analoghi, questo e gli altri consimili luoghi comuni non hanno effettiva realtà storica. Nei casi migliori sono espressioni di vagheggiamenti letterari o poetici, utopistici, antropologici, talora anche di notevole valore. Sul piano storico è l’opposto. La Calabria appare sempre partecipe dei movimenti, dei ritmi, degli indirizzi della storia mediterranea, italiana, europea, da sempre suo naturale contesto. I ritmi lenti, i riflussi, gli esiti diversi, la marginalità ricorrente e spesso accentuata rispetto ai centri storici che si susseguirono nel tempo e le attive o passive resistenze regionali a tale contesto non formarono ragioni di estraneità a quel contesto o di sua radicale negazione. O, meglio, nella qualche misura in cui lo sono, non fanno che esprimere le specificità, i caratteri originali di una regione, della cui forte personalità su pressoché ogni piano è difficile dubitare.
Di questa storicità e specificità il recente lavoro di Pietro Dalena (Calabria medievale. Ambienti e istituzioni. Secoli XI-XIV, Adda Editore) dà un profilo cronologicamente determinato secondo il suo titolo, ma non prigioniero della sua determinazione cronologica. Nella sua prova l’autore aveva varii termini di confronto molto impegnativi, a cominciare dal volume riservato al Medioevo nella grande Storia della Calabria diretta da Augusto Placanica, che tuttora costituisce un sicuro punto di riferimento e di orientamento in questi studi. L’intento di Dalena non è stato evidentemente quello di gareggiare con i più rilevanti e autorevoli fra le precedenti principali storie della Calabria. Mi sembra essere stato, piuttosto, quello di rispondere a un suo bisogno di dare una sistemazione generale alla sua lunga attività di ricerca sulla storia della Calabria medievale: un bisogno intellettuale e psicologico che gli studiosi di lungo corso possono ben capire, mentre il libro che ne è risultato mi sembra attestare tutto il suo impegno.
Con l’esperienza della mia Storia del Regno di Napoli (6 voll., Torino, Utet, 2006-2011) e degli altri miei volumi e studi di storia medievale e moderna del Mezzogiorno credo, anzi, di poter dire che di simili monografie regionali non ve ne saranno mai abbastanza, anche se il loro livello è fatalmente, e molto, disparato. Anche nel giardino meno ameno si possono raccogliere buoni fili d’erba. In questo di Dalena, che non è tra i giardini meno ameni, se ne raccolgono parecchi, e l’immagine complessiva della regione ne guadagna.
Basti citare, fra gli altri, Il primo capitolo dà un’idea dello sfondo storiografico sul quale egli si è mosso. Uno sfondo che già dimostra l’infondatezza dell’altro luogo comune spesso ricorrente a questo riguardo, per cui la storia della Calabria non presenterebbe tradizioni di studio consistenti e viene, perciò, periodicamente rappresentata come un deserto in cui occorra inoltrarsi con molto coraggio e con molte idee di metodo di chissà quale originalità e forza sconvolgente. Per fortuna, il cammino della storiografia non procede solo fra deserti soffocanti e un continuo terremoto sovvertitore delle sue tradizioni e delle sue idee. Può – ed è anzi la sua ragion d’essere – comportare originalità, rinnovamenti, novità, approfondimenti vistosi e di grande impatto sul corso degli studi, ma, se dimentica o trascura il passato storiografico, che è un documento storico di valore primario, si impoverisce, non si arricchisce. Il che non significa che non si debbano rilevare, a ogni occasione che lo richieda, carenze, deficienze, insufficienze, impertinenze, vacuità, errori e quant’altro di negativo o di insoddisfacente si possa registrare negli studi in generale, e nella storiografia in particolare.
Naturalmente, non è detto che si debba essere sempre d’accordo con l’autore. Se ne possono contestare, come è indispensabile fare per qualsiasi autore, affermazioni o giudizi o particolari o criteri di merito e di metodo. L’importante è che il libro, con i molti argomenti che vi sono trattati, fornisca, come fa, materia sia d’informazione che di riflessione e indichi qualche nuovo dato o qualche nuovo percorso.



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TRASPARENZA E PREVENZIONE TRA GOVERNO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – La corruzione è un problema presente in tutte le epoche e forme di regime. Malgrado i più drastici sistemi escogitati per prevenirlo o per reprimerlo, non solo lo riscontriamo onnipresente e onnidiffuso, ma lo ritroviamo come un fenomeno che coinvolge, molto più spesso di quanto si possa immaginare, personalità di primissimo piano ed altissimo livello. L’esemplificazione sul piano storico è amplissima, da Scipione l’Africano nell’età antica a Francesco Guicciardini e a Isacco Newton nell’età moderna, tanto per fare soltanto qualche nome a caso.
Ciò rimanda a una riflessione sul rapporto tra natura umana e istituzioni, tra natura umana e vita sociale, tra natura umana e potere. Quale filo sottile lega con un’attrazione fatale quella natura, la vita sociale, il potere alla corruzione o agli analoghi fenomeni (concussione, peculato, malversazione etc.) di cui le cronache politiche e quelle giudiziari presentano una tale abbondanza? Hanno certamente ragione coloro che pongono, a questo riguardo, il problema dell’etica nell’azione pubblica. E, tuttavia, proprio se, a giusta ragione, si pone questo problema, non si può fare a meno di constatare che l’analisi sul piano dell’etica è necessaria per porre questi aspetti della vita sociale sotto l’indispensabile ideale di un dover essere, che conservi alla vita dell’uomo e a quella della società una irrinunciabile dimensione normativa e regolativa, ma tocca poi alla comprensione storica del fenomeno, con le domande che ne scaturiscono sui problemi della vita sociale, illustrare i modi in cui si prospetta la ricorrente tendenza a comportamenti contrastanti con l’esigenza, non solo etica, che il vivere dell’uomo in società si avvicini al massimo possibile a quella dimensione e assicuri una chiara e funzionale conduzione della res pubblica, i modi e, naturalmente, la sollecitazione a farvi fronte.
Un altro punto che merita attenzione, a proposito del tema di cui parliamo, riguarda i mezzi con i quali ci si accinge a combattere il fenomeno. Quando invochiamo la trasparenza, la prevenzione o altro di simile, non è solo per meglio fronteggiare la corruzione, ma anche per rendere più efficiente l’azione pubblica, sia di governo che tecnicoamministrativa. Si è spesso tentato di calcolare il costo della corruzione nella vita pubblica nei termini della ricchezza che prende questa via patologica. Non si può trattare, però, soltanto di questo. Il fatto è che per quella via patologica si allungano insanamente – insieme con i costi di ciò che si stabilisce di fare – i tempi, la qualità, la funzionalità, l’opportunità e la convenienza di quel che si fa. Ne viene, quindi, concretamente distorta tutta la ratio temporale e finalistica dell’azione pubblica, con una perdita netta, anche se per lo più sfuggente, e se, comunque, è sempre incalcolabile, la credibilità delle istituzione e della politica.
Non è un caso, a ben vedere, che si senta molte volte dire che vi siano pure tutte le patologie possibili, ma, se il da fare viene fatto, e viene fatto tempestivamente e funzionalmente, tutto il resto perde di importanza; e si citano fasi della vita di Stati e imperi in cui il fenomeno di cui parliamo dilagava, ma i grandi obiettivi dell’azione pubblica venivano più o meno pienamente realizzati, mentre quegli Stati e quegli imperi attraversavano, in un tale regime delle cose, alcuni dei loro periodi di fiore e di grandezza. Il buon successo dell’azione pubblica sanerebbe, allora, ogni suo aspetto patologico? Sollevare il problema dell’etica dell’azione pubblica aiuta a cercare risposte realistiche a questo interrogativo.
Si noti, d’altra parte, come non sia mai da dimenticare che noi viviamo nell’Europa che dal XIX al XXI secolo ha costruito le istituzioni e i regimi politici e le strutture giuridiche e giudiziarie dello Stato di diritto. Gli organi di controllo di cui questi regimi sono provvisti dovrebbero bastare più che ampiamente allo scopo di assicurare un tenore fisiologico della conduzione degli affari pubblici. Se i fondamenti dello Stato di diritto non bastano allo scopo che è più propriamente loro, non è per deficienza legislativa o concettuale nel porre il problema del diritto, della legittimità dell’interesse pubblico da privilegiare. Se le cose non funzionano nel senso che si penserebbe più conforme non solo al dover essere dell’azione pubblica, ma anche alle garanzie della sua pubblicità e correttezza, le ragioni vanno, allora, trovate altrove. Vanno trovate, da un lato, in via di principio, in quei rapporti tra natura umana, vita sociale e potere ai quali ho prima accennato, ma, dall’altro lato, in maniera più immediata e diretta, vanno cercati nel tono della vita sociale, e nei suoi riflessi sulla vita politica e amministrativa.
Quanto poi all’Italia, è più che dubbio che servano ulteriori interventi legislativi per risolvere il problema. La stessa Corte dei Conti ha sottolineato la pletora di leggi nel nostro paese che è 10-20 volte superiore rispetto agli altri paesi europei. La molteplicità delle leggi non è un buon sistema, né di trasparenza, né di prevenzione. Serve, semmai, una drastica operazione di semplificazione legislativa. Obiettivo al quale negli ultimi anni è stato addirittura delegato un incarico ministeriale, senza, peraltro, che si siano avuti miglioramenti sensibili nell’elefantiasi legislativa, che non è per nulla l’ultimo problema italiano in questa materia.
Alla quale elefantiasi legislativa si aggiunga l’elefantiasi dell’azione pubblica. Noi ci troviamo di fronte ad opposte esigenze: da un lato, la funzione sociale dello Stato, dall’altro la progressiva invadenza dello stesso Stato in tutti i campi. Questi problemi vanno tenuti presente quando si parla di trasparenza e prevenzione. Non basta il trattamento giudiziario come soluzione del problema, come dimostra l’esperienza. E, oltre tutto, anche per quanto riguarda in concreto il trattamento giudiziario, in Italia non mancano i problemi. Per riuscire al massimo possibile, sia pure senza utopie massimalistiche, l’intervento giudiziario dev’essere sempre massiccio, puntuale e tempestivo. Invece, la lunghezza dei procedimenti e l’incertezza, molte volte, della configurazione dei procedimenti stessi sono vie sicure di complicazione, non di facilitazione del problema.
Per tutte queste ragioni, e sempre fermo restando che l’azione giudiziaria debba essere costante, senza sosta, né condizionamenti, sembra necessario, e senza possibili alternative, l’affermazione che la trasparenza e la prevenzione devono rappresentare un compito essenzialmente della politica. È la politica nei suoi regolamenti più formali e, ancora di più, in tutto ciò che di essa non ha veste o percepibilità formale a dover farsi un problema della trasparenza dell’azione pubblica e della prevenzione delle sue distorsioni. Una politica che rinunci a ciò e che deleghi totalmente un tale compito all’azione giudiziaria, segna un proprio certificato di invalidità grave e permanente, e in molti casi (lo abbiamo visto in Italia da vent’anni a questa parte) addirittura il proprio certificato di un suicidio ben lontano da qualsiasi criterio e capacità di eutanasia. Se poi (come, ancora, in Italia in questi ultimi venti anni) si gira e rigira intorno al problema, sostanzialmente pestando l’acqua nel mortaio, le apparenze, forse, saranno salve, ma il caso sarebbe tipico di un accanimento terapeutico senza alcuna razionalità o utilità.
È utopistico pensare di azzerare problemi come questi. Tuttavia, l’impegno deve essere quello di avvicinarsi quanto più possibile allo zero. Quando parliamo di politica intendiamo non solo l’articolazione delle opinioni di partiti e movimenti, quanto soprattutto la grande partecipazione sociale ai problemi della vita pubblica, un valore che nel nostro paese, negli ultimi venticinque anni, mi sembra in discesa.
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