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L'Italia a processo
di Fausto Cozzetto
È tradizione non infrequente che professionisti dell’azione penale giunti a conclusione della carriera offrano una testimonianza dell’opera svolta pubblicando, in parte o in tutto, le arringhe pronunciate in processi che abbiano avuto una notevole eco nell’opinione pubblica. A questa tradizione, talvolta foriera di opere di un certo interesse, non si è sottratto Paolo di Tarsia di Belmonte, già avvocato dello Stato, che ha fatto uscire pochi mesi fa il volume Storie d’Italia piccole e grandi nelle arringhe di un penalista (Roma, Pagine, 2006, pp. 424), con interventi introduttivi di Andreotti e di Franco Coppi. Il libro raccoglie, con l’ausilio di schede “storiche” preliminari, stralci delle arringhe svolte in difesa dello Stato in alcuni “grandi” processi che dai procedimenti in Corte d’Assise a Milano contro il terrorismo altoatesino (1964-1966) giungono fino al processo sulle foibe jugoslave prodottesi alla fine della seconda guerra mondiale (Corte d’Assise di Roma, 2001).
Nelle arringhe del di Tarsia si vorrebbe testimoniare il distacco da ogni pregiudiziale ideologica, ma è proprio la sua posizione a presentarsi come solidamente “ideologica”: lo Stato infatti, per l’autore, deve difendersi sia da chi attenta con un progetto cospirativo a frantumarne l’unità territoriale; sia da chi ne minaccia i liberi ordinamenti democratici che si è dato. Nelle arringhe ai processi contro i dinamitardi altoatesini – la cui raccolta occupa più di un quarto del volume – la difesa dello Stato italiano dal terrorismo è tutta nei termini della minaccia che essa aveva costituito per l’integrità del paese tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta: il 4° corpo di armata dell’esercito italiano schierato a difesa della frontiera con l’Austria oltre che dell’incolumità delle comunità altoatesine; un bilancio pesante in termini di morti e feriti come conseguenze dirette e indirette degli attentati dinamitardi, tra cui molta forza pubblica caduta in conflitti a fuoco; danni gravissimi agli impianti di energia elettrica che, di fatto, misero in ginocchio, dal punto di vista delle forniture energetiche le province trentine. Certo il quadro internazionale in cui la vicenda altoatesina si collocava sembrava allora apparentemente tranquillizzante per il nostro paese, come ricordava di Tarsia, in una sua arringa, poiché «l’unica potenza straniera di cui potesse essere prospettabile l’ipotesi di un intervento è l’Austria, ma l’Austria è uno Stato neutrale […] e l’Italia è inserita in una vasta organizzazione, è uno Stato forte, appoggiato ad organizzazioni internazionali militari, diplomatiche e politiche» (p.93). Ma in ambienti diplomatici italiani, qualche anno dopo, si manifestava la convinzione che ad attivare l’estremismo altoatesino negli anni Cinquanta non poco avesse contribuito l’azione dei servizi segreti dell’Urss, interessati a una destabilizzazione dei confini settentrionali del nostro paese. E comunque anche l’esito finale del processo contro Klotz e compagni, che vide condanne sostanzialmente moderate, sembrò confermare che le sentenze erano state influenzate da scelte politiche dell’allora Governo italiano presieduto da Aldo Moro, che si era posto sulla strada, alla fine dimostratasi vincente, del riconoscimento di una larga autonomia amministrativa alla provincia di Bolzano, pur nel pieno rispetto dell’integrità territoriale dello Stato.
Nelle posizioni del di Tarsia non tutto convince. Si pensi all’indicazione che i maltrattamenti lamentati da imputati altoatesini, tradottisi in confessioni, avrebbero comunque potuto essere valutate dai giudici altoatesini, perché non poteva «escludersi una partecipazione volontaria del soggetto […]. Possiamo al massimo ritenere che la [sua] volontà sia stata indebolita da escludere quei freni inibitori dovuti all’omertà […]» (p. 41). Di Tarsia oggi giustifica la sua posizione in sede processuale sostenendo che a metà degli anni Sessanta la giurisprudenza e il Codice penale consentivano forme di violenza ambigue, che sfioravano la tortura fisica, nei confronti degli imputati. Ancora meno convincente – ed ebbe un’eco non proprio positiva nell’opinione pubblica nazionale e internazionale degli anni dei processi altoatesini – la posizione del di Tarsia sul problema delle minoranze che teneva conto, in primo luogo, delle «esigenze dello Stato ad una progressiva, pacifica assimilazione del gruppo etnico. Quindi la soluzione del problema è quella di tutela minoritaria, sì, ma vista come fase transitoria con normative che perciò si adeguano al progressivo inserimento nell’unicum nazionale» (p. 106).Queste ed altre affermazioni portarono, tra l’altro, a proteste di deputati altoatesini, rivolta al Capo del Governo, e a una certa presa di distanza dell’allora Sottosegretario Salizzoni, che sottolineò come quelle del di Tarsia «erano opinioni avanzate in sede di dialettica processuale che non esprimono la posizione del Governo» (p.112).
Anche nel processo contro Junio Valerio Borghese e nella richiesta di condanna per l’ex comandante della X Mas (Roma 1978), il quale nel dicembre del 1970, in piena “strategia della tensione”, aveva tentato con circa trecento uomini di impadronirsi della Rai, sequestrare il Capo della Polizia e instaurare un nuovo governo su basi ideologiche neofasciste, di Tarsia, come nel processo contro gli altoatesini, chiese che la minaccia portata all’ordine democratico venisse severamente punita, ma il clima in cui si svolse il processo e gli orientamenti della pubblica opinione, misero in evidenza che la variegata masnada di guardie forestali agli ordini di Borghese aveva operato con modalità tragicomiche e comunque, apparentemente, inidonee a raggiungere l’obbiettivo, fino a lasciarsi intrappolare perfino in un ascensore. «Ebbero buon gioco le difese – commenta nella scheda introduttiva l’autore del volume – visto il risultato fallimentare di quella insurrezione, a sostenere l’inidoneità della condotta. In realtà uomini determinati ed armati erano pronti ad intervenire ed il piano era stato studiato con sufficiente attenzione per poter sostenere invece che fosse “un insurrezione burla”». Ma tale postuma riflessione, appare davvero incomprensibile rileggendo l’arringa del di Tarsia. Questi, al contrario di quanto aveva fatto nei processi contro i dinamitardi altoatesini, in cui il contesto storico era stato ampiamente richiamato per spiegare l’azione di Klotz e compagni e chiederne la condanna, nell’arringa contro il gruppo Borghese sembrò volutamente ignorare il contesto storico della vicenda, quello per intenderci della “strategia della tensione”, tanto che alla narrazione del tentato golpe è dedicata appena una pagina delle trentuno inserite nel volume del di Tarsia e un altro paio di pagine sono dedicate alle responsabilità del generale Miceli, allora capo del SID. Analogamente il contesto storico venne completamente ignorato dal di Tarsia anche nell’assai più rilevante vicenda processuale del processo di Catanzaro per la strage di Catanzaro. Egli era, in questa occasione, rappresentante legale del Ministero della Difesa, che le parti civili costituite in giudizio avevano chiamato in causa come presunto datore di lavoro di Guido Giannettini. Come è noto tale richiesta era sopraggiunta come conseguenza del fatto che Giannettini, coinvolto nell’indagini sulla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, era considerato un presunto agente del SID (Servizio Informazioni Difesa) e alla richiesta del tribunale catanzarese, rivolta al SID e al sopradetto Ministero, era sopraggiunto il rifiuto da parte del Governo presieduto da Rumor di fornire tale informazione: «non possiamo dirlo, perché il fatto è coperto dal segreto». Posizione che il di Tarsia non esita a definire «goffa», in sede di rievocazione storica nel volume di cui qui si tratta, nel quale, a questo proposito, egli continua:
la copertura del giornalista Giannettini fu una mezza misura adottata per accontentare tutti, mantenendo una parvenza di tutela dei servizi segreti estesa ad ogni più remoto e saltuario informatore o collaboratore e al contempo dando in sostanza la notizia che l’Autorità giudiziaria si aspettava, ma si offrì un ulteriore appiglio per fare del processo uno strumento di lotta politica. Non solo infatti carriere si distrussero e si costruirono su quel preteso scandalo, ma soprattutto si colse l’occasione per un pesante attacco alla maggioranza di Governo accusata di connivenza, di complicità, di coperture criminose […]. Mariano Rumor all’epoca dei fatti era Presidente del Consiglio dei Ministri di un Governo doroteo: la decisione ultima di “quel dire” al Giudice Istruttore […] che “nulla si poteva dire” fu presa a palazzo Chigi: Mariano Rumor e Saverio Malizia furono incriminati per falsa testimonianza e il secondo fu tratto in arresto in udienza (pp. 166-7).

Tutto qui. La posizione dell’autore del volume, in sede processuale, è forse spiegabile per la ricerca di una qualche giustificazione del comportamento del Gabinetto Rumor, ma è incomprensibile in sede di rievocazione storica, sul piano della quale esiste una verità storiografica ormai ampiamente condivisa. A proposito del dopo attentato di Piazza Fontana, Piero Craveri ha, ad esempio, scritto:
L’attentato di Piazza Fontana […] aveva costituito il tentativo più forte di provocare condizioni di panico e di vuoto politico che favorissero una svolta a destra. Era mancato probabilmente nelle conclusioni ultime a cui voleva arrivare. Ai solenni funerali delle vittime infatti la composta e responsabile presenza militante di massa del sindacato e dei partiti della sinistra aveva stroncato la possibilità d’ogni ulteriore degenerazione provocazione. La “strategia della tensione” si era fermata a metà, come in seguito vedremo capitare in più di una occasione. Sarà il segno di una sua intrinseca inanità, quel suo non uscire fuori dalle quinte e dai ripari dove veniva prefabbricata, e in questa ambivalenza finendo per consolidare il processo inverso, quella di una sempre più stretta unione difensiva delle forze democratiche, restringendo ulteriormente i margini di giuoco interni al sistema politico. E su questo crinale ambiguo si poneva allora il tentativo, che andò avanti per oltre un anno, di attribuire ad una “pista rossa” quella che l’opinione democratica individuò quasi subito come una “strage di Stato” e che portò alla morte dell’anarchico Pinelli negli uffici della Questura di Milano e all’incriminazione del presunto estremista di sinistra Valpreda. Ora proprio questa tesi della “pista rossa”, poi ribaltata nel corso di un lunghissimo iter processuale, che doveva concludersi senza individuare i colpevoli, caratterizzato da un costante e violento depistaggio […] di cui furono accusati più esponenti dei servizi di sicurezza, sembra fosse già chiaramente smentita da una informativa del SID, che tracciava chiaramente i connotati della “pista nera”, di cui era venuto a conoscenza il Ministro della Difesa Luigi Gui, uno dei collaboratori più stretti di Moro […] (P. Craveri, La repubblica dal 1958 al 1992, Torino, Utet, 1995, pp. 462-463).

Le ambiguità che si desumono dai due processi sulle vicende della “strategia della tensione” trovano, occorre sottolinearlo, una certa copertura nella breve Prefazione che il sen. Andreotti ha scritto per il volume del di Tarsia. Anche l’ex presidente del Consiglio ritiene che la decisione di porre il segreto di Stato su Giannettini, sia stato un errore politico di un Rumor mal consigliato. Ma subito dopo Andreotti ricorda che quando lui stesso era divenuto capo del governo e aveva tolto la copertura del segreto di Stato sul ruolo di Giannettini come spia del SID, riparando all’errore di Rumor, «naturalmente i Servizi stessi, che tenevano all’impenetrabilità dei loro segreti, accolsero malissimo la mia decisione e cercarono di accreditarla come atto di lotta tra esponenti politici» (di Tarsia, p.9). Nota, questa dello statista democristiano, che solleva riflessioni più che giustificate sulla condizione di separatezza in cui si muovevano SID e altri apparati delicatissimi dello Stato nel decennio della “notte della Repubblica”.
Ben diverso, rispetto ai due processi sopra citati, l’atteggiamento del di Tarsia nel processo tenutosi, cinque anni fa, relativo a tre omicidi contro cittadini italiani, nel contesto della drammatica vicenda dei massacri di italiani nelle foibe istriane e dalmate, avvenuti alla conclusione della seconda guerra mondiale. Quel processo non riuscì a giungere a conclusione, perché la sentenza ultima della Cassazione negò la giurisdizione dello Stato italiano, in quanto le terre in cui si erano svolte le vicende, al momento del processo, non erano più italiane. Di Tarsia apre la sua arringa, in difesa della parte civile, costituita dalla Presidenza del Consiglio, rivendicando che «la legge vuole che il processo sia una ricostruzione fedele dei tempi, delle azioni e degli intenti, con adesione alla realtà di allora […] non [può] tuttavia restringer[si] ai tre omicidi avulsi dal loro contesto, perché così costruiremmo una realtà processuale diversa dalla realtà effettiva» (p. 384). Efficacissima, perciò, appare la ricostruzione in sede processuale di quel contesto che era, invece, mancata per la “Strategia della tensione”. A proposito della pulizia etnica ai danni degli italiani di Tarsia sostiene:
Qui, in Istria e a Fiume, questa esigenza di pulizia etnica corrispondeva ad un disegno preciso ed unitario del totalitarismo comunista: il territorio ove si delineava la possibilità della conquista del potere delle bande titine comuniste doveva essere il più possibile assoggettato a un nuovo sistema di Governo, con la eliminazione delle opposizioni. Era questa un’esigenza prioritaria, perché non sarebbe bastata una organizzazione delle truppe di occupazione per arrivare al tavolo della pace con una situazione di fatto di fronte alla quale non si potesse dir nulla […]. Per sedere al tavolo della pace occorreva dimostrare la costituzione, già avvenuta, di un Governo stabile, che avrebbe dovuto avere i suoi esponenti civili, i suoi Ministri, i suoi organi parlamentari e giudiziari di marca slava. Non c’era tanto tempo per far ciò, perché le truppe anglo-americane erano a Trieste. […] Così è sparita in un tempo impressionantemente breve la maggioranza italiana [in Istria, a Fiume], uccisa o deportata, condannata ai lavori forzati, costretta dal terrore all’esodo, così in quella terra è ormai rimasta una minoranza di gente (pp. 385-6).

Un libro, dunque quello del di Tarsia, che offre più di uno spiraglio per cogliere meglio atteggiamenti importanti di settori non di scarso rilievo dell’apparato dello Stato repubblicano in momenti cruciali della vita della Repubblica. L’ideologia che traluce in maniera tutt’altro che ambigua è certo quella della difesa dello stesso Stato, ma i valori fondanti di questa concezione dell’ordine statale rinviano più all’ottocentesco e sonniniano “ritorno allo Statuto”, che a quelli espressi dalla Carta costituzionale del 1948. Una conclusione che non costituisce certo un dato storico nuovo e che offre qualche elemento ulteriore di riflessione sulla permanenza di ambiguità non dissimili nell’apparato a cui è devoluto il compito di vegliare sulla sicurezza dello Stato quando fossero in gioco, come nel caso del sequestro di Abu Omar, valori essenziali di difesa dei diritti della persona.
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