Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVI - n. 1 > Ricerche > Pag. 78
 
 
Stati di minima coscienza: un problema emergente di sanità pubblica
di Natale Gaspare De Santo (e altri)
Un recente convegno

Lo scorso 31 ottobre si è tenuto a Roma un importante convegno organizzato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e dalla Fondazione S. Anna di Crotone (una eccellenza nazionale diretta da Giuliano Dolce) che ha dato luogo a un grande dibattito sugli Aspetti Clinici ed Etici dei Gravi Disturbi della Coscienza. I lavori presentati, da relatori molto qualificati in campo nazionale e internazionale hanno aperto un acceso e proficuo dibattito sullo stato dell’arte, su questo emergente problema di sanità pubblica il cui impatto economico-sociale è ignoto al grande pubblico.
La coscienza e i suoi disturbi
La coscienza, variabilmente definita da psicobiologi, filosofi, medici e neuro-scienziati è soprattutto «coscienza di se stessi e del mondo circostante»1. I disturbi della coscienza, come dimostrato di recente nel fascicolo n. 3 del 2014 degli Annali dell’ISS2, gli Stati Vegetativi (SV) e gli Stati di Minima Coscienza (SMC) beneficiano non solo dei grandi avanzamenti della tecnologia, ma anche del più appropriato uso delle scale del coma.

Questi ultimi, strumenti diagnostici di rapida somministrazione, hanno la funzione di distinguere tra i diversi disturbi della coscienza (p. es. SV e SMC). Tale distinzione fa leva su parametri quali la presenza/assenza di movimenti volontari, l’interazione attiva con l’ambiente esterno, l’uso della comunicazione, la consapevolezza di se stessi e la presenza di stati di veglia. In condizioni non patologiche, veglia e consapevolezza vanno di pari passo (o si è svegli e consapevoli o addormentati e incoscienti); ciò può smettere di verificarsi in condizioni in cui la coscienza è alterata. Un caso paradigmatico è costituito dalla sindrome locked-in, condizione in cui il paziente è apparentemente addormentato e incosciente. Tuttavia, tale mancanza di coscienza è solo apparente, dal momento che il paziente è perfettamente vigile. Lo stato di apparente incoscienza è legato all’immobilità legata al trauma che ha causato la patologia. Un’attenta analisi delle capacità residue dimostra, infatti, che i pazienti locked-in sono coscienti e perfino in grado di comunicare con il mondo esterno tramite gli occhi. Da questa breve serie di esempi emerge come lo studio della coscienza, specialmente in situazioni in cui quest’ultima risulti alterata, richieda l’osservazione fine di comportamenti spontanei (p. es apertura/chiusura degli occhi) e comportamenti indotti (risposta a stimoli esterni). Negli anni sono state sviluppate numerose scale nosografiche aventi lo scopo di studiare sia i primi sia i secondi indipendentemente l’uno dall’altro. Al fine di integrare le diverse informazioni, un progetto coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità ha recentemente proposto una nuova scala nosografica atta ad analizzare nel dettaglio sia i comportamenti spontanei sia quelli indotti3.


Nonostante questi sforzi l’armamentario a disposizione non ancora si dimostra capace di diagnosticare inequivocabilmente e obiettivamente i disturbi di coscienza4 e le risposte errate superano il 40%.
La Risonanza Magnetica funzionale rappresenta un grandissimo passo in avanti. In particolare, Schiff et al furono i primi a suggerire l’esistenza di isole di preservata funzione cerebrale in pazienti in stato vegetativo studiati con Positron Emission Tomography (PET) e la RM funzionale 5. Owen et al, «con la risonanza magnetica funzionale, localizzarono più specificamente i siti di attivazione proponendo a una paziente in stato vegetativo post-traumatico di immaginare (esperimento A) di giocare a tennis, nell’esperimento B di visitare tutte le stanze della sua casa a partire dalla porta d’ingresso. Durante l’esperimento A l’attività significativa fu evidenziata nell’Area Motoria Supplementare (Supplementary Motor area), nell’esperimento B l’attività venne localizzata nel parahippocampal gyrus (Circonvoluzione Paraippocampale). Le risposte non erano differenti da quelle ottenute in soggetti normali. Veniva cioè dimostrato per la prima volta che persone in stato vegetativo potevano capire comandi verbali e rispondere agli stessi con la propria attività cerebrale piuttosto che con la parola e o il movimento»6. Più recentemente sul «New England Journal of Medicine» Martin M. Monti con Audrey Vanhaudenhuyse e altri hanno riportato i dati di uno studio effettuato in collaborazione tra le Università di Cambridge (Regno Unito) e Liegi (Belgio) su 54 persone in stato vegetativo. Cinque di esse furono capaci di modulare volontariamente la loro attività cerebrale; tre dimostrarono segni di coscienza e una dimostrò capacità di rispondere Si-No a domande specifiche. Fu impossibile stabilire connessioni a letto del malato. Lo studio dimostrò che la Risonanza Magnetica funzionale è una potente aggiunta allo strumentario diagnostico negli Stati Vegetativi ed è «capace di scoprire segni nascosti di funzione cognitiva e di coscienza»7.



Il significato degli studi con la RM funzionale

È stata immediatamente posta la domanda se questo tipo di coscienza sia o meno significativo per le decisioni sul fine vita. È stato scritto che si tratta verosimilmente di una coscienza di tipo «fenomenologico, come dolore, sete, profumo di una rosa, il suono di nome, l’immagine mentale di giocare una partita di tennis […] sarà pertanto difficile escludere che sia un tipo di coscienza importante per le decisioni di fine vita», ma «la mera fenomenalità sembra insufficiente per un diritto alla vita»8.



Il burnout

Essere familiare di una persona in stato vegetativo, o di un paziente in stato di minima coscienza richiede grandi capacità personali di adattamento che variano attraverso le diverse fasi della malattia. Il primo problema nella fase acuta è quello di sapere se il paziente è vivo (e sopravviverà) e se riceve tutte le cure necessarie e se ha/non ha dolore. In questa fase il medico della terapia intensiva potrà fare molto rispondendo a tutte le domande dei familiari, tenendo sempre i piedi realisticamente per terrà per non generare illusioni. Ma successivamente nel corso di lunghissimi anni di assistenza cronica il potenziale personale di coping difficilmente basterà a fronteggiare la pesante routinarietà da affrontare, tutte le ore del giorno e della notte, e dovrà essere supportata e nutrita da personale specialistico in modo che non si generino ferite non rimarginabili.



La speranza

L’assistenza del paziente con disturbi di coscienza è ad altissimi livelli di burnout sia per le famiglie sia per i medici. E quindi pone subito il problema della costruzione della speranza. Non solo del come costruirla, ma anche del come mantenerla, e del come rafforzarla.
Per Tommaso d’Aquino (1225-1274) la speranza ha quattro caratteristiche fondamentali. «È un bene, perché solo di un bene si può sperare. Secondo che è una cosa che riguarda il futuro perché non può riguardare il presente e le cose già possedute. Terzo deve essere qualcosa di arduo e difficile da ottenere. Quarto che questa cosa difficile da ottenere sia infatti possibile ottenerla».
La speranza, nella esemplificazione della filosofa Maria Zambrano (I beati), è un ponte che supera posti non accessibili, come si alimenta giorno per giorno.

Il ponte ha le sue arcate, dette anche occhi. Arcate che si sorreggono e lasciano passare, aperta architettura. Occhi non perché vedano, ma perché lasciano vedere. […] La speranza ha i suoi passi, e i suoi occhi che danno a vedere e che vedono essi stessi. Occhi di elezione, dato che scoprono e rivelano. E anche quello che vedono gli altri occhi, se visto con gli occhi della speranza, si trasmette nella sua significazione e persino nella sua forma e figura. […] Accade, infatti, che in virtù e per opera della speranza l’uomo può realizzare quella cosa impossibile che è camminare sopra il proprio tumulto interiore, sopra il tempo che gli passa, e può in un certo senso elevarsi e sostenersi sopra la propria profondità.




Storie di pazienti in coma
Rainer Friedemann Greger (1946-2007)


Ci sono tante storie di pazienti diciamo così illustri con disturbi della coscienza. Vorremmo aggiungere alla lista il nome di Rainer Greger, il biofisico di Friburgo, quello che ha portato a livelli prima di lui mai raggiunti, il patchclamp, portato in vero alla perfezione. Parliamo di Rainer Friedemann Greger9, che aveva avuto tutti i premi possibili in ambito fisiologico. Egli era anche coautore di un fortunato trattato in due volumi Comprehensive Human Physiology, noto aglistudenti come il Greger-Windhorst. Gregeril 5 luglio del 1999 era uscito in bicicletta dall’università per andare al palazzo dei congressi per organizzare un meeting, pioveva, fu colpito da un fulmine, inevitabili la fibrillazione, l’ischemia cerebrale, la perdita di coscienza e il lunghissimo ricovero. Poi Beate, la moglie, se lo era portato a casa. Greger è morto il 16 dicembre 2007. La moglie che con professionalità lo assisteva usava invitare gli amici e gli allievi intorno al letto di Rainer,spiegava che la speranza si accendeva improvvisamente, per un gesto, un batter di ciglia, e quell’entusiasmo, quella speranza faceva stare bene lei e tutta la famiglia, infondeva vigore, e rinnovava le attenzioni e l’assistenza. Ma poi c’erano lunghi periodi in cui coltivare la speranza era difficile se non impossibile. La Signora Greger dava la giusta importanza a quei gesti, a quelle emozioni, segni del limite delle nostre conoscenze. Cioè dava un peso a quelle che è possibile definire “le cose da vivi” negli stati minimi di coscienza.



Michael Schumacher (nato il 3 gennaio 1969 a Hürt in Germania)

Qualche mese addietro Corinne Schumacher, moglie del grande pilota di Formula 1, tante volte campione del mondo e precipitato in coma da una caduta mentre sciava, ha spiegato che il marito è vivo, cioè fa cose da vivi, ma che forse ci vorrà tempo e impegno per tradurre queste cose da vivo in “coscienza” del mondo circostante. E in questa opera lei si sente impegnata. E che a quelle cose da vivi – ha detto Corinne – bisogna aggrapparsi, dar loro un valore, appendersi letteralmente a esse, in attesa che gli occhi di Michael ritornino capaci di apprezzare il sorriso delle persone che gli stanno intorno. «Michael migliora lentamente ma in modo percettibile. Andiamo avanti in modo lento ovviamente, ma andiamo avanti».



Le sfide etiche di quelli che fanno “cose da vivi”

I pazienti con gravi disturbi della coscienza sono al contempo una sfida e una opportunità. Essi sono lì anche a ricordarci e a dimostrarci che il progresso scientifico cambia radicalmente e velocemente il nostro modo di pensare e di agire.
Queste persone ci lanciano altre sfide, le sfide etiche. Pensiamo per un momento alla idratazione e nutrizione clinica, e al loro mantenimento. Pongono cioè il problema dei sostegni vitali, dell’uso degli antibiotici nelle infezioni, della rianimazione cardio-polmonare. Cioè accendono e allungano il dibattito e lo spingono anche verso il versante pericoloso identificato come della futilità dei trattamenti.
Ha grandi risvolti intellettuali il fatto che un Giudice abbia opposto il suo no, in Inghilterra, alla interruzione della nutrizione artificiale e idratazione clinica in un soggetto in stato minimo di coscienza cui è seguito grande dibattito su «Journal of Medical Ethics» (10-13).
È questa una occasione per mettere in evidenza che le robuste linee guida del Royal College of Physicians sui Prolonged Disorders of Consciuousness, che per alcuni sono uno stato transitorio verso una più piena e anche completa riabilitazione e per altri l’esito in uno stato di permanente diminuzione di coscienza. Persone però capaci di fare esperienza di percezioni positive e piacevoli, ma anche capaci di sperimentare il dolore e lo stress. Quindi non solo un problema medico, ma anche un problema che implica convinzioni sociali e religiose e sui valori della persona. E nei paesi in cui c’è la possibilità di lasciare Direttive Anticipate di Trattamento, le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento scritte contano come contano le testimonianze di amici, conoscenti e familiari circa il pensiero espresso dalla persona ammalata quando era sana.
Nell’unico caso della letteratura del Regno Unito la Corte ha deciso per «la santità della vita/sanctity of life» stabilendo che sarebbe stato contrario alla legge e ai «best interests/migliori interessi» sospendere la nutrizione artificiale e la idratazione a una donna che era in condizione di minima coscienza da otto anni e che aveva dolore per gran parte della giornata e le cui chance di recupero della funzione erano remote. Dove l’espressione santità di vita nella decisione della Corte esprime il rispetto e riafferma il valore intrinseco della vita. Per la Corte «la signora era viva e i vantaggi di continuare a vivere superavano gli svantaggi». Il giudice ha sottolineato che la paziente aveva coscienza di sé e dell’ambiente circostante, rispondeva alla musica, occasionalmente guardava le persone che le stavano intorno e qualche volta pronunciava parole molto chiare. Certo aveva dolore per il 25-30% del tempo. Un dolore dovuto a incontinenza spasticità alla necessità di cambiarle posizione.
La Corte ha rigettato la richiesta della famiglia e dei consulenti. E questo concetto è stato recepito nelle linee guida del Royal College. Ma ha anche aperto il dibattito se sia di beneficio al paziente migliorare il proprio stato di coscienza e quindi di stress connesso alla totale dipendenza dagli altri se non siamo in grado di curare bene il dolore.



Meglio vivere in VS che in SMC?

Per questo caso finito davanti alla Corte del Regno Unito è stata posta la domanda se sia meglio essere in uno stato di minima coscienza che in uno stato vegetativo. Perché c’è la possibilità che il paziente a intermittenza può diventare cosciente e quindi essere stressato dalla sua condizione e dalla impossibilità a comunicare e quindi dall’essere confinato a un isolamento solitario. Cioè le esperienze negative superano quelle positive. Per la famiglia di M, si le superavano, per un esperto no; essendo evidente che M avesse momenti di genuino piacere.
Ma per alcuni vivere in MCS è peggio che in VS, e non c’è giustizia distributiva a dichiarare quel tipo di vita degno di essere vissuto. E poi in tempo di ridotte risorse i benefici sembrano piccoli per potersi consentire il lusso di consumarne tante per cui c’è necessità di stoppare questo tipo di terapie10.



La sperimentazione clinica nei gravi disturbi di coscienza

La sperimentazione clinica con persone in condizioni di particolare vulnerabilità e incapaci di esprimere un valido consenso richiede particolari tutele. Occorre, infatti, evitare che tali persone siano esposte a rischi indebiti dovuti alla sperimentazione. Allo stesso tempo, occorre garantire loro la possibilità di partecipare a sperimentazioni per loro potenzialmente benefiche: una totale preclusione proteggerebbe dai rischi causati dalla sperimentazione, ma impedirebbe anche di fruirne i potenziali benefici11.
Tutti i principali documenti sull’etica della sperimentazione clinica prevedono che possano essere effettuate sperimentazioni con persone incapaci di comprendere e di esprimersi soltanto se vi è il consenso espresso da un rappresentante legalmente nominato.
I fatti dimostrano che la necessità di un rappresentante legale (nominato, in molti Paesi, da un giudice o un tribunale mediante procedure complesse) costituisce spesso un ostacolo alla possibilità di effettuare sperimentazioni cliniche con persone incapaci di esprimere il consenso.
In alcuni stati (come, ad esempio: Francia, Olanda, Spagna) la legge prevede che, in assenza di un rappresentante legalmente nominato, sia valido il consenso espresso da un parente o da una persona affettivamente legata al paziente, con una procedura a cascata che, in genere, inizia dal marito o dalla moglie (o dal partner stabile) e, in assenza di questi, si estende a figli maggiorenni, poi ai genitori e successivamente ai fratelli o alle sorelle.



Elaborazione del lutto

Sulla stessa direzione etica gli stati di minima coscienza pongono la sfida sulla elaborazione del lutto nei familiari e nel team di cura di un paziente deceduto in corso di un disturbo minimo di coscienza. Un campo aperto, non studiato ma studiabile con lo scopo ultimo di poter fornire risposte sul tipo di sostegno necessario.
Gli stati vegetativi e gli stati minimi di coscienza costituiscono un paradigma per avviare i giovani allo studio della medicina
I giovani che iniziano il primo semestre di frequenza degli studi medici dovrebbero essere fatti transitare in una corsia di disturbi di coscienza e passare almeno una giornata intera nella casa di una persona con disturbi minimi di coscienza. Il contatto con i disturbi di coscienza è certamente una esperienza significativa e validante per capire la medicina e i suoi ambiti, il dolore e le incapacità della persona e le criticità del sistema di cura, il fine vita12.
Perché il richiamo agli studenti? Perché queste persone con stati gravi di coscienza esemplificano una medicina in cui è assente la comunicazione verbale, l’asse portante del rapporto medico malato-persona. Un modo per far capire loro che la medicina narrativa che viene riscoperta adesso e su cui molto si costruisce, e su cui si appuntano molte speranze, è difficile da praticare, ma non meno importante.















NOTE
1 L.E. Davis, M.K. King, J.L. Schukltz, Fundamentals of neurologic disease. An introductory text, New York, Demos Medical Publications, 2005.^
2 E. Alleva, L.T. Bonsignore, F. Chiarotti, S. Macrì, C. Petrini, Clinical, bioethical and experimental considerations behind the study of coma patients, «Ann Ist Super Sanità», 50(3) 2014, p. 208.^
3 L.T. Bonsignore, S. Macrì, P. Orsi, F. Chiarotti, E. Alleva, Coma and vegetative states: state of the art and proposal of a novel approach combining existing coma scales, in ivi, pp. 241-50.^
4 S. Majerus, H. Gill Thwaites, K. Andrews, S. Laurey, Behavioral evaluation of consciousness in severe brain damage, Progr Brain Res, 2005, 150, pp. 397-413.^
5 N.D. Schiff, U. Ribary, D.R. Moreno, et al, Residual cerebral activity and behavioural fragments can remain in the persistently vegetative brain, Brain, 2002, 125, pp. 1210-1234.^
6 A.A.M. Owen, M.M. Coleman, M. Boly, M.M. Davis, S. Laureys, J.D. Pickard, Detecting Awareness in the Vegetative State, Science, 20056, 313: 1402.^
7 M.M. Monti, A. Vanhaudenhuyse, M.R. Coleman, M. Boly, J.D. Pickard, L. Tshibanda, A.M. Owen, S. Laureys, Willful modulation of brain activity disorders of consciousness, N Engl J Med, 2010, 362: 816-822.^
8 J. Hobury, D.C. Reutens, A case for increased caution in end of life decisions for disorders of consciousness, «Monash Bioethics Review», 2009, 28, N. 2, 14.1-14.12.^
9 F. Lang, A tribute to Rainer Friedemann Greger, Kidney Int, 2008, 74: 1501-1502.^
10 D. Wilkinson, J. Savulescu, Is it better to be minimally conscious than vegetative, J Med Ethics, 2013, 39 (9), 557-558.^
11 Farisco, K. Evers, C. Petrini, Biomedical research involving patients with disorders of consciousness: ethical and legal dimensions, Ann Ist Super Sanità, 2014, 50(3): 221-228; M. Farisco, C. Petrini, Misdiagnosis as an ethical and scientific challenge, Ann. Ist Puser Samità, 2014, 50 (3): 229-233.^
12 N.G.De Santo, Cure di fine vita, Napoli, Guida, 2011; Idem, What death is. A literary approach between fears and hope, Ann Ist Super Sanità, 2014, 50(3): 249-267.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft