Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno IX - n. 4 > Saggi > Pag. 319
 
 
Il dialogo e le maschere del Filosofo*
di Emma Giammattei

Anche diceva che nei libri dei Socratici, la persona di Socrate
è simile a quelle maschere, ciascuna delle quali nelle nostre
commedie antiche, ha da per tutto un nome, un abito, un’indole;
ma nel rimanente varia in ciascuna commedia.
(Detti memorabili di Filippo Ottonieri)




Dialogismo, dialogale, dialogo.

Come si è tentato di mostrare di volta in volta nel corso di queste pagine, sono rilevanti le connessioni fra l’insieme di figure e argomentazioni che si è definito sin qui come lingua laica e la tradizione moralistica. La passione per la sprezzatura, per una prosa conversevole ed urbana, profondamente antioratoria, capace di avvalersi di tutti i procedimenti dell’ironia, a partire dalla discussione terminologica, costituiscono il requisito stilistico che accomuna esperienze letterarie e filosofiche certo assai diverse. A me è sembrato che questo stile di pensiero, irriducibile ad una formula e quindi non disponibile ad essere reinvestito meccanicamente, possa essere riconosciuto in una costante esigenza dissociativa delle nozioni, in una visione che distingue separa definisce riformula concetti e parole. «La coscienza ironica – ha scritto un filosofo esperto di ironia – si articola secondo le distinzioni e le pluralità del reale»1. E il discorso ironico, risultato della continua diffrazione del significato, vuol essere non creduto ma compreso, e perciò stesso postula la figura dell’interlocutore, consenziente o avversativo, attraendola e costituendola nel testo oppure evocandola, ora con un preciso appello al lettore ora nella immagine prodotta dell’uditorio. La scena ricorrente, rivelatrice, di questa sindrome retorica – ovvero antiretorica – si è configurata assai spesso nelle modalità, ora esplicite ora implicite, del dialogo come luogo di tensione del pensiero: dove gli interlocutori siano personaggi intellettuali, reali o fittivi, storici o immaginari. La maschera del Filosofo si è fatta avanti quasi naturalmente dai testi considerati, in un movimento che attraversa i generi, di per sé significativo. Si può avanzare l’ipotesi che la mitografia del personaggio-Filosofo2 porti con sé fin nel Novecento la memoria del dialogo, cioè della più antica, per gli Enciclopedisti, facon d’écriture, segnata dalla figura di Socrate; che di quella primissima «voce scritta», secondo la dizione dovuta a Paul Ricoeur rappresenti anzi la trasmigrazione, all’interno di generi contigui, come il romanzo epistolare, o come la narrazione utopico-fantastica di matrice illuministica.
Questo abbrivo ha comportato la ricognizione ulteriore, attraverso la vasta ed impervia topografia della «prosa di invenzione morale»3 – , sulle tracce della forma dialogica negli ultimi due secoli, vale a dire nell’età della controversa estinzione o mutazione del genere-dialogo. Il modello platonico ha rappresentato a lungo, come si sa, un ideale regolatore non soltanto in sede filo-sofica, previa la determinante mediazione petrarchesca e quindi attraverso il passaggio umanistico del dialogo in volgare, siglato dall’Alberti con i Libri della famiglia e più tardi teorizzato dal Tasso. Sintesi di poesia e dialettica, il dialogo è infatti la rappresentazione letteraria di una disputa: non già di una semplice conversazione, ma di un esame intellettuale. E d’altra parte, la contiguità con il parlato della conversazione permette ogni audacia. Trasposizione del sogno di una società consensuale, la forma del dialogo albertiano è speculare alla teoria architettonica della prospettiva centrale, e mette le basi, con la sua accentuata riflessione meta-linguistica, del discorso come «costruzione legittima». Ma già in questa fase fondativa, tutta italiana, già nella distinzione singolare all’interno dell’opera di questo umanista inquieto e déraciné, fra dialoghi in volgare «costruttivi» e dialoghi in latino paradossali ed amari (Intercenales), i caratteri genetici del moralismo moderno si rivelano sfuggenti, oscillanti tra la componente argomentativa e civile e un versante fantastico-satirico, capriccioso e avversativo, posto, come si sa, sotto l’insegna dell’altro grande fondatore del dialogo classico, cioè Luciano. Ancora fino al primo Ottocento, fino allo snodo costituito dalle Operette morali, sarà possibile riconoscere, come vedremo, l’evoluzione di maschere e finzioni instaurate dal dialogo umanistico, nella sua duplicità costitutiva, di saggezza e derisione. Si potrebbe riconoscere la prima componente nell’archetipo della senilità, così come viene rappresentato nell’Alberti dalla figura del vecchio saggio, il nonagenario Agnolo Pandolfini, protagonista socratico del Profugiorum: e intravedervi dietro l’ombra di Catone, della saggezza stoica. L’altra componente è segnalata dalla presenza del dio dello scetticismo e del sarcasmo, Momus, il figlio della Notte, nel dialogo eponimo dell’Alberti4, poi riattivata nell’Operetta leopardiana forse più sinistra e notturna, La scommessa di Prometeo. E’ una contaminazione dall’equilibrio ogni volta mutevole, dove le antiche prosopopee di tanto in tanto riappaiono, con il volto cangiato, ma non tanto da non essere riconoscibili, ogni qualvolta il dialogo sarà chiamato a rappresentare la filosofia nei territori della letteratura, o della letteratura nei territori della filosofia.
Sulla soglia, fra Sette e Ottocento si segnala la presenza, che un tempo fu canonica, ed oggi può apparirci enigmatica, del romanzo dialogico-epistolare di Vincenzo Cuoco, tenuto in pregio da Berchet e da Borsieri, nei loro manifesti romantici: quel Platone in Italia che, seppe cambiare e far fruttare in moneta italica, auspice Vico, il patrimonio illuministico francese, insomma l’essenza della cultura laica. Il secolo XIX ha accumulato poi tutta una serie di dialoghi didascalici, soprattutto finalizzati alla edificazione linguistica. Non è la precettistica, pur interessantissima – pensiamo soprattutto alle Grazie di padre Antonio Cesari5 – quanto la dialettica che importa, per ora. Dal versante socratico-platonico delle Operette si dipana un esile ma resistente filo che connette, in area hegeliana, il romanzo epistolare di Angelo Camillo De Meis, del 1868, Dopo la laurea, sul tema hegeliano della morte dell’arte, e il dialogo escatologico De’ quattro novissimi, di Vittorio Imbriani6 vero svolgimento del materialismo leopardiano e in particolare del Dialogo di Federico Ruisch e delle sue mummie. Va ricordato inoltre l’effetto di contagio dialogico indotto dalle operette, in virtù del quale la critica o l’adesione vengono espresse in forma di dialogo: dall’ Armonia Universale (1850) dell’abate Vito Fornari che ha tra i personaggi lo stesso Poeta, al dialogo Schopenauer e Leo-pardi, il mirabile saggio del De Sanctis fino a Della filosofia leopardiana. Dialogo fra un filosofo giobertiano ed un razionalista di un intellettuale oggi dimenticato, Giuseppe Chiarini. All’alveo della prosa filosofica segnato dalle Operette si può altresì attribuire, all’incrocio con altre ascendenze, in pieno Novecento, sia il «dialogo immaginario» di Croce, Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel, sicuramente debitore anche del Kant di De Quincey7, sia i dialoghi, dottrinari ma ricchi di artisticità , di Guido Morselli su Realismo e fantasia, dove parla un io con il filosofo e botanico Sereno8.
Dal versante fantastico-satirico, lucianeo, bene illustrato da Liana Cellerino, discende la linea che dai dialoghi primonovecenteschi di Michelstaedter, in particolare il Dialogo della salute e il Dialogo di Carlo e Socrate, arriva alla prosa dell’operetta morale di un cultore geniale di Teofrasto e di Melville, oltre che di Leopardi, Selva e torrente, di Gabriele Baldini9; e dall’intervista immaginaria al vecchio Paolo Uccello di Ennio Flaiano10, una pertinentissima – nell’apparente impertinenza – riflessione sull’arte nove-centesca, fino ad uno dei testi esemplari del secondo Novecento, il romanzo epistolare e dialogico Alonso e i visionari , singolare fusione di materiali simbolici e filosofici, estrema e salutare diffida della Ragione alle proprie allucinate ragioni, in nome di una innovativa «intelligenza delle emozioni»11. Ma si tratta di una distinzione, fra le due componenti del modello leo-pardiano, essa sì, scolastica, perché, come si diceva, le combinazioni fra i due fattori appaiono ope-ranti all’origine della tradizione dialogica italiana. Comunque, quelli appena evocati, sono nomi e titoli omogenei che appartengono, certo con differente rilievo, ad una parte rilevante della storia della cultura italiana degli ultimi due secoli. Attraverso di essi si delinea, come vedremo nel corso di queste pagine, sui piani contigui o embricati di letteratura e filosofia, il percorso discontinuo della forma dialogica, dopo le molte felici applicazioni settecentesche da parte del razionalismo illu-ministico e della «Civiltà della conversazione», l’Ottocento, com’è noto, ha fatto registrare nuove forme di scrittura che privilegiano la narratività e la forma breve a discapito del dialogo.
L’emergere della storia come forma di rappresentazione del tempo – è stato scritto – lo sviluppo di grandi sistemi che hanno ricomposto le figure della razionalità per il tramite delle narrazioni speculative, alla maniera di Hegel, accompagnano il predominio del romanzo come modo di costruzione del racconto. Nello stesso tempo, come per uno sforzo inverso rispetto alla totalizzazione consentita dalla scienza e dalla filosofia, si registrano forme divise, capaci di mandare in pezzi il sistema, frammenti, aforismi, segni della dispersione irriducibile12.

In seguito, la perdita di una riconoscibilità esatta del genere ha coinciso, a partire dalla seconda metà del Novecento, con la ripresa nella sfera teorica, di uno dei lasciti più fecondi del pensiero critico russo degli anni Venti-Trenta, cioè del dialogismo, come valore narratologico e come categoria universale della comunicazione linguistica, eterogeneità costitutiva della parola umana13. Sullo sfondo, la pressione editoriale e mediatica di forme contaminate quali l’intervista, il convegno, la tavola rotonda, il salotto televisivo, tendono a reificare nello spettacolo l’antica energia del dialogo, che pure tengono in vita. Basta considerare il funzionamento del dibattito o della tavola rotonda televisivi per rendersi conto che il polilogo rappre-senta ormai il tratto conversazionale nella sua debolezza, come frammento irrelato e continua ripe-tizione, tali da non consolidarsi in costruttivo processo di idee e argomentazioni. In un saggio sul giornalismo di Heine, Elena Croce, nel 1953, metteva in relazione il fenomeno migratorio delle più importanti forme dialogiche dalla mondanità sublime del salotto filosofico settecentesco verso la pagina stampata, con lo sfruttamento economico di ogni risorsa intellettuale, e con il razionamento democratico del superfluo fra un numero crescente di consumatori.
Un inconfondibile sapore di ‘Ersatz’ – aggiungeva – distingue l’artificiosa conversevolezza di questi nuovi generi da quella dei suoi precedenti e modelli settecenteschi. Nell’epoca in cui tutti pretendevano di essere filosofi, ma erano dei grandi conversatori senza pretenderlo, lo scrittori di aforismi non nasce come dicitore di bons mots, bensì come raccoglitore appassionato di frammenti di esperienza, il pubblicista s’immedesima colle idee che divulga, e non principalmente colle tecniche della divulgazione14.

La parola dialogica, forma e sostanza della relazione sociale, attesta la vitalità, cioè la funzione non reificata, di una cultura. In Germania, nei medesimi anni, da una differente impostazione ideologica, ma con la analoga persuasione estetica che la storia dell’arte è determinata non dalle idee ma dal loro realizzarsi nella forma, Peter Szondi, in quello studio fondativo che è ancora oggi Teoria del dramma moderno, faceva risalire la crisi del dramma alla fine del XIX secolo, al momento in cui il naturale mezzo formale del dramma, il dialogo, veniva tematizzato. Quando il rapporto in-tersoggettivo e la sua estrinsecazione linguistica, il domandare e il rispondere, risultano penosamente problematici, ecco che da premessa formale, medium, la comunicazione diventa essa stessa il grande tema. Con l’importante implicazione che la tradizione futura è resa possibile da ciò che si fa forma, non da ciò che è tematico: «Ma l’evoluzione storica del rapporto di soggetto e oggetto ha reso problematica – concludeva Szondi -, con la forma drammatica, la tradizione stessa»15.
Oggi, proprio le progressive articolazioni e distinzioni che si dipartono dalle pagine anticipatrici di Bachtin su Il problema dei generi del discorso16, – le diversificazioni fra dialogismo, polifonia, polidiscorso, plurivocità nell’ambito delle ricerche di analisi del discorso – ci fanno cogliere il nesso problematico fra la discorsività media, rappresentata dagli enunciati di una comunità in un dato momento, il discorso letterario e la tematizzazione teorica17. Mentre si fa evidente l’estraneità contemporanea all’estetica dell’esistenza, al gioco di specchi fra letteratura e vissuto, che dettava a Friedrich Schlegel il celebre assunto: «Anche una conversazione reale può essere un’opera d’arte», il teorico ha dovuto infatti ripensare il dialogo nella definizione totalizzante di ipergenere18, capace di formattare ogni contenuto e situazione dicibile. Al pari della lettera il dialogo sarebbe una forma libera e flessibile, senza vere costrizioni di genere, e quindi fenomeno di lunga durata, dinamica quanto resistente, reperibile dappertutto man mano che scompaiono le sue concrete riconoscibili attualizzazioni. Nella storia che qui interessa raccontare, si terrà conto, solo di scorcio, della ipertrofia teorica chiamata a compensare la perdita crescente, nella realtà, nella letteratura, nelle sceneggiature, semplicemente, di destrezza dialogica. Colpisce particolarmente, ad esempio, nel libro di un grande lin-guista, Claude Hagège, il tragitto meta-disciplinare che congiunge l’essenza originaria dell’uomo con il suo futuro nell’immagine pregnante dell’«uomo dialogale», che è soggetto e oggetto della linguistica. Si vuole citare un passo della pagina conclusiva dell’Uomo di parole, convinti come siamo che la realtà culturale è una, e che le tesi delle discipline specialistiche, quando siano decisive e innovatrici, estranee all’inflazione formulistica, si sedimentano e circolano in immagini per tutti disponibili:
Prodotto perpetuamente rinnovellato di una dialettica di costrizioni, di cui ignoriamo le forme future, e di libertà, il cui grado dipenderà dalla sua risposta alle sfide che si profilano all’orizzonte, l’uomo dialogale suggerisce con la propria stessa natura alcuni punti di riferimento per un discorso che sappia parlare integralmente di lui, e non delle sue maschere. Ancora dobbiamo consentire di dirigere lo sguardo verso di lui19.

L’energia di questo appassionamento militante si può riconoscere anche nelle affascinanti ipotesi etnolinguisitche che individuano nella funzione narrativo-comunicativa il fattore determinante della emergenza del linguaggio e della evoluzione dell’ Homo sapiens nella forma di Homo narrans. Si tratta della tesi secondo la quale l’Homo narrans sarebbe caratterizzato non da un diverso grado di intelligenza rispetto alle altre specie di homo sapiens che lo hanno preceduto, ma dalla capacità di raccontare la propria storia, origine di una nuova «saggezza» fondatrice delle società umane. Viene in tal modo proiettata sul presente un’idea di umano retroattivamente ricostruita, a partire da ciò che manca, e come tale profondamente contemporanea20.
Il percorso del genere dialogico implicherebbe, come attuale tematizzazione teorica di dialogo e di uomo dialogale, sin troppi punti di fuga transdisciplinari. Ci si contenti per ora di considerarlo invece, alla luce di una circoscritta competenza, nel suo intreccio storico, a vari livelli, con le figure della lingua laica e con la tradizione, continuamente interrotta, del moralismo. Intanto, ci troviamo lungo la linea di confine e di contiguità fra i territori che cominciarono a separarsi a partire dalla fine del Settecento, della filosofia, della retorica argomentativa e dell’immaginario letterario. In questa sequenza formale tutta soluzioni e ritorni e mutazioni, viene a ragione attribuito un valore di soglia al Dialogo sulla poesia, di Friederich Schlegel. A questa versione drammatizzata del dialogo platonico l’autore nel 1800 consegnò la summa dell’estetica romantica, nello stesso tempo sperimentandovi la proliferazione ironica degli enunciati e dei piani espressivi. I protagonisti leggono i propri saggi, provocando una animata conversazione; una di queste letture è costituita da una lettera, la Lettera sul romanzo, in una interferenza multipla reciprocamente sovvertitrice dei generi, dal momento che tutto il dialogo è ri-narrato da un testimone, seguendo così il modello cice-roniano, che consiste, secondo il canone retorico, nel racconto di una conversazione. Se è vero che il romanzo viene qui indicato da Schlegel come il luogo privilegiato della dissoluzione romantica delle forme istituzionali della letteratura, se ne indica il senso profondo, innervato nell’antropologia del moderno, di statuto ermeneutico, di dato pertinente alla ricezione: «Quale de-scrizione di viaggio, raccolta di lettere o autobiografia non costituirebbe, per chi la leggesse con spirito romantico, un romanzo migliore del migliore fra i romanzi?». Di fatto rimane però affi-data alla forma del dialogo la capacità inclusiva delle posizioni ideologiche rappresentate, tramite l’energia evocatrice del parlato, necessaria a stabilire la novità e non-convenzionalità del testo teorico. I saggi vengono letti ad alta voce e poi discussi, la lettera viene recitata alla destinataria, e perciò aperta ad una ulteriore dialettica di domanda e risposta. Il passaggio fra scrittura e oralità è dunque fecondamente riattivato a doppio senso, liberato nel gioco witzig «della fantasia che combina poesia e prosa». Tutto è romanzo, Dante, Cervantes, Shakespeare, si afferma nel Dialogo: può darsi, ma ad affermarlo è ancora la forma fra tutte la più antica, quella che prende abbrivo dalla conversazione filosofica e dalla contiguità con la voce21.
Questo importante testo schlegeliano sembrerebbe dare ragione a chi afferma che il genere dialogico ha concluso allora, nel passaggio al XIX secolo, il suo ciclo vitale. Può essere d’aiuto, sfogliare, in via preliminare, il denso volume che raccoglie gli atti del convegno Le dialogue ou les enjeux d’un choix d’écriture (pays de langue romanes), cospicua testimonianza dell’interesse odierno suscitato, in tutte le culture europee, dal genere dialogico nella sua lunga storia, e da accostare almeno agli studi di F. Cossutta consacrati al dialogo dal versante prettamente filosofico. Il curatore, Philippe Guérin, nell’introduzione intitolata Dialogus de dialogo, segnava i punti orientativi di una storia del dialogo svolta in forma dialogica – confermando quindi la natura adesiva del genere – e indicava la centralità della linea italiana della tradizione dialogica moderna, da Leon Battista Alberti a Leopardi, da Giordano Bruno fino ai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, così come veniva fuori dai contributi del convegno. Si deve, di rincalzo, subito aggiungere che la storia otto-novecentesca del dialogo italiano convoglia il modello umanistico attraverso il passaggio rideterminante del dialogo settecentesco francese.
C’è di mezzo la promozione ideologica, da parte degli Illuministi, del discorso diretto come essenziale struttura paratattica, libera da impacci, e quindi della fluidità tipografica nella resa del dialogo. La paratassi, come nel Novecento tornerà ad argomentare Adorno, è già per Marmontel la vera «pratica sovversiva», letteralmente tecnica di non-subordinazione, rispetto al privilegio accordato dalla Grammatica di Port Royal al discorso indiretto, mediazione necessaria affinché l’enunciatore possa assumere nella propria la parola religiosa o la parola del potere22. In una delle prime pagine dello Zibaldone non sfuggiva al giovane scrittore l’osservazione del Marmontel secondo la quale ogni bella impressione o sensazione importa, non già in sé, ma nel suo essere comunicata ad altri. Leopardi restituiva questo pensiero alla sociabilità distintiva della cultura francese del Settecento, salvo precisare, certo con Rousseau, che una impressione profonda va invece coltivata nella solitudine e svaporerebbe se esposta «all’aria della conversazione»23. Ma anche per Leopardi saranno importanti sia i Dialoghi dei morti del Fontenelle, sia soprattutto il duraturo modello costituito dalla forma dialogica siglata da Diderot, determinante almeno per intendere l’ironia tattica delle Operette morali e la stessa definizione data dal Leopardi di ironia socratica, debitrice dell’articolo enciclopedico di Diderot Philosophie socratique. Ancora in pieno Novecento un prensile cultore dell’illuminismo e della letteratura francese, Ennio Flaiano, adotterà la struttura speculare di due ‘casi’ che dialogano tra di loro, nel libro, del 1970, Il gioco e il massacro, che dipende con evidenza dalla macchina metanarrativa di Ceci n’est pas un comte24. In una cornice-esergo si immagina infatti che i due protagonisti dei rispettivi racconti, l’uno trasformato da omosessuale in innamorato della Donna, l’altra da giovane allumeuse in cagna, «come quei suppliziati di una volta, chiusi in casse dalle quali sporgevano soltanto con la testa, … si riconoscono e, per ingannare il tempo della pena, raccontano le loro storie […]»25.
Non per nulla il teorico dell’estetica della ricezione e della funzione di domanda e risposta nella letteratura occidentale, Hans Robert Jauss, ha dedicato molte densissime pagine alla lettura ravvicinata, fatta da Hegel del Neveu de Rameau, l’opera postuma e più complessa di Diderot che abbatte le barriere fra dialogo e narrazione e che occupa una collocazione significativa «nella successione dialettica delle figure della storia dello spirito ‘che si è reso estraneo a sé», tanto da essere inglobata dal filosofo jenense nella Fenomenologia dello spirito26.
Modello umanistico italiano, dunque, e tradizione dialogica dell’illuminismo, vengono convogliati in un tracciato mosso quanto unitario, dalle molteplici articolazioni nazionali, ma sempre riconoscibilmente europeo. Quando un grande filosofo europeo, appunto, come Ernesto Grassi, riprenderà con fecondi risultati il lascito umanistico, recupererà il dialogo come «teatro della storia» e come ethos del disvelamento perenne, nel linguaggio. In uno dei colloqui immaginari egli interpellerà direttamente, accanto al Platonico e all’ Aristotelico, il personaggio argomentante di Coluccio Salutati, «partner immaginario»27, sostenitore della doctrina perfecta, cioè della sintesi di scienza e retorica, summa di quegli studia humanitatis i quali, secondo la penetrante definizione di Francisco Rico, «erano una fittissima trama di rapporti che invitava a scandagliare la realtà attraverso un’infinità di strade percorse simultaneamente».
In questo senso precipuo c’è una continuità profonda tra umanesimo e illuminismo: il laicismo degli umanisti, da strategico e strumentale, sarebbe divenuto valore autonomo per gli illuministi, cambiato il segno, da religioso a secolare, di una medesima pratica liberatrice del sapere28.







NOTE
* Queste pagine sono tratte dal capitolo centrale del libro di Emma Giammattei La ligua laica (Venezia, Marsilio, 2008). Una tradizione italiana, che parte da una considerazione e da una esigenza di natura storiografica: nel generale allontanamento dalla ragione illuministica, che è il carattere del nostro tempo, la spendibilità del termine “laico” si commisura alla sua genericità. Si è smarrito il significato epistemologico di un atteggiamento intellettuale, così come risulta, storicamente, da una rete di testi. Da Cuoco a Cattaneo, da Leopardi a Croce, fino a scrittori del Novecento afferenti al campo culturale del «Mondo» di Pannunzio, l’autrice si è provata a delineare, lungo due secoli, una tradizione culturale continuamente interrotta. È la storia di uno stile di pensiero, di un modello di scrittura che viene definito come Laico a partire non già dai concetti, o dagli schieramenti politico-confessionali, ma dal carattere dell’enunciazione, dalle figure retoriche ricorrenti, sotto l’insegna dell’ironia, dalle forme espressive adoperate. È dunque una particolare attenzione è stata dedicata al dialogo, come metodo, o come commemorazione, di una società consensuale, come rappresentazione letteraria di quella «comunità discorsiva», che è, o dovrebbe essere, una nazione.^
1 V. Jankélévitch, L’ironia, a c. di F. Canepa, Genova, il melangolo, 1997, pp. 68 e sgg. E si ricordino le bellis-sime pagine di appunti di Bachtin, sulla natura metalinguistica dei processi linguistici, in particolare della struttura sin-tattica e lessico-semantica delle lingue moderne, la cui evoluzione è vista nella prospettiva della lotta contro la parola «sacra (autoritaria)», non dialogica, e della lenta affermazione dell’ironia.«L’ironia è entrata in tutte le lingue dell’età moderna (soprattutto nel francese)»: M. Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, a c. di C. Stradajanovic, Torino, Einaudi, 1988, al Cap. Dagli appunti del 1970-1971, pp. 349-351 sgg.^
2 Ci muoviamo lungo la linea metodologica inaugurata da Salvatore Battaglia in Mitografia del personaggio (Milano, Rizzoli, 1968), nella medesima consapevolezza, espressa in esergo dal Maestro napoletano, che «nella nostra topografia morale tutte queste tipologie, per quanto ciascuna d’esse risulti vincolata al suo tempo storico e al suo clima spirituale, convivono simultaneamente e insieme alimentano il nostro patrimonio più stabile e attuale, come l’asse ereditario dell’umanità. E mentre i sistemi speculativi e metodi epistemologici si fagocitano l’uno con l’altro, le mitografie letterarie permangono contemporanee e compresenti: che è poi il costante privilegio dell’arte sulla dottrina e sulla scienza.» (Prefazione, p. 9).^
3 Cfr. L. Cellerino, Prosa d’invenzione morale, in LIE, vol. 3 le forme del testo, tomo II La pro-sa, Torino, Einaudi, 1984.^
4 Sui dialoghi in latino dell’Alberti, cfr. R. Rinaldi, Leombattista Alberti malinconico, in Storia della Civiltà Lette-raria Italiana, vol. II, t. I, Torino, Utet, 1992, pp. 207-228.^
5 È un dialogo del 1813, ambientato nell’autunno del 1794, nella località amena “le Grazie” nei pressi di Rovereto, tra Clementino Vannetti, l’abate Pederzani e l’abate e insegnante di retorica Antonio Benoni: in A. Cesari, Prose scelte, Napoli, Gabinetto letterario largo Trinità maggiore, 1830, pp. 119-324. Per una contestualizzazione, cfr. C. Marazzini, Il perfetto parlare. La retorica in Italia da Dante a Internet, Roma, Carocci, 2001, pp. 219-224.^
6 Cfr. V. Imbriani, Il mondo e l'altro mondo. De' quattro novissimi: Dialogo escatologico, ristampa a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1943.^
7 Th. De Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, a c. di F. Jaeggy, Milano, Adelphi, 1983. Il testo apparve nel 1827.^
8 G. Morselli, Realismo e fantasia. Dialoghi, Milano, Bocca, 1947. Il filosofo Sereno che vuol «serbar l’incognito», lascia che a scrivere e a firmare il libro sia il suo interlocutore; anch’egli mostra di discendere dall’archetipo di Filippo Ottonieri.^
9 G. Baldini, Selva e torrente con pres. Di G. Manganelli, Torino, Einaudi, 1970. Il dialogo è ambientato in un al di là da intendersi come mondo parallelo dei trapassati, dove sono anche gli animali fantastici della mitologia e della letteratura. Alla fine c’è un dibattito fra l’unicorno e l’araba fenice, il primo a favore della menzogna, la seconda della verità.^
10 Il Tempo dietro il Tempo, Presentazione a L’opera completa di Paolo Uccello, con apparati critici e filologici di L. Tongiorgi Tomasi, Milano, Rizzoli, 1970; poi in E. Flaiano, Opere 1947-1972, a c. di M. Corti e A. Longoni, Milano, Bompiani, 1990, vol. II.^
11 Cfr., oggi, il discorso che va svolgendo M. Nussbaum, L'intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna, 2004.^
12 Ph. Guérin, Dialogus de dialogo, Introduction à Le dialogue ou les enjeux d’un choix d’écriture (pays de langue romanes). Actes du colloque international organisé par l’Équipe d’accueil ERILAR les 17 et 18 octobre 2003, Presses Universitaires de Rennes, 2006.^
13 Dal punto di vista dell’applicazione letteraria, risultano insostituibili gli studi di Cesare Segre. Si veda almeno C. Segre, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991. Dal punto di vista dell’analisi del discorso, si rinvia alle pagine anticipatrici di B. Mortara Garavelli, La parola d’altri: prospettive di analisi del discorso, Palermo, Sellerio, 1985.^
14 E. Croce, Il giornalista Heine, in «Lo Spettatore Italiano», 6 (1953), n. 5, pp. 216-228, a p. 216.^
15 P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, con introd. di C. Cases, Torino, Einaudi, 1962, p. 135.^
16 Per un quadro esaustivo della questione, si veda il volume degli Atti del Convegno di Cerisy Dialogisme et pol-yphonie. Approches linguistiques, Actes du Colloque de Cerisy, sous la direction de J. Bres, P. P. Haillet et alii, Bruxelles, de boeck.duculot, 2005.^
17 Cfr. C. Kerbrat-Orecchioni, Le dialogue littéraire, in Le discours en interaction, Pari, Colin, 2005, pp. 312-362. Si veda l’esauriente ed aggiornata bibliografia.^
18 D. Maingueneau, le dialogue philosophique comme hyper-genre. Les interlocuteurs et leurs noms, in F. Cos-sutta (s. la direction), Le dialogue: introduction à un genre philosophique, Presses universitaire du Septen-trion, Lille, 2004, pp. 85-103.^
19 C. Hagège, L’uomo di parole. Linguaggio e scienze umane, Torino, Einaudi, 1989, parte II Una prospetti-va teorica ovvero L’uomo dialogale, p. 294.^
20 Cfr. il saggio di B. Victorri, Homo narrans: le role de la narration dans l’émergence du language, del quale si citano le conclusioni: «Cette thèse est, bien sûr, hautement spéculative par bien des aspects. C’est le lot de toutes les théories actuelles sur l’origine du langage. En l’absence de preuves directes, on ne peut qu’éechafauder des thééories hypothétiques dont la cohérence repose sur les connaissances acquises par d’autres disciplines (linguistique, paléoan-thopologie, etc,), et dont l’intérêt essentiel est de permettre des confrontations entre différentes conceptions de l’homme et du langage. C’est dans cet esprit que nous avons présenté cette thèse, qui fait de l’homme un Homo narrans, puisque ce n’est pas l’intelligence qui le distinguerait des autres espèces d’Homo sapiens qui l’on précédé, mais la capacité à raconter sa propre histoire, source d’une nouvelle “sagesse” fondatrice des sociétés humaines.»: «Languages», n. 146, 2002.^
21 F. Schlegel, Lettera sul romanzo, in Dialogo sulla poesia, a c. di A. Lavaggetto, Torino, Einaudi, pp. 61-62. Molto opportunamente la curatrice sottolinea l’importanza dell’interesse di Schlegel per Platone e la forma del dialogo platonico: «Nella forma dialogica trovava rispondenza un ulteriore cardine della dottrina romantica. Il dialo-go, infine, è il luogo della sinfilodofia, della comunicazione produttiva».^
22 È una storia illustrata da L. Rosier, Le discours rapporté. Histoire, théories, pratiques, Paris-Bruxelles, Du-culot, 1999; ID., Dialogismo, discours rapporté. L’approche du discours rapporté renouvelée par l’analyse du discours. Un bilan critique et une piste de recherché, in L’analyse du discours dans les études littèraires, sous la dir. de R. Amossy et D. Maingueneau, Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 2003, pp. 97-109. Naturalmente bisogna risalire alla fondazione di queste modalità critiche nel lavoro teorico di M. Foucault.^
23 Zibaldone, cit., pp. 86-87.^
24 Si vedano le riflessioni di H.R. Jauss su questo testo, in Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria. Vol. II. Domanda e risposta: studi di ermeneutica letteraria, Bologna, il Mulino, 1988.^
25 E. Flaiano, Il gioco e il massacro, Milano, Rizzoli, 1970. E cfr. infra al Cap.III della Parte Seconda.^
26 H.R. Jauss, Il ‘Neveu de Rameau’ dal dialogo alla dialettica, ovvero: come Diderot ha recepito Socrate e Hegel Diderot, in Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, vol. II, Domanda e risposta: studi di erme-neutica letteraria, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 154-196.^
27 E. Grassi, Il rifiuto del razionale nella conoscenza della realtà, in Il colloquio come evento, a c. di R. Messori, Napoli, La Città del Sole, 2002, pp. 73-94.^
28 F. Rico, Il sogno dell’Umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, Torino, Einaudi, 1998, al cap. I cammini del Nuovo Mondo.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft