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Depressione e povertà
di Donatella Marazziti
Secondo statistiche dell’Organizzazione mondiale della Sanità oggi vi sono nel mondo circa 322 milioni di persone depresse, ossia il 4,3% del totale,una persona ogni venticinque. È una cifra notevole, ma la rende ancor più spiacevole la previsione che entro il 2020 la depressione diventerà la seconda causa di disabilità dopo le malattie cardiovascolari. Si calcola pure che la depressione coinvolga, oltre chi ne soffre, anche le persone intorno, e che, per ciò, il numero dei depressi va moltiplicato per 2 o per 3, se si vuol fare il conto delle persone che, sia pure indirettamente, ne sono coinvolte. Né basta. Si calcola ancora che molti depressi, per una qualsiasi ragione, non ne parlino, e che, quindi, l’incidenza del fenomeno sia anche maggiore di quanto si pensa. Se poi dalla depressione (che è già una patologia di non facile, né semplice definizione) si passa a fenomeni più generici, come il “disagio psichico”, le statistiche diventano del tutto sconfortanti. Si pensi che in Italia nel 2013 una ricerca della Società Italiana di Psichiatria dava addirittura in 17 milioni il numero degli italiani affetti da quel disagio: cioè, pressappoco, un italiano su tre.
Per fortuna (si fa per dire),quando si parla solo di depressione, i numeri diminuiscono di parecchio. Per l’Italia si parla “soltanto” di 6 milioni di depressi, più o meno il 10% della popolazione, un italiano su dieci. Si tratta, comunque, di una cifra in progressiva espansione, così come in tutto il mondo.
Per l’Italia, poi, è particolarmente interessante che secondo un’inchiesta coordinata da Donatella Marazziti, una nota specialista di questi problemi, nella distribuzione territoriale del fenomeno la depressione è molto più diffusa nel Nord che nel Sud. L’inchiesta è stata condotta su un campione di 1.800 persone (circa 930 femmine e 870 maschi), tra i 18 e i 70 anni, di 6 città del Centro-Nord e 6 del Sud e delle Isole. Le città con maggiore percentuale di depressi vanno da Udine (14,3) a Mantova (14,1), Piacenza (12,7), Ancona (11,4), Lucca (10,4), Campobasso (10,2), Perugia (9,4), Salerno (8,7),Siracusa (8,1), Foggia (7,5),Cagliari (7,2) e Cosenza (6,7): al Sud, dunque, si ha quasi la metà del Centro-Nord.
Le spiegazioni data al riguardo dalla ricerca appaiono approssimative. Conterebbero, infatti, la molto maggiore presenza della luce del Sole al Sud, e un fattore culturale, una “cultura resiliente diversa”, ossia, se intendiamo bene, una cultura, più statica, tradizionale, poco propensa al mutamento (e si portano come esempio Cosenza e Cagliari, che vivrebbero felici “in un ambiente culturale e sociale orientato alla solidarietà”).
Si sa che la depressione viene sempre connessa alla povertà, al bisogno, alla impossibilità di soddisfare necessità anche elementari. Dunque, perché allora, secondo la ricerca della Marazziti, si vede il Sud meno depresso del Nord? Vittorio Feltri, commentando sul suo giornale questi dati, li ha spiegati dicendo che “i soggetti a rischio sono ricchi e lucidi. Il male oscuro colpisce chi ha pochi desideri da soddisfare, avendoli soddisfatti quasi tutti”. Poveri ricchi, che pena!
In realtà, non c’è in ciò un’esclusiva per nessuno, ricco o povero che si sia. E, d’altra parte, le basi della ricerca in questione sono troppo ristrette (mancano, tranne Cagliari, tutte le maggiori città italiane) per trarne illazioni molto generali. Per il Sud si può, tuttavia, osservare che, al di là della dimensione individuale, c’è una dimensione sociale e ambientale del fenomeno, che va studiata a parte. Una dimensione che si traduce nel condizionamento negativo di un ambiente che dà la sensazione di essere senza prospettive per l’oggi e per il futuro. Una dimensione che toglie quasi ogni spazio di proiezione in avanti al sentire sociale e individuale, e, certo, rende più resiliente la cultura locale.
La minore depressione meridionale, se c’è, non è, quindi, il frutto della maggiore luce solare o dello spirito di solidarietà che si sente intorno a sé. È il frutto di uno spirito di sostanziale rassegnazione e adeguamento a una radicale scarsezza di prospettive, tanto è vero che, quando questo spirito dimesso e rinunciatario non c’è o viene meno, si passa subito a comportamenti fortemente trasgressivi oppure si emigra, e si va via magari anche senza neanche sapere se altrove vi sia una qualsiasi prospettiva, e ciò è molto meno paradossale di quanto non sembri.
Si tratta insomma di una depressione che a livello sociale desertifica lo spazio umano del proiettarsi in avanti, verso il futuro, verso il da fare oggi e domani. Vero è che, se la depressione individuale offre le tante difficoltà di diagnosi (quasi soltanto cliniche) che sono ben note agli specialisti del campo, quella sociale ne offre anche di più. Non è in statistiche (del reddito, del lavoro, dei consumi ecc. ecc.), o in altro, più o meno presunto, mezzo di valutazione (compresa la tanto esaltata virtù della “rete”), che la si può tradurre. È, piuttosto, materia, come oggi si dice, da post- verità, ossia, come ha spiegato l’English Oxford Dictionary, di una condizione in cui emozioni e credenze personali giocano molto di più di fatti e dati oggettivi nel formare l’orientamento delle persone.
Occorrerebbe, quindi, semmai, per farvi fronte, una sorta di capacità clinica della politica che cogliesse appieno il senso concreto della realtà in cui si opera. E almeno per ora in Italia, e non solo per il Mezzogiorno, non se ne vede segno.
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