Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XV - n. 2 > Rendiconti > Pag. 208
 
 
A difesa della Storia
di Valeria Sgambati
Alla fine del ’900 – come era già avvenuto, in forme diverse, alla fine del secolo XIX – la storia è stata messa sotto accusa come prodotto pericoloso dell’intelletto umano, in quanto da considerarsi soprattutto come «fabula», intreccio narrativo, strategia retorica, instrumentum regni. Uno scetticismo variegato quanto diffuso ha insistito soprattutto sulla mancanza di «senso» della storia, sul «soggettivismo» quasi del tutto arbitrario degli storici, trovando riscontro nella metahistory di H. White, che ha ridotto la storiografia a mera retorica, così come nel cosiddetto post-modernismo, che considera irrilevante la contestualizzazione e disdegna la critica delle fonti, nonché nel linguistic turn che nega il passato come oggetto possibile di studio. Insomma, la storia agli inizi del terzo millennio è apparsa come «una maestra della vita che non ha discepoli», come ebbe a dire Giuseppe Giarrizzo, oppure «una pattumiera» di goethiana memoria, secondo la definizione di Massimo Mastrogregori, e che tuttavia ha visto sempre di più invalere il suo uso mediatico, «kitzsch», debole e strumentale. A fronte di tutto ciò, gli storici di mestiere, sia pure con un certo ritardo, sia a livello nazionale che europeo, hanno difeso, a partire soprattutto dagli anni ’90 del XX secolo, con sempre maggiore determinazione il valore epistemologico e civile rappresentato dalla discipline storiche, elaborando vecchie e nuove argomentazioni in difesa della storia, di carattere sia teorico che metodologico. Basti pensare ai testi di Momigliano, Diaz, Galasso, oppure a quelli di Thompson, Elton, Evans, Tosh e ad altri ancora. Anche il recentissimo volume di Sandro Rogari, pubblicato da Utet, dal significativo titolo La scienza storica, intende a detta dell’autore difendere la storia dagli «attacchi» molteplici subiti e fornire «uno strumento di riflessione» per chi è agli inizi del mestiere, «per chi non vuol farsi ingannare da libri che solo in apparenza sono di storia». È dunque soprattutto un manuale che affronta i principi tanto epistemologici quanto metodologici della ricerca storica. A questi ultimi è dedicata la seconda parte del testo, in cui in più capitoli, ricchi di preziosi consigli pratici, sono affrontati utilmente temi e problematiche che vanno dalla classificazione delle fonti alle caratteristiche della comparazione storica, ai generi e ai percorsi della ricerca storiografica. All’impostazione e all’analisi dei principi epistemolgici è dedicata invece la prima e più lunga parte del libro, in cui Rogari si diffonde sulla «scienza storica come scienza sociale» e sulla «costruzione della scienza storica contemporanea», puntando soprattutto a identificare le caratteristiche precipue della storiografia, oltre che le analogie e le differenze tra quest’ultima e le altre scienze, vuoi sociali, vuoi fisiche. Suo intento è precisare lo statuto epistemologico della storia, definendo ciò che non è scienza storica e individuando le qualità euristiche della storia, sia quelle specifiche, sia quelle che condivide con le altre scienze. Ritenendo «genetico» ed essenziale ma non esaustivo il rapporto della storia con le altre scienze giuridiche e sociali, giustamente Rogari si sofferma sulla dimensione «individuale», configurante, diacronica degli eventi riferiti a processi evolutivi, specifici e irriproducibili, propria della scienza storica; così come ne sottolinea il lessico ordinario, «comune», il suo carattere narrativo e antropomorfico. A suo giudizio, si è realizzata nel tempo «un’assimilazione antropomorfa del corso della storia al corso della vita umana», si è sedimentato un «sillogismo» tra storia e biografia individuale o collettiva, fra «narrazione biografica e narrazione storica», ma ciò apparterrebbe soprattutto «al comune sentire», più che agli «addetti ai lavori». Viene da pensare, però, che forse non è proprio così, se si riflette sul fatto che antropormofizzare non vuol dire solo retorica «personificazione», ingenua proiezione della dimensione psico-fisica dell’uomo al suo esterno. Così come viene da obiettare se ci si sofferma sulla specificità e longevità del genere biografico nella storiografia occidentale, fin dai suoi primordi; se si riflette sulla capacità che ha la biografia di rappresentare il «geroglifico» della storia. Con la biografia infatti risalta maggiormente il rapporto tra soggettivo e oggettivo, tra individuale e universale, particolare e generale, come aveva già sottolineato Romeo; così come, secondo il pensiero di Gurevic, si tenta di afferrare insieme come parti di una «totalità significante» gli eventi di una vita e, come si è espresso P. Ricour, da essa soprattutto si ricava «il senso di un esito» connettendo «il termine conclusivo di un processo con la sua origine, in modo tale da conferire a tutto quel che è accaduto nel mezzo una significanza». La storia, secondo Rogari, non ha e non vuole avere capacità predittiva e non formula leggi universali, si occupa dell’azione degli uomini, in quanto esseri «finalizzati» e relativamente liberi, in un determinato contesto, delimitato dallo spazio e dal tempo. Secondo l’autore, per la storia, le capacità previsionali di comportamenti di soggetti o aggregati sociali o istituzioni finalizzati sono deboli perché soggette non solo ad intersezioni dinamiche di eventi ad alta complessità, come nel caso delle previsioni metereologiche, ma anche alla complessità aggiuntiva rappresentata da scelte operate da esseri finalizzati e quindi capaci di decisioni mutevoli. «Né il presupposto della razionalità della scelta – afferma – aiuta perché i comportamenti individuali e collettivi sono spesso determinati da scelte non razionali». Hanno dunque molto a che fare con la storia «il libero arbitrio», invocato da Elton, il «valore aggiunto» della volontà umana, richiamato da Galasso, le «motivazioni soggettive» individuate da Tosh e, secondo Rogari, è proprio «il fattore finalistico che ispira i comportamenti umani» quello che caratterizza la storia, così come lo scarto tra intenzioni ed esiti, e fa escludere dal suo statuto «la componente previsionale»(pp. 22 ss). Rogari sostiene che nella storia, al contrario delle altre scienze, si contempli molto di più la «contraddizione» di una regola generale e fa, tra molti altri riuscitissimi esempi, quello del principio dell’utilità marginale decrescente, affermato dalla scienza economica, che non si verifica nel caso di un bene che crea dipendenza psicologica o farmacologica. La scienza storica, rispetto alle scienze sociali sincroniche, dotate di un apparato normativo, si distingue dunque per la narrazione del «fattuale e del particolare in chiave diacronica», processuale, dinamica ed evolutiva, e perciò è stata ritenuta più debole e non «utile al governo del presente e del futuro». Anche per quanto riguarda il rapporto con le scienze naturali, la storia si distingue epistemologicamente non solo per la maggiore «empatia» con l’oggetto di studio ma soprattutto per assumere molto di più la contraddizione, l’imprevedibilità e più specificamente per il fatto che il suo campo «sperimentale» non è assimilabile alla ripetitività e prevedibilità del laboratorio degli scienziati fisici. Infatti, riproponendo anche alcune note tesi dell’importante dibattito teorico e filosofico di fine ’800, Rogari sostiene che gli storici, e in generale gli scienziati sociali, si occupano «di fenomeni che rispondono a obiettivi finalistici», mentre gli scienziati fisici di quelli «governati da processi meccanicistici». Infatti, gli esseri umani proprio perché finalizzati «non reagiscono ai vettori che possiamo considerare come causali come reagisce un corpo fisico, in modo costante e uniforme; e inoltre proprio perché lo storico, a differenza del biologo, del chimico, tratta di processi «nei quali la dimensione telelogica dell’agire umano è centrale» deve porre particolare attenzione a non tradurre il proprio coinvolgimento emotivo, che opera come motore della ricerca, in «solidarietà partecipativa», ovvero in tesi ideologicamente precostituite (pp. 31 ss, pp. 95 ss, pp. 133 ss). Le caratteristiche della scienza storica, nondimeno, non escludono che sia comunque possibile allo storico, in modo diverso ma non per questo più debole, dallo scienziato sociale e fisico, «estrarre una regola», una tendenza, un «fattore prevalente», che non hanno ovviamente carattere universale e previsionale ma sono solo funzionali alla «costruzione della scienza storica come scienza del mutamento nel tempo» e soprattutto sono inseriti in un contesto multifattoriale, che rifiuta la monocausalità (pp. 16 ss). Rogari insiste molto sul carattere «antropomorfo» della storia, così come, sul parallelo logico-analogico-stabilito da Platone, come da Machiavelli e Vico – tra dimensione dell’individuo e quella della comunità, dello stato; ma dalla importante «assimilazione» non trae forse tutte le conseguenze possibili.
Infatti, se si mette in esclusiva relazione la storia con la scienza giuridica, con la nascita del diritto e non si menziona la filosofia, che non è da intendersi come filosofia della storia bensì come regina delle scienze umane, resta più difficile spiegare il carattere euristico, «sperimentale» e «antropomorfo» della storia. Per dirla con Gadamer, le scienze umane in generale sono un problema di filosofia, sia perché la filosofia rappresenta la coscienza critica, la radicalizzazione teorica di tutte le scienze, sia perché è fondante il rimando a valori e categorie come volontà, libertà, così come è indissolubile il vichiano nesso tra filologia e logica storica, tra analisi e interpretazione. La filosofia con le sue categorie ha di fatto preceduto, influenzato e ispirato da sempre, nel bene e nel male, la storiografia occidentale: dall’illuminismo ionico allo stoicismo, dall’umanesimo rinascimentale allo storicismo moderno e contemporaneo e al decostruzionismo. Nonostante quella che sembra una certa sottovalutazione della filosofia in rapporto con la storiografia, Rogari abbonda di puntuali e importanti riferimenti alle correnti filosofiche e ai filosofi che sono stati molto presenti e incisivi nell’ambito della storiografia, soprattutto contemporanea: dal positivismo al relativismo e ai vari storicismi dell’età moderna e contemporanea. Inoltre appartengono, per Rogari, ai caratteri originari, distintivi della storia i concetti di contesto; di «causalità» intesa come consequenzialità, come «probabilità retrospettiva»; quelli di tempo e di spazio, che pure non sono scevri affatto da fondamentali riferimenti teorici e filosofici, di cui pure acutamente e diffusamente tiene conto. Secondo Rogari, che si riallaccia così implicitamente a tanta parte dell’attuale dibattito teorico-storiografico, la conoscenza di un evento storico, che «per definizione si colloca e si esaurisce nel tempo e nello spazio, è sempre e solo conoscenza di contesto», ossia conoscenza dello specifico evento «calato, letto e compreso nel contesto di riferimento nel quale si dipana lo sviluppo diacronico dell’evento studiato» (pp. 30 ss). La scienza storica studia quindi «un processo in un contesto», individuandovi una problematica, un’«intersezione», ovvero gli elementi ritenuti primari e più rilevanti al suo interno, e ne fornisce una spiegazione sintetica, che deve prescindere dalle finalità generali del processo storico, «ammesso che esistano» (pp. 187 ss). Il contesto ha un numero indefinito di dimensioni, non però ugualmente rilevanti, che si riferiscono a valori, forze, rapporti di forza, di genere, risorse, tecnologie, culture, abitudini, strutture materiali, caratteri naturali e altro ancora che lo storico deve saper selezionare e valutare opportunamente. È introdotta dall’autore la distinzione tra «passato di contesto» e «presente di contesto», la cui relazione costituisce il «passaggio imprescindibile» della scienza storica. Infatti, egli intende per presente di contesto più o meno quello che Croce definiva come «contemporaneità della storia», ossia la spinta propulsiva, composta da elementi soggettivi e oggettivi, che ci indirizza all’impresa di indagare e ricostruire il passato o meglio segmenti del passato, vista l’impossibilità di una «storia totale» (pp. 48 ss). Il passato di contesto, che è il risultato di questa impresa, si deve presentare «come insieme e come sistema», come una ben individuata e centrale «nuvola complessa e multi fattoriale» che non è affatto assimilabile al cielo di «un’ipotetica storia totale che non è accessibile alla mente umana». Gli elementi e i fattori di contesto «non sono riconducibili ad una relazione causale con l’oggetto studiato», in quanto la relazione causa/effetto intesa in modo deterministico, meccanicistico non è applicabile agli uomini, cioè a esseri finalizzati che cercano di programmare il futuro sfruttando i margini di libertà e di scelta consentiti. Anche se in astratto – scrive l’autore – «possiamo presupporre che questa libertà sia compresa fra un massimo di 360° ed un minimo tendente a zero. Nella realtà non è così. I margini di scelta sono mediamente piuttosto ristretti, ma esistono sempre o quasi»( pp. 30 ss). A proposito del concetto di causalità nella scienza storica e anche nelle altre scienze sociali, Rogari propone di sostituirlo con il concetto, derivato da R. Aron e H.Marrou, di «probabilità retrospettiva», la quale pur non inficiando il principio di causa, lo immette, come avviene per la metereologia, «in un universo nel quale la complessità (è) interagente e tendente all’infinito» nella produzione possibile di cause ed effetti. In pratica, si escludono i termini e i concetti di necessità, ineluttabilità, «conseguenza senza possibilità di scelta alternativa» (pp. 40 ss), ma non per costruire «realtà virtuali», prive di effettivo riferimento all’esperienza storica concretamente realizzatasi, come vuole il fuorviante «controfattualismo», sui cui si sofferma acutamente l’autore, bensì soltanto per tener in maggior conto i «margini probabilistici», assai ristretti, che determinati eventi avrebbero potuto avere in certi contesti (pp. 39 ss, pp. 83 ss). Contro l’eccessivo soggettivismo, da più parti imputato agli storici negli ultimi decenni del ’900, e contro la presunta maggiore debolezza scientifica della storiografia, Rogari sviluppa dunque convincenti ragionamenti a difesa delle possibilità gnoseologiche della storia, analizzandone le peculiarità euristiche e metodologiche così come i limiti. E lo fa con ricchezza di esempi storici e storiografici pregnanti e significativi, molto utili anche sul piano della didattica della storia. Fa notare come attorno al tema relativo alla possibilità della conoscenza storica si sia sviluppata, dal dopoguerra a oggi, una lunga querelle che ha però le radici nella secolare questione posta dalla filosofia occidentale sul «rapporto fra realtà, apparenza e rappresentazione», che riguarda più in generale tutta la conoscenza umana (p. 96 ss). Inoltre, sottolinea come alla luce della rivoluzione epistemologica del ’900, caratterizzata in particolare dal principio di Heisenberg, d’indeterminazione, il deprecato «soggettivismo» del ricercatore non sia una problematica esclusiva della storiografia e delle scienze sociali, ma riguarda tutti saperi, compresi quelli «forti». Si potrebbe aggiungere, come ha fatto Galasso in Nient’altro che storia, che la soggettività dello studioso, di qualsiasi studioso, è «un presupposto ineliminabile» sul piano gnoseologico, pur rimanendo un ineludibile aspetto problematico sul piano etico e deontologico (pp. 60 ss). Rogari, pur riconoscendo alla storiografia contemporanea in generale di avere effettuato, sebbene in gradi e modi assai diversi, lo sforzo di salvaguardare la storia dai molti pregiudizi, giudizi critici o corrosivi, ne individua i principali punti deboli in talune impostazioni teoriche e metodologiche che, a conti fatti, non hanno aiutato la storia a «laicizzarsi», cioè a emanciparsi da impostazioni teleologiche, a ridefinirne lo statuto epistemologico e a sfruttare le sue più autentiche potenzialità. Si sofferma così sui vari «finalismi», di matrice idealistica o materialistica, e sulle diverse teodicee con cui è stata interpretata la storia – cui si contrappongono specularmente le teorie nichiliste – per poi analizzare la cliometria e il controfattualismo, che prediligono la quantità rispetto alla qualità. Spazia dallo strutturalismo al decostruzionismo e alla formalizzazione matematica, che trascurano l’imprevedibilità, la dimensione etica dell’uomo e in fondo ripropongono «un illuminismo antistorico» (pp. 59 e ss). Anche la più prestigiosa «scuola» storica della seconda metà del ’900, quella delle «Annales», che pure ha esaltato la «centralità e l’obiettività della storia», secondo Rogari ha visto di recente la crisi del suo paradigma, anche ma non solo per talune sue ascendenze positiviste e strutturaliste. Quest’ultime però, bisogna precisarlo, si sono affermate soltanto nella fase braudeliana, che è stata anche quella che ha elaborato una nuova concezione del tempo storico come lunga durata. Ma la lunga durata applicata alla storia contemporanea, caratterizzata dall’accelerazione temporale e dalla «globalizzazione», si rivela poco funzionale alla spiegazione storica e piuttosto debole, mostrando come il concetto di permanenza confligga con il mutamento accelerato, la struttura con l’evento e le nuove dimensioni spazio-temporali (pp. 73 ss). «Il tempo storico – scrive Rogari – può avere cadenze o ritmi diversi» secondo le epoche storiche, come è stato intuito dalle «Annales»; ma questi ritmi e cadenze diverse sempre «discendono dal processo studiato» e devono essere «frutto della ricerca», non un a priori metaempirico (p. 111). L’a priori della conoscenza storica, vichianamente e kantaniamente, è dato dal tempo, connesso allo spazio, il quale rappresenta la «forma» e il «contenuto» della storia e della conoscenza in generale o, per dirla con Galasso di Nient’altro che storia, il carattere «trascendentale» del giudizio storico, basato sull’accadimento e il «successo», applicabile a tutti i giudizi e alla logica stessa della vita. «A che serve la storia?», è la domanda finale cui risponde l’autore del libro con semplicità e finezza di pensiero, mettendo in evidenza come, pur con i limiti propri e con quelli analoghi a tutte le altre scienze, la storiografia risponde alla primaria esigenza della conoscenza umana di acquisire «consapevolezza del passato». La crisi, ancora attuale, della storia, e più in generale della relazione tra passato e presente, non può far dimenticare che, se si ipotizza o peggio si auspica una riduzione «ai minimi termini» della conoscenza storica e della didattica della storia, le conseguenze non sarebbero diverse da quelle di un individuo «che giunto all’età matura non abbia consapevolezza del proprio passato, quindi della propria natura caratteriale, dei propri punti di forza e delle proprie potenzialità come dei propri difetti e cadute». Pertanto, a fronte dell’accelerazione storica e della dilatazione spaziale del nostro presente, che tende a schiacciarci su di esso e a indurci a ritenere che quanto accaduto nel tempo, anche recente, «sia lontano e in qualche modo estraneo all’oggi», occorre reagire affermando che tutto ciò costituisce un grave danno per la «coscienza civile» e l’identità degli individui e delle comunità (pp. 187 ss). Inoltre, non bisogna arretrare di fronte alla peculiare sfida, all’ardua impresa, proprie della storia, di tentare di ricostruire la complessità e multifattorialità dei «processi diacronici», la loro dimensione prospettica, in cui è difficile ma non impossibile individuare il mobile crinale dato dalle continuità e dai cambiamenti, dalle permanenze e dalle evoluzioni, dai progressi e dai declini, ricordando che lo studio della storia è irrinunciabile riscontro e comparazione di analogie e differenze e soprattutto è indispensabile «sviluppo di autocoscienza e ricerca della propria identità».
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft