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ASTERISCHI:1914-2014; Carlomagno; Omicidio stradale
di Giuseppe Galasso
1914-2014 - Capodanno 1914. L’Europa è il centro dominatore della politica, della potenza, dell’economia, della cultura mondiale. Altrove, solo Stati Uniti e Giappone spiccano come potenze degne di considerazione, ma non hanno l’iniziativa della politica internazionale. Le complicazioni balcaniche in Europa, qualche conflitto coloniale, una serrata competizione sul mercato mondiale non appaiono molto preoccupanti. La gara di potenza della Germania con l’Inghilterra appare destinata a un lungo decorso. Ma è davvero la Germania a costituire la maggiore minaccia di un ordine saldamente assiso su idee e realtà politiche considerate granitiche? Ed è davvero l’Inghilterra la sola guardiana di quell’ordine? A guardar bene, quel mondo così pacioso, tranquillo, ordinato e proteso a un ancor più radioso futuro cova molte serpi nel suo seno. Alcuni imperi (Austria, Turchia, Russia) mostrano segni evidenti e gravi di una senescenza letale. La lotta sociale si è ovunque inasprita e fa parlare di rivoluzione e di totale sovversione in quasi tutta l’Europa. Nazionalismo, imperialismo, razzismo, attivismo, futurismo, materialismo, irrazionalismo e altri torbidi ismi connotano sempre di più il cielo del tempo coi segni di un imprevedibile, ma, in fondo, atteso o addirittura auspicato uragano. E gli uomini di allora lo sanno e, talora, lo dicono; e chi non avverte la struggente nota di malinconia per un non si sa che di sfuggente e indefinibile che anima le note del ballo Excelsior o i valzer di Strauss, non può capire molto di quel mondo.
Capodanno 2014. L’Europa non è più quella. Una sola superpotenza davvero globale, gli USA. Altre sono in maturazione (Cina, India, Brasile), ma ancora lontane dagli USA. Un’altra, la Russia, sgomita per riassumere il suo semisecolare ruolo di antagonista degli USA, ma ne è anch’essa molto lontana. Un oceano in ebollizione continua, il mondo dell’Islam, si prospetta come un semenzaio già collaudato di guai e tempeste di portata globale. Israele resta un grande problema della politica e della coscienza contemporanea. Nazionalismi etnici, fondamentalismi religiosi, ideologismi oltranzisti spargono ovunque semi pericolosi e velenosi per la pace. La globalizzazione della tecnica, dell’economia, delle comunicazioni comporta vantaggi e inconvenienti parimente enormi. I problemi economici e demografici sono spaventosi. Il Terzo Mondo o il Sud del Mondo ribolle anch’esso vertiginosamente e pone problemi (dalla povertà alle migrazioni) di un’ampiezza senza precedenti. Il rischio atomico si è moltiplicato, con una diecina di potenze piccole e grandi in grado di minacciarlo. È cresciuto, invece, il rischio terroristico. L’Unione Europea è quella che è. La credibilità della politica è in crisi ovunque e rafforza estremismi e scetticismi debilitanti. Insicurezza, ecco una parola di oggi in cui più gente al mondo si può riconoscere.
Eppure, su questo che appare un vulcano fortemente attivo, non sembra ballare l’angelo della morte come di fatto ballava cent’anni fa. L’incertezza è sempre più cauta delle certezze. Le forze limitate e i rischi immani degli eventuali sovversivi sono di auto ammonimento efficace. Nel 1914 il brogliaccio balcanico provocò un conflitto globale. Ai nostri tempi quel brogliaccio ha fatto molto peggio e molto di più, ma è rimasto confinato dov’è. L’ONU non è una potenza, ma qualcosa fa. La religione alimenta molte forze oscure, ma anche diffonde semi di grande valore umano come non faceva cent’anni fa. La stessa religione della ragione è oggi più guardinga e meno sprovveduta di allora. E dove non funziona l’interdipendenza economica globale, certo supplisce il network che ha fatto del mondo un villaggio globale.
Niente pericoli, dunque? Magari! I pericoli dell’uomo sono sempre uguali, sempre gli stessi nei tempi più luminosi e in quelli più oscuri, e vengono da superfici esplorabili e, bene o male, esplorate così come da abissi oscuri insospettati. Soprattutto, poi, non consentono di delegare ad altri le responsabilità che sono di tutti. L’Inghilterra ieri non era affatto qual che sono oggi gli USA. Ma neppure gli USA sono onnipotenti. Prima di richiamarli alle loro responsabilità, prendiamoci e fronteggiamo le nostre. Tutti.



CARLOMAGNO - «Da dove nasce il sole fino alle rive delmare a ponente il pianto agita i cuori»: così inizia un famoso compianto per la morte, nell’814, di Carlomagno.
Era il secondo figlio di Pipino detto il Breve, figlio cadetto di Carlo Martello, il vincitore degli Arabi nella storica battaglia di Poitiers nel 732. Pipino fu il maestro di palazzo che, deposto l’ultimo dei “re fannulloni”, ossia dei sovrani merovingi che avevano reso grandi i Franchi, si era fatto proclamare re, iniziando una dinastia che, con varie derivazioni, tenne il trono fino alla rivoluzione del 1789. A Pipino nel 771 erano succeduti i due figli, Carlomanno, il maggiore, e Carlo. Poi Carlomanno si fece monaco, lasciando Carlo unico sovrano dei Franchi. Chiamato dai papi, nel 774 aveva conquistato il regno longobardo in Italia. Con una lunga guerra (772-804) assoggettò i Sassoni. Varcò i Pirenei, ma, dopo la sconfitta famosa di Roncisvalle nel 778, si limitò al possesso di piazzeforti in Catalogna e Navarra. Allargò la sua influenza fino alla Boemia e sconfisse e immobilizzò sul Danubio gli Avari, eredi della furia degli Unni.
A quel punto era il sovrano di gran lunga più potente d’Europa, con un dominio dall’Ebro all’Elba, dall’Oceano all’alto Danubio, dall’Elba al Tevere, di cui si avvertiva la profonda novità storica e geo-politica. Questa percezione venne incontro sia alle mire dei papi di staccare del tutto la Chiesa romana e l’Occidente dai residui rapporti con quella millenaria prosecuzione dell’impero romano in Oriente, che noi definiamo impero bizantino, sia alle ambizioni della corte di Carlo di distinguere nettamente il rango di un sovrano così potente da quello dei sovrani “barbarici” che avevano provocato la fine dell’impero romano in Occidente. E ciò mise capo alla pagina forse più celebre della vita di Carlo, e cioè la sua proclamazione a imperatore romano a Roma da parte di papa Leone III la notte di Natale dell’anno 800.
La proclamazione suscitò un aspro contenzioso con Costantinopoli. Il titolo imperiale era ritenuto monopolio esclusivo dei sovrani che colà avevano continuato il nome e la tradizione di Roma. Riconoscere due imperatori romani di cui uno era fuori del solco della romanità appariva inaccettabile. Carlo era stato, inoltre, proclamato imperatore dal papa, e anche questo esulava dalla consuetudine che alla Chiesa riconosceva un potere di consacrazione, non di investitura.
Era vero ma non aveva senso, in concreto, rispetto alla straordinaria novità della grande costruzione politica di Carlo, e ancora meno rispetto alla missione che la Chiesa romana si era data e che era ormai giunta alla piena maturità della sua consapevolezza. Alla fine Costantinopoli dovette cedere, e l’Oriente e l’Occidente già romani andarono per strade sempre più diverse fra loro.
Di chi fu l’idea di quella proclamazione imperiale? Le opinioni degli storici restano molte e diverse. Chi pensa a un’iniziativa pontificia per dare alla Chiesa il ruolo di fonte di sovranità e di titoli politici e sovrani, nonché di tutrice del massimo sovrano occidentale, sciogliendosi così definitivamente da ogni pretesa sovrana di Costantinopoli sull’Occidente e su Roma, ma anche con la preoccupazione di trovare un più soddisfacente assetto politico e giuridico per i nuovi popoli che avevano invaso e occupato lo spazio europeo d’Occidente già romano, lo avevano ampliato fino all’Elba, lo avevano reso di nuovo potente, si erano convertiti alla fine alla fede romana e avevano trovato nella Chiesa e nel vescovo di Roma un fondamentale e fortemente sentito punto di riferimento civile e spirituale. Chi, invece, propende per un’iniziativa della corte di Carlo, pensa a un’idea di promozione e trasfigurazione del dominio del sovrano, posta sotto il paravento augusto del nome di Roma.
In realtà, di chiunque fosse l’iniziativa, non era la restaurazione imperiale la massima dimensione di quell’avvenimento. Era proprio l’Europa, quale poi si sviluppò nei tempi moderni, la grande novità che con il nuovo impero prese posto sullo scenario di una storia che da europea sarebbe poi diventata mondiale. E a fronte di ciò perdono un po’ di rilievo anche gli altri grandi aspetti dell’azione di Carlo: l’ordinamento feudale, la “rinascita” culturale che radunò alla corte del sovrano i maggiori dotti e scrittori europei dall’Irlanda all’Italia, il riconoscimento delle nascenti individualità nazionali nella divisione dell’impero tra i suoi eredi. Certo, come tutti i fondatori di imperi, Carlo aveva conquistato quello spazio europeo con una violenza spesso brutale (per alcuni la conversione al cristianesimo imposta ai Sassoni con le armi avrebbe determinato alcune criticità del germanesimo posteriore).
Che importa la rapida dissoluzione dell’Impero? L’Europa come consorzio politico era nata con Carlo nella sua triplice dimensione romanogermanico-slava. Non tutti vi avevano già il posto che poi vi avrebbero avuto, ma l’impero sarebbe rimasto come un emblema di comune coscienza europea anche quando se ne sarebbe rifiutata la sovranità e si sarebbe affermato che «nel proprio regno ogni re è imperatore».
Lo stesso trasferimento del titolo imperiale dai Franchi ai sovrani germanici non comportò nessuna riduzione del significato originario del ritorno carolino dell’Impero (si sa che sovrani francesi come Francesco I e perfino Luigi XIV si candidarono alla sua corona). Alla fine, l’impero si rivelò un guscio da rompere del tutto perché ormai consunto e vano, e vi pensò un altro sovrano francese, Napoleone, mille anni dopo Carlo. Ma in quel guscio era nato di tutto: Stati e nazioni moderne, l’idea delle autonomie e identità locali, l’esigenza di un’etica della politica, la libertà religiosa anche come libertà ecclesiastica, e soprattutto la prima coscienza dell’Europa, quella di corpus christianum. E, benché su Carlo e sul suo impero si sia sempre avuto (e si ha ancora) una retorica, untuosa, mitizzante e mistificante (il “padre” o il “patriarca d’Europa” ne è la locuzione più diffusa), il nome del grande sovrano franco, subito riconosciuto come “grande”, resta fra i maggiori protagonisti della storia universale (e uno storico francese scrisse che nel suo caso Magno era stato incorporato nel nome, Charlemagne, come neppure per Alessandro Magno: dove si va a ficcare l’orgoglio nazionale!). Il re analfabeta, che firmava i suoi atti servendosi di uno stampino forato, è stato uno dei maggiori creatori di storia non solo per l’Europa. A maggiore dimostrazione che l’intelligenza e la genialità politica sono un altro affare rispetto all’istruzione e alle ideologie.



OMICIDIO STRADALE - è la nuova figura di reato che si vuole introdurre nel nostro codice penale. La lodevole intenzione che muove a ciò è evidente e lodevole. Si vuole reagire al sempre più frequente ripetersi di investimenti e incidenti stradali provocati dalla irresponsabilità o, comunque, dal comportamento odioso di coloro che nel linguaggio convenzionale della cronaca ricevono la qualifica di “pirati delle strada” e che spesso si rivelano sotto l’azione del’alcool o di droghe. Ma è davvero necessaria, a questo lodevole scopo, la delineazione di un nuovo tipo di reato?
La perplessità che si esprime in questa domanda nasce dal fatto che, se c’è qualcosa che alla nostra giustizia manca, certamente questo qualcosa non è la scarsezza di tipologie e di casistiche. Una legislazione eccessiva e ridondante già conferisce ai nostri codici una fisionomia barocca che ha reso inverosimile il numero di leggi fra le quali si debbono aggirare giudici, avvocati, uffici pubblici e, soprattutto, i cittadini. Tempo fa fu pure istituito un ministero per la semplificazione legislativa, di cui sembra che si siano poi perdute le tracce quando il conseguimento di una quota consistente dell’ambizioso obiettivo propostosi era ancora molto lontano.Ma ciò che da un lato si tentava di diradare, dalla’altro lato si provvedeva a celermente infoltire.
L’ingenua domanda che per il nuovo reato il cittadino è portato a porsi è: in che cosa l’attuale delineazione dell’omicidio nel nostro codice penale, con tutta la possibilità di attenuanti o di aggravanti nel fatto e nelle causali del fatto che può essere esplicitata e dettagliata in giudizio, è insufficiente perché si debba prevedere il caso di omicidio stradale? La risposta non pare dubbia. Giustiniano quindici secoli fa si sforzava di eliminare dalle leggi “il troppo e il vano”, ossia le inutili sovrapposizioni e ciò che era caduto in desuetudine. Da noi, a quanto sembra, si continua a far crescere il troppo e a non eliminare il vano.
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