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I nomi degli ultimi papi (considerazioni di un laico integrale)
di Giuseppe Galasso
Il nome dei papi ha sempre avuto un significato particolare. Indica la figura alla quale il papa neoeletto si vuole ispirare o che intende imitare. Oppure esprime il legame personale con il predecessore al quale si è dovuta la nomina a cardinale. O, ancora, annuncia un programma, una linea di azione che rinvia a punti di dottrina o a elementi di indirizzo politico e religioso che il nome, di per sé può evocare, a prescindere dal riferimento a questa o quella figura storica di pontefice.
È per questo motivo che si attende sempre con una certa ansia e curiosità la risposta che l’eletto deve dare alla domanda di rito: quo nomine vis vocari?, con quale nome vuoi essere chiamato. Ed è per ciò che, quando il papa regnante indicò come suo nome Francesco, vi fu qualcosa in tutti di sorpresa, di disorientamento o, almeno, di evidente incomprensione, e presso alcuni, specialmente in certi ambienti, di preoccupazione e di timore.
In realtà, papa Bergoglio non ha fatto altro che tenersi sulla strada dei suoi ultimi cinque predecessori. Fu, infatti, papa Giovanni XXIII a rompere la tradizione onomastica pontificia che durava da secoli. Succedendo a Pio XII, egli assumeva un nomesimbolo, un nome che era una ideaforza, senza riferimento ad alcuna figura di predecessore, benché ve ne fossero stati con quel nome. Giovanni, il Battista, che aveva battezzato Gesù, era stato l’annunciatore del Vangelo, il battistrada della Redenzione che sarebbe stata operata da quel suo battezzato di assoluta eccezione, che parlava per conto del Padre e che apriva il Regno dei Cieli.
Non ci voleva molto a capire – anche se furono pochi quelli che diedero mostra di averlo capito – che papa Roncalli riteneva necessaria una nuova evangelizzazione dopo tutta una serie di papi che da Pio VI e Pio VII in poi avevano dovuto mettere in maggiore evidenza, se non al centro, nell’azione pontificia, gli enormi problemi politici e sociali che andavano agitando e sconvolgendo le acque della storia del mondo, e in particolare della storia europea, con terribili onde anomale.
Spoliticizzare, riportare al centro di tutto i problemi della fede e della vita religiosa, dunque. E Giovanni XXIII su questa strada si mise davvero, bandendo quel secondo Concilio vaticano che da molte parti della Chiesa fu temuto e avversato come sicura causa di rischi e pericoli a cui non si poteva essere certi che la Chiesa potesse far fronte, o perché era grande il pericolo che crollassero le indispensabili difese contro spinte e tendenze già in atto al di fuori della tradizione, o perché si temeva che si aprisse un varco a queste spinte e tendenze anche là dove esse fino ad allora nella Chiesa non si avvertivano.
A nessuno sfuggiva, infatti, che il mondo era cambiato negli ultimi tempi con ritmi e in direzioni tanto imprevedibili quanto inauspicati. Giovanni XXIII proponeva di non chiudersi, come sino ad allora si era fatto, nella fortezza della tradizione, che portava alla chiusura di molti orizzonti e a una progressiva perdita di contatti con la realtà contemporanea. E questo fu, appunto, quel che il Concilio fece o tentò di fare, anche al di là, probabilmente, di quanto papa Giovanni aveva pensato, sicché ben presto ci si cominciò a chiedere come e quando fosse meglio chiudere il Concilio, senza che esorbitasse dalle linee che Giovanni XXIII aveva avuto in mente. Egli voleva un rinnovamento, non un tracollo della Chiesa. Nel suo spirito gli elementi di conservazione non solo non mancavano, ma avevano anche una notevole importanza. Può esserne un indizio del tutto banale, ma di sicura pertinenza il fatto che egli preferiva che lo si designasse come “vigesimoterzo” anziché come ventitreesimo, secondo l’uso italiano corrente.
Il dilemma di fronte al quale si trovò il successore, papa Montini, fu, per l’appunto, quello di chiudere il Concilio. E questo anche perché il Concilio un po’ si era disperso, se non smarrito, nella ricerca e formulazione delle linee sulle quali concludere i suoi lavori, aumentando in tal modo i timori degli uni e le speranze di altri, che esso segnasse rotture forti e innovazioni non meno forti nella tradizione cattolico-romana. Ma come chiuderlo, considerando che era il primo dell’era mediatica, ed era seguito, e vi si reagiva in tempo reale in tutto il mondo? La linea che papa Montini seguì fu difficile, ma di alto segno: conservare al massimo tutto quel che si poteva della tradizione e, insieme, innovare al massimo in tutto quel che si poteva dal punto di vista delle esigenze accettabili dei tempi nuovi.
Fu quel che, appunto, accadde, anche se da nessuno dei due punti di vista si raggiunse il massimo, e i problemi che il Concilio lasciò aperti furono numerosi e di grandissimo rilievo. Il nome che il nuovo papa assunse – Paolo VI – era, come quello del predecessore, da tempo in disuso, e si legava altrettanto a un significato programmatico e religioso. Se Giovanni era stato l’araldo, l’annunciatore del Verbo, Paolo era stato colui che alla nuova religione aveva dato una prima, fondamentale definizione, fornendo, insieme, la teologia cristologica della Redenzione e l’antropologia dell’“uomo pneumatico”, l’uomo spirituale che si conformava ai valori di quella teologia e ne faceva la sua ragione di vita.
Un nome, insomma, quanto mai espressivo per chiudere il Concilio e aprire una nuova grande stagione evangelica, come Paolo VI voleva, nella scia dell’apostolo suo eponimo, che era stato il vero iniziatore della predicazione del Vangelo fra le genti. E si può senz’altro pensare che papa Giovanni Paolo I abbia ben percepito lo spirito delle scelte onomastiche dei suoi due predecessori, decidendo di chiamarsi Giovanni Paolo; prima volta di un papa dal doppio nome.
Brevissimo, il pontificato di Giovanni Paolo I non consente ulteriori illazioni. Per Giovanni Paolo II le illazioni sono, invece, addirittura ovvie. Il nome che papa Woitiła si scelse era, infatti, un chiaro omaggio alla memoria del papa appena defunto, il cui pontificato era stato di una brevità da potersi definire fulminea: un mese, appena, come è ben noto. Che nell’omaggio gentile reso riassumendo e continuando il nuovo nome pontificale, e così impedendo che quel pontificato passasse senza lasciare nessuna traccia, come una meteora estemporanea, vi fosse anche un proposito di continuare la linea giovanneo-paolina, non si può dire. Il papa polacco marciò con sempre maggiore evidenza verso un populismo devozionale, sostenuto da una dommatica semplificata dell’accentuazione della dimensione carismatica e miracolistica nell’esperienza religiosa cristiana.
Nella valutazione di questo indirizzo si suole spesso ripetere che si trattava di un’azione di retroguardia, di pura e semplice riaffermazione delle posizioni cattoliche più tradizionali in opposizione alle tendenze dei tempi nuovi già in atto a livello planetario. Notazione certamente anche fondata, per tanti versi, ma che ignora un altro aspetto della questione. E, cioè, il fatto che nei tempi nuovi che urgevano alle porte di tutto il mondo contemporaneo elementi mentalistici e comportamentistici di segno opposto a quello della modernità incalzante erano tutt’altro che assenti, e determinavano attese ed esigevano risposte conformi ai loro bisogni di irrazionale, soprannaturale, mistero, prodigio, quali parti costitutive e indispensabili del loro vivere, della loro struttura esistenziale. Ragion per cui l’indirizzo del papa polacco non era un ponte sospeso nel vuoto di qualcosa che non c’era più o che stesse rapidamente svanendo. Al contrario: legava in una dimensione fortemente emotiva, e, per ciò, di forte presa, tratti caratterizzanti sia del passato che del presente.
Dove, dal punto di vista di una più alta, penetrante e creativa lettura cristiana del mondo contemporaneo inteso nel suo più profondo significato umano e morale, si sarebbe, tuttavia, potuto arrivare proseguendo sulla strada di Giovanni Paolo II? Se lo saranno chiesto in parecchi soprattutto negli ultimi anni del suo pontificato. A quel punto la figura del papa polacco aveva raggiunto un’intensità carismatica quale poche altre volte nella storia del Papato. Padre Pio da Pietrelcina e madre Teresa di Calcutta apparivano come riferimenti più congeniali in una predicazione della quale non sempre era facile scorgere e penetrare il senso letterale o quello allegorico, data la forte inclinazione del papa a parlare soprattutto per immagini e allusioni in una oratoria dal tono, in qualche modo, profetico. La devozione mariana, anch’essa sempre più accentuata con gli anni, era una traduzione cultuale del tutto omogenea a questa linea: Maria come mater dolorosa e come segno di tutte le virtù della famiglia e della donna quali un’antica tradizione le concepiva.
Anche se si fosse accettata questa linea, sarebbe stato difficile proseguirla senza rinnovare il prodigio carismatico che con gli anni aveva preso forma intorno alla figura fisica ed ecclesiastica di quel papa. Molte erano, però, anche le diffidenze e le differenze rispetto alla sua azione. Negli ultimi tempi, poi, l’accentuarsi delle particolarità ecclesiastiche e religiose del suo pontificato, mentre si vedeva ormai prossima la prospettiva della successione, accrebbe le preoccupazioni per una scelta che si annunciava non solo difficile e complessa, ma tale da rendere più vive ed esplicite le diversità (che si traducevano, poi, ovviamente, in rivalità) fra le varie posizioni e tendenze del Collegio cardinalizio, della Curia romana, dell’episcopato e di tutte le altre molteplici istanze, per cui la Chiesa non può mai essere vista e considerata come una realtà monolitica, indifferenziata.
La scelta del successore apparve felicemente rapida, ma è molto difficile dire fino a qual punto questa rapidità rispondesse a una positiva e spontanea convergenza su una soluzione ritenuta conforme alle esigenze del momento, e fin a qual punto, invece, essa tradisse la premura di chiudere subito, con una scelta chiaramente alternativa ogni eventuale ritorno di fiamma della linea di papa Woitiła.
Papa Ratzinger era, comunque, da quella linea lontanissimo, ma la sua figura era altrettanto ben lontana dal rispondere alle esigenze di compromesso che dovettero intervenire fra i gruppi molteplici che lo portarono al soglio pontificio. Ancora una volta, la scelta del nome fu rivelatrice. L’ultimo a portarlo era stato Benedetto XV, il papa della prima guerra mondiale e di quel celeberrimo messaggio sulla “inutile strage” provocata da quella guerra, che ebbe una ripercussione straordinaria nell’opinione mondiale e suscitò fierissime reazioni nelle classi politiche e dirigenti dei paesi belligeranti. Bisognava risalire a un secolo e mezzo ancora prima per ritrovare quel nome pontificio in Benedetto XIV, il papa di una benevolente considerazione delle debolezze dell’ordinaria umanità, ma anche fautore di una sagace linea dottrinaria in quello che diventava sempre più il secolo dell’Illuminismo e della Massoneria.
Erano auspicii che potettero certamente essere presenti al nuovo papa nella scelta del suo nome: pace in un tempo in cui il venir meno di grandi conflitti mondiali non segnava affatto l’assenza della guerra e della violenza sulla scena internazionale e all’interno di tanti paesi; cura della dottrina dinanzi all’imperversare di una globalizzazione che potenziava l’onda lunga della spinta secolarizzante connessa alla modernità, ma, insieme, dinanzi alla vitalità e vivacità che manifestavano, anche sul piano della capacità di suscitare adesioni e conversioni, altre religioni, l’Islam soprattutto, ma non solo. Il pullulare di sette cristiane e di tendenze interne al mondo cattolico accresceva, del resto, la premura dottrinaria. E, forse, in questo quadro di esigenze e di problemi dovette anche sorridere al nuovo papa la carica che poteva dare al nome che egli sceglieva il biblico ed evangelico benedictus qui venit in nomine Domini.
Il papato di Benedetto XVI è andato come si sa. Le ragioni della sua abdicazione sono rimaste, però, per molti non chiare, se non proprio del tutto oscure. La preoccupazione per la propria inabilità ad assolvere, date le condizioni e lo sviluppo prevedibile della sua salute, il gravoso compito del pontificato è apparsa poco persuasiva come ragione esauriente di una decisione così eccezionale come è l’abdicazione di un pontefice: tanto eccezionale da essere questa la seconda nella storia bimillenaria del Papato dopo quella, famosissima, di papa Celestino, oltre sette secoli prima. L’immediata elezione del successore Bergoglio non ha chiarito – né di per sé poteva chiarire – alcunché al riguardo.
Per quel che si è potuto vedere e capire, la linea di Benedetto XVI era, innanzitutto, quella della restaurazione di una più chiara linea dottrinaria. Egli era un teologo e uno studioso di sicuro affidamento. Aveva – ci sembra di poter dire – una visione molto chiara del rapporto tra fede e ragione, per cui la fede è la fede, e questo resta al di fuori di ogni possibile discussione: è, semplicemente, il principio, la sostanza e la conclusione di ogni discorso e di ogni vita cristiana. Nell’ambito della fede, la ragione che è anch’essa nell’ordine umano e divino delle cose, ha il suo spazio, che è una preziosa, e, per di più, irrinunciabile bussola della vita morale e sociale. Nel suo ardore la fede la può trascendere e bruciare senza scorie, senza residui. Non può cancellarla, però, da quell’ordine umano e divino, cui essa appartiene.
Facendo perno sul binomio Gesù-Maria, papa Ratzinger sembrava cercare di istradare la possente spinta carismatica e miracolistica impressa al mondo cattolico dal suo predecessore su un sentiero che ne salvaguardasse l’enorme valore pratico e morale, ma ne impedisse una declinazione in totale antitesi col mondo contemporaneo e col suo spirito così dinamico e dirompente nella sua marcia verso un futuro diverso.
Quale sarebbe stato o quale potesse essere questo futuro nessuno sapeva (né sa) dire, e proprio per ciò occorreva che ci si misurasse con quel mondo e col suo spirito costantemente, giorno per giorno, in un discorso, aperto o velato che fosse, del più ampio confronto possibile. Senonché, il papa si incontrò, e si scontrò, anche con problemi di un ordine del tutto diverso, come, in primo luogo, le questioni di ordine finanziario e affaristico che hanno coinvolto vertici e larghi settori del mondo vaticano, o come le questioni inerenti al comportamento del clero che hanno trovato nella pedofilia un punto di grandissima eco: questioni generalmente di non recente genesi, e che molti ritengono aggravate dalle incertezze del governo della Chiesa nella fase estrema del pontificato di Giovanni Paolo II. Problemi e questioni di tale natura e portata da aver fatto pensare a molti che fosse in essi la vera ragione e radice dell’abdicazione di Benedetto XVI.
Sia o non sia così, il successore di papa Ratzinger ha certamente voluto segnare, già con la scelta del suo nome, un momento di chiara rottura con l’aggrovigliata condizione in cui Chiesa e mondo cattolico si ritrovavano al momento dell’abdicazione di papa Ratzinger. Francesco era un nome assolutamente nuovo nella tradizione pontificia. Nuovo anche perché, in una onomastica tutta segnata da precedenti paleocristiani o, al più, medievali, si aveva ora un nome “moderno”, di matrice etnica (dal nome dei francesi, ricalcato su quello dei franchi), ma totalmente trasvalutato dall’essere il nome del Santo di Assisi, il Santo di cui si è detto che è stato finora il più compiuto e felice caso di imitatio Christi, di quell’imitazione del Cristo in cui indubbiamente consiste il vertice ideale dell’esperienza e della vita cristiana.
Chiesa della povertà e dei poveri; fasto pompe e relative insegne ridotte a meno del minimo; pratica della fede delle opere più che di quella delle grazie e dei miracoli; fiducia e apertura erga omnes, nel ricordo di un principio che fu già di Giovanni XXIII, ossia la distinzione tra l’errore e l’errante, intransigibile il primo, sempre creatura umana il secondo, del quale ci si deve sempre chiedere «chi sono io per giudicarti»: ecco alcuni dei connotati coi quali si annuncia il papato di Bergoglio.
Ci vorrà del tempo, ovviamente, perché il suo profilo si delinei con matura pienezza. Intanto, si può constatare come quel nome del Santo di Assisi sia stato adottato da un papa che è anche il primo gesuita asceso al soglio di Pietro. Quale distanza tra Francesco, che concepiva l’evangelizzazione come una predicazione di fraticelli simili agli uccelli ai quali il buon Dio provvede, e che concepiva la vita cristiana come un servire il Signore in laetitia, e l’ardente istitutore della Compagnia di Gesù, che concepiva la vita cristiana come una milizia intransigente nella sua azione di difesa, innanzitutto, del vertice della Chiesa,, dipendendo dal papa perinde ac cadaver!.
Eppure il papa venuto per la prima volta in Vaticano dalla milizia ignaziana si è rifatto, con una innovazione onomastica radicale, proprio a quel Santo di otto secoli fa, pensando, innanzitutto, che il tempo della globalizzazione sia di altrettanto fervoroso e profondo mutamento come lo furono in Europa i primi due o tre secoli dopo il Mille, sia pure con le diversità di ogni genere, tanto radicali e profonde quanto evidenti, tra gli inizi del secondo e gli inizi del terzo millennio cristiano. Se è così, è il cambiamento la cifra più pertinente di lettura che accomuna queste due scansioni del tempo cristiano, così come del tempo, in generale, del’intera esperienza storica dell’umanità. E, dinanzi a un cambiamento di nuovo totale e radicale, il papa che ha preso il nome di Francesco ha potuto ritenere che il Santo suo eponimo sia – per la sua figura, la sua parola, la sua opera – il viatico più pertinente e più promettente.
Forse, però, c’è ancora una ragione connessa a quel nome. In un’epoca di grandissima effervescenza di movimenti religiosi ed ereticali, Francesco prese subito per suo criterio di permanere nella Chiesa e di ricevere da essa, attraverso il riconoscimento pontificio, la vera autenticazione cristiana di quel che egli intendeva fare e di come intendeva farlo.
Francesco è, insomma, anche un suggello e un simbolo di unità della Chiesa nella scia di Roma, e della possibilità di immettere in questa scia tutti i venti di novità e di elevazione cristiana ai quali si pensi nell’ottica dei problemi della Chiesa e del mondo quali possono essere visti dall’esterno e attribuiti a intenzioni e idee dei vertici della Cattolicità.
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