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Normanni e pre-normanni nel giudizio di Croce e di storici inglesi*
di Giuseppe Galasso
Il 23 settembre 1927 Giovanni Laterza scriveva a Benedetto Croce: «Il dott[or] Alberto Pincherle, che dice di aver bisogno di lavorare, mi propone la traduzione della Storia d’Inghilterra del prof. A. F. Pollard dell’Università di Londra. È un volume di circa 250 pagine. Lo conosce Lei? Che mi consiglia?»1.
Con la consueta precisione già il 29 settembre Croce rispondeva a Laterza: «non conosco il libro del Pollard,ma conosco altri lavori di questo scrittore che è assai dotto e serio, e perciò credo che possiate accettare l’offerta del Pincherle»2. Si trattava, infatti, di un autore ben noto al Croce. Nella «Critica» di quello stesso anno (XXV, pp. 115-116) egli ne recensiva un articolo (An Apology for historical Research), a sua volta pubblicato nel luglio precedente sulla stessa rivista, la londinese «History». «Con ritardo», scriveva qui Croce, «noto questa polemica, che ho conosciuto con ritardo»; e prendeva posizione a favore del Barker, il quale, in sintonia con lui, aveva sostenuto la contemporaneità dell’interesse che muove alla ricerca storica e la stretta connessione tra storia e filosofia, mentre il Pollard si era sforzato assolutamente di distinguere la storia (studio del particolare) dalla filosofia (studio degli universali) e aveva esaltato il filologismo degli storici rispetto al presuntuoso argomentare dei filosofi. Lo stesso Pollard aveva, infine, pubblicato in «History» (la rivista londinese su cui era apparso due anni prima il suo saggio di metodologia storica criticato poi, come si è detto, da Croce) una recensione alla traduzione inglese di Teoria e storia della storiografia, apparsa nel 1921 presso l’editore Harrap di Londra3.
La differenza di posizioni metodologiche tra i due autori e il fatto che Croce non conoscesse la Storia d’Inghilterra del Pollard, rendono ancora più interessante la constatazione che, specialmente su qualche punto particolare, tra la Storia del Regno di Napoli del Croce e la Storia d’Inghilterra di cui parliamo ci sono affinità o, addirittura, identità di posizioni metodologiche e critiche, che non possono non riuscire suggestive e interessanti.
Già sussiste una fortissima affinità nel modo di trattare l’argomento. Pincherle, nella breve prefazione al volume da lui tradotto, notava che esso aveva «il pregio di una brevità compendiosa che, sottraendosi all’aridità della nuda narrazione dei fatti, riesce a esporre, in maniera singolarmente chiara ed efficace, le linee fondamentali dell’evoluzione storica. I fatti, anzi, sono forse troppo pochi, e l’autore sembra, di parecchi, presupporre la conoscenza»4. Questa osservazione è stata avanzata, come si sa, fin troppo spesso a proposito delle maggiori opere storiche di Croce, e in particolare per la Storia dell’età barocca5. Nella prima (in ordine cronologico) di quelle opere, e cioè proprio in quella su Napoli, Croce stesso, peraltro, la preveniva, dichiarando di non aver voluto dare un «ragguaglio pieno di tutto quanto sia accaduto degno di memoria in un determinato paese o presso un determinato popolo o magari in tutto il mondo»6: i “fatti” della storia napoletana e le discussioni al riguardo si trovavano già negli storici napoletani, italiani, transalpini che dai tempi loro fino ai nostri ne avevano scritto.
Anche nella precisa individuazione di un soggetto storico determinato si può notare un’analogia interessante. «Il vero protagonista di questa storia – scriveva Pincherle7 – è il popolo, di cui vediamo la lenta e laboriosa formazione». E anche in Croce il soggetto non era – come si sa – lo Stato, la formazione politica che per secoli aveva portato il nome di Regno di Sicilia o di Napoli e, infine, delle Due Sicilie, bensì la vita etico-politica del popolo e, per esso, della sua classe dirigente e intellettuale o, nel più alto senso del termine, politica: la storia non degli abitatori di un paese bensì del loro storico svolgimento in quanto “nazione” o realtà, appunto, etico-politica. Naturalmente, tra il “popolo” del Pollard e la “nazione” di Croce corre una differenza più che cospicua. Pincherle stesso notava che in Pollard si sarebbe desiderato che fosse «preso in maggiore considerazione anche lo sviluppo ideale», nonché «l’influenza del pensiero politico, e in generale della filosofia inglese, sullo sviluppo degli istituti». E notava pure che il suo autore non sembrava aver «reso completamente giustizia allo spirito del Medio Evo»8.Ma questo non può sorprendere chi pensi alla nota assai critica, sopra ricordata, che Croce dedicò alle teorizzazioni storiche, sostanzialmente positivistiche, di Pollard.
Può, invece, sorprendere – ed è il motivo di queste mie note – l’identità, più che affinità o analogia, dei giudizi dell’uno e dell’altro sul periodo normanno rispettivamente sulla storia d’Inghilterra e in quella del Mezzogiorno d’Italia.
«Per quasi due secoli – scrive Pollard – dopo la conquista normanna, non v’è storia del popolo inglese. V’è, in larga misura, una storia dell’Inghilterra, ma è la storia di un governo straniero. Noi inglesi possiamo ora andar fieri della forza del nostro conquistatore, o avanzare pretese di discendenza dai compagni di Guglielmo. Possiamo vantarci dell’impero di Enrico II, e della prodezza di Riccardo I, e celebrare l’organizzazione legale e giuridica, la cultura e l’architettura del tempo dei primi Plantageneti, ma queste cose non erano più inglesi di quanto non sia indù il governo attuale [ossia, sotto la sovranità inglese] dell’India. Con Waltehof e Hereward i nomi inglesi scompaiono dalla storia d’Inghilterra, dalle liste dei sovrani, dei ministri, dei vescovi, conti e sceriffi; ed il loro luogo è preso da nomi che cominciano con ‘fitz’ e sono distinti da un ‘de’. Nessun Guglielmo, Tomaso, Enrico, Goffredo, Gilberto, Giovanni, Stefano, Riccardo o Roberto aveva avuto parte alcuna nelle faccende anglosassoni; ma questi riempiono le pagine della storia d’Inghilterra dai tempi di Aroldo a quelli di Edoardo I. La lingua inglese rimase come sotterrata e divenne parlata incolta di contadini; il tenue rivoletto della letteratura anglosassone si essiccò, perché non vi era interesse per l’anglosassone da parte di un’aristocrazia che scriveva latino e parlava francese. Gli stranieri comandavano e possedevano la terra, e ‘indigeno’ divenne sinonimo di ‘servo’».

Le simpatie di Pollard vanno, invece, tutte al periodo pre-normanno della storia inglese, al semi-millenario e faticoso processo per cui Juti, Angli e Sassoni, dopo aver invaso la Britannia romana, o ciò che ne restava, nel V secolo, erano andati costituendo un edificio storico instabile e mal delineato, ma tale da potersi dire, per lui, che «quanto di grande e di buono v’è in Inghilterra sia d’origine anglo-sassone»9. Pollard fa, anzi, un’ulteriore specificazione e sostiene che, se furono gli Angli a dare il nome al paese, furono, però, i Sassoni ad operare in maniera e misura più storicamente consistente e costruttiva. Per nulla diverso è, come si sa, il giudizio di Croce sul periodo normanno nel Mezzogiorno, e, come Pollard estende tale giudizio anche al seguente periodo inglese angioino, così Croce lo estende al seguente periodo meridionale svevo.
«Non sembra lecito – egli scrive – identificare la storia della monarchia normanno-sveva con la storia dell’Italia meridionale, [poiché] essa fu rappresentata sulla nostra terra e non generata dalle sue viscere», e «la nostra storia non può esser quella a cui abbiamo offerto il teatro, ma l’altra, grande o piccola che fosse, che si svolse nella nostra coscienza e nei nostri travagli, nelle nostre menti e nei nostri cuori, opera della nostra volontà»10. E che «alla politica e civiltà normanno-sveva fece difetto il carattere indigeno e nazionale», si vede per Croce anche dal fatto che «i normanni misero fine alla libertà delle città marinare e delle altre città, specialmente pugliesi, [mentre] i re svevi, per la linea politica che seguivano e per l’esperienza dell’indomabilità dei comuni settentrionali, repressero con severissimo rigore ogni accenno di formazione comunale»11.

Sarebbe superfluo continuare l’esemplificazione. Vale piuttosto la pena di notare che, come Pollard agli Anglo-Sassoni, così Croce riserva tutte le sue simpatie al Mezzogiorno pre-normanno. Mentre non gli riesce di «raccogliere tratti ammirevoli delle popolazioni meridionali durante quella grande storia normanno-sveva», il Mezzogiorno del periodo precedente è delineato da lui con tratti che gli fanno parlare con commozione e con grato ricordo dei “nuclei nazionali” della sua storia presso i Longobardi o ad Amalfi, a Napoli, nelle città pugliesi12: una storia più modesta, ma più propria e profonda, di cui i meridionali possono trarre legittimamente vanto, laddove a torto si gloriano delle imprese di Roberto il Guiscardo o di Ruggiero II d’Altavilla, di Federico II di Svevia o, magari, di suo figlioManfredi, tutti protagonisti, gloriosi bensì, ma di un’altra storia: la storia delle dinastie e delle genti a cui esse appartenevano.
La corrispondenza tra Pollard e Croce e le due rappresentazioni storiche che essi offrono è, dunque, evidente. Quanto alla loro accettabilità, a suo tempo esposi già i motivi per cui il giudizio crociano di cui parliamo non può soddisfare né lo storiografo, né il teorico della storiografia: e, cioè, che l’asserita mancanza di storia propria di un popolo in qualsiasi periodo non può essere postulata in principio e, comunque, non si riscontra nella fattispecie della storia meridionale tra XI e XIII secolo. E questo è tanto vero che la storia “nazionale” del Mezzogiorno dopo la caduta degli Svevi non parte affatto da zero. Essa è invece, la storia di un paese profondamente trasformato dall’azione dei suoi sovrani per due secoli e dalle sue reazioni a tale azione, dalle sue spinte persistenti ad affermare proprie esigenze pur sotto quei sovrani, da uno sviluppo generale della realtà meridionale nel contesto italiano ed europeo in cui furono coinvolti del pari dinastie e paese13.
Ma, per la verità, pur nell’identità di fondo del giudizio e delle sue articolazioni, una differenza importante si nota egualmente fra Croce e Pollard.
Quest’ultimo finisce, infatti, col riconoscere che almeno un aspetto “nazionale” sotto i sovrani normanno-angioini la storia d’Inghilterra lo ha avuto. «La sorte comune» degli “indigeni” sotto i signori stranieri, egli scrive,
generò un sentimento comune. Il Normanno era più straniero alMerciano di quel che non fosse stato il Northumbriano o il Sassone occidentale, e le tribù rivali scoprirono finalmente un vincolo unitario nel rigore imparziale dei loro signori. I Normanni, venuti di fuori e immuni da pregiudizi particolaristici, applicarono gli stessi metodi di governo e di sfruttamento economico a tutte le parti dell’Inghilterra, precisamente come un inglese applica i medesimi concetti a tutte le parti dell’India; ed in entrambi i casi la dura pressione di una civiltà imposta dall’esterno tendeva a far dimenticare le divisioni sociali o di luogo. Senza volere, il dispotismo normanno e angioino fece, delle tribù anglosassoni, una nazione inglese, come il dispotismo inglese ha fatto una nazione delle ‘genti’ (septs) irlandesi, e ne farà un’altra delle cento razze e religioni del nostro impero indiano.Quanto più un dispotismo è forte, tanto più presto si rende impossibile, e tanto più grandi sono i problemi che accumula per il futuro, a meno che non riesca a spogliarsi dei suoi attributi dispotici, ed a far causa comune con la nazione che ha creato. L’aver provveduto questa tirannia livellatrice fu il grande contributo dei Normanni alla formazione dell’Inghilterra»14.

Tutto diverso il giudizio crociano. In polemica con Enrico Cenni, che sosteneva la persistenza di una serie di filoni di storia “nazionale” dispiegantisi «al di sotto delle terribili catastrofi politiche che ne mossero solo la superficie», così come la «corrente sottomarina del gulf stream che prosegue maestosamente il suo corso senza lasciarsi turbare dalle tempeste che agitano la faccia dell’oceano»15, Croce negò che in materie giuridiche o forensi, economiche o sociali si potesse avere quella che per lui è la «storia per eccellenza, che è solamente quella etica o morale e, in altro senso, politica»16. Le parti che i meridionali potevano essere riusciti a svolgere su altri piani e gli elementi che essi così potevano fornire ad una loro storia propria pur sotto Normanni e Svevi erano da lui considerati insufficienti allo scopo: «bisogna con ogni cura guardarsi dal compiere questo indebito trapasso dalla storia etica e politica alla storia economica e sociale e pretendere di ritrovare in questa, nella quale non può essere, il movimento storico e la virtù nazionale, che si dovrebbe invece ritrovare e mostrare nell’altra»17.
La differenza non è di poco conto. E, innanzitutto, per la disparità delle prospettive tenute presenti dai due autori: il “sentimento comune” generato negli Anglo-sassoni dal dominio normanno in Pollard, e il campo giuridico e forense, economico e sociale di cui si parla per una storia delMezzogiorno nello stesso periodo in Croce. In effetti, la prima prospettiva avrebbe potuto essere riconosciuta come, in fondo, etico-politica anche dal Croce; la seconda, come si è visto, assolutamente no. In altri termini, il giudizio crociano sul Mezzogiorno normanno-svevo è, dal punto di vista etico-politico, più pessimistico di quello del Pollard sull’Inghilterra coeva.
Si trattava, in ogni caso, di giudizi non nuovi in senso assoluto, sia per il Mezzogiorno, sia per l’Inghilterra normanna, ma che i due autori esprimevano con una sistematicità e un approfondimento indiscutibili, oltre che evidenti.
Per quanto riguarda l’Inghilterra il rapporto fra storia anglo-sassone e storia normanno-angioina del paese si può dire che ha cominciato a interessare la cultura nazionale già molto precocemente. È stato notato che risalgono addirittura al 1138 sia la storia dei re di Britannia di Goffredo di Monmouth, la cui figura centrale è il re Artù, sia la vita di Eduardo il Confessore dovuta a Osbert de Clare, priore diWestminster.
L’opera di Osbert si legava agli sforzi dei monaci di Westminster per innalzare agli altari la figura del Confessore. «Questa campagna – osserva Christopher Brooke – era il pendant religioso della crescente opinione che il re Eduardo rappresentasse la tradizione della vecchia Inghilterra: che le buone leggi dovessero essere riferite alle “leggi del re Eduardo” e i buoni re alla sua famiglia»18. Enrico I, Stefano ed Enrico II avevano sposato sue discendenti. Le sue reliquie furono esposte, a partire dal 1181, inWestminster all’atto dell’incoronazione regia, ed Enrico III, oltre a ricostruire la chiesa e il reliquiario, «diede il nome di Eduardo al suo primogenito»; e, come osserva ancora Brooke, «è improbabile che Eduardo dimenticasse di portare questo nome dopo il Confessore». Tuttavia, l’attenzione maggiore di Eduardo I fu la rivolta a re Artù, e «non c’è dubbio che Eduardo fosse più arturiano che edoardiano». E non era un caso. La Storia di Goffredo di Monmouth «è soprattutto invenzione», ma in pratica si risolveva «nell’adulare i Celti magnificando enormemente il loro passato e nell’adulare i Normanni delineando Artù in tutti i suoi tratti essenziali come un sovrano anglo-normanno»19.
Tornava, dunque, il passato inglese già pochi decenni dopo la conquista del 1066; e cominciava a formarsi allora la prospettiva per cui sarebbe diventato non sorprendente che «generazioni di inglesi patriottici vedessero nella battaglia di Hastings una catastrofe nazionale»20.
Già nell’Inghilterra del Rinascimento la visione inglese del proprio passato era profondamente influenzata da una simile prospettiva. Autori come Spelman, Starkey e altri hanno la netta convinzione che la conquista normanna abbia introdotto una frattura profonda nella storia del paese. Egualmente appare allora netta, presso altri, la convinzione che istituzioni inglesi fondamentali e caratteristiche, come il parlamento e il diritto comune, «fossero anteriori alla conquista» e che «il passato anglo-sassone rimaneva parte integrale ed essenziale del patrimonio giuridico nazionale»21. Peraltro proprio sostenitori di questa tesi, come Lambarde, il noto umanista, giurista e storico del diritto elisabettiano, di grande rilievo nell’erudizione storico-politicoantiquaria del suo tempo, e, come altri, impegnato on the search of the golden past22, da un lato sottolineavano la continuità; dall’altro consideravano la conquista come una raffica di vento sulla società sassone. Lo stesso «Lambarde suggerisce in un suo passo la nozione più tardi sviluppata, in certi ambienti, nel mito del “giogo normanno”», e «la Magna Carta è da lui definita come “la prima lettera di manomissione del popolo di questo regno dalla servitù normanna”»23.
In realtà, fu, però, proprio anche allora che l’antitesi fra continuità e rottura in rapporto alla conquista «rivelò la sua ambiguità». Spelman, secondo Ferguson, «benché restio a convenire che la conquista normanna costituisse qualcosa di simile a un cataclisma come alcuni dei suoi contemporanei ritenevano, riconosceva tuttavia che essa era un punto di svolta nella storia inglese». E qui si innesta un altro motivo di grande importanza, poiché per Spelman, sempre secondo Ferguson, la conquista, mentre «in un certo senso interrompeva la continuità della tradizione giuridica inglese», serviva pure in altro senso «a ricongiungere questa tradizione alla sue origini barbariche fra i popoli germanici continentali»24. Punto di vista tanto più notevole in quanto contemporaneamente si prendeva coscienza che le fonti di cui si disponeva per un simile discorso risalivano appena più in là della conquista stessa; e ancor più non mancava già una tradizione critica sulle leggende arturiane, di cui Polidoro Virgilio era l’esponente umanisticamente più consapevole25.
Si capisce così che questa tradizione trovasse subito un’espressione di rilievo nel secolo dell’Illuminismo. Nella Histoire d’Angleterre, edita a l’Aja dal 1723, Paul de Rapin Thoyras ripeteva – come ricorda Eduard Fueter – la tesi che «il government inglese non si era cambiato da quando era stata istituita la monarchia» (pensiero che venne poi sostanzialmente condiviso da Blackstone, ossia dal massimo costituzionalista, allora, della tradizione inglese), e che esso «era ancora quasi identico a quello dei Sassoni in Germania». Anzi, secondo Fueter, «Montesquieu ha preso da lui il pensiero che la libertà inglese esisteva già nelle foreste germaniche»26. Ma si capisce pure che giusto un secolo dopo un altro storico francese, Augustin Thierry, nella Histoire de la conquête de l’Angleterre par les Normands, edita nel 1825, ma molto mutata nelle edizioni successive dal 1830 in poi, potesse – come dice ancora il Fueter – considerare «la storia di Guglielmo il Conquistatore […] come esempio classico del modo come veniva fondato il dominio di una razza straniera sulla popolazione indigena»27, e come si poteva spezzare una lancia storiografica a favore degli oppressi. Non che l’opera di Thierry abbia vigore critico e filologico, ma certo le sue vedute (che avrebbe svolto anche nelle sue opere di storia francese) esprimevano un punto di vista già ben consolidato in gran parte della storiografia inglese.
Lo si sarebbe visto bene nella grande Costitutional History of England di William Stubbs, pubblicata nel 1874-1878, che va fino al 1485, e nella quale si ritrovano, come dice ancora Fueter, «tendenze nazionalistiche o teutoniche abbastanza evidenti»28. Ma maggiormente lo si sarebbe visto nell’ancor più ampia, monumentale History of the Norman Conquest of England di Edward Augustus Freeman, che cominciò ad apparire anche prima, nel 1867, e proseguì fino al 1879. Basti dire che il suo giudizio sulla battaglia di Hastings è che il potente Conquistatore vi aveva distrutto «il più nobile degli inglesi, the hero and the martyr of our native freedom». E benché certamente Freeman non fosse «una testa critica che potesse concorrere coi capi della tendenza rankiana in Germania», e benché anch’egli fosse convinto che «esempi lodevoli di saggezza politica potessero trovarsi solo nell’antichità classica e nell’Europa teutonica», mentre per le «razze latine in generale […] aveva cieco disprezzo», tuttavia la vasta opera di esplorazione delle fonti narrative da lui condotta non poteva mancare, e non mancò, di dare maggiore significato rappresentativo alla tesi che «tutti i pregi che caratterizzano la costituzione inglese fossero di origine sassone»29. Altre tendenze, libere «dai pregiudizi nazionalistici della scuola teutonistica», non mancarono, come si può vedere nell’opera dello storico del diritto Frederick William Maitland e, più tardi, in uno studioso del costituzionalismo quale C.H. Mcilwain. A quest’ultimo, nella Cambridge Mediaeval History, si deve una delle formulazioni più decise delle tesi teutoniche, come pure l’affermazione che fu precisamente l’accentramento precoce ed efficace dell’amministrazione statale operato dai primi sovrani normanni a determinare le premesse per cui quella inglese si sarebbe evoluta in una monarchia costituzionale e non assoluta30.
Non molti anni dopo McIlwain si poteva, tuttavia, constatare, nell’opera di un autore fortunato, ma non senza merito, come George Macaulay Trevelyan quanto l’idea della estraneità della dinastia normanno-angioina rispetto al grande corpo della storia inglese perdurasse. Trevelyan iniziava la sua English Social History – da lui qualificata come A Survey of Six Centuries from Chaucer to Queen Victoria, e pubblicata nel 1941 – appunto da Chaucer, ossia dalla seconda metà del secoloXIV. «Si tratta», affermava, «in realtà di un buon punto di partenza, poiché proprio al tempo di Chaucer il popolo inglese appare per la prima volta come una unità di razza e di cultura. A quel tempo le razze e gli idiomi costitutivi si sono fusi in uno; il ceto superiore smette d’esser francese, i contadini non sono più anglosassoni: tutti sono inglesi; e l’Inghilterra cessa di essere poco più di un recipiente di influenze che le vengono dal di fuori. Da ora in poi produce il suo. Nell’età di Chaucer, di Wycliffe, di Wat Tyler e degli arcieri inglesi, comincia a creare le sue proprie forze insulari in letteratura, in religione, in economia, nella guerra; e le forze che la modellano non sono più forestiere, ma natie. Il suo progresso non lo deve più a grandi dignitari ecclesiastici e ad amministratori stranieri, a idee normanne dominanti nei manieri feudali, a legiferanti re angioini, a una cavalleria armata e istruita in guisa francese, a frati provenienti da terre latine. Da ora in poi l’Inghilterra crea i suoi propri tipi e costumi»31.
Sono parole certamente diverse, e anche lontane, da quelle drastiche di uno Stubbs o di un Freeman, ma la loro pregnanza nel senso della tesi della quale parliamo non ha bisogno di commento. Sono anche parole equivalenti, nel loro senso generale, a quelle del Croce a proposito della differenza tra periodo normanno-svevo, da un lato, e periodo angioino, dall’altro lato, nella storia della monarchia e della nazione napoletana.
Valga questo molto rapido itinerario storiografico inglese – uno solo tra quelli possibili – a mostrare come, secondo quanto si è detto, la tesi del Pollard non esprimesse, sul periodo normanno in Inghilterra, giudizi nuovi, benché, come si è visto, tratti originali non manchino nelle sue pagine, e valgano, tra l’altro, a differenziarle da quelle corrispondenti del Croce. Quanto al Mezzogiorno, le cose sono alquanto più complesse, poiché per il giudizio crociano di estraneità del periodo normanno-svevo alla storia «nazionale» del Mezzogiorno sussistevano, in realtà, piuttosto elementi sparsi e giudizi particolari e spesso contraddittorii fra loro che non una vera e propria orditura di tesi generali e una continuità storiografica come quella che, sia pure in modo scheletrico e a titolo esemplificativo, si è visto sussistere nel caso inglese. Il che dà alle tesi crociane una ben diversa, propria e indiscutibile originalità.
In ogni caso, dopo quanto si è detto, il rilievo delle tesi di Pollard e, soprattutto, di Croce rispetto al tema qui trattato non ha bisogno di essere sottolineato.
Croce poi, in maniera particolarissima ed eminente, saggiava nel suo giudizio sul Mezzogiorno normanno-svevo l’indirizzo teoretico, che proprio agli inizi degli anni ’20 aveva maturato, della storia etico-politica: le pagine della Storia del Regno di Napoli sull’argomento ne sono, anzi, anche la prima completa formulazione e applicazione32. Inoltre, da questo impulso iniziale egli derivava, con la chiarezza e la linearità logica a lui consuete, molto più di un canone di interpretazione storica o di un principio di metodologia della storia (ossia, per lui, di filosofia). Legava l’animus di quella memoria storica vivente che per lui era, in effetti, sempre la vita dello spirito, nel concreto della sua esperienza e nell’impulso vitale verso il nuovo, all’incognito (voluntas fertur in incognitum, come ricordava respingendo l’idea della historia magistra vitae). Qualcosa, insomma, che investiva per intero la dimensione etica, oltre che quella intellettuale, del suo pensiero e del suo modo di essere; qualcosa che faceva per lui della storiografia “un racconto di un dramma dell’anima” (come avrebbe, a suo tempo, definito La Santa Romana Repubblica di Giorgio Falco)33.
Sulla scorta di quanto si è detto non pare, dunque, porsi un problema di influenza di uno dei due autori sull’altro. Croce non conosceva – come si è visto – il libro del Pollard, che, infatti, non figura neppure nella sua biblioteca personale, e attirò la sua attenzione solo per la proposta del Pincherle a Laterza; e nessun rapporto personale tra loro ci risulta documentato. È certo, peraltro, che la Storia del Regno di Napoli ebbe immediata e ampia ripercussione in Italia e fuori d’Italia. Se ne era occupato, fra gli altri, un anonimo nel «Times Literary Supplement» del 19 ottobre 1922 (Croce on Naples) ed egualmente anonimo era apparso un articolo (Naples under the Viceroys) nel «Times» del 6 agosto 1924.
C’è, però, di fatto anche un altro elemento di grande rilievo da notare per quanto riguarda l’argomento che stiamo trattando. Nella parte introduttiva della sua Storia Croce affronta esplicitamente proprio il problema del rapporto fra storia normanna d’Inghilterra e storia normanna del Mezzogiorno.
È stato almanaccato – scrive – più volte sul problema del come mai il regno di Ruggiero e quello di Guglielmo il Conquistatore, fondati da uomini della stessa razza, ordinati allo stesso modo, tenessero così diverso cammino e avessero così diversa fortuna, splendido questo e misera l’altra: ma la ragione è evidente, perché in Inghilterra i baroni adottarono presto fini generali e difesero interessi di tutta la loro classe e poi di tutto il popolo, e questo chiamarono alleato nell’opera di mantenere bensì un potere regio, di cui sentivano la necessità, ma di piegarlo e foggiarlo a uso della nazione; sicché, nonostante le differenze delle razze e il contrasto di conquistatori e conquistati, si formò sin da allora una nazione inglese. Nella monarchia normanno-sveva non accadde lo stesso: un popolo, una nazione non nacque: non ci fu nemmeno un nome unico nel quale le varie popolazioni si riconoscessero come subietto: siciliani, pugliesi, longobardi, napoletani erano tutti nomi parziali; popolani e borghesi non fecero pesare la loro propria volontà, e i feudatari solo in maniera individualistica e contraria allo Stato. Appena un lieve delinearsi di un partito nazionale fra i baroni comparve e scomparve alla morte di Guglielmo secondo e con l’elezione di Tancredi contro l’erede tedesco dei re normanni. I parlamenti, radunati a grandi intervalli, servivano quasi solamente per annunziarvi leggi o per necessità finanziarie; e non vi ha ricordo di collaborazione che dessero o pretendessero, né di legale opposizione. Baroni e borghesi rimasero come estranei alla politica dei loro sovrani; e non furono a fianco di Federico e di Manfredi nella lotta contro i pontefici, come la Francia fu poi a fianco di Filippo il Bello contro Bonifacio VIII. Invano tra i baroni meridionali si cercherebbero figure che avessero qualche tratto della religiosità, dell’austerità, del sentimento d’onore che si notano in un Simone di Montfort, e che spiegano la fecondità delle agitazioni e ribellioni da costui guidate, e ne fanno il martire di una causa nazionale. E dov’è poi, nella agitata e folgorante storia della monarchia normanno-sveva, qualche traccia di epica, di quell’epica che accompagna la coscienza del sorgere di un popolo34?.

La citazione è lunga, ma ha il suo peso; e, come si vede, Croce sembra accogliere qui pienamente un’interpretazione del periodo normanno nella storia inglese alquanto lontana da quella prevalente nella storiografia britannica fino a che egli scriveva la sua Storia, e ancora evidente nella prima edizione della Cambridge Mediaeval History, e lontana, più specificamente, dal giudizio proprio del libro laterziano del Pollard, a lui ignoto. Quale motivo può, peraltro, aver indotto Croce all’accettazione così decisa di una tesi, sulla quale difficilmente potrebbe convenire anche la storiografia inglese della fine del secolo XX? Questa storiografia, infatti, sforzandosi di uscir fuori dal dilemma sul carattere nazionale o non nazionale del periodo normanno nella storia inglese, ha cercato e cerca soprattutto di penetrare il significato storico di quel periodo nella varietà dei suoi aspetti e delle sue implicazioni e nella concretezza dei suoi svolgimenti (così come, si deve notare, la storiografia italiana sulla monarchia meridionale dai Normanni agli Aragonesi è andata uscendo dalle tematiche tradizionali, senza, peraltro, abbandonarne, almeno nei più avveduti, il solido e ampio nucleo di validità e di permanente importanza).
In Inghilterra, John Gillingham, ad esempio, non esita a riconoscere che il 1066 fu «il massimo disastro della storia inglese»; ma aggiunge subito che esso fu «tale non perché [la conquista normanna] fu predatoria e distruttiva», bensì «a causa del problema costituito dal 1066 e dintorni». È vero che «quasi tutto quanto è accaduto nell’Inghilterra del tardo secolo XI è stato interpretato alla luce dell’impatto della conquista». Però, nota Gillingham:
«la seconda metà di quel secolo fu un periodo di rapido sviluppo per tutta l’Europa, durante il quale anche paesi che non avevano subito l’invasione normanna conobbero ampie trasformazioni. Ecco dunque – conclude Gillingham – il problema: sotto certi aspetti il 1066 comportò grandi cambiamenti, sotto altri si ebbero cospicui cambiamenti ben difficilmente attribuibili alla conquista e sotto altri ancora l’aspetto più sorprendente non è affatto il cambiamento, bensì la continuit»35.

In una tale visione e nelle propensioni storiografiche contemporanee a cui essa si lega, indubbiamente la conquista non sparisce e mantiene un suo cospicuo rilievo. Ci si deve chiedere, però, se non se ne perdano almeno alcuni di quegli elementi traumatici che la tradizione storiografica inglese – almeno in alcune delle versioni che se ne sono accennate – considerava come sue caratteristiche peculiari e profonde; e se, in tal modo, non si venga effettivamente a perdere il senso di sviluppi fondamentali per la storia inglese36.
Sotto questi aspetti la storia inglese e la storia meridionale di quel periodo effettivamente presentano affinità di problemi che sono davvero notevoli. Basterà pensare, per tutti, al problema del rapporto tra momento militare e della violenza e momento politico e della mediazione nell’organizzazione dei nuovi dominii normanni, o al problema dell’introduzione del feudalesimo in ciascuno dei due paesi. Anche le differenze sono, tuttavia, evidenti. Basti pensare, per questo, sia pure soltanto al fatto che Guglielmo I si impadronì dell’Inghilterra con un paio di battaglie campali decisive e con un paio d’anni di campagne militari distruttive in alcune regioni. Nell’Italia meridionale e in Sicilia occorsero, invece, decennii di azioni politiche e militari perché il dominio normanno conseguisse il suo assetto definitivo. A chi voglia, quindi, differenziare la Normandia inglese e quella italiana non mancano affatto argomenti37. La differenza prospettata da Croce – in Inghilterra subito una nazione anglo-normanna, in Italia una dominazione dinastica – è, tuttavia, troppo discutibile per essere accettata, quale dato di fatto scontato, così come da lui è presentata. Ed è da presumere perciò che Croce, il quale non poteva non esserne in qualche modo consapevole, l’abbia così drasticamente espressa anche (e sia pure non soltanto) perché una tale rappresentazione della storia inglese di quel periodo avrebbe dato maggiore evidenza e icasticità al suo giudizio sulla storia normanno-sveva nel Mezzogiorno d’Italia. Non è, però, nemmeno da escludere, d’altro lato, che vi entrasse anche una tal quale visione idealizzata della storia inglese nel suo complesso, di cui metterebbe conto di rintracciare in lui, se vi sono, gli elementi e i motivi.
Come si vede, il problema va assai al di là della questione di un eventuale rapporto tra Croce e Pollard sui giudizi così, anche se non del tutto, affini che essi formulano sul periodo normanno in Italia e in Inghilterra. Esso porta piuttosto a constatare la dimensione europea di un pensiero storico che, nel caso della Storia del Regno di Napoli del Croce, si tende spesso a veder confinato nell’ambito di una cultura e di una problematica soltanto italiana o, addirittura, soltanto e provincialmente napoletana.








NOTE
* Testo della relazione presentata al Convegno, Il Mezzogiorno normanno-svevo fra storia e storiografia, XX giornate normanno-sveve, Bari, 8 ottobre 2012.^
1 Cfr. B. Croce – G. Laterza, Carteggio. 1921-1930, a cura di A. Pompilio, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 388.^
2 Ivi, p. 389.^
3 Per la questione Barker-Pollard cfr. ora B. Croce, Teoria e storia della storiografia, a cura di G. Galasso, Milano, ed. Adelphi, 1989, pp. 364-366. L’inclusione della nota apparsa ne «La Critica» fra i Marginalia di uno dei suoi volumi metodologici più fondamentali dimostra l’importanza che Croce annetteva alla questione e alla sua presa di posizione in merito. Ne è, del resto, conferma il fatto che egli ricordasse l’episodio nella sua commemorazione del Collingwood (cfr. Nuove Pagine Sparse, 2 voll., Napoli, ed. Ricciardi, 1949, vol. I, pp. 36-37). Nella polemica – ricordava Croce – era entrata anche la «Historische Zeitschrift» (vol. 128); ed, essendo la rivista tedesca tornata sull’argomento (vol. 130, p. 519), Croce ribadiva il suo punto di vista (cfr. Nuove pagine sparse, cit., vol. II, p. 14). Che, peraltro, Croce fosse alieno dal disconoscere l’autorevolezza scientifica del Pollard si vede, oltre da quanto si è detto nel testo, anche da qualche citazione che ne fa, come quella relativa al «carattere storico e prussiano, e non punto filosofico e universale, del concetto hegeliano dello Stato», in polemica con «pedanteschi hegeliani d’Italia e i cosiddetti idealisti attuali». In questo caso egli citava un saggio del Pollard nel volume X (pp. 352-353) della Cambridge Modern History. Cfr. B. Croce, Pagine sparse, 3 voll., Napoli, ed. Ricciardi, 1941-1943, vol. II, p. 366 n. ^
4 Cfr. A[lbert] F[rederick] Pollard, Storia dell’Inghilterra, Studio sull’evoluzione politica di un popolo, trad. di A. Pincherle, Bari, 1928, Avvertenza (dello stesso Pincherle), p. V.^
5 Cfr. in G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 20022, pp. 371-389, il capitolo Il momento storiografico.^
6 Cfr. B. Croce, Storia del Regno di Napoli, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1992, Avvertenza, pp. 9-10.^
7 Pincherle, Avvertenza, cit., p. VI.^
8 Ivi, p. VII.^
9 Pollard, op. cit., pp. 21-22.^
10 Croce, Storia del Regno di Napoli, cit., pp. 48-49.^
11 Ivi, pp. 31-32.^
12 Ivi, p. 40.^
13 Cfr. G. Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, Einaudi, 19752, cap. I; e Idem, Storia del Regno di Napoli, 6 voll., Torino, Utet, 2006-2010, vol. I, pp. 81-109.^
14 Pollard, op. cit., pp. 22-23.^
15 Sono le parole riferite dal Croce, Storia del Regno di Napoli, cit., p. 50, da E. Cenni, Studi di diritto pubblico, Napoli, De Angelis, 1870.^
16 Croce, Storia del Regno di Napoli, cit., p. 53.^
17 Ivi, p. 56.^
18 Cfr. Ch. Brooke, The Saxon and Norman Kings, London, Fointana/Collins, 1963, p.191.^
19 Ivi, pp. 191-192. Per alcune caratteristiche della storiografia di questo periodo si veda pure B. Smalley, Storici nel medioevo, tr. it., Napoli, Liguori, 1979, dove alle pp. 168 segg. ci sono alcune notazioni interessanti sul concetto di conquista in relazione anche alle vicende delle Crociate alla storia dei popoli slavi sulla storia della conquista anglo-normanna dell’Irlanda.^
20 Cfr. J. Gillingham, L’Alto Medioevo, in Storia dell’Inghilterra, a cura di K.O. Morgan, tr. it., Milano, Bompiani, p. 101.^
21 Cfr. A.B. Ferguson, Clio Unbound. Perception of the social and cultural past in Renaissance England, Duram (North Carolina), Duke University Press, 1979, p. 288.^
22 Cfr. W. Prest, William Lambarde, Elizabethan Law Reform and Early Stuart Politics, in «Journal of British Studies» 34 (1995), n° 4, pp. 464-480; e L. Kahlas-Tarkka, William Lambarde and Thomas Milles in search of the golden past, in Words in Dictionaries and History. Essays in honor of R.W., eds. O. Timofeeva and T. Säily, Amsterdam, John Benjamins, 2011, XVI, 232-248; R.J. Terril, William Lambarde: Elizabethan Humanist and Legal Historian, in «Journal of Legal History», 6 (1985), n° 2. pp. 157-178.^
23 Ivi, pp. 290-291.^
24 Cfr. E. Fueter, Storia della storiografia moderna, tr. it., Milano-Napoli, Ricciardi, 1970, p. 212.^
25 Polidoro Virgilio (Urbino 1470 – Urbino 1555) non appare menzionato nella Storia del Fueter, ma in realtà ebbe non poca importanza in Inghilterra, dove era andato come sub-collettore pontificio e soggiornò a lungo dal 1502, ottenendone nel 1510 la cittadinanza, nonché varii beneficii ecclesiastici. Da Enrico VII ottenne la commissione di scrivere una Historia anglica, alla quale aggiunse nella terza edizione del 1555 il racconto dei fatti del regno di Enrico VIII fino alla nascita del di lui figlio Eduardo nel 1537 (si veda l’edizione di questa parte nella edizione a cura di D. Hay, Oxford, Office of Royal Historical Society, 1950). L’opera, condotta coi criteri razionalistici della filologia umanistica, ebbe grande successo (se ne avvalse anche Shakespeare per i suoi drammi storici), anche se sollevò varie polemiche per i suoi giudizi sulle varie tradizioni inglesi. Ivi, p. 412 (per William Blackstone si vedano i suoi Commentaries on the Laws of England, editi fra il 1765 e il 1760).^
26 Ibidem.^
27 Ivi, p. 575.^
28 Ivi, p. 625.^
29 Ivi, p. 628.^
30 Cfr. C.H. Mcilwain, Le classi sociali nel Medioevo, in Storia del mondo medievale (ed. it. della Cambridge Medieval History), vol. VI, Milano, Garzanti, pp. 885 segg. Per Maitland cfr. Fueter, op. cit., pp. 722-723.^
31 Cfr. G.M. Trevelyan, Storia della società inglese, tr. it., Torino, Einaudi, 1949, p. 19.^
32 Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, cit., pp. 250 segg. e 371 segg.^
33 Ibidem, passim. Per la definizione dell’opera del Falco, cfr. G. Falco, La Santa Romana Repubblica, Milano-Napoli, Ricciardi, 1963, p. VIII.^
34 Croce, Storia del Regno di Napoli, cit., pp. 33-34.^
35 Gillingham, L’Alto Medioevo, cit. p. 101. Può essere interessante notare che dagli anni ’90 del ’900 i numerosi nuovi studi sulla conquista e sul periodo normanno in Inghilterra, molto orientati sia alla luce del problema delle “nazioni” che si delineano in Europa a partire dal V secolo, sia su nuovi interessi storici di antropologia culturale, di studi di genere, dei cerimoniali e rituali etc. Fra gli altri, M. Chibnall, The Debate on the Norman Conquest (Issues in Historiography), Manchester University Press, 1999, riassume gli sviluppi in materia dalle iniziali formulazioni cronachistiche delle innovazioni giuridiche e linguistiche della conquista alla formazione della teoria del “giogo normanno”, a sua volta passata dalle evocazioni del motivo delle rivoluzioni alla romantica visione del “paradiso perduto” sassone: poi con l’inizio della storiografia scientifica, ci si concentra sul rapporto fra sassoni e istituzioni normanne; quindi a un’impostazione di storia sociale più larga, mossa dai nuovi interessi a cui si è accennato, portando a una prospettiva storica per cui si tende più a studiare una “lunga durata” fra tardo secolo X e primi del secolo XIII che un inizio dal 1066. Un’idea dei nuovi interessi si può ritrovare in H.M. Thomas, The Englkish and Normans. Ethnic Hostility, Assimilation and Identity. 1066-1220, Oxford University Press, 2005, che discute specialmente la tesi dell’inevitabile assimilazione e anglicizzazione dei normanni, ricostruendo a questa luce il processo per cui i normanni divennero inglesi. Il dilemma: continuità, con una nuova leadership, del precedente sistema sociale o catastrofico mutamento, è analizzato in B. Golding, Conquest and Colonization. The Normans in Britain. 1066-1100, London, Palgrave-Mac Millan, 2001, che esclude un catastrophic change alla conquista, e indica i primi decennii come un periodo di lungo e difficile processo, a stento completato verso il 1100, quando appaiono forti segni di assimilazione fra colonists e natives e la coscienza di un coerente e integrato Stato anglo-normanno.^
36 Questo timore (o problema) – almeno a giudicare dalle più significativi dei lavori attinenti all’argomento – non sembra effettivamente presente nella più recente storiografia inglese.^
37 In effetti, di studi comparativi di un certo rilievo fra normanni d’Inghilterra e normanni d’Italia non ve ne sono molti. Per parte inglese è classico il rinvio a C.H. Haskins, England and Sicily in the Twelfth Century, in «Emglish Historical Review», 26 (1911), e a E.M. Jamison, The Sicilian Norman Kingdomin the Mind of Anglo-Normans Contemporaries, in «Proceedings of British Academy», 24 (1939). Si veda, inoltre, la voce di D. Abulafia, Inghilterra, Regno di, in Federico II. Enciclopedia Fridericiana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005, vol. II.^
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