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Liberalismo senza teoria
di Alessandro Della Casa
Con Liberalismo senza teoria (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013) Corrado Ocone approfondisce e sviluppa, sia sul piano storiografico sia sul piano concettuale, lo studio di quella tradizione di pensiero liberale che già era emersa nei suoi studi su Benedetto Croce. Il liberalismo come concezione della vita (2005) e sui Liberali d’Italia (2011), pubblicati anch’essi per i tipi di Rubbettino.
Quello che la recente raccolta di saggi si propone è l’individuazione di una «genealogia del pensiero liberale» che sia differente da quella della «vulgata trionfante» (p. 7) che ha in Friedrich von Hayek e in John Rawls i suoi principali riferimenti teorici e che ha sviluppato una teoria sulla base di «termini-concetto quali individuo, Stato (limitato), diritto, Ordine spontaneo» (p. 5). Viceversa, rifacendosi a Croce, che nel Contributo alla critica di me stesso, invitava a pensare «la filosofia dei fatti particolari», superando la «forma provvisoria dell’astratta teoria», Ocone propone un liberalismo che è definito, appunto, “senza teoria”, perché concepito innanzitutto come un’etica e, in effetti, come la filosofia stessa (p. 7). Pertanto, in base a un approccio realistico e storicistico, tale liberalismo sarà coscientemente disinteressato a trovare un’astratta sistematizzazione sul piano dottrinario.
Stilando una storia alternativa del liberalismo, il volume di Ocone intende far risaltare i concetti di «dubbio, spirito critico, anticonformismo, antidogmatismo, pluralismo, antiperfezionismo, antipaternalismo» (p. 5). Ne consegue un’interpretazione non consueta pure di autori considerati canonici. Si pensi ad esempio al primo saggio su Montesquieu, del cui pensiero è portato in luce il carattere pluralistico. Le concezioni dello Lo spirito delle leggi e la metodologia utilizzata dal loro autore, infatti, spostando il discorso sulla distinzione delle forme politiche su un piano qualitativo, ammoniscono a giudicare le società «per come riescono a garantire, ognuna a suo modo perché ognuna si trova inserita in uno specifico contesto storico e sociale, quella libertà civile e politica che è la ragion d’essere ultima della convivenza umana» (p. 12). Montesquieu, pertanto, rifuggirà l’indicazione di uno Stato perfetto e quindi universalmente valido. È poi corrispondendo a una visione antropologica realistica, che concepisce l’uomo come «un sinolo inestricabile di elementi positivi e negativi che non inducono né all’ottimismo né al suo contrario» (p. 21), che egli proporrà la frammentazione del potere e il ricorso a continui bilanciamenti e riequilibri, a compromessi che tengano conto della molteplicità degli interessi nell’ambito di una società complessa (p.23).
Molto fruttuosa è poi l’interpretazione del pensiero kantiano alla luce delle interpretazioni di «due maestri distanti ma in sintonia» (p. 27), Isaiah Berlin e Carlo Antoni. L’accostamento tra i due, oltre che fruttuoso sul piano ermeneutico, appare molto opportuno, tenendo anche conto della conoscenza non superficiale dei lavori dell’italiano posseduta dall’inglese, e testimoniata, tra l’altro, da quell'Herder and the Enlightenment che è probabilmente il punto più elevato della storia delle idee berliniana. L’attenzione di entrambi si va a concentrare su quella variegata corrente di pensiero da Berlin definita “Contro-Illuminismo” – ponte tra il movimento dei Lumi e la Romantik –, che avrebbe avuto in Johann Georg Hamann e in Johann Gottfried Herder i maggiori filosofi e nel pietismo prussiano, da cui anche Kant proveniva, la culla intellettuale. Nel pensiero hamanniano ed herderiano, e nella critica che esso portava all’uniformismo, al cosmopolitismo e al monismo illuministico, Berlin aveva trovato un valido antidoto intellettuale alla «ragnatela» di formule e leggi generali da imporre su una realtà irriducibilmente plurale. L’insegnamento contro-illuministico andava così ad informare, sul piano della filosofia politica, il pluralistico liberalismo berliniano – il cui spirito pervade felicemente l’intero libro di Ocone –, inteso come «un metodo e non un sistema, una terapia e non una “teoria”, un’ispirazione e non una precettistica» e, in quanto tale, non «assimilabile alle altre dottrine o ideologie politiche» (p. 32). Ricorda giustamente Ocone che il pensiero kantiano non era stato molto indagato dal filosofo inglese (p. 28), seppure – notiamo – egli aveva riconosciuto nell’accento posto sull’elemento della volontà una fonte del successivo sviluppo romantico, benché su una linea differente da quella di Hamann ed Herder. Maggiore certamente era stato il rilievo dato da Antoni alla filosofia di Kant, letta «come inveramento a livello critico e razionale delle intuizioni misticheggianti dei contro-illuministi, ma anche come critica al totalitarismo meccanicistico in teoria e del dispotismo illuminato in politica dei philosophes» (p. 36). È nella Critica del giudizio, scrive Ocone, che può essere rinvenuta «la chiave per poter superare, in senso liberale e compiutamente umano, la deleteria antitesi di universalità e particolarità» e, «sotto specie politica, di universalismo e particolarismo culturale, di occidentalismo e multiculturalismo», giungendo alla ricerca, «insieme e attraverso il dialogo», dell’«unica e storica (cioè discutibile e reversibile) razionalità e universalità che ci è concessa: quella che parte dal particolare e impone esso una regola» dipendente dalle «situazioni concrete» (p. 38).
Oltre che per i «limiti dell’attività dello Stato», teorizzati nel più noto saggio, è per via dello storicismo e della critica alle astrattezze riscontrate nella Costituzione francese emanata in seguito alla Rivoluzione, di cui pure condivideva gli ideali emancipatori – ciò per cui andava tenuto distinto dai coevi pensatori tradizionalisti e reazionari – che il pensiero di Wilhelm von Humboldt (cap. 3) è scelto quale ulteriore, e spesso trascurato, passaggio fondamentale della storia del liberalismo. È con il filosofo di Potsdam che si approfondisce la critica alla visione, oggi condivisa dal mainstream liberale, dell’individuo quale soggetto atomizzato e uniformato. L’individuo humboldtiano, infatti, è l’individuo empirico e concreto, e non quello disincarnato e astratto del razionalismo, e va compreso all’interno del proprio spazio e del proprio tempo e dei legami che stabilisce con i suoi simili. Molto più importante risulta, perciò, il contributo di Humboldt rispetto a quello di John Stuart Mill che pure, come Ocone rileva, fu influenzato dal pensiero del tedesco. Anche Mill restò, a suo modo, sospeso tra la tradizione razionalista e quella romantica, tra Bentham e Coleridge (p. 60). Rimase perciò incapace di risolvere le profonde contraddizioni del suo pensiero, tra l’approccio storico ed empirico e quello «intellettualistico» (p. 61) e tra il concetto di “utilità” che egli mantenne, sebbene riformato rispetto a quello benthamiano e sebbene sempre più vago, e l’esaltazione della libertà e della spontaneità individuale (pp. 63-65). Valido però del pensiero milliano, in ultimo, sembra essere il conflittualismo, che conduce il discorso a spostarsi sul versante del liberalismo italiano di cui esso è la cifra migliore (come l’autore aveva già argomentato nel già citato Liberali d’Italia). Se si eccettua un capitolo, degno comunque di nota, sul concetto di «individuo plurale» di Hannah Arendt, l’attenzione dei capitoli finali è riservata appunto a quattro pensatori novecenteschi della Penisola.
Proprio nella valorizzazione del «tema del conflitto» Ocone trova il punto di convergenza maggiore tra il pensiero di Luigi Einaudi e di Benedetto Croce, concordi nell’affermare che «l’ideale liberale fosse imprescindibile dalla lotta fra gli individui e i gruppi» (p. 67) e che tale lotta non avesse un momento terminale. E ciò pur nella distanza dei percorsi attraverso i quali essi giungevano a simili conclusioni: dalla tradizione dell’empirismo inglese il primo e dalla riformata dialettica di Hegel il secondo (pp. 68-69). All’interno di questa visione non quietistica e non pacificata, è allora rivendicato un posto di rilievo per Piero Gobetti, autore spesso ritenuto al di fuori dei confini del liberalismo dagli studiosi «neoliberali» (p. 85).
Di particolare interesse è l’ultimo capitolo, dedicato all’interpretazione dell’ultima fase del pensiero di Norberto Bobbio, che solo apparentemente può risultare estraneo alla corrente. Ocone mostra, in effetti, che il periodo di «riflessione» e «bilancio», che lo stesso filosofo torinese riteneva di aver avviato nel 1979, debba intendersi in realtà come un periodo di trasformazione teorica. Bobbio inizierebbe allora ad affiancare «alla dimensione empirica o “istituzionale” degli accadimenti politici, accanto e oltre all’attenzione per gli elementi procedurali della democrazia e in genere delle istituzioni» la «dimensione antropologica degli stessi». Diventerebbe pertanto un «moralista» perché individuerebbe «nelle “forze morali” o umane la scaturigine prima o effettiva di quelle entità in lato senso politiche» (pp. 101-102) affrontate negli scritti delle precedenti fasi. L’evidenza della nuova curvatura etica del discorso bobbiano è, per Ocone, testimoniata anche dal mutato giudizio su Croce: mentre in uno dei saggi di Politica e cultura (1955) Bobbio giudica le opere di Croce inadatte alla comprensione del liberalismo, nel 1991 egli rivaluta proprio il Croce «grande moralista», convinto che siano le «forze morali» a guidare la storia e a promuovere, «con diversi nessi secondo le occasioni, la libertà» (pp. 104-105). Anche la difesa dell’Illuminismo e dei diritti umani era da Bobbio confermata, ma come un’esigenza morale. L’interesse del filosofo torinese, invero, si sposta dall’astratta precisione analitica e teorica all’efficacia pratica che non può essere pensata al di fuori del processo storico (p. 109). Il «nodo teorico centrale» dell’ultimo Bobbio è ravvisato nella definizione del concetto di laicità, che viene identificata con «un insieme di virtù» e in particolare con la mitezza e con il dubbio e che, proprio per questo, va tenuta distinta dal laicismo, che egli rigetta come «un atteggiamento d’intransigente difesa dei pretesi valori laici contrapposti a quelli religiosi e di intolleranza verso le fedi e le istituzioni religiose [che] rischia di diventare una Chiesa contrapposta ad altre Chiese» (pp. 112-113). Bobbio finisce, in ultimo, per introdurre nella costruzione politica del proprio liberalismo l’approccio etico che aveva criticato in Croce, mantenendo una costante tensione tra i due piani (p. 113).
«Dopo il tempo delle false certezze neoliberali e dell’ideologia liberista o del pensiero unico», l’eredità del pensiero di Bobbio e la possibilità che essa ci offre sono quelle di «recuperare la dimensione del dubbio e della pluralità conflittuale» (p. 114). Ci pare che qui si trovino il punto focale del “liberalismo senza teoria” e le ragioni della sua stringente attualità.
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