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Idealismo e prassi Fichte, Marx e Gentile
di Giovanni Carosotti
A distanza di poco più di un anno da Minima Mercatalia, Diego Fusaro pubblica un nuovo volume, Idealismo e prassi (Il Melangolo, Genova, 2013). Lo studio precedente ha rappresentato, in riferimento all’opera complessiva dell’autore, un punto d’arrivo, una precisazione di carattere sistematico di un modo d’intendere la filosofia in cui, con estrema naturalezza, confluivano i due principali percorsi di studio portati avanti in questi anni da Fusaro: l’analisi accurata della tradizione dell’idealismo tedesco sino a Marx, e lo studio della filosofia antica secondo un approccio ermeneutico fondato sull’«ontologia dell’essere sociale». Un orizzonte di interessi che permette a Fusaro di mostrare – e questo già in tutte le opere precedenti – sia padronanza filologica (nei suoi studi è sempre presente un numero di citazioni imponente per suffragare la propria posizione interpretativa, in buona parte dei casi confortato dalle più significative scelte espressive della lingua originale), sia la capacità filosofica di effettuare sintesi, di leggere pagine fondamentali della storia del pensiero alla luce di una dinamica relazione storica, per renderne evidente la sostanza concettuale, nella convinzione hegeliana che la verità risieda non nel puro dato, ma nel concetto, per cui ogni informazione va ricompresa in un quadro olistico, capace di rivelarne il senso, a partire dalla situazione storico-concreta in cui ogni determinazione si sviluppa.
Minima Mercatalia era un testo in sé concluso, nella sua impostazione geschichtsphilosophisch. Proprio questo approccio, però, lasciava aperte, sul piano storiografico, diverse questioni, verso le quali appariva naturale dovesse successivamente estendersi lo sguardo analitico dell’autore. Entrambi i testi pongono orgogliosamente in evidenza la propria inattualità, nel contrapporsi polemico alla vulgata filosofica dominante, tesa a svalutare la rilevanza dell’idealismo per la comprensione delle dinamiche attuali dell’esistente; una posizione che scientemente intende negare alla disciplina filosofica qualsiasi carattere veritativo. Vulgata di cui Fusaro denuncia la chiara motivazione ideologica: l’inattualità della tradizione idealistica, quella di Fichte, di Hegel e, a parere di Fusaro, anche di Marx, è tale solo in relazione all’esito epocale che il capitalismo ha conosciuto a partire dal 1989, quando ha potuto dispiegare in modo assoluto il proprio concetto e realizzare la propria natura intrinsecamente totalitaria. Si tratta di un’analisi che, sul piano storiografico, reputa solo transitorio il binomio – ancora considerato come naturale in Marx – tra il modo di produzione capitalistico e la classe sociale della borghesia. Questa in realtà, nel suo patrimonio culturale, conservava degli anticorpi (dalla tutela del nucleo famigliare, alle aspirazioni ai principi di uguaglianza, a una volontà di emancipazione culturale) per impedire alla logica della «valorizzazione del valore» di dispiegarsi in forma totalitaria e di condizionare ogni aspetto delle relazioni sociali. Tale contraddizione dialettica produceva, nel seno stesso di quella classe sociale, il fenomeno della «coscienza infelice», grazie al quale molti intellettuali borghesi hanno sostenuto visioni del mondo in contrasto con la logica dell’accumulazione capitalistica di cui avvertivano la stridente contraddizione con i principi di eguaglianza, sostenuti proprio dalle Costituzioni borghesi. Il «capitalismo assoluto» della globalizzazione, quello che hegelianamente «ha realizzato il proprio concetto», non produce più «coscienza infelice», ha distrutto e ricompreso nella logica della valorizzazione economica, e di conseguenza ha distrutto, i contenuti più alti della cultura borghese (a partire dalla disintegrazione tanto della comunità famigliare quanto delle diverse forme di comunità educativa), causando, tra le altre cose, un’evidente deculturizzazione (o postculturizzazione) delle società occidentali.
Questo quadro sintetico (per Fusaro una «fenomenologia dello spirito del capitalismo») era in Minima Mercatalia giustificato a partire da una puntuale disamina storico-filosofica, laddove il percorso della filosofia occidentale in età moderna è letto dall’autore come un progressivo e, dal suo punto di vista, nefasto allontanamento dal principio fondante dell’ethos greco, quello della «misura» (metron), in base al quale la felicità coincideva con la capacità di rimanere nei limiti, cioè nel rifiuto dell’accumulazione che, se non arrestata, avrebbe irrimediabilmente distrutto il tessuto comunitario. Il merito culturale dell’idealismo tedesco sta proprio nell’avere recuperato questo principio etico all’origine del pensiero filosofico occidentale, valorizzando la logica di comprensione unitaria del concetto già propria del pensiero greco e, conseguentemente, il valore del comunitarismo rispetto all’individualismo astratto della tradizione illuministica.
Idealismo e Prassi prende spunto da qui: il riferimento alla critica del capitalismo rimane sullo sfondo e viene più volte ricordato; ma il testo si prefigge di approfondire ulteriormente la fondatezza dei convincimenti filosofici che in Minima Mercatalia sostenevano tale posizione critica. In particolare, di verificare i punti più controversi o provocatori, ovvero quelli che più di tutti stridono con conclusioni ritenute da molti ambienti ormai acquisite sul piano storiografico.
Ecco allora Fusaro concentrarsi innanzitutto sulla figura di Fichte: il pensiero del filosofo di Rammenau non è, come appare alla lettura della manualistica più diffusa, semplicemente preparatorio rispetto agli sviluppi più maturi dell’idealismo, ovvero il sistema hegeliano, che ne correggerebbe il radicalismo soggettivistico. Il sistema di Fichte è già, dal punto di vista dell’idealismo, completo ed efficiente, e la sua sottovalutazione si basa su un errore vistoso d’interpretazione in merito al modo in cui il filosofo tedesco intende il rapporto fra soggetto e oggetto, nient’affatto sbilanciato a favore del primo polo ma perfettamente coincidente con un corretto concetto di realtà. Da questo punto di vista, Hegel dà conto in modo più preciso delle diverse figure in cui l’idea si dispiega, ma non corregge in nulla quell’immagine del mondo quale identità di soggetto e oggetto che Fichte aveva già pienamente teorizzato.
Il soggetto fichtiano non ha assolutamente, secondo Fusaro, un carattere storico, ma in modo pienamente consapevole agisce nella realtà concreta, per guadagnare la propria emancipazione. In Fichte infatti, come anche in Hegel, Marx e Gentile, si manifesta una decisa avversione per il proprio tempo storico o, meglio, per il modello di società fondato sulla disuguaglianza, in cui l’individualismo (rappresentato dalle correnti filosofiche dell’empirismo e dell’utilitarismo) sta dissolvendo il legame comunitario, corrompendo i principi dai quali aveva tratto ispirazione la Rivoluzione francese (evento senza il quale risulta impossibile comprendere il significato autentico dei più importanti concetti del pensiero di Fichte). Il «dogmatismo della cosa in sé», contro cui Fichte rivolge le proprie considerazioni critiche, è espressione di un atteggiamento adattivo nei confronti del mondo considerato intrasformabile, verso il quale l’unico atteggiamento possibile rimane quello di una contemplazione oggettivante, che acquisisce il fatto empirico quale dato naturale e, perciò, lo considera intrascendibile. Invece, per Fichte, «lungi dal dover essere solo rispecchiato, il mondo può ontologicamente e deve moralmente essere trasformato, razionalizzato, accordato con i principi della soggettività umana. La soppressione del Ding an sich come caput mortuum equivale, allora, al toglimento di ogni inerte positività, essendo la società il risultato sempre di nuovo posto dall’agire dell’umanità socializzata» (p. 37). L’Io va quindi inteso come l'autocoscienza dell’umanità che agisce nella storia, per conquistare la propria libertà attraverso il continuo superamento degli ostacoli (il non-io) che ne impediscono la completa realizzazione; al cuore della filosofia di Fichte vi è dunque la prassi, la quale determina un nuovo modo di comprendere lo stesso sapere filosofico, mostrando il valore eminentemente pratico dell’atto teoretico, contro ogni dogmatica contemplativa.
Può sorprendere che l’altro autore su cui Fusaro sente la necessità di ritornare in quest’ultima sua fatica sia Marx, filosofo al quale ha dedicato già numerose analisi e traduzioni. Egli si propone di ribadire una convinzione che rappresenta una novità quasi assoluta nella storiografia marxiana (Fusaro, in proposito, ha più volte parlato di «riorientamento gestaltico»), ovvero l’appartenenza di Marx alla corrente filosofica dell’idealismo. Marx fraintende se stesso quando si definisce materialista; e lo fosse veramente, il materialismo di Marx sarebbe paradossale, in quanto in esso non apparirebbe mai la materia. In realtà Marx è idealista, in quanto ciò che lui definisce materialismo è una concezione della realtà da intendere quale risultato della prassi umana, esito di una continua interazione fra soggetto e oggetto, come già in Fichte e poi in Hegel.
Rispetto a Minima Mercatalia, dove pure a questi tesi era dedicata una parte considerevole dello studio, in Idealismo e Prassi appaiono ulteriori e, dal punto di vista di Fusaro, decisive argomentazioni. In particolare, l’Autore sostiene – attraverso una comparazione che può apparire addirittura eccessiva dei testi dei due filosofi, ma che si spiega con la volontà di trovare solide basi alle argomentazioni proposte – la presenza di un’identica concezione ontologica nei pensieri di Fichte e di Marx, al di là di quanto quest’ultimo ne fosse consapevole; identità che trova piena corrispondenza nel concetto, centrale in entrambi, di prassi. Le pagine che, da questo punto di vista, assumono un ruolo strategico, sono quelle dedicate alle Tesi su Feuerbach (si tratta in realtà di un ponderoso capitolo, che da solo costituisce quasi un terzo del volume), nel quale il pensiero di Marx, confrontandosi con il materialismo autentico del leader della Sinistra hegeliana, dimostra la sostanziale identità tra ciò che intende Marx come materialismo e ciò che aveva già teorizzato Fichte a proposito della relazione tra Io e non-io: visione comune che trova la propria sintesi nel concetto di prassi. Il punto decisivo delle Tesi è la distinzione tra <>Gegenstand e Objekt; si tratta forse del momento concettualmente più decisivo dell’intero studio di Fusaro, quello che permette di cogliere la profonda affinità fra i tre autori oggetto della sua analisi. Nel commentare la prima delle dodici tesi, Fusaro scrive: «l’oggetto non deve essere concepito oggettivamente, come pictura in tabula, bensì soggettivamente, ossia come oggetto non-oggettivamente dato, ma posto in essere tramite la costante interazione tra le istanze soggettive dell’azione e quelle oggettive dell’ostacolo che – fichtianamente – all’azione resiste e, insieme, le permette di dispiegarsi. L’oggetto non è un dato, ma un fatto, una cosa da intuire passivamente, ma è posto, essendo il risultato di un fare, di un’attività umana sensibile, la cristallizzazione di una prassi che si è oggettivata: l’oggetto è il soggetto visto non come attività in atto, bensì come attività cristallizzata, fichtianamente come Tat-Handlung, bensì come Tat-Sache» (p. 186). L’identità più volte rimarcata tra la concezione di Gegenstand in Marx e Fichte serve all’autore per affermare il medesimo valore filosofico che in essi assume il concetto di prassi, non coincidente – con beneplacito di Marx – con quello di materialismo.
Solo a partire da questa prospettiva è possibile recuperare il pensiero marxiano, emancipandolo dalla scorie ormai inutilizzabili del marxismo storico, pur nella consapevolezza che quanto si sostiene sfuggiva alla consapevolezza dello stesso filosofo di Treviri. D’altra parte, seguendo la logica per cui un «classico» è tale proprio perché la lettura continuata nelle epoche propone sempre nuove possibilità di interpretazione e di attualizzazione, Fusaro ritiene legittimo un approccio ermeneutico che vada a individuare la sostanza di un pensiero in quello che sembra frainteso dallo stesso autore, la cui pagina rimanda inconsapevolmente ad altri contesti apparentemente rifiutati. Si tratta di quella lettura «spettrale» da Fusaro da tempo rivendicata e ispirata dal fondamentale saggio di Derrida (Spettri di Marx), di cui proprio l’Autore ha avuto in passato il merito di metterne in evidenza la rilevanza per un rilancio della storiografia marxiana.
È possibile, in questo modo, cogliere l’assoluta attualità dell’idealismo nel dibattito filosofico contemporaneo; in particolare, la sua decisa opposizione alla logica postmoderna, tipica del capitalismo globalizzato il quale, in virtù della propria funzione apologetica del presente, destoricizzato e naturalizzato, si propone in modo esplicito di delegittimare le filosofie della prassi.
Era inevitabile che Fusaro, nell’approfondire col tempo queste sue convinzioni, dovesse prendere posizione nei confronti della tradizione filosofica italiana, in cui a lungo l’idealismo ha esercitato una decisa egemonia, e proprio per questo oggetto ai nostri tempi di svalutazione e di polemica. Non vi era traccia di questo tema in Minima Mercatalia, ad eccezione di un accenno in nota all’opera giovanile di Gentile su Marx. Eppure si comprendeva, anche da quel breve cenno, che lì doveva dirigersi la ricerca dell’autore.
Che fosse Gentile, tra i neoidealisti italiani, la personalità che più poteva interessare Fusaro, lo si comprende facilmente proprio a partire da La filosofia di Marx (1899), il cui contenuto coincide quasi in tutto con le tesi da lui sostenute, ovvero il sostanziale idealismo di Marx e la filosofia della prassi quale carattere peculiare del pensiero marxiano. Che Gentile manifesti uno sguardo particolarmente acuto sul filosofo di Treviri e ne riconosca lo spessore speculativo è giudizio sicuramente acquisito e condiviso; tra gli studiosi non c’è invece affinità di vedute sul ruolo da attribuire a questo scritto giovanile in relazione al successivo sviluppo della filosofia attualistica. Fusaro, da questo punto di vista, sposa le tesi, fra le altre, di Antimo Negri e di Salvatore Natoli: la filosofia dell’atto puro mantiene un’estrema coerenza con i pronunciamenti teoretici di quel primo scritto, ed è quindi legittimo considerare la filosofia di Marx quale principale ispiratrice dell’attualismo, così come poi l’attualismo sarà alla base del marxismo di Antonio Gramsci.
Le pagine dedicate al filosofo siciliano di “Idealismo e prassi” hanno innanzitutto questo scopo: mostrare, attraverso una fitta serie di citazioni, la sostanziale identità tra il concetto di “atto” e quello di “prassi” così come espresso da Marx nelle Tesi su Feuerbach (delle quali – e il dato è in sé molto significativo – Gentile fu il primo traduttore in Italia). Il punto di partenza per affermare una simile interpretazione è sempre la distinzione tra Gegenstand e Objekt che, come abbiamo già notato, presuppone una comprensione dei rapporti tra soggetto e oggetto tipicamente idealistica. Gentile e Marx presentano, del resto, gli stessi interlocutori polemici, ossia il «materialismo della datità» e l’«idealismo del pensato». «L’errore del logo astratto risiede, appunto, nell’intendere l’oggetto come momento considerato nella sua pura astrattezza, obliando la concretezza dell’atto in atto che lo pone contrapponendolo al soggetto. L’astrattezza coincide con la rimozione dell’atto in atto che fa essere l’oggetto ponendolo nell’atto del pensare che lo pensa: astrattezza in forza della quale ci si illude che l’oggetto esista autonomamente. Per converso, come si chiarirà in Genesi e struttura della società, il logo concreto coincide con la dialettica “del soggetto con l’oggetto”; del soggetto che tutt’uno con l’oggetto, in quanto lo pone, e ponendolo pone se stesso. Ponendolo lo conosce, e ponendo se stesso conosce sé nell’oggetto; e in quanto conosce se stesso come quell’oggetto che egli pone, non è conoscenza, ma attività positiva, e però pratica, azione-in-atto: la realtà non esiste come morta positività, come attualità rigida e immobile, indipendente dal soggetto e dal suo agire» (p. 282). Risulta evidente, sulla base di tale esposizione rigorosa dei principi dell’attualismo, lo stretto legame con l’idealismo fichtiano e il concetto di prassi, quale momento di concretizzazione della teoria, così come emerge nelle Tesi su Feuerbach.
Se qualche lettore poteva avanzare ancora dei dubbi sulla correttezza dell’interpretazione del pensiero di Marx quale forma di idealismo, lo studio della filosofia di Gentile non lascia dubbi in proposito (e qui Fusaro si richiama alla definizione di un «Marx attualistico» proposta da André Tosel, p. 317).
Idealismo e prassi, al pari di opere precedenti di Fusaro, si caratterizza per un’estrema coerenza, per la rigorosa struttura sistematica che, pur a proprio agio nella modernità, non intende rinunciare a un’idea classica di organizzare l’indagine filosofica, sull’esempio di due grandi autori del Novecento, Ernst Bloch e György Lukacs, al centro peraltro già negli interessi di Fusaro.
Come però accadeva anche in Minima Mercatalia, sono numerose le interrogazioni che il testo solleva e, soprattutto, i possibili ulteriori percorsi critici che esso apre, e che attendono nuovi sviluppi. Speriamo non solo da parte dell’Autore, che certo dimostra tutto l’entusiasmo per proseguire nel tempo ad approfondire la propria proposta filosofica, quanto anche da parte di altri interlocutori, che abbiano voglia di rispondere in modo motivato alla maggiore provocazione che Fusaro lancia loro, quella relativa all’attualità dell’idealismo e alla denuncia delle implicazioni ideologiche di buona parte delle letture storico-filosofiche dei nostri tempi.
Particolarmente degne di riflessione ulteriore ci sembrano, soprattutto, le pagine dedicate a Gentile. Fusaro, in quelle pagine, si proponeva due obiettivi, entrambi centrati: attualizzare il pensiero del filosofo siciliano, mostrandone la capacità di dialogare alla pari con le altre correnti della filosofia a lui contemporanea e, nello stesso tempo, valorizzare l’attualismo quale corrente filosofica cui non si può prescindere nel dibattito filosofico contemporaneo. Fusaro prende dunque le distanze da un analogo tentativo che, circa una ventina d’anni fa, fece Salvatore Natoli (Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhieri, Torino 1989) il quale, per rivendicare l’attualità del pensiero gentiliano, riteneva di doverlo emancipare dalle sue radici idealistiche. La lettura heideggeriana che Natoli proponeva di Gentile, laddove interpretava l’atto come Erschlossenheit ed Ereignis, lo poneva in sintonia con quelle correnti di pensiero che teorizzavano la crisi del soggetto. Fusaro, che legge in questa logica post-moderna un atteggiamento di rassegnazione nei confronti dell’esistente (l’intrascendibilità della tecnica heideggeriana), rivendica invece, in Gentile, il ruolo forte della soggettività, intesa come «la prassi reale che gli uomini esercitano nella dimensione storica» (p. 126). «L’attualismo non fa che riconfermare la centralità assoluta del soggetto, dell’Io che ha “le spalle più poderose d’Atlante. Nulla di esso è escluso, tutto da esso deriva”. L’io come determinante il non-io, secondo la grammatica fichtiana: l’oggetto che “presuppone il soggetto, a cui è relativo, e da cui infatti è prodotto”, in accordo con l’attualismo», (p. 308).
Rimane però, nell’analisi di Fusaro, un punto che richiede un’ulteriore riflessione; Gentile, dopo quell’opera giovanile, non tornerà più ad occuparsi di Marx (anche se l’Autore fa notare come ciò non accada nell’Epistolario), del quale peraltro non ha mai preso in considerazione i contenuti della critica dell’economia politica, quasi fosse un elemento estraneo rispetto al carattere filosofico della riflessione marxiana. La questione si rivela di sostanza poiché la «critica dell’economia politica» rappresenta – come d’altra parte Fusaro ha scritto più volte – non solo una possibile applicazione della riflessione idealistica, ma un contributo che arricchisce ed invera il contenuto veritativo proprio dell’interpretazione critica della realtà concepita dall’idealismo. Gentile, è vero, coglie interamente il valore di Marx in quanto filosofo, nel momento in cui ne riprende la nozione di prassi, ma nello stesso tempo allontana la prassi dal luogo fondamentale dei modi di produzione, rinunciando così a indirizzare la propria riflessione verso un effettivo traguardo emancipativo. E, da questo punto di vista, la storia politica di Gentile potrebbe anche essere una coerente conseguenza di questo limite di lettura.
Su un punto Fusaro ha pienamente ragione: la concezione di fondo dell’attualismo non descrive affatto una visione reazionaria della vita comunitaria; tanto che molti discepoli del filosofo siciliano, a cominciare da Ugo Spirito, hanno potuto rappresentare istanze politiche contrapposte rimanendo profondamente gentiliani. Sulla base di queste valutazioni, risulta significativa una riflessione che Fusaro, sia pure di sfuggita, propone; la morte drammatica di Gentile ha sicuramente creato un vuoto nella cultura filosofica italiana e non è detto che il filosofo siciliano, di fronte alle svolte storiche profonde del dopoguerra, non avrebbe potuto collocarsi su altri orizzonti politico-culturali, come sembra peraltro prefigurare l’ultima sua opera, Genesi e struttura della società (1946, postuma). L’ultima nota riguarda un’assenza, quella di Benedetto Croce. Fusaro con convinzione afferma di considerare Gentile la maggiore personalità del Novecento filosofico italiano. Egli sembra condividere le ragioni del dissenso di Gentile da Croce, quelle poche volte cui ne fa cenno. Non c’è dubbio che Croce, nella sua opera giovanile su Marx, comprenda meno di Gentile l’elemento propriamente filosofico del pensiero marxiano, e lo legga riduttivamente su un piano di semplice metodologia storica. Ciò detto, rimane il fatto che Croce sia un fondamentale esponente dell’idealismo italiano, per il quale l’idea di realtà è sempre intesa, nel senso hegeliano, come «totalità espressiva della realtà storica» (p. 126). Il testo dà per scontato che il rifiuto gentiliano della dialettica dei distinti sia corretto, in quanto in essa vi sarebbe celato già un tentativo di oggettivazione astratta. Una tale argomentazione dovrebbe forse essere meglio approfondita, in quanto un parziale accoglimento dell’impostazione crociana avrebbe forse consentito a Gentile di non sottovalutare il valore propriamente filosofico della critica dell’economia politica, rendendo ancora più convincente un’interpretazione della sua filosofia a sostegno di una prassi trasformatrice.
Al di là di questi singoli aspetti, che costituiscono possibili percorsi di ricerca che Idealismo e prassi ha il merito di sollecitare, lo studio in esame rappresenta un tentativo importante di attualizzare, sul piano del dibattito filosofico, i concetti di “possibilità” e di “prassi”, nel tentativo di contestare quella descrizione apologetica dell’esistenza che, con la giustificazione di opporsi alle vecchie ideologie e alle “grandi narrazioni”, rappresenta forse una presa di posizione filosofica ancora più ideologica di quelle che vorrebbe criticare.
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