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La seduzione dell’immediatezza e il rischio dell’unanimismo Una rilettura del Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de La Boétie1
di Fabio Ciaramelli
Dispotismo della volontà generale e autoritarismo della speculazione metafisica.

Nella rilettura giuridico-politica d’un piccolo gioiello della letteratura francese qual è Il discorso sulla servitù volontaria2 – che ho proposta nel libro Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa, scritto a quattro mani con Ugo M. Olivieri3 – è presupposta un’analisi critica del rischio di unanimismo che si insinua nella denuncia della servitù volontaria da parte di La Boétie. Nel presente testo, intendo esplicitarla e approfondirne alcune implicazioni decisive, partendo dall’odierna esperienza d’una vera e propria dissolvenza della “volontà generale”, mito giuridico della modernità (secondo la celebre definizione di Santi Romano4 e la sua ripresa in tempi a noi più vicini da parte di Paolo Grossi5) portatore della sempre dispotica pretesa di potersi fondare sull’unità della ragione, sulla sua evidenza intuitiva. In realtà, come è stato ben mostrato da Jacob Talmon nelle sue analisi sui presupposti teoricopolitici della “democrazia totalitaria”, c’è una fitta rete di reciproci rimandi tra il dispotismo politico, connesso alla volontà generale, e l’autoritarismo teoretico, che si regge sulla pretesa d’accesso diretto all’oggettività del vero, di cui l’intuizione intellettuale avrebbe l’appannaggio esclusivo. In fin dei conti, la volontà generale è indiscutibile e implica l’unanimismo perché si presume fondata sull’evidenza del vero: e perciò nessuno vi si può sottrarre, pena la contraddizione. Conclude Talmon: «Ognuno è capace di scoprire la verità, se essa gli viene presentata nella giusta luce. Ogni suddito del sovrano di Rousseau non può non volere la volontà generale. Infatti la volontà generale è in ultima analisi una verità cartesiana»6.
Mi interessa in questa sede sottolineare in modo particolare che è proprio il carattere letterario del testo di La Boétie, cioè la sua estraneità all’autoritarismo delle pretese metafisico-speculative, predominanti nel corpus della tradizione filosofica, a far emergere il contenuto extra-teoretico che rende possibile e necessaria la dissolvenza della volontà generale e della sua subordinazione all’unità come indiscutibile principio d’ordine dell’azione umana. Questo contenuto – il carattere enigmatico della “servitù volontaria” e delle sue implicazioni autolesionistiche, che non può essere reso oggetto d’una teoria filosofica né d’un sapere sistematico – orienta in senso radicalmente anticartesiano la comprensione del titolo di Discorso che l’autore cinquecentesco, amico e interlocutore privilegiato di Montaigne, diede al suo testo; un testo che poi la pubblicistica ugonotta, artefice della sua circolazione inizialmente clandestina, ribattezzò quasi subito come Contr’un7. Anche Cartesio, meno d’un secolo dopo, nella sua prima opera data alle stampe, presenta il suo scritto come un “discorso” nell’accezione esclusiva di trattazione razionale di una problematica filosofica. Perciò nel Discorso sul metodo, fondativo del razionalismo della metafisica moderna, l’andatura discorsiva e la stessa componente letteraria sono subordinate a una forte e cosciente intenzione speculativa, consistente nel preparare con rigore le condizioni per l’intuizione della verità. Non a caso, costruito com’è intorno alla pretesa di basare su idee chiare e distinte la conoscenza del reale, il Discorso sul metodo celebra l’accesso diretto all’evidenza del vero: rispetto a questo esito intuitivo, le peripezie del discorso restano solo la premessa metodica, necessaria per sottrarsi alle lusinghe della tradizione, ma tutto sommato provvisoria e destinata ad esser superata nel conseguimento conclusivo dell’evidenza. In realtà, può esserci in senso forte discorso, anzi è indispensabile che ci sia discorso, solo di ciò che si rifiuta alla trasparenza dello sguardo speculativo, perché della sua complessità e della sua intrinseca temporalità non può darsi intuizione, visione immediata e diretta, coglimento istantaneo e oggettivo, basato sul potere assoluto dell’evidenza.
Quanto al Discorso di La Boétie, il suo tema di fondo è la resistenza della pluralità umana alla pretesa unitaria dell’evidenza razionale. Da qui, senza dubbio, la sua irriducibilità alla tendenza dominante nella tradizione speculativa della metafisica classica, secondo cui la legge – il dover essere, l’ordine costituito – non può che fondarsi sull’evidenza del vero, cioè in ultima analisi sulla struttura fondamentale del reale. Sennonché, proprio da qui emerge anche il richiamo letterario dell’immediatezza in nome della foga oratoria, da cui riemerge in altra forma il rischio dell’unanimismo. Su questo aspetto del Discorso ci si soffermerà più avanti. Per ora conviene approfondire la prospettiva teoretico-speculativa, secondo la quale, all’origine del binomio “legge e ordine”, ci sarebbe la realtà oggettiva – la presenza piena – del senso, che, in nome della sua idealità, risulterebbe direttamente accessibile alla mente umana; anzi tra essere e senso, tra esistenza e significato, vi sarebbe necessariamente una coincidenza immediata, oggetto proprio di quel sapere incontrovertibile che i Greci chiamarono episteme. In questa parola, ordinariamente tradotta con scienza, risuona la forza del sapere che sta e che s’impone su tutto quanto vorrebbe modificarlo o abbatterlo. Ai contenuti immodificabili, disvelati da un sapere incontrovertibile, dovrebbero rigorosamente adeguarsi i comportamenti e le forme di vita degli individui e dei gruppi umani. Sennonché, quel sapere che si presume fondato su premesse insindacabili perché ritenute evidenti e intuitive, è in realtà condannato a restare muto e inerte, senza l’inevitabile ricorso alla mediazione di quanti se ne ritengono i soli interpreti autorizzati: pretesa che, com’è noto, pone enormi problemi teorici e storici. Ciò che si rivela, in ultima analisi, improponibile è esattamente il carattere immediato della coincidenza di essere e significato, di cui si sostanzia la concezione metafisico-speculativa della realtà. Più che alla rarefatta oggettività del vero, più che alla sua universalità, presunta interfaccia dell’evidenza, l’ordine giuridico-politico di volta in volta effettivo appare concretamente rifarsi alle elaborazioni storicamente determinate delle sue immagini che, nelle differenti culture e società, ne modellano e perciò ne condizionano il significato.


La “servitù volontaria”, enigma politico della modernità

Il bersaglio immediato nel Discorso di La Boétie è la trasformazione che stava avvenendo in Francia a metà del Cinquecento del giovane Stato nazionale in Stato assoluto8 8. La “servitù volontaria” vi era chiamata in causa e denunciata come fondamento oscuro dell’assolutismo moderno. Per identificare e analizzare questa realtà politica storicamente inedita, il giovanissimo umanista francese faceva ricorso a una nozione antica, estranea al lessico del pensiero politico, perché originariamente relativa all’ambito della vita privata. Già nel Simposio (184 bc), infatti, analizzando i rapporti d’amore, Platone aveva parlato di έθελοδουλεία (letteralmente schiavitù o servitù volontaria), e l’aveva fatto ponendosi immediatamente il problema della sua ‘legittimazione’ morale. Più precisamente, secondo Platone, la sottomissione nella sfera erotica, per quanto consenziente, solo a certe condizioni poteva esser considerata lecita e non infamante; quando invece sconfinava nell’adulazione e nel servilismo, andava stigmatizzata come comportamento deplorevole e depravato.
In realtà Platone non riprovava in tutti i casi la servitù volontaria tra gli amanti, ma escludeva decisamente che il gioco – o, se si vuole, la logica – della seduzione consensuale bastasse a renderla in quanto tale accettabile (cioè non lesiva della dignità di ciascuno). A suo parere, un unico genere di servitù volontaria poteva sfuggire alla censura morale, ed era quello avente per oggetto l’άρετή (termine chiave della cultura greca classica, solo approssimativamente traducibile con “virtù”9). Quindi, nell’intimità della vita privata, la sottomissione d’un partner all’altro non sarà mai considerabile eticamente corretta solo in nome della sua spontaneità, intesa come assenza di costrizioni esterne; al contrario, potrà venir legittimata, unicamente se rende migliore chi volontariamente la pratica, nel senso che lo fa diventare più saggio, più esperto, più coraggioso, più leale, e via elencando i diversi aspetti dell’eccellenza dell’agire che siamo ormai abituati a chiamare “virtù” morali. Viceversa, nei riguardi di chi accetta di sottomettersi al partner non perché questa sua subordinazione lo aiuti a perfezionarsi moralmente, ma solo perché vi intravede un tornaconto in termini di successo, ricchezze o potere, la condanna morale sarà sempre netta.
In tal modo, l’approvazione platonica della servitù volontaria, praticata in vista della “virtù”, aveva come corollario una sua netta bocciatura in tutti gli altri casi. Molti secoli dopo, quando La Boétie riprenderà la nozione platonica, trasponendola però alle relazioni sociali e politiche, avrà certo l’originalità e l’audacia d’affermare che non esiste nessun tipo di giustificazione che possa politicamente “sdoganare” la servitù volontaria da cui scaturisce il potere assoluto dello Stato moderno. C’è però un punto fondamentale in cui La Boétie resta fedele alla lezione platonica: anche nella sfera pubblica, i comportamenti effettivi cui mette capo la servitù volontaria – cioè il conformismo, l’opportunismo, l’adulazione – rimangono meritevoli d’una ferma e netta condanna morale. Non lascia dubbi il tono perentorio di quest’ultima, evidente fin dalle prime battute del suo Discorso: «Ma, Dio mio, che cosa è mai questa? Come diremo che si chiama? Di che sventura si tratta? Quale vizio, o meglio quale orribile vizio vedere un numero infinito di uomini non obbedire, ma servire»10. E poco più avanti, La Boétie rincara la dose: «Che vizio mostruoso è mai questo, che non merita più il nome di codardia, per il quale non c’è una parola abbastanza offensiva, che la natura disconosce d’aver creato e che la lingua si rifiuta di nominare?»11.
Sul piano socio-politico la servitù volontaria – l’autolesionismo della sottomissione di massa al potere tirannico – appare incomprensibile. Tutto il fervore polemico del libello cinquecentesco prende le mosse da questo paradosso e mira a delucidarne la dinamica, nel tentativo di far emergere le radici contorte d’un fenomeno a prima vista inspiegabile. Certo, la complicità della società nei confronti del potere tirannico, che ne approfitta per stabilizzarsi e reprimerla, è fortemente sostenuta e finanche provocata da questo stesso potere. «Non s’è mai verificato che i tiranni in vista della loro sicurezza non si siano sforzati di abituare il popolo non solo all’obbedienza e alla servitù, ma anche alla devozione nei propri confronti»12. La Boétie lo riconosce; e tuttavia non attenua mai il vigore morale della sua condanna. Il consenso dei sudditi nei confronti del potere che li domina e li opprime gli appare, senza mezzi termini, insensato e proprio per questo spregevole. Non c’è, nel suo testo, alcun tentativo di minimizzare o peggio ancora giustificare il loro comportamento riprovevole. In un certo senso, La Boétie li compiange: però non mostra mai di assolverli. Proprio perché liberi e consenzienti, essi gli appaiono moralmente responsabili della propria sventura: e perciò, come si vedrà meglio in seguito, capaci anche di porvi fine.



L’assuefazione allo scandalo e il fascino dell’Uno.

Il carattere radicale delle sue domande distingue l’analisi di La Boétie da quella d’uno spettatore disinteressato. Il suo Discorso è ricco di riferimenti concreti, che descrivono una società in cui una molteplicità sterminata di individui opera attivamente e con zelo, spesso mettendo a rischio la propria stessa vita, per instaurare e sostenere il regime spietato che li opprimerà. Alla luce della proliferazione di queste esperienze, l’assoggettamento degli esseri umani alla tirannide del potere assoluto si presenta come qualcosa che va da sé. La prima reazione da mettere in discussione è quest’incomprensibile assuefazione allo spettacolo dell’asservimento dei più all’arbitrio e alla prepotenza d’un potere sovrano caratterizzato dalla prevaricazione dell’unità sulla pluralità. Bisognerebbe invece scandalizzarsene, evitando di rassegnarsi all’enigma dell’autolesionismo di massa.
In ogni caso, l’enigma della servitù volontaria non sarà mai compiutamente “risolto” nel testo del Discorso, in cui al contrario si evita scrupolosamente di fornirne una spiegazione teorica unitaria, che finirebbe soltanto col renderlo innocuo, normalizzandolo e riducendolo alle sue (presunte) cause determinanti. Anzi, si potrebbe dire che il senso stesso di questa scrittura anti-sistematica, costruita sul frequente ricorso a successive approssimazioni più congetturali che dimostrative, stia proprio nel renderci sensibili all’eccezionalità d’un fenomeno sociale e psichico come la servitù volontaria, che non si lascia inquadrare in nessuno schema precostituito, utile solo ad attutirne l’impatto scandaloso.
Si capisce ora il motivo profondo, non solo estrinseco, dello stile interrogativo, così caratteristico del Discorso di La Boétie, tanto da costituirne la peculiarità letteraria. Sempre in bilico tra stupore, amarezza e invettiva, l’andamento non assertivo del testo dimostra di essere l’unico adeguato all’enigma su cui invita il pensiero giuridico-politico a riflettere. Le risorse della retorica consentono all’autore di evitare l’algido rigore della trattazione sistematica. Ponendo domande, proponendo piste di ricerca, contestando o almeno parzialmente smentendo alcune delle stesse ipotesi avanzate, il testo cinquecentesco incita alla riflessione critica, evitando con ogni sforzo di considerare inevitabile un atteggiamento largamente diffuso e altrettanto spontaneamente giustificato, che tuttavia non cessa di risultare aberrante e auto-distruttivo.
A dire il vero, la descrizione della complicità delle masse nei confronti della dominazione sociale che le opprime non è una pura e semplice “fotografia” della realtà; ne è viceversa un’analisi critica, che smantella il carattere indiscutibile delle apparenze e ne rivendica l’indeterminatezza. Infatti, se da un lato è innegabilmente sotto gli occhi di tutti lo spettacolo dei tanti che obbediscono ai comandi espliciti e occulti d’un potere sovrano che li opprime, d’altro lato non è in alcun modo “evidente” il loro incantesimo. Scrive La Boétie «È cosa davvero sorprendente, eppure tanto comune da doversene rattristare piuttosto che stupire, vedere migliaia d’uomini asserviti miseramente, con il collo sotto il giogo, non già costretti da una forza più grande, ma in qualche modo, come sembra, incantati e affascinati dal solo nome di uno, di cui non dovrebbero né temere la potenza, poiché egli è solo, né amare le qualità, poiché nei riguardi di tutti loro è disumano e feroce»13. La forza del potere tirannico sta in questa sua capacità di attrazione e omologazione, da cui la massa dei sudditi risulta non solo ammaliata ma al tempo stesso deprivata della propria pluralità. Ubbidire come un sol uomo agli ordini insindacabili del tiranno diventa in tal modo l’aspirazione di tutti e di ciascuno. Molto più forte della paura e dell’avidità è il richiamo affascinante dell’incorporazione in un’unità immediata d’intenti, d’affetti e di opere. Di conseguenza, ciò che affascina i sudditi non è la realtà empirica del potere sovrano, ma l’immagine dell’unità che questo potere incarnato al tempo stesso veicola e simboleggia. In tal modo, il testo di La Boétie orienta la critica giuridico-politica della tirannide verso l’analisi delle ambivalenti premesse antropologiche della dominazione, attraverso cui l’incantesimo del potere penetra nelle viscere della società e colonizza l’immaginazione degli individui, risvegliando in ciascuno ambigue fantasie d’onnipotenza. Non è facile sottrarsi alla sua forza di penetrazione. A questo mira il Discorso. In esso la letteratura risveglia le coscienze, a patto di conservare una distanza critica, evitando di soggiacere alla seduzione dell’immediatezza. Finché si resta subalterni a una relazione simbiotica con i vertici del potere, lo spettacolo dell’asservimento non desta scandalo, anzi potrà apparire addirittura edificante. Perciò è di fondamentale importanza, per cogliere il contributo specifico e profondamente innovativo della prospettiva di La Boétie, rendersi conto che i toni accesi della sua denuncia “letteraria” sono “filosoficamente” necessari, se non indispensabili, per riuscire a spezzare l’amalgama tra sudditi e potere, mettendone a nudo le implicazioni simboliche e le radici immaginarie.



La pluralità come luogo di produzione delle unicità

L’insostenibilità della pretesa speculativa, mirante a fare dell’evidenza del vero il principio d’ordine universale, si rivela in modo eminente teoricamente illusoria e politicamente pericolosa nel caso della società umana. Il Discorso di La Boétie rende particolarmente sensibili alle implicazioni antropologiche e sociali della reduction ad unum della pluralità: sennonché quest’ultima non va intesa in senso puramente numerico, come semplice molteplicità dei rappresentanti della specie, ma come luogo di produzione delle unicità, nell’orizzonte egregiamente esplicitato da queste parole di Hannah Arendt: «Nell’uomo, l’alterità, che egli condivide con tutte le altre cose, e la distinzione, che condivide con gli esseri viventi, diventano unicità, e la pluralità umana è la paradossale pluralità di esseri unici»14.
È esattamente sulla base dell’insopprimibile unicità di ciascuno che il potere tirannico sulla pluralità, generato dalla sottomissione dei singoli all’Uno, appare a La Boétie uno scandalo enigmatico, oggetto di quell’interrogazione interminabile, destinata a restare senza risposta, che anima il suo Discorso e lo distingue radicalmente da ogni teoria filosofico-speculativa sulla genesi del potere. La natura – scrive al riguardo La Boétie, in un passo fondamentale – «ha mostrato in ogni cosa che non voleva tanto farci tutti uno [tous un] ma tutti unici [tous uns]: di conseguenza non è da mettere in dubbio che noi siamo tutti naturalmente liberi, perché siamo tutti uguali; a nessuno può saltare in mente che la natura, che ci ha fatti tutti uguali, abbia reso qualcuno servo»115.
L’enigma è dunque il passaggio dalla condizione naturale e originaria di uguaglianza e libertà alla sottomissione collettiva ad un potere politico il cui modus operandi implica il privilegio assoluto dell’Uno sui molti, e in conseguenza di ciò la prevaricazione delle unicità. Ma, andando più a fondo nell’analisi, ci si rende conto che la medesima condizione originaria, or ora richiamata, è in sé stessa indeterminata e solo negativa, consistendo unicamente nell’escludere l’omologazione e la totalizzazione, senza poter esibire un modello positivo in grado di salvaguardare concretamente le unicità. In altri termini, se è vero, come recita il testo del Discorso, che la natura «ha mostrato che non voleva farci tutti uno», è altrettanto vero che questa stessa natura non contiene in sé stessa alcun modello concreto di espressione delle molteplici unicità. La realizzazione positiva d’una forma di vita che non le mortifichi è ciò che la natura affida alla società umana come compito che dovrà essere concretizzato di volta in volta in situazioni diverse.
Da ciò che la natura ha mostrato, ne consegue che la supremazia dell’Uno è solo l’effetto della servitù volontaria dei molti, non potendo vantare alcun fondamento naturale. Ma non è tutto. A guardar bene le cose, bisogna escludere tassativamente che ci sia un qualunque privilegio ontologico dell’unità, a cui la pluralità umana, nel suo atteggiarsi storicamente concreto, dovrebbe attenersi e sottomettersi. Al contrario, l’immagine dell’Uno è solo la proiezione sullo schermo dell’originario di un’unità vagheggiata, che emerge dall’esperienza sociale concreta come auspicio e magari anche come compensazione della frammentazione di quest’ultima.
Di questa pluralità non totalizzabile, sprovvista d’un modello predeterminato, non riducibile ad unità ontologica, e quindi allergica alla volontà generale, non può darsi alcuna intuizione evidente. Non c’è sapere incontrovertibile né scienza rigorosa di essa; non c’è alcun ideale oggettivo contenente un modello unitario di legge e ordine, su cui il pensiero umano è viceversa costretto a discorrere, senza giungere al possesso d’una conclusione ultima, teoricamente stringente e definitiva. Se questo possesso fosse realizzabile, non ci sarebbe più interrogazione filosofica né problema politico; in questo caso, al contrario, la libertà della ricerca filosofica sarebbe a priori preclusa dall’accesso ultimo e definitivo alla “cosa stessa” (al pragma auto della Settima lettera, 341 cd), all’evidenza intuitiva della sua verità, all’unica formulazione di quest’ultima. Va inoltre aggiunto che in un caso del genere, se si trattasse di mettere in opera un modello ideale oggettivo già dato, il problema politico verrebbe ad un tempo risolto e dissolto, con la conseguenza che non avrebbe più senso alcuno il confronto delle opinioni e la stessa pluralità di queste ultime mancherebbe di legittimità.
Ebbene, è proprio l’inaccessibilità immediata della “cosa stessa”, che impone al pensiero umano il rimando – originario e non derivato – alla struttura discorsiva, all’interrogazione, alla ricerca sprovvista di soluzione ultima. È escluso che l’essere dell’esistenza che noi siamo possa – in una qualche tappa conclusiva o privilegiata della sua vicenda strutturalmente temporale – sottrarsi alle mediazioni del discorso e conquistare l’intuizione istantanea, grazie alla quale l’ordine universale del reale dovrebbe consegnarsi alla pretesa intuitiva dello sguardo speculativo, che si presume capace di rispecchiarlo senza interferenze. L’ambizione del sapere incontrovertibile, consistente in ultima analisi nel carpire attraverso l’intuizione intellettuale la presunta oggettività universale dell’essere, è solo una pretesa, e fallisce non per una sua incapacità o debolezza più o meno trascendentale, ma perché il suo oggetto – la “cosa stessa” – inevitabilmente le sfugge. Il discorso si rivela la forma adeguata a esprimere questa inaccessibilità immediata della “cosa” del pensiero, questa sua allergia alle pretese intuitive della filosofia speculativa.


Il rischio di subordinazione all’Uno nel cuore stesso della denuncia di La Boétie

La dominazione sociale attestata dall’esperienza appare inizialmente a La Boétie la conseguenza d’una innominabile sciagura o disgrazia (d’un malencontre) che ha trasformato il desiderio originario di libertà in desiderio di servire: «Che disgrazia è mai stata quella che ha potuto tanto snaturare l’uomo, in verità l’unico nato per vivere libero, e fargli perdere la memoria del suo stato primigenio e il desiderio di riconquistarlo?»16
A questo aspetto del Discorso s’appoggia l’interpretazione antropologicolibertaria di Pierre Clastres, secondo il quale l’origine della dominazione è da ricondurre alla nascita dello Stato, evento storico che introduce in alcuni il desiderio di dominare ed in altri il desiderio di servire. Rinviando alle sue ricerche sulle società amerindiane come società non solo “senza” Stato, ma fieramente avverse alla sua costituzione17, Clastres scrive nel suo commento a La Boétie:

Non esiste nessun desiderio realizzabile di comandare senza un correlativo desiderio di obbedire. Noi diciamo che le società primitive, in quanto società senza divisione, bloccano qualunque possibilità di realizzare il desiderio di potere e quello di sottomissione. Macchine sociali abitate dalla volontà di perseverare nel loro essere non-diviso, le società primitive s’istituiscono come luoghi di repressione del desiderio cattivo. [...] Affinché le relazioni fra gli uomini si mantengano come relazioni di libertà tra uguali, bisogna impedire che sbocci il cattivo desiderio bifronte che probabilmente ossessiona tutte le società e tutti gli individui in ogni società18


Notiamo solo di passaggio che questa soppressione preliminare del rischio stesso di perdere la libertà – di cui le “società primitive” concettualizzate da Clastres sarebbero protagoniste – ha effetti ancora più disruttivi della dominazione moderna denunciata da La Boétie, perché comporta l’istituzione integrale dell’eteronomia sociale, in un contesto generale cui ai singoli viene letteralmente precluso l’accesso al desiderio e alla sua indeterminatezza non manipolabile.
Sennonché, contrariamente a quel che suppone Clastres, a causa della sua struttura interrogativa e congetturale, già più volte richiamata, il Discorso sulla servitù volontaria non espone una tesi, da cui dedurre con rigore sistematico spiegazioni e indicazioni operative. Se così fosse, dopo aver parlato di un inopinato malencontre che fa smarrire e dimenticare una condizione naturale e originaria di libertà, La Boétie dovrebbe poi indicare la strada maestra del suo ripristino. Sennonché, questa impostazione del problema, che oppone una natura originaria del desiderio, spontaneamente proteso alla libertà, a una sua successiva e accidentale corruzione, responsabile della malaugurata deriva della servitù, a cui dovrebbe far seguito la fuoriuscita da quest’ultima e il ritorno alla libertà, è una costruzione retorica troppo ottimistica, che il Discorso certamente formula, ma a cui non sempre si attiene. La realtà d’una dominazione apparentemente invincibile la smentisce in ogni pagina del testo, e induce il suo giovane e appassionato autore a indignarsi contro la viltà e l’insensatezza dei popoli, che scelgono la sottomissione al tiranno invece di desiderare la libertà.
È proprio a questo punto che incomincia a delinearsi un’ambiguità decisiva, che permea di sé il Discorso e il suo stesso appello alla fuoriuscita dalla servitù. Si tratta di un’ambiguità localizzata nel desiderio umano: anzitutto nel deprecabile desiderio di servitù, ma anche nel più lodevole e assai meno diffuso desiderio di libertà. Le due facce del medesimo desiderio appaiono scambiarsi i ruoli, altrimenti La Boétie non potrebbe scrivere che, vedendo «quanto spontaneamente e quanto volentieri» il popolo asservito serva il suo padrone, «non si direbbe che ha perso la libertà, ma che ha guadagnato la servitù»19. In questo senso, come ha sostenuto Claude Lefort, nel testo di La Boétie «la questione del desiderio erode i fondamenti dell’umanesimo classico»20. Attraverso la scoperta dell’ambivalenza del desiderio, il Discorso ne sottolinea la sempre possibile transizione dalla libertà alla servitù, ma poi a un certo punto evita di approfondire le implicazioni radicali di questa indeterminatezza del desiderio, della sua intrinseca instabilità, finendo per accontentarsi d’una visione rassicurante, che separa radicalmente il carattere naturale e originario del desiderio di libertà e il carattere corrotto e derivato del desiderio di servitù. In conseguenza di questa contrapposizione, il raggiungimento della libertà, che secondo la retorica del testo dovrebbe essere a portata di mano, attingibile con un semplice ma simultaneo atto di volontà da parte di tutti i sudditi, finisce con l’assumere i tratti inquietanti dell’unanimismo. In questo esito che soggiace all’illusoria seduzione dell’immediatezza, nel cuore stesso della denuncia s’insinua il rischio d’una nuova forma di subordinazione all’Uno.

I più evidenti segnali di questa deriva si possono cogliere nei diversi passaggi in cui La Boétie sostiene che i popoli sottomessi, per far cadere il tiranno che li opprime, non debbano “fare” nulla, ma solo smettere di desiderare la servitù: «Questo tiranno solo non v’è neanche bisogno di combatterlo, non v’è bisogno di distruggerlo; egli vien meno solo a patto che il paese non acconsenta alla propria servitù. Non è necessario strappargli alcunché, basta solo non dargli nulla […]. Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smettere di servire, sarebbero liberi21.


Alla base di questo argomento, sembra allora delinearsi la convinzione che, per ottenere la stessa libertà politica, basti solo desiderarla; che quindi un semplice atto di volontà consenta di realizzare quella libertà che la dominazione sociale calpesta e mortifica. Ma si tratta d’una concessione alla retorica, che per il fatto di rendere ancor più veemente la condanna morale della servitù volontaria, resta nondimeno fondata su di una premessa insostenibile: essa, infatti, presuppone che la libertà sia l’oggetto immediato del desiderio di ogni essere umano, un oggetto che ciascuno potrebbe riconquistare semplicemente smettendo di contrastarlo, cioè risolvendosi a non voler servire. Già in linea generale, come tutti ben sappiamo, non è sufficiente desiderare, sia pur intensamente, qualcosa, per poterne fare immediatamente un’esperienza diretta. Ma quando questo “qualcosa” è la libertà politica, cioè un significato culturale, che fa riferimento a un certo modo di organizzare e istituire le relazioni sociali, ancor più chiaramente è da escludere che una semplice decisione individuale possa mai garantirne la realizzazione immediata.
Ebbene, è proprio una realizzazione immediata del desiderio di libertà che La Boétie presuppone, quando, con riferimento alla natura umana, scrive: «Solo la libertà non viene affatto desiderata», perché se viceversa «gli uomini la desiderassero, l’otterrebbero»22. Una formulazione del genere finisce col suggerire che, prima della servitù socialmente prodotta e a differenza di essa, la libertà sia una caratteristica naturale dell’individuo umano. Sennonché, proprio una conclusione del genere si rivela affrettata e imprecisa alla luce dello stesso Discorso, che poco prima, in termini espliciti e pungenti aveva osservato: «D’una sola cosa non so dir come mai la natura non comunichi agli uomini il desiderio, ed è la libertà»23. Qui La Boétie riconosce che lo stesso desiderio di libertà, come ogni desiderio, dev’essere necessariamente istituito, cioè elaborato culturalmente e socialmente, e perciò la natura non può da solo e universalmente comunicarlo agli esseri umani. È esattamente questa consapevolezza che La Boétie talora esplicita, ma che tuttavia non svolge con coerenza, dato che poi in altri luoghi del Discorso continua a presentare le cose come se la fuoriuscita dalla servitù fosse immediatamente raggiungibile con un semplice atto di volontà.
Questa oscillazione tra il riconoscimento del carattere socialmente istituito del desiderio di libertà e il suo diniego in nome di un’immediata realizzazione della sua presunta naturalità è probabilmente l’effetto della ricerca oratoria di scorciatoie adatte a scaldare l’animo dei lettori per farne appassionati militanti. Sicché, per un verso, per riprendere l’osservazione di Lefort, egli «erode i fondamenti dell’umanesimo classico», quando mostra che nell’essere umano esiste un autolesionistico desiderio di servitù; ma per un altro verso, non si libera fino in fondo dalla seduzione retorica dell’immediatezza, quando sembra dimenticare che nessun desiderio umano concreto può esaudirsi al suo solo formularsi. Questa impossibilità è data dalla pluralità umana: proprio da quella pluralità di esseri unici che La Boétie rivendica e che la tirannide prevarica. È insomma la mediazione sociale che toglie al desiderio la certezza rassicurante ma illusoria della sua realizzazione immediata.
Probabilmente non s’è riflettuto abbastanza, leggendo e commentando il testo di La Boétie, al fatto che il rischio di reificazione e di subordinazione all’Uno si ripresenta sotto mentite spoglie nel cuore stesso della sua denuncia. Non ci spiegheremmo altrimenti la tentazione di presentare come se fossero a portata di mano la sconfitta della dominazione, l’uscita dalla servitù volontaria e quindi il ritorno ad una presunta libertà originaria. Qui sembra che La Boétie si lasci a sua volta stregare dall’incantesimo dell’Uno, proprio quando con maggior foga oratoria intende indicare al lettore un’immediata via di fuga dalla servitù, entrando in contrasto con la consapevolezza della sua complessità sociale, di cui il Discorso non è tuttavia sprovvisto. In fin dei conti, quando La Boétie scrive: «Ma come?, se per avere la libertà occorre unicamente desiderarla, se è necessario un semplice atto di volontà, può mai esserci un popolo che ritenga di pagarla troppo cara potendola ottenere col solo auspicio?»24, non muove solo dalla premessa sbagliata, come abbiamo già visto, ma finisce col mettere in discussione ciò che gli sta più a cuore, ossia la salvaguardia della pluralità umana, perché ne minaccia l’irriducibilità all’immagine dell’Uno e all’unanimismo che quest’ultima comporta. È infatti esattamente la pluralità umana, la sua imprevedibilità, la sua complicazione, il suo radicarsi nelle unicità non totalizzabili, che rende impossibile l’appagamento immediato del desiderio, quando quest’ultimo si rivolge ad un oggetto come la libertà politica, che prende corpo e acquista senso solo attraverso le relazioni sociali. La necessità di fare i conti con le incognite e i rischi che comporta il rimando al comportamento indipendente e imprevedibile degli altri esseri unici vale anzitutto per quel desiderio di libertà che La Boétie vede frustrato nell’umiliante soggezione di massa al tiranno.
Pertanto, la libertà, che il testo celebra, non può essere la posta in gioco naturale d’un desiderio immediato, sciaguratamente venuto meno nell’essere umano caduto in servitù, ma il punto d’arrivo d’un desiderio inevitabilmente indiretto e simbolico, la cui realizzazione non è automatica perché si scontra con l’istituzione della dominazione e con la sua tendenza all’autopropagazione. Si sbaglierebbe a credere che la persistenza della servitù abbia solo radici psichiche. Una volta istituitasi, la dominazione mostra una pesantezza e un radicamento sociali che tendono ad autoperpetuarsi, e di cui il testo è ben consapevole, come si vede dai suoi riferimenti alla moltitudine di «tirannelli sotto il grande tiranno»25 che puntellano la dominazione, rivelando nel cuore del desiderio di servitù le tracce, velleitarie quanto si voglia, ma non per questo meno evidenti, del desiderio di comandare. Scrive La Boétie:

Ma arrivo ora a un punto che costituisce a mio avviso la molla e il segreto della dominazione, il sostegno e il fondamento della tirannide [...] Non sono gli squadroni a cavallo, non sono le schiere dei fanti, non sono le armi che difendono il tiranno: non lo si crederà subito, ma senza dubbio è così. Sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno; quattro o cinque che gli tengono in schiavitù tutto il paese […]; cinque o sei individui sono ascoltati dal tiranno […]. Quei sei hanno poi sotto di loro altri seicento approfittatori, che si comportano nei loro riguardi così come essi fanno col tiranno. Quei seicento ne hanno sotto di loro seimila cui fanno fare carriera […] Dopo costoro ne viene una lunga schiera. […] In tal modo il tiranno sottomette i sudditi gli uni per mezzo degli altri26.


Attraverso una simile moltiplicazione mimetica dell’intreccio di dominio e sottomissione, riesce a propagarsi per tutta l’estensione del sociale la violenta supremazia dell’Uno e, come sua conseguenza, l’assoggettamento della pluralità. Il desiderio del singolo, quale che sia il posto che occupa nella gerarchia sociale, viene indotto a «identificarsi col tiranno facendosi a sua volta padrone di un altro»; l’ambizione individuale diventa in tal modo il più efficace mezzo di asservimento sociale, giacché, a ben vedere, «la servitù di tutti è legata al desiderio di ciascuno di portare il nome di Uno al cospetto dell’altro»27.
La servitù volontaria acquista così una ben strutturata stabilità sociale. Dal momento che la proliferazione di tirannelli, con l’attiva complicità delle aspirazioni individuali, si espande in tutta l’estensione del sociale, la dominazione diventa una struttura sociale caratterizzata dalla supremazia politica dell’unità. Di fronte alla generalizzata corruzione del sociale, prodotta dalla trasformazione del desiderio di libertà in desiderio di servitù, occorrerebbe riconoscere, contrariamente a quel che fa La Boétie, che nessuna decisione singola, per quanto determinata e risoluta, potrà mai provocare il capovolgimento immediato della stabile impalcatura sociale della dominazione. Anzi, andando ancora più a fondo, occorrerebbe concludere che c’è un solo modo per immaginare un capovolgimento immediato della dominazione, ed è quello di postulare la coincidenza d’una miriade di decisioni analoghe, tutte simultaneamente risolute nel ripudio del desiderio di servitù. Una tale coincidenza finisce col restaurare l’unanimismo, la subordinazione all’Uno e la totalizzazione della pluralità nel gesto stesso che avrebbe dovuto sottrarvisi. Di conseguenza, in questo fantasma d’una tensione “libertaria” capace di propagarsi istantaneamente nell’intera estensione del sociale fa capolino, nello stesso ragionamento di La Boétie, la seduzione dell’immediatezza, nel cui diniego della pluralità il Discorso ci ha insegnato a riconoscere il fondamento della dominazione. Mimetismo e conformismo delineano, nella foga oratoria del Discorso, il carattere squisitamente sociale degli elementi che sostengono il desiderio di servire e che finiscono addirittura col provocare il rapido oblio del gusto della libertà in una società sottomessa. Quasi per reazione, quindi, nel prospettare la fuoriuscita dalla servitù volontaria, La Boétie vagheggia quel che potremmo chiamare un “buon uso” di mimetismo e conformismo, finalizzati a un immediato capovolgimento della dominazione, capovolgimento che si rivela sostenuto dal miraggio d’un appagamento immediato del desiderio di libertà. E tuttavia, per quanto al servizio della “buona causa”, un tale miraggio non cessa di essere illusorio.
Pur con questi limiti, la portata emancipatrice del Discorso è qui la sua capacità di produrre una presa di coscienza delle implicazioni profonde della dominazione, capace di demistificare la strategia ammaliatrice del comando dell’Uno. Nella misura in cui il desiderio di libertà, a cui il testo provoca, non si lascia, malgrado il contraddittorio auspicio formulato nello stesso testo, saturare da una sua realizzazione immediata, La Boétie gli conferisce «una forma irrimediabilmente extraistituzionale»28. Perciò alla diffusa corruzione del sociale e al suo esito tragico, La Boétie nonostante tutto non oppone un puro e semplice ritorno a una qualche forma originaria di libertà naturale, ma l’istituzione sociale d’una relazione estranea alla dominazione: la relazione d’amicizia, che differisce radicalmente da quella di complicità: «L’amicizia è un nome sacro, una cosa santa: esiste solo tra uomini dabbene e nasce solo da reciproca stima […] Non può esservi amicizia dove c’è crudeltà, dove c’è mancanza di lealtà, dove c’è ingiustizia. Infatti se i malvagi si riuniscono, non c’è compagnia ma complotto». L’amicizia, invece, «si alimenta dell’uguaglianza, che non vuol procedere squilibrata ma sempre alla pari»29. Una tale uguaglianza non è un semplice dato naturale, ma la posta in gioco d’una relazione socialmente istituita, sempre sottoposta al rischio della caduta nel suo contrario, che costituisce l’unico antidoto possibile alla servitù. L’amicizia, come rapporto sociale libero che s’oppone alla dominazione della tirannide, implica come scrive Blanchot un «riconoscimento della comune estraneità»30, il cui carattere reciproco non dà alcuna garanzia immediata all’ansia di possesso e al desiderio narcisistico di rassicurazione.
Il dominio totale dell’uno sui molti si fonda dunque essenzialmente su questa sua potenza immaginaria, capace di calamitare le volontà dei singoli. Disvelarne il mistero libera il campo per la paziente ricerca delle mediazioni, su cui si costruisce il discorso giuridico nelle democrazie moderne. «Sostenere che gli esseri umani asserviti siano incantati e affascinati dal nome di uno è già destituire la realtà dell’uno, del padrone, lasciandone sussistere solo il nome»31.









NOTE
1 Relazione presentata al Convegno annuale della Società Italiana di Diritto e Letteratura, tenutosi a Torino il 17-19 giugno 2013.^
2 Di recente riproposto in traduzione italiana: cfr. E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, trad. it. F. Ciaramelli, preceduto da P Flores d’Arcais, “Perché oggi” (pp. VII-XXIII), Milano, Chiarelettere, 2011. Questa mia traduzione era già uscita a metà degli anni Novanta, in una collana diretta da C. Galli: cfr. E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, a cura e con Introduzione di U.M. Olivieri, Torino, La Rosa Editrice, 1995.^
3 Mimesis, Milano, 2013.^
4 Cfr. S. Romano, “Mitologia giuridica”, in Id., Frammenti di un dizionario giuridico (1947), Milano, Giuffré, 1983, pp. 132-133.^
5 Cfr. P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffré, 2001, passim.^
6 J. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria (1952), trad. it. M.L. Izzo Agnetti, Bologna, il Mulino, (1967) 2000, p. 44.^
7 Cfr. N. Panichi, Plutarchus redividus? La Boétie e i suoi interpreti, seguito da Discorso di Stefano della Boétie Della Schiavitù volontaria o il Contra Uno, tradotto nell’italiano idioma da Cesare Paribelli in Napoli, Anno Settimo Repubblicano, Napoli, Vivarium, 1999.^
8 Offre una buona presentazione d’insieme del contesto storico del testo l’Introduzione di L. Geninazzi in Etienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, trad. L. Geninazzi, Milano, Jaca Book, 1979.^
9 Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca (1986), a cura di G. Zanetti, Bologna, il Mulino, 1996 (sul Simposio, pp. 331-388).^
10 E.de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, trad. F. Ciaramelli, Milano, Chiarelettere, 2011, p. 6.^
11 Ivi, cit., pp. 7-8.^
12 Ivi, p. 44.^
13 E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, cit., pp. 4-5.^
14 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), trad. it. S. Finzi, Milano, Bompiani, 1989, p.128, corsivo aggiunto.^
15 E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, cit., p. 16. Approfitto qui, come ho già fatto in F. Ciaramelli, U.M. Olivieri, Il fascino dell’obbedienza, cit., p. 97, per migliorare la traduzione del testo, che non sono riuscito a correggere nella recente riedizione di Chiarelettere, immutata rispetto all’edizione La Rosa del 1995, in cui traducevo così: «[la natura] ha mostrato che in ogni cosa non voleva tanto farci tutti uniti ma tutti uno». Per cogliere con chiarezza la differenza tra tous un e tous uns, mi sembra oggi di gran lunga preferibile tradurre con “unici” il plurale dell’aggettivo numerale francese un, in italiano inesistente, alla stregua del plurale dell’aggettivo latino unus, una, unum.^
16 E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, cit., p. 18.^
17 Cfr. P. Clastres, La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica (1974), trad. it. L. Derla, Milano, Feltrinelli, 1980. Si veda anche l’importante volume postumo: P. Clastres, Recherches d’antropologie politique, Paris, Seuil, 1980.^
18 P. Clastres, “Liberté, malencontre, innomable”, in E. de La Boétie, Discours de la servitude volontaire, texte établi par P. Léonard, suivi de “La Boétie et la question du politique”, Paris, Payot, 1978, pp. 229-246, qui p. 239.^
19 E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, cit., p. 12, cit., p. 22.^
20 C. Lefort, Le Nom d’Un, in Etienne de La Boétie, Discours de la servitude volontaire, texte établi par P. Léonard, suivi de “La Boétie et la question du politique”, Paris, Payot, 1978, pp. 247-307, qui pp. 263-4.^
21 E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, cit., pp. 10-11 ^
22 Ivi, p. 12.^
23 Ibidem.^
24 Ivi, p. 11.^
25 Ivi, p. 46.^
26 Ivi, pp. 46-47.^
27 C. Lefort, Le nom d’Un, cit., p. 301.^
28 R. Laudani, La disobbedienza, Bologna, il Mulino, 2010. p. 42.^
29 E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, cit., p. 53.^
30 M. Blanchot, L’Amitié, Gallimard, Paris, 1971, p. 328 ^
31 C. Lefort, Le nom d’Un, cit., p. 256 ^
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