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Traiano Boccalini: non solo antispagnolismo
di Giuseppe Galasso
Nel 1950 Benedetto Croce ritornava – come di frequente gli accadeva – su uno scrittore che aveva già più volte e non superficialmente studiato. Il nuovo intervento non disdiceva, come era da attendersi, i giudizi che egli in precedenza, e soprattutto nella Storia dell’età barocca in Italia, ne aveva dato. Ora era, però, «su due concisi scritti politici» del Boccalini che egli si fermava e che ricordava «tra i primi forse della sua professione di scrittore, l’uno del 1591, l’altro del 1594», quando (dice Croce) l’autore aveva fra i 33 e i 36 anni (ma in realtà fra 35 e 38). L’uno era il Discorso breve e utile, a beneficio, salute e conservazione di tutti gli Stati di quella; e già in questo titolo di barocca ridondanza risaltano quelle tre parole di propria autoqualificazione: gentiluomo italiano e cattolico. Il secondo scritto era un Dialogo sull’Interim fatto da Carlo V; e anch’esso fissava in una tematica non comune un tratto fondamentale del pensiero del Boccalini, quale poi si sarebbe compiutamente sviluppato in seguito.
L’interesse di questo riferirsi del Croce ai primi tempi dell’attività del Boccalini non sta tanto nella menzione di due scritti solitamente assai poco messi in evidenza negli scritti su di lui quanto nel giudizio del Croce che essi sono «di un vigore e di un risalto mai più raggiunti nella copiosa sua opera posteriore»1.
Si riferisce qui il Croce soltanto alla qualità letteraria delle scritture ancora, in qualche modo, giovanili del Boccalini? Così pare, ma ciò non esclude che quel giudizio implicasse anche la considerazione del pensiero del Boccalini, come agevolmente si vede nelle pagine che seguono al positivo giudizio iniziale. Questa implicazione vale, comunque, per noi, sia per la già citata autoqualificazione di “gentiluomo italiano e cattolico”, sia per l’accento posto sugli interessi dinastici di Carlo V nella sua politica religiosa in Germania.
Basta scorrere, al riguardo, la lettera, probabilmente del 1597, e, quindi, quasi a ridosso di quelle due scritture, dal Boccalini inviata al cardinale Giacomo Sannesio. In essa è già esattamente fissato il succo delle posizioni politiche dell’autore quale resterà sino alla fine: e, dunque, antispagnolismo, che comprende, tuttavia, due elementi portanti, ossia la piena identificazione della Spagna con Casa d’Austria e la netta distinzione fra causa cattolica e causa spagnola, congiuntamente alla sottolineatura dell’interesse italiano a contrastare e respingere la congiunta pressione ispano-asburgica2.
Dieci anni dopo – nella lettera con la quale iniziava a Enrico IV il suo Commentario tacitiano – il Boccalini insisteva fortemente sulla funzione della Francia come equilibratrice della potenza spagnola in Italia e, protettrice, quindi, dell’autonomia degli Stati italiani che conservavano la loro indipendenza. Nella vita e nella forza del Re di Francia – scriveva – «hanno grandissimo interesse quelli Italiani che ancor vivono liberi dalla crudele e avara servitù de’ stranieri e i quali erano per pericolare», se Enrico IV non avesse, col suo genio, pacificato e risollevato il Regno di Francia, «che è contrappeso dell’inimici nostri, e dal quale l’Italia, ridotta tanto vicino alla servitù, riconosce quel poco di libertà che le avanza»3. Dove è fin troppo chiaro che crudeltà, avarizia, servitù italiana, “inimici nostri” sono tutti termini ai quali è sottinteso il riferimento alla Spagna e agli Spagnoli.
Di ancora cinque anni dopo, del 1612, è la lettera a Giacomo I d’Inghilterra, nella quale ugualmente ricorre l’affermazione che la Francia è «l’unico contrapeso di quel rimanente di libertà che è avanzata in Italia», ma la polemica antispagnola è più aspra. Quando il Regno di Francia era stato «da una crudel guerra civile afflitto», si era speculato da parte spagnola sulla «divisione di quella potente monarchia» per procurarsi «l’acquisto di tutta Italia». E questo si era fatto «non già con la aperta forza degli eserciti armati» o apertamente con le vere ragioni politiche di un tale disegno, «ma solo con la falsità dei falsi pretesti di zelo della religione», mentre i «miseri Italiani» erano «a tai termini di spavento […] ridotti» che, pur vedendo «oculatamente» che gli acquisti spagnoli di Finale, Monaco, Correggio e Piombino stringevano viepiù la «catena» della loro «schiavitù», si trovavano costretti a «chiamar libertà» e pace lo stato di cose in cui la penisola si trovava4.
Una denuncia ancora più forte delle precedenti, dunque, del dominio spagnolo in Italia e della servitù italiana. A differenza, però, che nella lettera a Enrico IV, non solo si indicava la natura pretestuosa dello «zelo della religione» addotto a schema della politica spagnola di potenza e di dominio, ma si indulgeva a un richiamo alle condizioni interne di regno di Giacomo I, sul quale non si può sorvolare. Là – dice il Boccalini – «con rara felicità de’ vostri sudditi, delle azioni del mondo sentire quae velit et quae sentiat dicere licet»5. Libertà, dunque, di pensiero e di parola. Affermazione di un principio, chiaramente indicato come superiore, della vita civile, che altrettanto chiaramente non può essere indicato come una ovvia implicazione.
Tra i due scritti del 1591-1594 e le due lettere a Enrico IV e a Giacomo I del 1597 o del 1612 già sembra delinearsi, così, un cammino che non permette di ridurre unicamente all’antispagnolismo il pensiero del Boccalini. Dal rischio di una tale riduzione non si esce, però, se oggetto dell’attenzione prestata al Boccalini rimangono i Ragguagli di Parnaso, terza centuria, o Pietra del paragone politico compresa. Il che affermiamo non per disconoscere il rilievo dei Ragguagli: operazione, di certo, storicamente difficile e poco sensata. Lo affermiamo, piuttosto, per dare al Boccalini tacitista il rilievo che spesso l’insistenza sui Ragguagli sembra offuscare, togliendo il loro autore dal contesto della riflessione politica che fu più propriamente sua, così come fu centrale ai suoi tempi nel pensiero politico europeo, per privilegiare l’antispagnolismo che è il lemma storico-politico sotto il quale da sempre il Boccalini è rubricato. Non, è, del resto, senza importanza che nell’inviare in omaggio i suoi Ragguagli a Enrico IV l’autore si premuri di dire subito che già da molti anni egli dedicava le sue fatiche a «vestire gli Annali e gli altri scritti del principe dell’istorici politici, Cornelio Tacito con alcuni [suoi] Commentarii». Il tempo che gli avanzava di queste fatiche tacitiane lo aveva, invece, «speso per [sua] ricreazione» negli Avvisi di Parnaso, «nei quali, scherzando nelli interessi de’ principi grandi e nelle passioni degli cronisti privati, sensatamente [aveva] detto il vero»6.
In una lettera al cardinale Gonzaga, contemporanea di quella a Giacomo I d’Inghilterra, il Boccalini aveva, inoltre, aggiunto che «in alcuni luoghi» dei Ragguagli o Avvisi poteva sembrare che egli avesse parlato «troppo […] oscuro». Ma di «questo mancamento» riteneva che lo scusasse «la qualità infelicissima de’ tempi presenti, ne’ quali […] sono perseguitati gli scrittori che liberamente dicono il vero»7: notazione che rientra nella retorica di questo genere epistolare, ma che non si può fare a meno di collegare all’ammirazione per la libertà di pensiero e di parola dichiarata nella lettera a Giacomo I. E, del resto, che non si tratti di notazione retorica può essere confermato dalla consonante notazione che si ritrova nella conclusione dei suoi Commentarii tacitiani, dove si dice che quella fatica era «un primo abbozzo fatto con velocissima mano». Di conseguenza, si diceva, «sono uscite molte cose dalla penna di pubblici e privati, le quali devono tacersi». Ma, poiché sentiva quell’opera «molto adeguata al proposito» suo, egli aveva «voluto notare tutto quello che [gli era] venuto alla mente», riservandosi poi «d’accomodare il tutto» in modo da evitare inconvenienti a chiccheffosse8.
Sarebbe un vero errore ritenere queste e altre consimili dichiarazioni del Boccalini soltanto espedienti retorici e di occasione. In effetti, il Boccalini – benché guadagnasse un grande prestigio non solo per il successo dei suoi Ragguagli, ma anche per le sue attività e posizioni culturali (Guido Bentivoglio, ossia uno dei maggiori storici del tempo, affermava senz’altro che «senza il [suo] lume sempre si cammina al buio ne’ libri istorici»9) si trovava su una linea di pensiero complessivamente molto divergente o opposta rispetto alle posizioni e tendenze allora prevalenti. Era contro l’aristotelismo in materia di regole letterarie, così come era contro il rigoroso purismo linguistico (e ricordiamo qui che nello spiritoso Ragguaglio X della terza Centuria Apollo ordina «una riforma contro li virtuosi di Parnaso», contro «la molta autorità che si aveva arrogata la licenza poetica», affinché i “virtuosi” giurino nelle mani di Elio Donato, che forma qui una sola persona con Guarino Veronese, definito «arcipedagogo della pedanteria», di «rispettare fino ad un minimo puntino la sua grammatica», facendo un’eccezione per «i soli nobilissimi virtuosi napoletani», cui resta consentito di «continuar nell’antica sua prerogativa di coniugare il preterito plusquam imperfecto»10 (affermazione, quest’ultima, che esige un commento a sé). Era altresì contro la ragion di stato, così come si differenziava dalle opinioni correnti nella lettura di Tacito e di Machiavelli; e, pur indulgendo alla fortuna di grandi monarchie del tempo, e pur avendo percorso tutta la sua, non eccelsa e non fortunata, carriera di funzionario nel quadro dello Stato pontificio, le sue simpatie politiche appaiono senz’altro riservate a Venezia.
Che non fossero, poi, solo precauzioni eccessive quelle di badare a non offendere troppo e troppi è provato dai due procedimenti aperti contro di lui nel Sant’Uffizio: l’uno nel 1603, che portò l’anno seguente al sequestro in casa sua di libri e scritture ritenute compromettenti, ma finì con l’arenarsi senza immediate conseguenze per lui; l’altro, più insidioso, nel 1610, che riprese anche quello precedente, e si concluse, questa volta, definitivamente con l’assoluzione dai sospetti di affermazioni ereticali nei suoi scritti e dalla scomunica per detenzione di libri proibiti (e ciò a prescindere da un terzo processo, subito conclusosi, per l’accusa di aver mangiato carne in giorni proibiti)11.
Sarebbe, comunque, un eccesso il pensare che da tali traversie, o che anche da esse, derivasse la metafora della “maschera sul volto”12, con la quale il Boccalini presenta i suoi Ragguagli, posti sotto l’insegna dello «scherzo»13: uno scherzo chiarificatore della realtà delle cose, che risolve le false apparenze e si pone come un’opera di verità; uno scherzo che, a parere dell’autore, fornisce gli occhiali artefatti che si acquistano e servono per vedere le cose nel modo migliore (e, del resto, il culto delle apparenze figura espressamente tra i grandi vizi del suo tempo, ai quali il Boccalini si vuole opporre)14.
Una volta imboccata questa strada, il Boccalini la percorre per intero, e la sua tendenza di opposizione a una gran parte dell’arco della cultura del suo tempo, cui abbiamo già accennato, merita maggiore attenzione di quanto finora sembra essere accaduto. A un certo punto il problema non era più, per lui, quello del Machiavelli o di Tacito. Ha ragione, crediamo, il Toffanin a non attribuire al pensiero del Boccalini un eccessivo tono e contenuto di novità, e a non dare alle sue professate simpatie per Venezia il significato di una professione di idee liberaleggianti o di percorrimento di idee posteriori. Le lodi fatte a Venezia – egli scrive – sono «una lode di sapienza pratica politica che non implica alcun sentimento nuovo»15. Del resto, lodi non minori sono fatte – come abbiamo visto – a sovrani e monarchie contemporanee, e non sono frutto soltanto di convenienze e opportunità, mentre la critica alla monarchia spagnola non riguarda mai l’istituto monarchico, ma sempre la politica e le procedure di quella monarchia. In altri termini, conclude Toffanin, quella del Boccalini fu una «rivoluzionarietà senza conseguenze che lo spirito critico porta con sé quando non è sostenuto da un’idea»16. E, infatti, anche l’elogio alla libertà inglese è dedotto dalla convenienza di una linea di governo, dai precetti di una molto empirica arte e sapienza di governo, non già dall’affermazione di un diritto o di una libertà come accadrà nel pensiero del XVIII secolo.
Il che non riduce, beninteso, l’importanza storica della riflessione e degli scritti del Boccalini. Anche per il Croce, che non ne era un particolare estimatore, «i Ragguagli del Boccalini meritarono la loro riputazione in Italia e fuori per la ricchezza e l’assennatezza e talvolta la novità dei pensieri che presentavano»17. Quali poi fossero queste novità, il Croce non specificò nemmeno nel suo saggio più tardo, nel quale ebbe, anzi, modo di ribadire che il Boccalini non «ebbe vera disposizione all’indagine filosofica o scientifica e alla teoria della politica». Qui il Croce ricorda pure che «la questione centrale della teoria della politica può dirsi che fosse allora di stabilire il rapporto della politica con l’etica, come più tardi, dopo Tomasio [ossia Cristian Thomasius] sorse un analogo problema intorno al rapporto del diritto con la Morale, in sostanza identico col primo ma che non fu identificato, né fu accompagnato dal pathos che accompagnò l’altro»18.
Di questo pathos il Boccalini fu profondamente partecipe; e, se, come vuole il Croce, «la sola parte del Boccalini che resti viva […] sono i suoi Ragguagli di Parnaso»19, si può anche certamente aggiungere che la forma dello scherzo cha ad essi l’autore attribuisce sia una forma non solo di evasione, ma anche di sublimazione del travaglio di quel pathos. Sublimazione che non appare, tuttavia, come una catarsi. Non è un caso che il Firpo abbia parlato per lui di «storia malinconica di uno scrittore lieto»20; ed è istruttivo che studiosi posteriori abbiano insistito su questa nota, come il Barcia, per il quale «Boccalini vive con malinconia e ansia»21 la discrasia che egli sente viva in Machiavelli e, se possibile, ancor più in Tacito, fra morale e politica. Il tacitiano vitia erunt donec homines22 obbliga i principi a seguire la logica della ragion di stato23, per cui «la società è e rimane corrotta»24. A nostra volta possiamo aggiungere che quel vitia erunt fa in tutto il paio col «se li uomini fussino tutti buoni» del Machavelli25: e ciò spiega, forse, ancora meglio la comune radice dell’interesse del Boccalini per lo storico antico e per quello moderno.
Essendo evidente che non c’è in lui alcun disegno di un modello o di un ideale di società o di politica, la sostanza del suo discorso e la sua originalità stanno indubbiamente nella sua molto spinta e incisiva critica del presente: del presente come egemonia e condotta politica della Spagna, sulla quale è centrato tutto il sale del suo discorso26; del presente come cultura politica dominata dalla ragion di stato, che, oltre che in Italia, ugualmente aveva trovato in Spagna larghissimo spazio sia come materia o razón de Estado, sia come idea del príncipe (o gubernador) político-cristiano, sia come policía cristiana27; del presente come tempo di monarchie assolutistiche, alle quali sono congeniali gli «idioti», ossia la scarsa o nulla cultura, mentre dove sono «lettere e grand’ingegni» fioriscono le repubbliche, che certo non è una professione di fede repubblicana, e risponde piuttosto alle idee più generali del Boccalini in materia di scritture del suo tempo, ma ancor più di certo non è molto conforme alle dottrine politiche allora prevalenti nel loro dominante orientamento monarchico28.
Furono, per l’appunto, la forza e la pungente attualità di questa critica del presente a determinare la grande fortuna dei Ragguagli nel secolo XVII, con diecine di edizioni in italiano e in traduzione, integrali o parziali29. Il Boccalini aveva davvero trovato in quest’opera – inserendosi in quella «letteratura di Parnaso, dall’Aretino a Caporali ai [suoi] Ragguagli» che fu «visitata anche dal Cervantes»30 – la misura congeniale al suo ingegno.
Congeniale perché lo portava a concentrare in scritti di ridotta o ridottisima estensione un pensiero che le lunghe fatiche prodigate nell’interminabile commento a Tacito gli avevano dimostrato riluttante a essere organizzato da lui sistematicamente in forma di trattato o di opus perfectum, suscettibile di una considerazione organica, esauriente logicamente coerente. La misura breve del Ragguaglio e la libertà stilistica ed espositiva, di immaginazione e di allegoria, di sceneggiatura e di scenografia, che quella misura gli consentiva, gli rendevano possibile di concentrarsi su punti specifici dei suoi pensieri e dei suoi giudizi, e di esaurirne volta per volta il limitato campo problematico, esprimendosi, per di più, in forma sicuramente molto più efficace che non in quel faticoso commento. Il che dovrebbe anche suonare di ammonimento preventivo rispetto alla sempre diffusa tendenza a ritrovare e ricostruire in Boccalini un sistema di pensiero definito e chiaramente individuabile (tendenza che negli studi non riguarda, peraltro, soltanto il Boccalini e che ricorre, anzi, in pressoché tutti i casi di storia delle idee).
Di questa congenialità sono certamente una riprova la spontaneità e il fervore con cui i Ragguagli furono scritti dall’autore all’incirca a partire dal 160531.
Anche la struttura letteraria dei Ragguagli rafforza la coscienza dell’autore di una loro diversa inflessione e natura rispetto all’impegno ben più severo, anche nella forma, del commentario a Tacito. Boccalini si professa qui «menante»32. Il termine indicava, fra l’altro, figure come quella del copista o dell’amanuense o dell’addetto alla scrittura nelle segreterie, negli studi notarili e in altri uffici, a questo significato si mantenne a lungo, tanto che ancora a suo tempo Magalotti, ad esempio, si doveva giustificare per l’invio di una certa copia soltanto l’indomani, «non oggi – diceva non senza ironia – trovandosi, tuttavia, i menanti della mia segreteria sotto il martirio delle buone feste»33. Nei secoli XVI e XVII assunse anche il significato di gazzettiere o, come poi si disse, di giornalista34. Cesare Caporali, dal quale il Boccalini aveva tratto la suggestione degli “avvisi di Parnaso”35, e del quale fa il protagonista, non senza una certa ambiguità di tono, del Ragguaglio LVII della terza centuria36, si riferiva chiaramente ai “menanti” in questo senso, in versi su questo tema che meritano di essere citati proprio perché si riferiscono a tale materia. Parlava, infatti degli «ultimi avvisi dei menanti – che scrivon di Parnaso a queste e quelli, – che ogni mese li pagano in contanti»37, e, dunque, con un chiaro accenno alla venalità di questo mestiere; e altrove si riferiva ai «desiati e cari – avvisi che i poetici menanti – han scritto per questi ultimi ordinari», ossia con gli ultimi corrieri con un accenno altrettanto chiaro all’attesa di coloro che aspettavano i «desiati» avvisi dei gazzettieri38.
Il Boccalini poté superare così la strettoia pressoché paralizzante in cui la sua riflessione era incorsa nel commentario a Tacito, che, non per nulla né per caso, aveva assunto dimensioni incontrollabili39 proprio perché l’autore non riusciva a trovarne una via di uscita, per concludere in modo chiaro e definito il discorso politico che vi conduceva. Si verificava, così, il paradosso per cui il commentario tacitiano restava il documento primo e maggiore del suo pensiero, il vero thesaurus a cui avrebbe attinto a piene mani per i Ragguagli, ma furono questi ultimi a costituire la via di uscita da quella strettoia: via di uscita che si rivelò fortunata, ma fu anche meritoriamente pensata e sviluppata dall’autore.
Senonché, la via di uscita era letteraria e immaginosa, ma, pur presentando numerosi motivi di interesse per il discorso che si fa rispetto alla realtà contemporanea, e pur soddisfacendo, quindi, per questa via, all’esigenza che lo aveva messo sulla strada di quella critica del presente di cui abbiamo detto, assumeva, si, un certo valore di testimonianza storica, ma non metteva capo a un’effettiva dimensione storiografica.
Questo valore di testimonianza i Ragguagli lo condividevano, invero, coi Commentarii. Lo aveva acutamente percepito già il Tiraboschi, che lo includeva per ultimo nella sua trattazione degli storici di quel tempo, perché – spiegava – comunque «egli niun’opera veramente ci desse a cui convenga il nome di Storia, tutte però quelle da lui pubblicate spargono non poco lume su’ tempi a’ queli egli visse»40, pur se non si può, certo, dire in forma così incondizionata come fa il Meinecke che i Commentarii «hanno anche un valore di fonte storica come testimonianza di un contemporaneo imparziale»41. E, comunque, la pertinenza storica dei discorsi e commenti del Boccalini sui suoi tempi, minore o maggiore che fosse, non portava a risolvere in teoria e in principio il problema intorno al quale egli si era arrovellato nel commentario. Problema che era, in ultima analisi, quello del rapporto tra morale e politica. La teoria contemporanea andava per vie diverse, ma non ignara delle teorie della ragion di stato, verso l’affermazione dell’autonomia della politica, senza, per questo, dimenticare il problema del rapporto tra politica e coscienza morale42. Nello stesso tempo, da un lato, insieme con una parte notevole della cultura del tempo e, dall’altro, per suo personale modo di vedere, era sempre viva in lui l’opinione che la religione fosse inseparabile dal potere, come instrumentum regni e come giustificazione morale del potere stesso, secondo un realismo politico che trovava conforto anche in Tacito e, soprattutto, in Machiavelli, benché da quest’ultimo anche su questo punto il Boccalini trovi modo di dissentire43.
La malinconia ravvisata nel Boccalini nasceva dalla consapevolezza di questo contrasto irrisolto. Il suo stesso pessimismo politico, che aveva in comune con tanti suoi contemporanei, e al quale largamente contribuiva il costume politico del tempo, ha minore importanza del mancato scioglimento del suo problema teorico e di principio, per cui si era arenato il commentario. Né il problema si scioglieva per lui sul piano storico, e perciò non crediamo condivisibile l’opinione del Firpo, secondo il quale la posizione tacitista del Boccalini non solo è «personale», ma «profonda […] soprattutto perché riporta il centro dell’interesse moderno di Tacito dal campo politico a quello storico»44.
In realtà, Tacito rimase per lui essenzialmente un maestro di politica, un precettore insuperato nell’individuare e rappresentare le forme e le procedure di un potere dispotico, il volto autentico del tiranno e della tirannide. E, analogamente, un maestro di politica restò sempre, per altro verso, il Machiavelli. Se mai la sua riflessione avesse messo capo a un’effettiva riduzione storica, a una versione o formulazione lontanamente storicizzante del suo problema, il suo pensiero e la sua fama non avrebbero subito la pressoché completa eclisse a cui soggiacquero a partire già da prima della fine del suo secolo, il secolo XVII45, in corrispondenza non solo e non tanto con il tramonto della problematica e della pregnante attualità delle teorie della ragion di stato quanto in corrispondenza con il venir meno dei motivi della critica del presente quali egli li aveva individuati e sviluppati e ai quali aveva dato in ultimo l’originale e felice veste dei fortunatissimi Ragguagli.
Sorte, a suo modo, anch’essa paradossale. Della nuova stagione storica egli aveva bene individuato i protagonisti nei paesi occidentali che insidiavano la potenza imperiale globale della monarchia spagnola. Non aveva, invece, in nulla precorso le direzioni del pensiero europeo che avrebbero accompagnato le fortune delle nuove massime potenze europee e mondiali. Non si può dire per lui, come per i più fervidi e spinti fra i suoi contemporanei, che nelle sue pagine «si sente nell’aria che non è lontano il tempo in cui alla domanda: – Chi sono i veri antichi? ossia gli uomini intellettualmente esperti e maturi? – si risponderà: – Noi –; e il simbolo dell’antichità sarà infranto per ritrovarvi dentro la realtà che è il pensiero umano sempre nuovo nei suoi atteggiamenti»46.
Questo, certo, per lui non si può dire. Non mancò, tuttavia, in lui una qualche consapevolezza che la materia del Commentario a Tacito e dei Ragguagli, tutta centrata, in primo luogo, sulla polemica discussione sulla monarchia di Spagna, non potesse essere proseguita ad infinitum. Negli “Appunti e frammenti” e nei “Sommari e appunti per un trattato politico”, pubblicati dal Firpo nel III volume della sua edizione dei Ragguagli, sembra abbastanza presente ed evidente la ricerca di una tematica nuova, che sviluppasse, per l’appunto, in un “trattato politico” il monotematismo antispagnolo dominante nei due lavori maggiori, e, magari, sciogliesse anche i nodi irrisolti del suo travaglio in quegli stessi due lavori.
Valga qualche esempio. «L’A.B.C. politico: vivere e lasciar vivere: arte difficile imparata da’ politici»47: dove a noi pare espresso il reale significato di quel vagheggiamento della libertà che traspare in tante sue pagine, e, come si è visto, chiaramente nella lettera a Giacomo I. Oppure il quesito: «se la democrazia governata aristocraticamente sia buon temperamento per mantener la libertà in una città»48: in cui a noi pare espresso l’autentico ideale politico del “gentiluomo”, quale il Boccalini si qualificava in un passo che abbiamo già citato, in materia di vivere libero delle città e, in tale quadro, dei rapporti di classe, conformemente a una veduta diffusissima nelle oligarchie italiane di quel tempo, e in trasparente implicazione veneziana, che chiarisce e completa il suo pensiero su Venezia. O anche: «discorso sopra alcune democrazie tedesche, e della natura della perfetta democrazia, e qual arte sia necessaria per mantenerla»49: dove l’attenzione parrebbe rivolta soprattutto al caso svizzero, modello, come si sa, democratico per gran parte del posteriore pensiero politico europeo. Addirittura viene indicato il tema della «virtù grandissima di Carlo imperatore per la quale egli fu sempre superiore a Francesco suo nemico, e del paragone di questi due prencipi, e del modo che tenne l’istesso Carlo per far serva Italia, e quai pensieri aveva»50: dove sembra che si accenni a una considerazione di Carlo V diversa da quella negativissima espressa in tanti luoghi del Boccalini.
Questi spunti eventuali di pensiero non ebbero, però, modo di concretarsi in nessun trattato politico o in altro modo che desse spazio ai temi e ai pensieri che nel Boccalini si agitavano ben al di là dell’antispagnolismo. La vita gli mancò, ma è più che dubbia la sua effettiva volontà e capacità di sistematizzare questi spunti e di renderli chiari e organici. “Gentiluomo italiano e cattolico” egli rimase sino in fondo secondo le coordinate ideali, morali, culturali del suo tempo, ma con un rilievo innegabile in quel panorama storico. Quando dopo un’eclisse di duecento anni ricominciarono a circolare le sue opere, fu nella scia del moto del Risorgimento, per il quale l’antispagnolismo era stato fin dall’inizio un momento fondamentale nella costruzione dell’identità storica e culturale dell’Italia che si voleva far risorgere.










NOTE
1 Cfr. B. Croce, Traiano Boccalini, «il nemico degli spagnuoli», in Idem, Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, vol. II, Bari, Laterza, 1952, pp. 285-297.^
2 T. Boccalini, Ragguagli di Parnaso e altri scritti minori, a c. di L. Firpo, vol. III, Bari, Laterza, 1948, pp. 339-344.^
3 Ivi, pp. 354-356.^
4 Ivi, pp. 361-363.^
5 Ibidem.^
6 Ivi, pp. 354-355.^
7 Ivi, pp. 367-368.^
8 Cfr. Comentarii di Traiano Boccalini romano sopra Cornelio Tacito, Cosmopoli [falso luogo di edizione; si è supposto che si possa trattare di Amsterdam per il luogo e di Pieter Bleu per il tipografo], per Giovanni Battista della Piazza, 1677, p. 519.^
9 Cfr. C. Jannaco, con collaborazione di M. Capucci, Il Seicento, Milano, Vallardi, 19662, p. 691.^
10 Boccalini, Ragguagli, vol. III, cit., p. 30.^
11 Cfr. per questi particolari biografici L. Firpo, Boccalini, Traiano, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 11, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1969. Si veda, inoltre, Traiano Boccalini, a c. e con introd. di G. Baldassarri, con la collaborazione di V. Salmaso, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2006.^
12 È nella prefazione ai Commentarii su Tacito che ricorre l’immagine «del frutto cagionato [dai Ragguagli] con la maschera sul volto, mentre anche senz’occhi hanno fatto aprire gli occhi agli uomini che, ciecamente dormendo, lasciavano guidarsi per il naso dall’autorità e dall’artificio, non conoscenti e non osservanti dei principii». Il passo è citato anche in B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Milano, Adelphi, (Ia edizione Bari, Laterza, 1926), p. 187. Per il testo si veda Traiano Boccalini, a c. di G. Baldassarri, cit., pp. 965-971.^
13 Così, ad esempio, nella già cit. lettera a Enrico IV, dove – dice – «scherzando nelli interessi de’ principi grandi e nelle passioni degli uomini privati, sensatamente ho detto il vero».^
14 «Ne’ secoli presenti l’ambizione, l’ipocrisia e l’avarizia, nuovo e crudelissimo triumvirato, […] bruttamente tiranneggiando la penna de’ letterati, ha proscritti li meliori autori dell’istoria e delle cose pubbliche», si dice nella lettera cit. a Giacomo I d’Inghilterra. Già «ridiamoci, signor Iacopo mio – aveva, peraltro, detto nella lettera al cardinale Sannesio già cit. – [della] carità pelosa di mostrar di defendere la casa propria e lasciar occupare la propria da’ Turchi […] E quando loro si ridano di quello che diciamo. Dite che loro è quel riso sardonico del quale hanno parlato l’antiche scritture, quasi profetizzando – aggiungeva – che i politici spagnoli avessero da finger di pianger i guai altrui, e ridersi da dovero de’ proprii: tutte quinte essenze cavate da’ politici alchimisti dall’ipocrisia e dal poco cervello delli uomini ambiziosi»: espressioni che, anche per la loro alta datazione (1597) ci sembrano da sottolineare per una migliore intelligenza di ciò che fin dall’inizio si agitava nell’animo del Boccalini in materia di Spagna, di scherzo e di ipocrisia.^
15 G. Toffanin, Machiavelli e il “Tacitismo”, Napoli, Guida, 1972 (Ia edizione Padova, Draghi, 1921), p. 204.
Sia consentito notare che, a distanza di poco meno di un secolo dalla sua prima apparizione, il lavoro del Toffanin mantiene un’attualità di considerazioni e di giudizi che non appare superata, anzi spesso soltanto parafrasata o riformulata in non pochi lavori più recenti, anche se la qualificazione di “tacitismo rosso”, che lo stesso Toffanin conferisce agli interessi tacitiani del Boccalini, contraddice alla sua giusta negazione di un carattere estremistico della posizione dello stesso Boccalini, oltre a non essere di per se stessa – come nota anche il Firpo – per nulla persuasiva. Di conseguenza, neppure ci pare accettabile la netta svalutazione delle pagine del Toffanin su Boccalini, che ancora il Firpo formula in nome di una lettura più, come dire?, patriottica, del pensiero del Boccalini (Firpo, Lettere di Traiano Boccalini, cit., p. 10).^
16 Ivi, p. 205.^
17 B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, cit., p. 201.^
18 B. Croce, Traiano Boccalini, cit. p. 291. Per l’accenno al Thomasius ci limitiamo a ricordare G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1999 (c. aggiornata a c. di C. Faralli), pp. 196-203.^
19 B. Croce, Traiano Boccalini, cit., p. 294.^
20 Cfr. L. Firpo, Traiano Boccalini. Storia malinconica di uno scrittore lieto, in «Nuova Antologia», 79 (1944), n. 1714, pp. 99-106.^
21 Cfr. F. Barcia, Tacito e tacitismi in Italia tra Cinquecento e Seicento, in Tacito e tacitismi in Italia da Machiavelli a Vico, Atti del Convegno di Napoli, 18-19 dicembre 2001, ed. S. Suppa, «Archivio della Ragion di Stato», n° 3, Napoli, 2003, p. 58.^
22 Tacito, Historiae, IV, 74.^
23 Per un approccio al tema, con ricca bibliografia, vedi G. Borrelli, Ragion di stato e Leviatano. Conservazione e scambio alle origini della modernità politica, Bologna, il Mulino, 1993.^
24 Barcia, l. cit.^
25 Machiavelli, Principe, cap, XVIII.^
26 Questo punto era già abbastanza chiaro ai contemporanei. Nel parere richiesto dal Consejo de Estado ad Antonio Briceño Ronquillo, già cancelliere dello Stato di Milano, e poi, dalla metà del 1645, ambasciatore di Spagna a Genova, sulla pubblicazione del commento a Tacito del Boccalini, e pervenuto all’esame del Consejo il 19 novembre 1646, si dice che, se lo si stampa dopo averlo purgato di tutte le critiche a Carlo V e a Filippo II «y generalmente contra todos los Espanoles […], faltale a la obra mucho de sazón», con il rischio che i possessori di copie integrali e fedeli del testo lo stampino essi «como estan, y aun con más veneno», per cui, anziché emendarla nel senso voluto, era preferibile riscrivere l’opera per intero e daccapo «con aquellos materiales» e con il senso giusto dal punto di vista spagnolo (cfr. D. Gagliardi, De autocensuras y censuras: el accidentato camino a la imprenta de los Commentarii sopra Cornelio Tacito del Boccalini, con un parecer del Consejo de Estado español, in Las razones del censor. Control ideológico y censura de libros en la primera edad moderna, ed. C. Esteve Barcelona, Universitat Autonoma de Barcelona, 2013, p. 229.^
27 Vale sempre il rinvio a J. A. Fernández-Santamaria, Reason of State and Statecraft in Spain (1595-1640), in «Journal of the History of ideas», 41(1980), 3, pp. 355-379. Non si può, peraltro, fare a meno di ricordare che ritenere, col Meinecke, il Boccalini un teorico della politica o ragion di stato, con la specifica, centrale preoccupazione di «congiungere» gli insegnamenti di Machiavelli sulla realtà effettuale della politica con le idee della Controriforma che ravvisava nella dottrina machiavelliana «il peccato ch’essa portava in sé, per cui egli («italiano e successore del Machiavelli», ma, insieme, «figlio della Controriforma») sarebbe addirittura «tanto interessante per lo storicismo moderno» (Fr. Meinecke, L’idea della Ragion di Stato nella storia moderna, tr. it. Firenze, Sansoni, 1942, pp. 70-89), urta con la radicale avversione dello stesso Boccalini all’idea e ai principii della ragion di stato, e non supera la realtà del pensiero boccaliniano, in cui i due termini sono contemplati insieme e affiancati, ma avvertendo, anche con suo interiore tormento, di non riuscire a superarli in una sintesi armoniosa e superiore, di non andare oltre il “congiungimento” messo in evidenza dal Meinecke. Il che si lega a quanto diciamo nel testo sulla malinconia e sull’interno travaglio del Boccalini, e non porta affatto a dover accettare il giudizio del Croce, Traiano Boccalini, cit., pp. 292-294, per cui quel mancato superamento dialettico del rapporto fra politica e morale constatato dal Meinecke nello scrittore italiano è un «fallo [che lo stesso Meinecke] sente di aver commesso egli stesso».^
28 La Bilancia politica di tutte le opere di Traiano Boccalini, Castellana [= Châtelaine, in Svizzera], 1678, vol. I, p. 181. Tra i sostenitori (pochi) di un deciso repubblicanesimo del Boccalini è anche il Meinecke, per il quale il Boccalini «nutriva sentimenti, liberali, arditi, repubblicani», ma, aggiunge, «erano più acquisiti che originari, erano l’espressione per lo sconforto per le condizioni delle corti» del suo tempo, ai cui «maneggi [e] intrighi» egli prestava una minuziosa attenzione, onde «era così strettamente avvinto a questo mondo da non poter mai staccarsi del tutto da esso» (Meinecke, op. cit., p. 73): che, certo, è il quadro di un repubblicanesimo piuttosto singolare. Anche l’«asilo repubblicano» trovato a Venezia sarebbe stato, perciò, per lui «un rifugiato limitato tutto intorno dalle spelonche brigantesche dei principi» (ibidem). Boccalini avrebbe, quindi, rinunziato «alla propaganda del suo ideale repubblicano non solo per tolleranza di uomo di mondo o per rassegnazione filosofica, ma anche per un fine senso storico e politico» (ivi, p. 80).^
29 Per il testi e le edizioni dei Ragguagli e, in generale, di tutti gli scritti del Boccalini si vedano sempre i numerosi e sempre fondamentali studi del Firpo, a cominciare dalla sua edizione dei Ragguagli e scritti minori, Bari, Laterza, 1948, la cui Nota, pp. 525-568, è, al riguardo, addirittura canonica. Per il commentario a Tacito si vedano gli studi di G. Baldassarri, V. Salmaso e D. Gagliardi che citiamo qui altrove. Inoltre, A. Tirri, Materiali per un’edizione critica delle “Osservazioni a Cornelio Tacito” di Traiano Boccalini, in «Il Pensiero politico», 31 (1998), pp. 455-485.^
30 Così G. Fulco, La letteratura dialettale napoletana, in Storia della letteratura italiana, dir. E. Malato, vol. V, La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, ed. Salerno, 1997, p. 833. Per questa letteratura e per l’accenno al Cervantes cfr., fra gli altri, F. Cappelli, Parnaso bipartito nella satira italiana del ’600 (e due imitazioni spagnole) in «Cuadernos de Filologia Italiana», 2001, n° 8, pp. 133-151; e H. Chiong Rivero, Between Scylla and Charibdis: the Paradoxical Poetics of Empire and the Empire of Poetics in Cervantes ’Viaje del Parnaso’, in «Cervantes. Bulletin of the Cervantes Society of America», Fall 2008, pp. 57-87.^
31 È «dal 1605 all’incirca che una nuova ispirazione – osserva acutamente Firpo, Boccalini, Traiano, cit., pp. 13-14 – lo pervade, facendogli accantonare il commento a Tacito per darsi tutto a un’invenzione letteraria bizzarra e pungente, in cui brucerà tutte le sue energie intellettuali in un fervore creativo straripante», sicché i Ragguagli «occuparono tutti i pensieri del Boccalini nei suoi ultimi anni [e] gli fiorirono sotto la penna con spontaneità fervida»: osservazioni da tenere a mente anche per tutto ciò che diciamo nel testo circa la “strettoia” in cui il Boccalini si era venuto a ritrovare col commento a Tacito.^
32 Firpo (Ragguagli, vol. III, cit., pp. 525-526) nota che nella sua prima veste, databile con la lettera cit. a Enrico IV di Francia, al 1607, l’opera apparve «col titolo originario di Avvisi dei menanti di Parnaso, rimasto invariato fino al 1611 almeno e mutato probabilmente solo in occasione della stampa» dopo una prima circolazione in manoscritto.^
33 Cfr. L. Magalotti, Lettere, Firenze, 1736, p. 174.^
34 È noto che per il Boccalini e per molti altri del suo tempo, ma come già per l’Aretino e tanti altri del secolo XVI, è invalsa, pressoché indiscussa, la qualificazione di giornalisti: qualificazione che, pur non potendosi dubitare della sua sostanziale pertinenza, è lecito ritenere che non si possa usare che con qualche prudenza, e specialmente quando si tratta di avvisi, gazzette e simili circolanti in manoscritto. Sarà solo alla fine del secolo XVII e, ancor più, agli inizi del secolo XVIII che si potrà riconoscere l’avvio di una vera e propria attività giornalistica moderna.^
35 Col titolo di Avvisi di Parnaso Cesare Caporali aveva pubblicato nel 1582 un poemetto che seguiva un suo Viaggio di Parnaso, del quale è solitamente giudicato meno originale. Opportunamente M. Scotti, Letteratura e trattastica etc., in Storia della letteratura italiana, dir. E. Malato, vol. V, cit. p. 1122, nota che, però, la materia dei Ragguagli «non è ristretta, come nel modello, a temi esclusivamente letterari». A sua volta, giustamente C. Jannaco, Il Seicento, cit., p. 599, nota che «certo il Boccalini non pretende d’aver lui inventato il genere del “ragguaglio”. La novità d’invenzione che a torto o a ragione egli rivendica, quella comunque alla quale maggiormente tiene, è il modo da lui seguito nell’inviare al mondo le proprie corrispondenze di “menante”».^
36 Edizione Firpo, cit., pp. 167-168. Per il Caporali cfr. C. Mutini, Caporali, Cesare, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1975, pp. 677-680, oltre i lavori precedentemente citati.^
37 Cfr. C. Caporali, Lettere, a c. di G. Monti, Lanciano, Carrabba, 1916, vol. II, p. 97.^
38 Ivi, p. 112.^
39 Firpo, Storia malinconica di uno scrittore lieto, cit., p. 102, ricorda che di questa «opera di ogni giorno e di molti anni, vastissima quindi e poco e male nota per tante sfavorevoli circostanze, […] le due stampe secentesche postume, le sole che se ne posseggano, misero in luce poco più di una metà del lavoro, ed anche quella manipolata dagli editori protestanti su di un testo che i figli dell’autore avevano a lor volta parafrasato o addolcito a seconda di personali interessi», anche se «questa copia deformata e parziale fornisce tuttavia un’idea approssimativa dell’originale». Sappiamo pure che il manoscritto usato dai figli era di oltre mille carte. Per i problemi del testo e della sua edizione cfr. V. Salmaso, Traiano Boccalini e i “Commentarii” a Tacito, in Come leggere i classici. Presenza e influenza dei classici nella modernità, Atti del convegno internazionale di Napoli, 26-29 ottobre 2009, Roma, ediz. Salerno, 2011, pp. 609-624.^
40 G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Milano, Bettoni, 1830, vol. IV, p. 542. Il passo è citato in M. Scotti, Letteratura e trattatistica etc., cit., p. 1127.^
41 Meinecke, L’idea di Ragion di Stato etc., cit., p. 72.^
42 È questo, com’è noto, il giudizio del Croce, che non si vede ragione di modificare per quanto riguarda la sua fondamentale pertinenza storica. Egli ne trae lo spunto per una valutazione d’insieme del ruolo giocato al riguardo dal dibattito sulla ragion di stato, che fornisce un ineguagliato criterio di orientamento di valutazione della parte positiva e meritoria che in quel dibattito ebbero i «pedanteschi e disprezzati e vituperati trattatisti italiani della “ragion di stato”»: cfr. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, cit., pp. 122-133 (il passo cit. è a pag. 133). E su questa base sembra pure molto più persuasiva l’argomentazione del Croce rispetto al Meinecke a proposito del Boccalini, per cui cfr. Croce, Traiano Boccalini, cit., pp. 292-294.^
43 Si vedano fra le notazioni del Boccalini edite dal Firpo come “Sommari e appunti per un trattato politico” (Ragguagli di Parnaso e scritti minori, cit.) il n.° 2 (pag. 315): «che anco per ragion di Stato deve qualsivoglia principe mostrarsi zelantissimo della sua religione, e quanto abbia errato il Machiavelli circa questo particolare».^
44 Firpo, Traiano Boccalini. Storia malinconica d’uno scrittore lieto, cit., p. 4.^
45 Per la fortuna dei Ragguagli si vedano le esaurienti note del Firpo alla sua edizione dell’opera, in particolare vol. III, cit., pp. 525-547.^
46 Cfr. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, a c. di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1989, p. 258 (prima ediz. Bari, Laterza, 1917).^
47 Cfr. gli “Appunti e frammenti” per una prosecuzione dei Ragguagli nella cit. edizione Firpo di questi ultimi, vol. III, p. 286.^
48 Cfr. i “Sommari e appunti per un trattato politico”, ivi, p. 321.^
49 Ivi, p. 324.^
50 Ivi, p. 320.^
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