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L’Europa e la sua crisi
di Italico Santoro
1. Europa, la morte è vicina?

In un articolo pubblicato di recente sul «Corriere della Sera», Charles A. Kupchan pone in termini drammatici il problema di fondo dell’Europa di oggi. «La vita politica si sta rinazionalizzando, spingendo l’impresa dell’integrazione europea verso la sua più grossa crisi dalla seconda guerra mondiale». In molti paesi le forze populiste, nazionaliste o comunque antieuropee, si stanno rafforzando e interpretano sempre più diffusi sentimenti popolari. Se gli europei «non sapranno infondere nuovo slancio al progetto di unione politica ed economica in tempi brevissimi, metteranno a rischio una delle più grandi imprese del XX secolo»1.
Quella di Kupchan è oggi una convinzione molto diffusa, che trova d’altro canto continui riscontri nello scenario europeo. Guardiamo agli avvenimenti dell’ultimo anno: il voto francese e olandese ha affossato il progetto di Costituzione; il bilancio dell’Unione per il 2007-2013 è stato approvato faticosamente e con troppe incognite; i governi di alcuni grandi paesi sono intervenuti e continuano ad intervenire per tutelare i “campioni” nazionali; la Francia, dopo la rivolta delle banlieu, ha sospeso l’applicazione del trattato di Schöngen. È difficile insomma non condividere le preoccupazioni di chi, pur senza giungere a conclusioni estreme, considera comunque la crisi europea di una «serietà forse senza precedenti»2.
È dagli anni Novanta, con la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, che l’Europa sembra attraversata da un duplice processo: aumentano le sue divisioni interne, declina il suo peso internazionale. È sempre meno unita e sempre più emarginata, una miscela che alla lunga può rivelarsi esplosiva per la tenuta dell’Unione.
Si direbbe quasi che gran parte della classe dirigente europea – non solo politica, ma anche economica, culturale, amministrativa, tecnocratica – sia stata colta impreparata di fronte alle nuove sfide della storia. Nel lungo secondo dopoguerra i paesi dell’Europa occidentale avevano potuto dedicarsi, grazie alla protezione americana e non senza una certa dose di tranquillo egoismo, alla propria rinascita prima e alla crescita economica dopo. Si erano diffusi, con il benessere, i modelli di equilibrio sociale. Quelle condizioni, ad un tempo di stabilità e di sviluppo, avevano favorito il processo di integrazione comunitaria e il consolidamento delle istituzioni europee, che avevano contribuito, a loro volta, ad assicurare maggiore stabilità e maggiore sviluppo.
Costretti a giocare di nuovo in campo aperto – senza le limitazioni, ma anche senza i vantaggi della copertura americana – governi, popoli, euroburocrazia danno l’impressione di essersi smarriti, travolti dai problemi maturati nel corso degli anni Novanta ed esplosi con il nuovo millennio.


2. Il declino economico e politico

L’economia europea ha perso colpi. Nuovi protagonisti si sono affacciati sulla scena mondiale. Tra il 1991 e il 2005 il prodotto globale è quasi raddoppiato3, ma l’Eurozona – l’insieme dei quindici stati che hanno adottato l’euro – ha ridotto la sua incidenza di circa due punti (dal 24,08 al 22,34) e le previsioni per il 2011 scontano un ulteriore arretramento (19,68). E sono proprio i tre maggiori paesi dell’Eurozona – Germania, Francia, Italia – a registrare i risultati più deludenti, oltre due punti e mezzo in meno (dal 17,67 al 15,01).
A spiegare questa tendenza non bastano i progressi dei paesi emergenti come la Cina (dall’1,70 del 1991 al 5,01 del 2005 e con una previsione del 6,82 per il 2011) e in misura minore l’India (rispettivamente 1,18-1,75-2,09). Il loro sviluppo, almeno in parte prevedibile, vuoi per l’imponente peso demografico, vuoi per la ricchezza delle loro culture e l’intraprendenza delle popolazioni, costituisce di certo un problema; un problema però da mettere in qualche modo nel conto, dovuto ad un riequilibrio non certo indolore ma prima o poi inevitabile. Il fatto più significativo – e insieme più preoccupante – è che, tra il 1991 e il 2005, l’incidenza dell’economia americana sul prodotto globale è passata dal 25,08 al 28,10; quella della Gran Bretagna dal 4,34 al 4,95; quella del Canada dal 2,50 al 2,54. Il divario tra questi tre paesi e quelli dell’Eurozona, che era di circa otto punti nel 1991, è salito a oltre tredici nel 2005 (con una previsione di quindici per il 2011).
C’è qualcosa, insomma, che non ha funzionato nei paesi dell’Eurozona. È il cosiddetto “modello renano”? Ecco allora materializzarsi l’incubo del liberismo, il timore di riforme che sarebbero necessarie ma non si vogliono (o non si possono) fare, una diffusa opinione pubblica che si allontana dalle istituzioni comunitarie perché ostile alle liberalizzazioni e alla concorrenza. E la diffidenza verso il liberismo diventa così speculare al timore per “l’idraulico polacco”. La riscoperta della dimensione nazionale è l’inevitabile passo successivo.
Di fronte alle sfide della globalizzazione, che ha accelerato il suo ritmo proprio a partire dall’inizio degli anni Novanta grazie anche alla fine dei blocchi, i paesi europei hanno reagito in maniera diversa. E si sono avvantaggiati delle nuove opportunità quelli che hanno scelto la via della flessibilità, ridimensionato l’incidenza dell’industria manifatturiera, rafforzato l’economia della conoscenza, mantenuto in equilibrio i bilanci pubblici (la Gran Bretagna in primo luogo). Mentre hanno perduto colpi quei paesi, come la Francia, la Germania e l’Italia, che sono rimasti ostaggio di quelle che Olson, in un testo ormai classico4, definì le “coalizioni distributive” e hanno tardato di conseguenza ad adottare le riforme necessarie. Continuano così ad avere una presenza eccessiva nei settori maturi, una economia appesantita da troppe rigidità – in particolare nel mercato del lavoro – e una forte presenza pubblica nella gestione delle attività produttive5.
Indebolita sul terreno economico, l’Europa va anche – e inevitabilmente – perdendo peso politico. Nuovi protagonisti si sono imposti in questi anni sulla scena internazionale. È riapparsa con Putin la Russia, più stabile anche se meno democratica, pronta ad utilizzare spregiudicatamente l’arma energetica6; si è imposta la Cina, che tende ad aggregare uno schieramento in prospettiva antagonista agli Stati Uniti; va crescendo il peso dell’India, che punta a svolgere un ruolo strategico nello scacchiere asiatico; si è rafforzata, nella stessa ottica, l’incidenza politica del Giappone e delle tigri orientali.
Per di più, il peso demografico, la tumultuosa crescita economica, la relativa stabilità interna di Cina e India e la stessa globalizzazione dei problemi (una globalizzazione che oltre ad essere economica è anche politica) tendono a spostare l’asse centrale degli equilibri strategici verso il Pacifico e ad emarginare l’Europa. Al centro dello scontro durante gli anni della guerra fredda, e quindi con un ruolo politico essenziale, nelle nuove condizioni storiche i paesi europei rischiano per un verso di essere declassati e per altro verso di dividersi secondo i rispettivi percorsi nazionali, le diverse tradizioni, gli interessi specifici.
Tanto più che il grande gioco globale si è arricchito di una nuova arma di cui la maggior parte degli Stati europei risulta sprovvista, l’arma energetica. Lo stesso sviluppo dell’economia mondiale (ma anche il problema del terrorismo, che ha reso meno sicuri gli approvvigionamenti tradizionali) ha moltiplicato il fabbisogno di combustibile e ne ha fatto lievitare – almeno per ora in modo strutturale – i relativi prezzi. Il timore della scarsità energetica che si era materializzato per la prima volta negli anni Settanta e sembrava poi essere stato scongiurato, si è ripresentato all’inizio di questo millennio. E ancora una volta i paesi europei, privi di una comune strategia, si muovono in ordine sparso secondo i rispettivi interessi. Se la Gran Bretagna può contare sul petrolio del Mare del Nord e la Francia sulla presenza massiccia di centrali nucleari, sono sicuramente più vulnerabili Stati come l’Italia e la Germania, che hanno incautamente rinunciato all’opzione nucleare, la prima alla fine degli anni Ottanta e la seconda durante il governo rosso-verde di Gerhard Schröder.


3. L’Europa dopo l’11 settembre

Divisi sull’economia, i paesi europei si sono addirittura lacerati sul tema della lotta al terrorismo islamico e su quello della pace e della guerra che oggi ad esso si riconduce, lacerati tra di loro e lacerati al loro interno, con i due poli a Londra e a Parigi.
Gli anni Novanta avevano alimentato una pericolosa illusione. Finita la guerra fredda, conquistati alla democrazia l’uno dopo l’altro i paesi europei che una volta erano ricompresi nell’Unione Sovietica, sembrava che i conflitti – almeno quelli cruenti – fossero ormai consegnati ad aree marginali del pianeta, dove l’iniziativa delle Nazioni Unite sarebbe stata più che sufficiente per ristabilire l’equilibrio e la pace. Una prospettiva ricca di seduzioni per un’Europa sempre più disponibile ad ascoltare le sirene del pacifismo, anche quando queste sirene si tingevano di colori esclusivamente antiamericani (e magari di qualche venatura antisionista).
L’11 settembre del 2001 ha posto termine a queste illusioni. La guerra è tornata ad affacciarsi sull’orizzonte storico dei paesi sviluppati. Anzi, ha investito anche il fronte interno della maggiore potenza mondiale, il solo grande paese immune fino ad allora da attacchi diretti al proprio territorio. Si può discutere a lungo della reazione americana e della dottrina sulla guerra preventiva. Ma si può forse negare che troppi in Europa si sono rallegrati per le difficoltà che gli USA hanno incontrato e continuano ad incontrare in Iraq (e in Afghanistan)? Si può forse negare che una parte rilevante dell’opinione pubblica europea e alcuni governi del Vecchio Continente hanno considerato – e continuano a considerare, malgrado gli attentati di Madrid e di Londra – quello della lotta al terrorismo un problema pressoché esclusivamente americano? E si può forse negare che quella stessa opinione pubblica, e quegli stessi governi, hanno guardato e continuano a guardare con diffidenza allo Stato di Israele se non a considerarlo addirittura come una delle cause che sono all’origine del terrorismo?
E infine si può forse negare che il presidente francese Jacques Chirac, con l’appoggio spesso esplicito di gran parte della sinistra continentale oltre che della destra nazionalista, si sia reso protagonista – in un momento difficile per gli Stati Uniti – di una inedita alleanza con Russia e Germania tutta orientata in funzione antiamericana? Andando così ben oltre la stessa tradizione autonomistica e nazionalistica della Francia, dal momento che sia De Grulle, in occasione della crisi di Cuba sia Mitterand durante la prima guerra del Golfo – e cioè in due momenti storici decisivi – si erano ben guardati dall’incrinare la solidarietà occidentale. L’Europa si trova pienamente coinvolta – al di là delle sue intenzioni – nella lotta al terrorismo. Ne è anzi il secondo bersaglio, dopo quello rappresentato dall’islam moderato. Ignorarlo, o rifiutarsi di trarne le conseguenze, significa solo sottrarsi alle dure lezioni della storia, rifugiarsi in un angolo nel quale – per parafrasare Albert Camus – prima o poi la peste manderà a morire i suoi topi7. E condannarsi ancora una volta all’emarginazione, delegando ad altri il compito di affrontare e risolvere i problemi, magari diffondendo l’illusione – così cara a parte delle classi dirigenti europee – “di un ruolo mondiale dell’Europa (l’ideologia dell’Europa potenza civile), quando il multilateralismo passivo che esprime la taglia fuori da ogni decisione e influenza su un nuovo ordine mondiale”8.


4. Il problema dell’immigrazione

Neppure sul tema dell’immigrazione, che pure ha assunto negli ultimi anni una rilevanza epocale e scuote le coscienze e gli interessi dell’opinione pubblica europea, si può dire che l’Unione abbia messo a punto una sua strategia. Tutt’altro. Semmai è un’Europa smarrita e disorientata quella che si confronta con un fenomeno ad essa sconosciuto, sia per la sua dimensione quantitativa sia per la sua composizione qualitativa. E che si abbatte su società fortemente identitarie, che hanno costruito la loro coesione sociale su valori condivisi e sul richiamo ai concetti di nazione e di omogeneità etnica.
Oltre tutto, il fenomeno si presenta in Europa con caratteristiche diverse da quelle che hanno caratterizzato l’emigrazione verso gli Stati Uniti, paese dell’accoglienza per antonomasia. Ad emigrare negli USA furono, per un lungo periodo di tempo, soprattutto gli europei, e sono oggi i latinoamericani. L’emigrazione diretta verso l’Europa è invece, anche per ragioni storiche e geografiche, in larghissima parte di origine islamica, e quindi a sua volta portatrice di una cultura fortemente identitaria. Ma i suoi contenuti sono molto diversi da quelli maturati all’interno delle società europee: una cultura poco sensibile ai valori di libertà e democrazia come sono intesi in Occidente, ostile all’emancipazione femminile, chiusa nei confronti della modernità e dei suoi problemi.
Considerazioni queste ultime, sia chiaro, che non valgono per tutto il mondo islamico, Ma raramente i flussi migratori provengono dagli ambienti più evoluti e dinamici di quel mondo, per cui l’integrazione nelle società europee non è agevole, la convivenza incontra ostacoli non facili da superare, l’emarginazione crea problemi che alimentano la conflittualità etnica e sociale e in qualche caso trovano il loro sbocco nel terrorismo.
L’aspetto qualitativo si intreccia poi con quello quantitativo. L’immigrazione in aumento e l’alto tasso di natalità delle famiglie islamiche già residenti in Europa squilibrano i rapporti all’interno delle nostre società. Due soli esempi, uno per l’oggi e l’altro per il prossimo futuro: nella popolazione olandese al di sotto dei quattordici anni i musulmani sono in maggioranza; nel 2015, se la Turchia dovesse entrare nell’Unione, si realizzerebbe il sorpasso dei musulmani sui protestanti. È pensabile che tutto questo possa avvenire in maniera indolore? Non è un caso che società tradizionalmente liberali ma con alto tasso di presenza islamica, come l’Olanda e la Svezia, siano scosse da grandi contraddizioni interne; e paradossalmente non potrebbe essere altrimenti, proprio perché si tratta di paesi fortemente identitari caratterizzati da solidi valori democratici. E non è un caso che siano entrati in crisi sia il modello multiculturale inglese sia quello integrazionista francese: il primo non riesce ad evitare la trasformazione in kamikaze degli islamici di seconda generazione, l’altro non riesce ad impedire la rivolta delle banlieu. L’Europa, insomma, annaspa alla ricerca di una via di uscita.
E c’è poi un ulteriore aspetto da considerare e che rende ancora più preoccupante lo scenario europeo in materia di immigrazione. Negli Stati Uniti l’Islam, messo alle corde dalla forte reazione della società americana, è costretto a modificarsi. Osserva Magdi Allam che
È significativo il fatto che è nell’America di Bush che si registra l’evento della prima donna “imam” da quando il profeta Maometto autorizzò una sua compagna a guidare la preghiera presso la sua comunità. Perché è da questa America profondamente segnata dall’esperienza e dalla paura del terrorismo islamico che è partita sia la rivolta contro i regimi tirannici che sponsorizzano il terrore sia la riforma interna dell’Islam. Si tratta di un fenomeno epocale reso possibile, piaccia o meno, dalla poderosa reazione militare e dalla forza dei valori che l’America incarna9.

In Europa, invece, si assiste al fenomeno opposto. L’Islam tende a radicalizzarsi e per raggiungere i suoi obiettivi fa ricorso all’intimidazione, contando sulle paure, sull’acquiescenza e sulla fiacchezza morale di chi islamico non è e non intende diventare. Scrive lo storico inglese Niall Ferguson che «gli islamisti radicali e i loro alleati sono consci del fatto che in un clima di appeasement da parte europea l’intimidazione è la tattica migliore»10. E così mentre negli Stati Uniti l’Islam tradizionale è costretto a rivedere le sue posizioni sul ruolo della donna, in Europa viene ucciso il regista olandese Theo Van Gogh che denunciava in un suo film la subalternità femminile all’interno del mondo islamico; e, fatto se possibile ancora più grave, il film viene tenuto fuori dai circuiti di diffusione per ragioni di sicurezza meglio sarebbe dire paura. Insomma, in Europa «criticare l’Islam risulta scorretto politicamente e, al contempo, mortale».


5. Gli effetti dell’allargamento

Né a rafforzare il peso strategico dell’Unione è valso il suo allargamento verso Oriente, il ritorno nella Comunità di quella che Milan Kundera aveva definito “l’Europa rapita”.
Non era certo pensabile che l’Europa orientale, una volta liberatasi dall’egemonia sovietica, potesse restare a lungo fuori dalla porta, ma neppure era pensabile che il suo ingresso nell’Unione potesse essere indolore, lasciare le cose immutate. Era prevedibile invece che una Comunità già divisa per proprio conto accentuasse le sue interne dilacerazioni e che il percorso verso la convergenza politica ed istituzionale si facesse più ripido. Come ha osservato Adolfo Battaglia con un felice parallelo, l’Europa di oggi ricorda la Gallia di Giulio Cesare. È divisa in tre parti, «diverse tra loro per la condizione economica e la situazione sociale, lo spirito pubblico e le propensioni politiche, il tipo di problemi e le prospettive». E in particolare, per quanto riguarda i nuovi arrivati dall’Europa orientale, la loro prima esigenza è proprio quella su cui l’Unione ha minori carte da giocare, la sicurezza nei confronti di un vicino potente e ingombrante che ancora alla fine degli anni Ottanta ne controllava il territorio.
Il Novecento, insomma, ha segnato la storia europea e lasciato tracce evidenti che non possono essere rimosse facilmente. E quest’Europa divisa dal suo passato si tiene oggi insieme sia «per il comune interesse […] alla stabilità e alla pace del continente», sia per «i molteplici benefici economici originati dalla dimensione del mercato»11.
Ma può bastare questo, in prospettiva, a mantenere unita un’Europa che deve confrontarsi con un’opinione pubblica sempre più euroscettica? Un’Europa che stenta perfino a raggiungere un’intesa sulla composizione del magro bilancio comunitario? Un’Europa in cui i ritmi di sviluppo tendono a divaricarsi, i modelli sociali ad irrigidirsi e contrapporsi, le aspirazioni, gli interessi, le alleanze interne ed internazionali a diversificarsi?
E per altro verso è concretamente ipotizzabile che questa Europa sia in grado di compiere passi in avanti significativi sul terreno istituzionale? O non è più realistico temere, ogni volta che si tenta un rilancio in chiave comunitaria ed europeista, un movimento parallelo in direzione opposta, un ritorno alla nazione di un’opinione pubblica disorientata ed impaurita, restia a confrontarsi in mare aperto con problemi che hanno cambiato segno, spessore e dimensione?


6. Le risposte possibili

«È sufficiente criticare come regressiva questa tendenza?» Si chiede nel suo saggio, già citato, Biagio De Giovanni.
Per i vecchi cantori del federalismo, sì. Per essi, basta richiamare il rischio che nazione torni a diventare nazionalismo per immaginare di esorcizzarlo, ma i raccoglitori di rischi non portano molto lontano né l’analisi né la prospettiva.

Di certo nei quarantacinque anni successivi alla seconda guerra mondiale è stato compiuto quello che Giuseppe Galasso definisce «una sorta di miracolo storico», dal momento che «non si hanno esempi storici comparabili di simile pacifica unificazione […] di una grande area di civiltà»12. Questo «miracolo storico» è stato possibile anche grazie all’ispirazione dei padri fondatori, all’impegno degli europeisti che si sono trovati alla guida dei rispettivi paesi, alle culture politiche che hanno caratterizzato l’Europa di quel periodo. L’ultimo grande progetto realizzato, gli accordi di Maastricht, furono certamente il tributo pagato per la riunificazione tedesca ma furono anche il lascito dell’ultima generazione di europeisti, quella di Khol e di Mitterand, che erano non a caso eredi delle culture politiche che avevano guidato la ricostruzione, la rinascita e lo sviluppo del Vecchio Continente.
Ma l’Unione Europea, così come essa è oggi in concreto, ricorda solo da lontano quella che i “padri fondatori” avrebbero voluto. Sono oramai presenti al suo interno tendenze, movimenti, aspirazioni, interessi, problemi sconosciuti o comunque inesistenti quando il processo di unificazione mosse i primi passi. Il richiamo alle origini, in questo contesto, rischia di risolversi in un vuoto esercizio retorico.
E d’altro canto, quali proposte sono oggi in campo, che non si risolvano nella pura e semplice fuga dalla storia, nell’attesa di un declino considerato inevitabile? Rilanciare la Costituzione europea, magari puntando su un testo più leggero? Ma l’Europa – ha scritto giustamente nel suo saggio Biagio De Giovanni? «nella sua unità istituzionale si presenta come un grande corpo percorso da poca vita, che affida a quella che ormai sta diventando una vera e propria patologia dell’iperistituzionalismo la garanzia del suo futuro». Al punto che il testo al quale era affidato il compito di rilanciarne la costruzione si caratterizzava proprio per la «scarsità di risorse politiche, quasi avesse dovuto «registrare e ulteriormente legittimare la capacità di normazione giuridica dell’Unione […] tralasciando quella risorsa che è l’univocità della decisione politica e la sua piena legittimazione democratica», privilegiando di conseguenza «il meccanismo di normazione giuridica su quello relativo alla decisione politica». L’Unione, insomma, si è rifugiata in uno «spazio pieno di politica dichiarata e vuoto di politica reale».
Puntare allora di nuovo sull’asse franco-tedesco o sulla sua variante allargata, il nucleo originario dei paesi fondatori, come continuano a proporre molti euroburocrati e istituzioni culturali europeiste? Non è certo una tesi nuova, è l’ipotesi politica intorno a cui hanno concretamente lavorato, nei primi cinque anni di questo millennio, il presidente Jacques Chirac e il governo rosso-verde di Gerhard Schroeder. Ma è un’ipotesi già fallita, sostanzialmente accantonata in Germania dalla Merkel e abbandonata in Francia dai più autorevoli candidati alla successione di Chirac.
Né d’altra parte poteva essere altrimenti. Sono stati due paesi del “nucleo originario”, la Francia e l’Olanda, ad avere bocciato la nuova Costituzione europea. È all’interno dei paesi fondatori che l’economia perde colpi, il modello sociale annaspa e le riforme tardano ad arrivare, mentre l’opinione pubblica appare insofferente verso la “nuova Europa”, che è poi quella concretamente esistente e con cui bisogna misurarsi. L’epicentro della crisi è nel “cuore carolingico” dell’Unione ed è difficile che proprio da quel cuore possano venire decisioni efficaci e, nel tempo, valide per tutti.
Far ricorso allora alle cosiddette “cooperazioni rafforzate”, alleanze a geometria variabile che peraltro già esistono di fatto? E su quali problemi? Quelle esistenti non hanno aiutato di certo l’UE a superare le sue divisioni interne, quelle possibili ne favorirebbero la divaricazione. E sulle questioni di fondo – la difesa comune, per cominciare – le opinioni dei paesi più interessati sono talmente diverse da escludere, almeno per ora, ogni forma di “cooperazione” più o meno rafforzata.
Né, più in generale, sembrano esistere le condizioni perché gli Stati nazionali accettino di cedere a breve altre quote di sovranità alle istituzioni comunitarie. Singoli esponenti politici ed eminenti personalità ne avvertono l’esigenza – «ad esempio in materia di politica di bilancio, per assicurare il coordinamento a livello europeo tra politica economica e politica monetaria» ma difficilmente queste proposte troverebbero il sostegno dell’opinione pubblica. Si correrebbe semmai il rischio di fornire nuovo alimento alla propaganda antieuropea.
Di recente il ministro francese Sarkozy ha proposto di affidare la guida dell’Europa alle sei nazioni più forti, che sono poi anche espressione delle diverse anime che compongono l’UE. Di per sé questa proposta non contiene veri elementi di novità, ma forse ha il merito, più di altre, di sottolineare indirettamente che l’Europa ha bisogno di ritrovarsi, in modo unitario, intorno ad una politica. Che bisogna insomma tornare alla politica cercando le convergenze necessarie piuttosto che continuare nella elaborazione delle alchimie istituzionali.


7. Il ritorno alla politica e la Comunità Nordatlantica

Tornare alla politica significa riflettere sul ruolo che l’Europa vuole avere nel mondo. E assumere, di conseguenza, le decisioni possibili. Durante la campagna referendaria sulla Costituzione il presidente francese Jacques Chirac ha implicitamente definito questo ruolo individuando nell’Unione lo strumento attraverso il quale contrastare economicamente e politicamente Stati Uniti e Cina: una sorta di terza forza tra i due giganti mondiali13. Tesi non nuova, ma velleitaria sul piano politico e sbagliata su quello storico-culturale.
Tesi non nuova. Quella dell’Europa “terza forza”, ieri tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, oggi tra gli Stati Uniti e la Cina, è stata la tesi ricorrente di tutte le forze politiche e culturali antiamericane presenti nel Vecchio Continente. Le stesse che, dopo aver contrastato la nascita e i primi sviluppi della Comunità durante gli anni Cinquanta e Sessanta (e qualche volta anche Settanta), hanno visto in seguito proprio nell’Unione lo strumento per minare la solidarietà occidentale. È una tesi che ha accomunato e accomuna una parte rilevante della sinistra, la destra nazionalista, componenti del mondo cattolico, pacifisti a senso unico e no-global, per i quali gli americani «sono responsabili di tutto ciò che va male a questo mondo». Con la conseguenza, oltre tutto, che proprio «gli eccessi spesso deliranti dall’odio antiamericano», la tendenza ad interpretare ogni evento «in maniera sfavorevole agli Stati Uniti» spingono questi ultimi a considerare inutile ogni consultazione e ad imboccare la via delle decisioni unilaterali14.
Tesi velleitaria sul piano politico. È possibile che un’Europa divisa, militarmente debole, con un modello economico-sociale in crisi, al centro dello scontro tra il terrorismo islamico e l’Occidente, incapace di definire le sue opzioni su temi che la riguardano da vicino, possa avere un ruolo egemone in una eventuale alleanza antiamericana? La rottura della solidarietà occidentale potrebbe creare di sicuro qualche problema agli Stati Uniti, spingendoli peraltro a cercare alleanze e solidarietà verso il Pacifico piuttosto che sull’Atlantico.
Ma lascerebbe i paesi europei allo sbando, divisi tra quelli che continuerebbero ad aggrapparsi all’alleato americano per tutelare la propria sicurezza e quelli alla ricerca di un ruolo in improbabili “assi” antiamericani, dove sarebbero confinati inevitabilmente in posizioni marginali. Sarebbe, in pratica, la fine dell’Europa, di quel “miracolo storico” che la sagacia di classi dirigenti “atlantiche” è riuscita a costruire nel secondo dopoguerra.
Tesi, infine, sbagliata sul piano storico-culturale. Europa e Nordamerica sono i protagonisti di quella grande avventura umana che si definisce democrazia. Hanno edificato nel tempo, con le loro rivoluzioni e le loro riforme, con il sangue e le guerre ma anche con la cooperazione e la solidarietà, una vasta area di civiltà – insieme storica, culturale e politica – che si chiama Occidente. L’Atlantico è il suo mare interno. Il Novecento ha cementato ulteriormente l’intesa tra le due sponde, lo sviluppo tecnologico le ha rese più vicine anche fisicamente. La stessa crescita della Comunità europea è stata resa possibile e stimolata dalla solidarietà con gli Stati Uniti. Come è possibile allora mettere sullo stesso piano – come ha fatto Chirac, purtroppo non isolato – la grande democrazia americana, espressione del nostro stesso disegno di civiltà, e l’autocratismo cinese, che è il prodotto di una storia e di tradizioni completamente diverse dalle nostre?
E allora «conviene davvero all’Europa perseguire alleanze per controbilanciare e contenere – o superare – gli Stati Uniti, come insistono i francesi e come un rudimentale consenso generale sembra credere oggi?»15 O forse bisogna guardare in altra direzione? Adolfo Battaglia coglie un punto essenziale quando scrive che «il rapporto strategico con gli Stati Uniti va considerato il più importante motore dei processi unitari che è oggi possibile far funzionare: in coerenza del resto con l’intera storia del Novecento». Per concludere di conseguenza che «è quel rapporto […] che contribuisce a fare l’Europa più unita; non è l’Europa più unita che farà quel rapporto»16. Di fronte all’intreccio di problemi in cui si trova invischiata l’Unione, non è la ripresa della normazione giuridica, non sono i surrogati di decisioni politiche episodiche e frammentate a poter rilanciare il percorso unitario nel Vecchio Continente. Lo è invece la decisione politica di rimettere in movimento quel più vasto disegno nordatlantico di cui l’Unione europea è parte.
Una strategia, d’altro canto, che fu ben presente ai promotori e ai protagonisti del disegno comunitario. I quali furono sempre, ad un tempo, europeisti ed atlantici. E che non concepirono mai l’Europa come un’entità disarticolata, meno che mai contrapposta, nei confronti degli Stati Uniti. E fu in quel clima che l’integrazione comunitaria mosse i suoi primi passi, si sviluppò e consolidò fino agli accordi di Maastricht. È quel disegno che va ripreso e rilanciato, guardando alla Comunità Nordatlantica come ad un’unica area di civiltà e mettendo a punto politiche, iniziative economiche, nel tempo sedi istituzionali, che possano favorire la convergenza tra le due sponde dell’Atlantico.
Tra gli Stati Uniti e alcuni paesi europei – in particolare Francia e Germania – i rapporti, negli ultimi anni, sono stati tesi e in qualche momento sono apparsi irrimediabilmente compromessi. Al centro delle divergenze una diversa valutazione del terrorismo e l’opportunità della guerra irachena, temi che hanno visto schierate da una parte le democrazie anglosassoni e dall’altra Francia e Germania, con gli altri paesi europei divisi e lacerati. Si avvertono però, negli ultimi tempi, segni importanti di disgelo. Su questioni importanti – il nucleare iraniano, la Corea del Nord, la stessa crisi mediorientale – Europa e Stati Uniti hanno ripreso a parlare un linguaggio analogo. Il paziente lavoro del segretario di stato americano Condoleeza Rice ha riavvicinato gli USA alle istituzioni comunitarie, che non a caso il presidente Bush ha voluto come suoi interlocutori nel corso delle ultime due visite in Europa17. Dopo la parentesi del governo rosso-verde, il nuovo cancelliere tedesco Angela Merkel ha riavvicinato gradualmente le posizioni tedesche a quelle che furono tradizionali della Germania, prima e dopo l’unificazione, fossero i governi a guida democristiana (da Adenauer a Khol) o a guida socialdemocratica (da Brandt a Schmidt). Ma è proprio dalla Francia che potrebbero venire novità importanti. Sia il candidato della destra alle elezioni presidenziali del prossimo anno, Nicolas Sarkozy, sia la socialista Segolene Royal marcano una significativa discontinuità rispetto alle recenti posizioni dei rispettivi schieramenti e si richiamano entrambi all’esperienza blairiana18. E non a caso vengono accusati dagli avversari di destra e di sinistra di essere liberisti e filoamericani.
Si sta ricreando insomma, fra l’Europa nel suo insieme e gli Stati Uniti, un clima politico più favorevole. Acquista allora validità la domanda di Arthur Waldron: «la riscoperta di quanto la strana coppia ha in comune non potrebbe rappresentare un presupposto perché l’Europa possa uscire dalla sua attuale crisi?»19. Un Atlantico più stretto è insomma nell’interesse di americani ed europei, ma sono soprattutto questi ultimi che potrebbero riceverne una spinta per superare le difficoltà e riprendere il processo di integrazione. Quanto ai contenuti di una possibile collaborazione, non mancano certo: dalla creazione di un unico mercato atlantico, polo di sviluppo per l’intera area e sicuro punto di attrazione per l’economia globale al coordinamento delle politiche monetarie, per correggere gradualmente gli squilibri che caratterizzano gli Stati Uniti (eccessivo indebitamento verso l’estero) e l’Europa (insufficiente tasso di crescita); dalla definizione di una comune politica energetica, per allentare la pressione dei paesi produttori da un lato e quella dei paesi emergenti dall’altro, ad un nuovo e decisivo impulso da dare alla ricerca, anche allo scopo di accelerare la trasformazione dell’intera area nordatlantica in un’area prevalentemente orientata verso l’economia della conoscenza; fino ad una efficace e coordinata politica nei confronti dei paesi in via di sviluppo, che contribuisca, non solo alla crescita economica, ma anche ad assicurare loro quella stabilità politica che oggi non hanno. E infine, e più in generale, la guida complessiva dei processi di globalizzazione dell’economia, ai quali può essere data una risposta strategica, di lungo periodo, non attraverso chiusure protezionistiche o barriere doganali spesso improponibili e comunque dannose per lo sviluppo, ma attraverso una parallela e graduale estensione del governo politico di tali processi20.
I vantaggi reciproci sono evidenti e si possono ipotizzare col tempo, per la collaborazione su questi argomenti, anche sbocchi istituzionali. Vista in quest’ottica la Comunità Nordatlantica non rappresenterebbe solo l’occasione per il rilancio dell’Europa e un’ulteriore crescita degli Stati Uniti. Darebbe un contributo alla stabilità, allo sviluppo democratico e quindi alla pace di aree sempre più vaste21.
La recente decisione dell’UE di inviare in Libano un contingente di 7.000 uomini sotto l’egida delle NU sembrerebbe rilanciare un ruolo unitario dell’Europa. Ma troppe sono state le riserve e le incertezze che l’hanno preceduta, pochi i paesi impegnati sul campo, non del tutto chiari gli obiettivi politici per non considerare quanto meno affrettata una tale conclusione. C’è semmai da osservare che la presenza europea è stata avallata e sostenuta dagli Stati Uniti e che pertanto potrebbe nel tempo, in base ai suoi sviluppi e all’evolversi della situazione nello scacchiere mediorientale, agevolare quelle relazioni transatlantiche di cui l’Occidente – ma, lo ripetiamo, non solo l’Occidente – ha assoluto bisogno.








NOTE
1 C.A. Kupchan, Europa, la morte è vicina, in «Corriere della Sera», 2 giugno 2006.^
2 B. De Giovanni, A proposito di costituzione europea, in «L’Acropoli», 6 (2005).^
3 Dati del Fondo Monetario Internazionale calcolati ai valori di mercato.^
4 M. Olson, Ascesa e declino delle nazioni, Bologna, Il Mulino, 1984. Per l’autore, «se il mercato è dominato dalle associazioni in ogni parte dell’economia e lo Stato interviene continuamente a vantaggio di interessi particolari, non vi è politica macroeconomica che possa rimettere le cose a posto».^
5 Problemi analoghi a quelli dell’Eurozona ha attraversato non a caso l’altra economia in crisi del mondo sviluppato, quella giapponese. Fortemente appesantita dalle rigidità presenti soprattutto nei settori meno aperti alla concorrenza internazionale e condizionata dai grandi conglomerati dovuti all’integrazione piramidale tra banche e imprese, l’economia nipponica solo di recente sembra dare segni di ripresa grazie all’azione decisa del premier Koizumi, che ha smantellato alcuni dei maggiori monopoli del paese e avviato importanti riforme.^
6 Tra le illusioni europee venute meno in questi anni sono anche le facili speranze riposte in una rapida e compiuta evoluzione democratica della Russia. Dove, semmai, è in atto un percorso inverso sul quale l’Unione Europea preferisce tacere, o peggio, come ha scrittro A. Glucksmann (Lo zar dell’oro nero, in «Corriere della Sera», 14 luglio 2006), di fronte al ricatto energetico l’UE, «lungi dall’accordarsi su una reazione comune, si spacca. Ogni nazione europea corre a Mosca per negoziare da sola il prezzo della propria debolezza».^
7 Sul tema del terrorismo, e del diverso atteggiamento di Europa e Stati Uniti, la letteratura è vastissima. A parte il ben noto Paradiso e potere di R. Kagan, Milano, Rizzoli, 2003, cfr. tra gli altri N. Podhoretz, La quarta guerra mondiale, Torino Lindau, 2004; P. Berman, Terrore e liberalismo, Torino, Einaudi, 2004; A. Glucksmann, Occidente contro Occidente, Torino Lindau, 2004; N. Ferguson, Colossus: The price of America’s Empire, Pinguin Books, London 2004; M. Ignatieff, L’impero dei diritti dell’uomo, in «New York Times Magazine», gennaio 2005; D. Polansky, L’impero che non c’è, Milano, Guerini e associati, 2005.^
8 B. De Giovanni, op. cit.^
9 M. Allam, La riscossa illuminista delle donne imam, in «Corriere della Sera», 20 marzo 2005.^
10 N. Ferguson, E Dio separò gli Stati Uniti e l’Europa, in «Vita e pensiero», maggio 2005. Per Ferguson «è indubbio che profonde forze demografiche stiano spostando l’ago della bilancia europea in direzione islamica».^
11 A. Battaglia, Europa lenta, Europa larga, in «L’Acropoli», 7 (2006).^
12 G. Galasso, Un’Europa più debole o un’Europa più lenta, in Storia d’Europa, Roma-Bari, Laterza, 2001.^
13 André Glucksmanm, commentando la campagna referendaria del presidente francese, annotava: «Chirac auspica una grande potenza Europa che s’inventi un’identità capace di rivaleggiare con gli USA, un’Unione europea guidata da una coppia franco-tedesca che usi Mosca, o Pechino, contro Washington». Tesi peraltro cara a Emanuele Severino, che prefigura a breve scadenza un «avvicinamento tra capitale europeo e...arsenale atomico russo” e in una prospettiva più remota un “asse che va dall’Europa, alla Russia e alla Cina». Sempre, naturalmente, in funzione antiamericana (Islam e Occidente, le stesse radici greche, in «Corriere della Sera», 5 giugno 2006).^
14 v. J.-F. Revel, L’ossessione antiamericana, Torino, Lindau, 2004.^
15 A. Waldron, in «Commentary», febbraio 2005.^
16 A. Battaglia, op. cit.^
17 Visite nelle quali ha ribadito che «l’alleanza tra l’Europa e il Nord America è il pilastro principale della nostra sicurezza» e ha parlato della necessità di «avviare una nuova era di unità transatlantica», fondata sull’idealismo, sul realismo, sulla cooperazione, «perché quando l’Europa e l’America stanno insieme non ci sono problemi insormontabili». (Discorso del Presidente americano George W. Bush a Bruxelles, 21 febbraio 2005).^
18 Tra il ministro degli interni francese e il premier inglese Tony Blair sono già intercorsi colloqui costruttivi sulle rispettive politiche.^
19 A. Waldron, op. cit.^
20 Lo stesso dibattito sull’adesione della Turchia alla UE, in questo contesto, potrebbe risultare più agevole. I problemi posti dall’appartenenza all’Unione di un grande paese musulmano finirebbero per stemperarsi in una Europa a sua volta solidamente integrata nella comunità occidentale.^
21 Per riprendere il discorso, già citato, del presidente Bush: «L’America appoggia un’Europa forte perché abbiamo bisogno di un partner forte nel duro lavoro di far progredire la libertà e la pace nel mondo». Concetti peraltro non dissimili da quelli espressi da Madeleine Albright, segretario di stato durante la seconda presidenza Clinton, con la sua tesi sulla «comunità delle democrazie» e largamente diffusi tra la classe dirigente americana, sia repubblicana che democratica.^
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