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Il fascino dell’obbedienza: ascendenze e implicazioni
di Vincenzo Rapone
«La ‘legittimità’ di un potere può naturalmente essere considerata soltanto come la possibilità che esso sia ritenuto tale in una misura rilevante, e che da ciò derivi una corrispondente azione pratica. Non è affatto vero che ogni disposizione a obbedire a un potere sia orientata in modo primario (o soltanto anche generalmente) in base a questa credenza. La disposizione a obbedire può essere simulata dal singolo o da interi gruppi soltanto per motivi di opportunità, può essere assunta come inevitabile per debolezza e bisogno di protezione. Tutto questo non è però decisivo per la classificazione di un potere. È decisivo invece il fatto che la sua propria pretesa di legittimità ‘valga’ a seconda del tipo in una misura rilevante, garantendo la sua sussistenza e insieme determinando la specie dei mezzi di potere prescelti. Un potere può inoltre – e questo è un caso frequente in pratica – essere assicurato in modo così assoluto dalla evidente comunità di interessi tra il signore e il suo apparato amministrativo (guardie del corpo, pretoriani, guardie ‘rosse’ o ‘bianche’) nei confronti dei sudditi, e dalla mancanza di difesa di questi, che esso può perfino fare a meno della pretesa di ‘legittimità’» (Max Weber, Economia e società, I, a cura di P. Rossi, Milano, Edizioni di Comunità, 1961, p. 209). Questo importante, e per certi versi anche celebre passo di Weber non manca di una sua precisa struttura interna. In particolare, è considerato riferibile alla dimensione del valore quel potere che si differenzia significativamente dall’uso della bruta forza, in virtù della sua capacità di sollevarsi da una dimensione fattuale, e quindi di rispondere del suo apparato normativo non solo sul piano empirico, e che, per questo è percepito psicologicamente come legittimo. In modo esattamente speculare, l’obbedienza finisce essa stessa di essere un fenomeno empirico, per iscriversi in una dimensione che è assai vicina a quella hegeliana dell’eticità, ponendo se stessa in una significativa distanza dalla tendenza mimetica al gregarismo. La presupposizione soggettiva della legittimità del potere si rivela in grado di orientare l’obbedienza stessa nella direzione del valore, indipendentemente, si badi bene, dai suoi contenuti: la matrice culturale di quest’atteggiarsi in sede epistemica ha una derivazione strettamente kantiana, trovando nella riflessione del pensatore di Königsberg, e, in particolare, nella sua partizione tra moralità e legalità, una non casuale anticipazione. Si assiste ad una spiritualizzazione tanto del potere quanto dell’obbedienza, il cui legame con le dimensioni più prosaiche dell’essere viene reciso.
È Nietzsche, critico del trascendentalismo kantiano, ad analizzare con grande efficacia quella che egli considera una semplice credenza, puramente psicologica, sconfinante nell’illusione, in virtù della quale una diversa cornice formale, un diverso atteggiamento del pensiero hanno il potere di stravolgere enti esterni all’attività riflessiva. L’esistenza di realtà situate in un’area realmente estranea alla dimensione dell’interesse è da parte di Nietzsche oggetto di una critica radicale, rivolta alla tensione idealizzante che alimenta la vita sociale e politica. In questo senso, il filosofo tedesco, in una fase del suo pensiero che alcuni critici hanno definito ‘illuministica’, in Umano troppo umano, ci consegna questo profetico aforisma, nel quale la maggiore libertà è associata ad una tendenza interessata a subordinarsi ‘contrattualmente’: «La subordinazione, che è tanto apprezzata nello Stato militarista e burocratico, ci diverrà tosto così incredibile, come già lo è diventata la tattica compatta dei gesuiti; e quando questa subordinazione non sarà più possibile, una quantità dei più stupefacenti effetti non potrà più essere raggiunta, e il mondo sarà assai più povero. Essa è destinata a sparire, perché sparisce il suo fondamento: la fede nell’autorità assoluta e nella verità definitiva; persino negli Stati militaristi, non la costrizione fisica è sufficiente a produrla, bensì l’ereditaria adorazione davanti a ciò che è sovrano come davanti a qualcosa di sovrumano. In condizioni più libere, ci si subordinerà solo a condizione, in seguito a contratto reciproco, cioè con tutte le riserve del proprio interesse» (Umano, troppo umano, I, 441, ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 2004, p. 245). La grandiosità della ricostruzione kantiana e post-kantiana tanto del potere quanto dell’obbligo non esime dal sospetto che al suo cuore giaccia, dunque, il bisogno, umano, troppo umano, di definire l’obbedienza (il cui etimo ob-audire rimanda sin dall’origine alla questione della passività, che tradizionalmente oppone l’ascolto alla visione) in un rapporto di disgiunzione qualitativa rispetto alla semplice (e squallida) attitudine a servire. Si tratta di un tentativo di tradurre in termini di attività una tipologia di comportamento (l’agire collettivo di massa) che, nell’immaginario collettivo, resta legato alla passività, se non alla femminilità, come ampiamente attestato da tutta la letteratura otto-novecentesca in materia di psicologia delle masse, a partire da Le Bon. Nietzsche, lapidariamente, ci offre le coordinate della tendenza, propria dell’idealismo speculativo, cui pure, probabilmente, non si riferisce direttamente, a conferire valore, senso, forma attiva a realtà che di fatto si negano, resistendogli, alla dimensione della valorizzazione, demistificando quanto vi è di ‘interessato’ (in senso psicologico) in questo modo di procedere: «Tutti gli idealisti s’immaginano che le cose che essi servono siano sostanzialmente migliori delle altre cose del mondo, e non vogliono credere che, se la loro causa deve prosperare, abbisogna dello stesso concime maleodorante che è necessario a tutte le imprese umane» (Illusione degli idealisti, in F. Nietzsche, Umano troppo Umano, 490, I, cit., p. 272). È da sottolineare come quello degli idealisti non sia un dispositivo privo di ricadute politico-sociali: la sua potenza, tale da trasvalutare acriticamente il servilismo, anche il più viscido, in virtù civica, è stato funzionale all’incremento dell’apparato politicostatuale, riducendo i singoli a ingranaggio dell’ipertrofico Stato otto-novecentesco, vera e propria materializzazione dell’hegeliano “progresso di Dio nel mondo”.
Appurata la crisi generalizzata della dimensione ‘doveristica’, legata al Sollen, nella misura in cui, inoltre, nelle società occidentali si assiste ad una commistione apparentemente incongrua tra l’esaltazione narcisistica dell’individualità e il declino della sua capacità di autonomia, nonché ad un’esplosione dei fenomeni di identificazione e di dipendenza nei quali obbligo e coazione a ripetere (e quindi, mutatis mutandis, obbedienza e servitù) sono indistinguibili, risulta non ulteriormente prorogabile l’interrogativo su cosa resti di questa sottile e per certi versi sublime costruzione intellettuale. Sembrano assai più lontani di quanto non lo siano cronologicamente i tempi in cui forze genericamente ascrivibili al mondo progressista (concetto allora ancora dotato di qualche senso), laiche, cattoliche, marxiste, dichiarano, senza tema di smentita, quanto sia giusto ribellarsi e in che misura l’obbedienza non costituisca, di per sé, una virtù, come già l’esperienza dei totalitarismi aveva dimostrato e come un certo conformismo borghese pare confermare. All’acquietarsi di questa fase, per molti versi propositiva, che ha fortemente caratterizzato gli anni ’60 e ’70, si è andato delineando uno stile assai più acquiescente nei confronti del potere, che sembra essere, al tempo stesso, prodotto perverso di un certo ampliamento della libertà individuale ed elemento atavicamente radicato in un’area pre-storica della vita psichica.
Una prima risposta a queste inquietudini si configura, dunque, senza ombra di dubbio, nei seguenti termini: ciò che resta, al termine della parabola concettuale per il cui tramite lo Stato novecentesco ha legittimato se stesso è proprio l’attitudine a tradurre l’obbligazione politica e giuridica in termini di asservimento volontario generalizzato, proprio per il tramite della rivendicazione, tutta ideologica, della sua legittimità. Siamo in presenza di una fenomeno politico che si caratterizza, significativamente, per fatto di circoscrivere le coordinate della propria riproduzione attraverso la definizione di una totalità chiusa, dal tratto monistico (in un certo senso, una parodia della declinazione teologico-filosofica dell’Uno, privata di ogni dimensione simbolica), che diventa oggetto d’adesione e d’amore incondizionati. Si tratta di un fenomeno che, elevando l’esistente al livello del valore, eppure ‘mancando’ ogni iscrizione nella dimensione del valore, apre, a tutti gli effetti, a forme di totalitarismo. Purtuttavia, questo processo è giunto ad un punto tale di visibilità, che sono ormai mature le condizioni affinché l’obbedienza venga riletta alla stregua di una forma di servitù, per di più olontaria. In questa cornice teorica e politica, Fabio Ciaramelli e Ugo Maria Oliveri si producono in una lettura critica (Il fascino dell’obbedienza. Società volontaria e società depressa, Milano-Udine, Mimesis, 2013, pp. 123) del Discorso sulla servitù volontaria, che Étienne de la Boétie lascia come legato al suo più che fraterno amico Michel de Montaigne, al momento della sua dipartita dal mondo dei vivi, inaspettata quanto tragica. Non siamo di fronte ad un esercizio filologico-ricostruttivo, quanto, piuttosto, ad una rilettura che prende le mosse proprio dall’analisi weberiana, ma che è in grado, del tutto significativamente, di problematizzare la fenomenologia dell’obbedienza, ben al di là della rassicurante cornice formalistica, all’interno della quale si è inteso inquadrare il problema, e che intende venire a capo della contraddizione interna tra autonomia della volontà e servitù, conciliando i due termini in gioco, laddove invece “servitù volontaria” è un’espressione praticamente ossimorica. È un punto che Fabio Ciaramelli sottolinea nei seguenti termini: «In tal modo, proprio in quanto categoria fondamentale della sociologia politica, l’obbedienza weberiana ha una portata molto più ampia della mera osservanza delle norme giuridiche. In stretta continuità con l’obbedienza libera teorizzata da Spinoza nel Trattato teologicopolitico, in quanto “punto di vera legittimazione del comando”, la concezione weberiana dell’obbedienza appare in modo particolare debitrice della tesi kantiana relativa alla differenza sottile, ma irriducibile di moralità e legalità» (p. 57).
L’analisi degli autori si dipana a partire dalla crisi dell’obbedienza sorvegliata dalla legittimità, illuminata tanto dalla lettura arendtiana dei fenomeni politici novecenteschi, quanto dalla presa in carico di certe istanze della sociologia critica, inoltrandosi in un’area della vita psichica, individuale e collettiva: alla lettura di Oliveri – che, nel suo saggio (La servitù svelata) ricostruisce la vicenda culturale ed esistenziale di La Boétie, evidenziando come la trama dialogica del potere e della parola stessa vengano meno nella misura in cui quella “seconda natura” che è la consuetudine impedisce ai singoli di costituirsi in uno spazio in grado di render ragione della loro singolarità, e ciò nella misura in cui «lo scarto con la tradizione non è consumato fino in fondo» (p. 36) –, si affianca, in una modalità che è quasi quella contrappuntistica, il lavoro di Fabio Ciaramelli (Dal consenso alla legittimazione. Le vicissitudini della servitù volontaria ieri e oggi). Oggetto della sua attenzione è la crisi dell’immaginario desiderante, legata al deperimento delle soggettività, colti entrambi alla luce di categorie che è pertinente ascrivere ad un’antropologia politica che si fa forte di strumenti che spaziano dalla fenomenologia delle istituzioni ad un uso nient’affatto disinvolto di categorie mutuate dalla psicoanalisi e dalla psicologia dei gruppi. Nient’affatto casuale, in questo senso, il riferimento al Lacan di Televisione, per il quale la “viltà morale” – elemento non accidentalmente costitutivo di quelle patologie depressive di cui tanto si predica la matrice biologica –, fa da bordo ad una posizione che, a tutti gli effetti, possiamo individuale come ‘sacrificale’. Con la particolarità, sottolineata da entrambi gli autori, che costituisce una linea di lettura di questo testo, in grado di sottrarlo, meritoriamente, ad ogni tentazione nostalgica nei confronti di una dimensione sovrana, ‘pre-potente’ e quindi logicamente e assiologicamente superiore all’assoggettamento: lo squallido spettacolo offerto dalla servitù volontaria di oggi non è più quello della massa posta in posizione di oggetto da un capo e di individui non in grado di soggettivarsi all’interno di una relazione di sottoposizione, tema su cui gli esistenzialisti francesi tanto si sono spesi, a partire da Sartre. In questo senso, se il vincolo coercitivo appare oggi interiorizzato, nella modalità che si dà nelle società contemporanee, è sulla scorta del superamento di quell’opposizione tra sovrano-soggetto e suddito-oggetto, che costituirebbe, per Bataille, tanto l’essenza dell’esperienza totalitaria, quanto la tendenza del potere a darsi nella forma dell’Uno, nonché ad essere percepito in questa forma da coloro che vi si subordinano. Nel suo saggio sulla sovranità, – che Oliveri opportunamente richiama – l’intellettuale francese si esprime nei seguenti termini: «Nella sovranità tradizionale, in teoria un solo uomo beneficia dello statuto di soggetto: ciò suppone che la massa veda nel sovrano il soggetto di cui è l’oggetto. Voglio dire che l’individuo della massa, che consacra una parte del suo tempo a lavorare per il sovrano, lo riconosce [...]» (La sovranità, trad. it., Bologna, 1990, p. 81). Si tratta di un passo dal quale emergono chiaramente due questioni fondamentali: da un lato, la sovranità è estranea al rapporto di dominazione (colui che si costituisce come perno dell’identificazione collettiva è considerato sovrano, ma in realtà è egli stesso soggetto vincolato), dall’altro, il rapporto di dominazione identifica soggetto e oggetto, in una dinamica nella quale il lavoro ha un suo ruolo. Centrale, allora, non è la questione della sovranità, quanto le modalità di costituzione dei soggetti, che va specificata rispetto ai regimi democratici contemporanei. Da un lato, infatti, la subordinazione passa per una modalità che è ancora più perversa di quella dei totalitarismi, dove le posizioni individuali si dissolvono a favore di un sì incondizionatamente responsivo: nei regimi democratici di oggi, invece, la perdita della capacità di “dire di no” al potere, si realizza all’interno della costituzione di quello stesso individuo che viene esaltato come soggetto autonomo, indipendente, il quale ha la sensazione di scegliere ‘liberamente’ le modalità, situate rispettivamente sul versante del rapporto col soggetto o con l’oggetto, di identificazione al leader di turno o di dipendenza da determinate sostanze. Costituisce, invece, elemento di continuità tra democrazia ed esperienza totalitaria il ruolo che i totalitarismi novecenteschi pur essendo la loro origine politica legata al bisogno di contrapporsi ai processi di polverizzazione atomistica della società hanno rivestito nel fornire le coordinate essenziali di quel processo di interrogazione delle coscienze individuali, che ha avuto poi profondi effetti di massificazione non nel senso dell’adunata nazifascista, quanto, piuttosto, di quella “folla solitaria” che sembra costituire la forma attuale della cittadinanza borghese. O, per lo meno, implicitamente percepita come tale dai più nel giustificare una modalità ‘passiva’ di darsi al potere, la cui fascinazione conduce, più che mai, i singoli al limite di un’interrogazione a tutti gli effetti teologica. Il totale appiattimento della posizione del singolo a quella del gruppo di riferimento
è inclusivo, infatti, di un’interrogazione sull’utile individuale, che diviene un imperativo assoluto e indiscutibile: ad essere a disposizione sul mercato non è più la propria forza-lavoro, quanto, piuttosto, la propria potenzialità ad asservirsi, ad essere ‘funzionale’ all’istituzione, da “ben impiegare” in rapporto allo scopo dell’utile, al punto da ritenere quest’ultimo in grado di giustificare, legittimandola in ultima istanza, la soppressione di ogni punto di vista critico.
Gli autori declinano talune categorie della filosofia politica ‘classica’, attualizzandole in un contesto in cui il rapporto tra governanti e governati, esorbitando dallo schema della relazione soggetto-oggetto, si struttura nella forma del rapporto di legittimazione “a cascata” tra soggetti diversamente estesi quanto qualitativamente indifferenti, che si abilitano a stare nel legame sociale, legittimati dalla referenza ad un godimento che, almeno sul versante immaginario, li particolarizza, conferendo loro una sensazione di unicità. Si ricostruisce, così, il nesso tra costituzione totalitaria del potere, servitù volontaria e pratiche di interiorizzazione del vincolo obbligante, gettando, così, luce sulla costituzione di un soggetto che massimizza il proprio utile, facendosi proteggere da quella regola comune la cui funzione è, in senso simbolico, di limitarne l’azione. Ciò che rileva, dunque, è la sottomissione ‘volontaria’ (ammesso che ce ne sia una, che l’assunzione di volontarietà non sia un semplice nome per misconoscere la meccanicità del volere) all’interno di una comune regola, solo strumentalmente rispettata e finalizzata alla rivendicazione di uno spazio privato, in cui il soggetto ha l’illusione di singolarizzarsi e di soggettivarsi, situandosi, contemporaneamente, in modo interno ed esterno al legame, superiore, per questo, a ciascun altro, considerato ‘normale’, semplicemente perché ‘normato’. In questo modo, si fa vivere un godimento che, assunto seriamente, condurrebbe oltre i limiti dell’istituzione, ma che si realizza invece all’interno della stessa, concretizzando un regime che, come quello dell’Italia di oggi, non è eccessivo definire dell’“eccezione di massa”. L’immunitas il riferimento all’opera di Esposito non è casuale di cui il soggetto contemporaneo è alla ricerca, può esser declinata nell’occasione in termini di liberazione immaginaria dai sensi di colpa indotti dalla trasgressione – percepita a sua volta come un diritto – della regola a partire dalla quale si è costituito, e a cui, comunque, non cessa di richiedere protezione. Così, non ci si costituisce come soggetti all’interno di una regola comune, ma la regola comune stessa, di cui è smarrita la dimensione di regolazione simbolica, è oggetto di una costante contrattazione, la cui posta in gioco è il ben-essere soggettivo, scambiato per un effetto del godimento l’oggetto, e la stessa trasgressione non è assunzione ‘tragica’ di responsabilità di fronte a se stessi, quanto, piuttosto, misconoscimento socialmente condiviso delle regole. Come pertinentemente si sottolinea a più riprese, assistiamo ad un tale capovolgimento del rapporto tra libertà, ricerca della verità, e obbedienza come forma di adesione alla legittimità del potere, che la difesa dell’autonomia quale valore non sembra inquadrabile nell’ambito dell’autoconservazione della società, la quale finisce per perpetuarsi in una ripetizione mortifera, che è distruzione del desiderio, nonché della dimensione di progetto individuale. Ci spieghiamo, così, perché la depressione, al limite il suicidio, e non la protesta, costituiscano il punto d’arrivo del fallimento (anche) socio-economico individuale, che è vissuto come una messa in discussione dell’imperativo assoluto di massimizzare il proprio godimento all’interno di un sistema che è impossibile criticare, nella misura in cui ci protegge e ci rende sempre più liberi (come vuole Nietzsche), e quindi responsabili. Come ben si evince dalla lettura proposta, sono questi i termini in cui il soggetto contemporaneo, preferendo la comodità di quel vivere ‘civile’ che la “servitù volontaria” gli garantisce, declina la sua “viltà morale”, pagando il prezzo ‘dovuto’, nei termini di una depressione vitale del suo “essere-nelmondo”, di cui il caso estremo del suicidio è tragica, ma al tempo stesso semplice esemplificazione, se non variazione quantitativa.
In definitiva, il testo di Ciaramelli e Oliveri unisce, all’indiscutibile merito politico di situare la problematica del potere focalizzando il fulcro di una riflessione sull’obbedienza, guardandolo quindi “dal basso”, rifiutandosi coerentemente alla dimensione (sovrana o presunta tale) della prepotenza politica nei confronti delle dinamiche di assoggettamento, l’utopicità di una riflessione che, avendo per oggetto il “fantasma della libertà”, più che la libertà stessa, finisce per costituire, al tempo stesso, un’interrogazione “per tutti e per nessuno”, che si caratterizza per il suo rifiutarsi a risposte definitive e totalizzanti, situando ‘altrove’ il luogo tanto dell’agire responsabile, quanto della legittimità del potere.
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