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Noia e utopia: un frammento su Emil Cioran1
di Paolo Vanini
A coloro che gli rimproveravano una biografia da ottuagenario, Cioran rispondeva coerentemente che, se non fosse stato per l’idea di suicidio, egli sarebbe stato un suicida. La consapevolezza di potersi impiccare in qualsiasi momento era l’unico argomento a favore dell’esistenza, altrimenti circoscritta a una fatalità cadaverica, priva di redenzione e trascendenza. Su questo ritornello, che dovrebbe giustificare tanto la vecchiaia quanto il pensiero del nostro autore, si è creata una sorta di agiografia romantica che, per anni, ha impedito una lettura filosofica della sua opera. Se «la visione del nulla» è la premessa e la conclusione del sillogismo cioraniano2, questo nulla non è riducibile a un’improvvisazione poetica, e benché meno a un escamotage letterario: si tratta di un capovolgimento prospettico dell’ontologia, che, a dispetto di Platone, fa dell’Essere il simulacro del Non-Essere, provocando una «decomposizione» della stessa metafisica.
Anche per Cioran potrebbe valere il principio secondo cui «il tempo è l’immagine mobile dell’eternità», a patto di considerare la sostanza eterna come «ciò che immutabilmente non è»: l’Essere, in sé e per sé, non è che un’ombra, che proietta sulle pareti della caverna una frattura originaria nel seno del Nulla. Per esprimere questo presupposto, forzatamente anti-platonico, il pensatore rumeno non si richiama alla dialettica dell’Accademia, ma alla mitologia ebraica, più precisamente all’episodio biblico della “caduta”, quando Adamo, assaggiando il frutto del bene e del male, condannò se stesso alla conoscenza e la sua progenie alla storia. Nel capitolo iniziale de La Chute dans le temps, la rilettura del peccato adamico consente a Cioran di enucleare il tema principale attorno al quale si muove tutta la sua riflessione eticometafisica: la genesi della coscienza, a causa della quale il nostro capostipite raggiunse lo statuto di mortale.
Chiedersi che cosa sia la coscienza equivale a chiedersi chi sia l’uomo: potremmo anzi dire che la coscienza è cosi poco «cosa», che il suo emergere ha estraniato l’uomo dal regno delle cose, ovvero dalla «natura». La scelta di Adamo, che rinuncia all’albero della vita, rappresenterebbe il paradigma di un’umanità che non è mai stata innocente, tanto meno nel giardino edenico, teatro idilliaco in cui il serpente non dovette ingannare l’uomo, ma semplicemente assecondare una volontà (di conoscenza e di dominio) ancora assopita: «in lui si manifestava già quell’inattitudine alla felicità, quell’incapacità di sopportarla che tutti noi abbiamo ereditato. […] Cos’altro aspettarsi da una carriera inaugurata da un’infrazione alla saggezza, da un’infedeltà al dono di ignoranza che il Creatore ci aveva dispensato? Precipitati a causa del sapere nel tempo, noi fummo di colpo provvisti di un destino. Perché non c’è destino se non fuori dal paradiso»3.
Come nota Simona Modreanu, Cioran non legge il mito della caduta quale causa primitiva del peccato, ma quale effetto di una natura antropologica infetta nelle sue radici: una malattia iscritta nell’essenza umana, i cui sintomi avrebbero, da un lato, definito e orientato l’uomo; dall’altro, accusato la divinità creatrice di avere optato per il «meno divino dei mondi possibili»4. Ma perché Dio ha creato? La domanda è ossessivamente presente nelle pagine cioraniane, e la risposta più volte suggerita è questa: se Dio ha ceduto alla creazione, boicottando la purezza del nulla, è per la stessa ragione che ha spinto l’uomo verso il frutto della conoscenza: nessuno dei due era abbastanza buono e autosufficiente per limitarsi a se stesso – da cui il bisogno di un mondo, o del prossimo, per aver qualcuno o qualcosa da danneggiare. Colui che fosse pienamente, non si immischierebbe nella contingenza di ciò che è generato, al modo aristotelico del motore immobile; ma colui che fosse relativamente, dovrebbe proiettare all’esterno questa mancanza per camuffarla in volontà di (onni)potenza, consegnandosi al divenire e alle mete da realizzare. Il desiderio: che si può rivolgere al futuro, come la speranza, o al passato, come la nostalgia, e che ci qualifica come assenti capaci di immaginare. A immagine e somiglianza di Dio, nell’onniscienza di un rimpianto.
Questo rimpianto definisce, da un lato, la coscienza come la facoltà anomala «di rifiutare ciò che è per accondiscendere a ciò che non è»5; dall’altro, il tempo come l’indefinito passato (che non è più) e l’indefinito futuro (che non è ancora) che negano l’eternità del presente. Il tempo, d’altronde, è la dimensione della coscienza, ciò che ci situa nell’Essere secondo l’inevitabile ritmo della trascendenza e dell’immanenza: siamo qui ed ora nella precisa misura in cui non siamo altrove. La banalità dell’osservazione conduce a una considerazione affatto immediata: se l’uomo è colui che è sempre situato in un dato momento, tale momento è il limite che ci circoscrive all’istante attuale e ci separa da quello imminente; ma essendo imminenza, il limite è anche apertura, circolarità non conchiusa. In altri termini, l’assoluto è sia il compimento impossibile della coscienza, sia la sua condizione di possibilità:
non potremmo esser-ci, se fossimo congruenti alla pienezza dell’essere, ma finché ci siamo, saremo una negazione dell’essere medesimo6.
All’interno della coscienza, la problematica del tempo si sviluppa in due direzioni divergenti e complementari, «a seconda che sia considerato quale dimensione specifica dell’essere-nel-mondo [il tempo come luogo dell’esilio metafisico], o in quanto appartenente alla sfera del divenire collettivo concretizzato nella storia»7. Nel primo caso, la storia si definisce quale degradazione metafisica dell’eternità e, nella misura in cui l’uomo è sua complice, egli si caratterizza come essere ontologicamente mancante (o «magistralmente fallito»). Nel secondo caso, invece, l’uomo in quanto essere storico diviene il centro di una riflessione etico-morale focalizzata sul rapporto fra idea e azione (a livello individuale) e fra ideologia e riforma (a livello sociale).
Poiché nessuno può esimere la storia dal suo essere-nel-tempo, a priori si dovrebbe rinunciare ad ogni azione; tuttavia, se l’esserci comporta necessariamente una trascendenza rispetto al dato immediato, l’azione con cui vogliamo oltrepassarci non è il semplice risultato di una scelta, ma indica «l’impossibilità ontologica all’astensione». Cioran la dipinge come una «maledizione congenita agli atti»8, che ci ha colpiti quando siamo caduti nel tempo e che fa della storia lo svolgimento – inevitabilmente direzionato in avanti – di un anatema primordiale. Filosoficamente, la fatalità menzionata esclude Dio e si appella alla natura paradossale del tempo medesimo, che, essendo un divenire permanente, si qualifica come l’incompiuto che trascende se stesso senza poter mai raggiungere un compimento finale. Ma poiché la «trascendenza» è facilmente sostituibile con la «finalità», non è stato difficile considerare la storia come ciò che avrebbe riscattato il tempo dalla sua incompiutezza costitutiva – e poco importa se per la grazia di un’apocalisse cristiana o per il lume progressista della ragione. Se la storia è ciò che posticipa sempre la propria conclusione, è inutile auspicare una riflessione metafisica sul tempo che non tradisca una certa teleologia: tale constatazione porta Cioran a elaborare «un’escatologia del peggio» che ammette l’illusione del télos solo a patto di renderla una «verità irrespirabile»9 – ovvero una verità che capovolge il significato medesimo dell’utopia.
L’utopia è il non-luogo in cui l’attuale viene proiettato nell’assenza di un altrove, è quello spazio inesistente che consente la continuità fra il tempo e la storia. Detto diversamente, l’utopia è lo spazio della coscienza storica, no spazio che non può essere paradigmatico in virtù della sua mancanza strutturale. Eppure, se pensiamo alla letteratura utopica rinascimentale, riscontriamo che il concetto di utopia nasce in relazione a una progettualità prescrittiva che poneva le condizioni di una società perfetta, dunque non modificabile. La divergenza fra le due connotazioni segna trasversalmente la speculazione cioraniana, preoccupata di affrontare la natura ambivalente dell’utopia, che, nello stesso tempo, è “essenza” (metafisica) del divenire e “simulacro” (storico) della realtà. Incisivamente, Cioran afferma che, se la storia è «l’antidoto all’utopia», l’utopia è ciò che fa muovere la storia, perché noi «agiamo solo per la fascinazione dell’impossibile»10. Da un lato, la provocazione vuole corrispondere alla contingenza non-razionale delle diverse epoche, il cui esame e la cui alternanza rivelano che una civiltà, per nascere e affermarsi, deve dar vita a un ideale utopico a cui consacrarsi, in grado di conferirle un senso e una verità da realizzare; dall’altro, indica implicitamente che, per debellare il germe dell’utopia, bisognerebbe debellare l’essere-nel-tempo. Sarebbe l’estinzione dell’umano, sarebbe il paradiso – perché non c’è paradiso dove c’è coscienza.
L’impossibilita di praticare «l’albero della vita» fuori dal «giardino» viene stilizzata nelle pagine cioraniane attraverso la figura retorica dell’ossimoro, che si configura come segno poetico di un’aporia teoretica non superabile: la speranza di perfezionare la condizione umana all’interno della dimensione storica; ovvero, il tentativo paradossale «di rifare l’Eden con i mezzi della caduta»11. Se definiamo l’utopia come la ricerca di un altro tempo all’interno del tempo medesimo, la contraddizione che ne risulta provoca un’impasse filosofica che ci mette faccia a faccia con l’assurdità dei «corsi e ricorsi storici»: un circolo vizioso che, per rimediare all’infrazione adamica, si affida alla «megalomania prometeica»12. In Histoire et utopie, l’autore si chiede come sia possibile che, «essendo la società quella che è, alcuni si siano impegnati a concepirne un’altra, del tutto diversa»13. La domanda sembra ironica, ma ci obbliga a indagare la natura più intima dell’essere umano: cosa ci spinge a perseverare nell’atto, nonostante esso sia sinonimo di dolore e fallimento? La risposta aristotelica, per cui il fine di ogni azione è l’eudaimonia, viene rifiutata a causa di un particolare decisivo: l’uomo agisce in nome non della felicità, ma dell’«idea di felicità, idea che spiega perché, seppure l’età del ferro sia coestensiva alla storia, ogni epoca si affanni a divagare sull’età dell’oro»14. Questa inclinazione ci assuefà all’utopia nella misura in cui ci rende refrattari alla saggezza – all’accettazione della «felicità data, esistente; l’uomo la rifiuta, ed è solo questo rifiuto a farne un animale storico, vale a dire un amatore di felicità immaginata»15.
Parlando di se stesso, Cioran scrive che due sono le esperienze capitali e metafisiche che possono capitare a un uomo: la noia e l’insonnia, nella misura in cui entrambe sconvolgono i nostri rapporti con la temporalità e, dunque, con la realtà. Se, in condizioni normali, il tempo è la dimensione naturale in cui un soggetto vive pressoché inconsapevolmente; nell’esperienza esistenziale della noia, esso viene percepito come qualcosa di estraneo, che si sviluppa parallelamente a noi, senza mai riguardarci. Questa sensazione si degrada ulteriormente a causa dell’insonnia, che fa del tempo il nostro nemico, la cui durata si impone ai nostri occhi come una minaccia. Non potendo più essere nel tempo, il soggetto finisce col non poter più essere con se stesso. La veglia perpetua, dopo averlo privato dell’oblio vitale del sonno, lo spinge a una lucidità estrema a causa della quale si trova escluso, in primo luogo da se stesso e, successivamente, dal resto dei viventi. Si trova immerso in una specie di «continuità funesta»16 che lo estromette dagli eventi circostanti, ora percepiti come un insieme intollerabile e monotono di perplessità autistiche17. Refrattarie al riposo, le moderne metropoli falsificherebbero facilmente queste osservazioni; per lo meno, la loro «intollerabile monotonia di rumore» sembra finalizzata a ridurre la metafisica a una questione di traffico caotico. Escludiamo l’insonnia dalle virtù sociologiche. Ma se immaginassimo, seguendo Cioran, una noia declinata su scala sociale, potremmo ipotizzare una pratica urbana dell’ascetismo volta a rallentare «l’inanità del Progresso»18 – conferendo così al sentimento della noia il valore (kantiano malgré soi) di ideale normativo.
Nella sua versione non definitiva, il Précis de décomposition (primo testo pubblicato in francese) doveva intitolarsi Exercises négatives, intestazione che in maniera ambigua riecheggia gli Esercizi spirituali e che potrebbe significare tanto una negazione della tradizione ascetica, quanto una sua rilettura priva dell’elemento positivo-purificativo. Questa incertezza ermeneutica percorre tutta l’opera del non-credente / non-praticante Cioran, il quale è perennemente combattuto fra il desiderio della rinuncia e la rinuncia del desiderio, consapevole che, quand’anche la cupidigia fosse estirpata, nessuna soluzione soteriologica sarebbe possibile. Se esiste una proposta etica in Cioran, essa è una riformulazione promiscua di ascetismo, cinismo, gnosticismo e buddhismo: accettati nella misura in cui ci rendono «liberi», rifiutati nella misura in cui ci vogliono «liberati»; presi come «modello», ma abbondati come «sistema»19. Da qui «la necessità filosofica del suo stile aforistico»20 perché laddove sono ripudiate le verità sistematiche, ma non i sistemi di pensiero (non sempre compatibili tra loro) che le hanno proposte, il frammento è la sola possibilità di farli funzionare insieme, il solo modo di simpatizzare per più posizioni senza prestare giuramento a nessuna di esse. E se può essere chiamato “esistenzialista”, Cioran – a differenza dei suoi compagni francesi – non vuole essere engagé nella resistenza, «ma in una serie senza fine di atti di disimpegno (dégagement)»21 che non si deformano in ideologia perché mantengono l’idea nel suo stato di virtualità.
Richiamandosi implicitamente a Heidegger, Cioran pone la realtà storica e quotidiana («ontica») come negazione delle sue possibilità metafisiche («ontologiche»), capovolgendo così il rapporto fra possibile e reale – perché ciò che può essere, può essere solo finché non è. Da questa prospettiva, se Cioran recupera alcune nozioni tipiche dello gnosticismo e del buddhismo, è per offrire un contenuto al principio di irrealtà del reale che, partendo da una svalutazione del pensiero e da una negazione del desiderio, sappia indicare una salvezza che passa per la contemplazione – contrapposta punto per punto alla conoscenza finalizzata all’azione. Il nostro autore evidenzia che la sete di desiderio e la sete di conoscenza sono sovrapponibili, e che l’esercizio della noia – intesa come ascesi verso l’apatia – può invalidare i nostri paradigmi metafisici, fino al punto decisivo in cui la «morte» stessa si tramuta in esperienza sempre possibile. Questa convergenza fra cafard e morte non si disperde in un nichilismo passivo, perché, «l’esperienza del vuoto di senso, lungi dall’essere necessariamente deprimente, si può capovolgere in esaltazione […]. In altri termini, la noia non ci allontana dalla verità, e nemmeno va confusa con la negatività o la malattia; viceversa, non appena è nostra, ci sbarazziamo dell’illusione di aver compreso qualcosa laddove, precisamente, da dimostrare non c’è niente. La prova della noia disinnesca così ogni fatticità, disorganizza le chimere, smonta gli ideali, i simulacri e i miraggi nei quali si infanga l’ordinario della cultura comune»22.

Beneficiando dell’alchimia della noia, Cioran estende il suo dégagement alla trasmigrazione delle anime, facendo del nirvana medesimo una meta in cui sprofondare, dato che siamo sospesi tra «la seduzione del niente e la rassegnazione al voler-vivere»23. L’essere, in quanto pregiudizio e ostacolo primordiale, è il primo e più ineludibile intralcio alla nostra salvezza, il fondamento oggettivo dal quale dipende la nostra realtà, e noi con lei. Situarsi in una dimensione reale pone il soggetto all’interno di una serie di evidenze alle quali si sottomette purché esse sappiano garantirgli una certa sicurezza; accettare l’irreale, viceversa, significa «destituire l’essere di tutti i suoi attributi, fare in modo che non sia più un appoggio, il luogo di tutti i nostri legami, l’eterna impasse rassicurante»24. Operare questa dimissione ontologica è compiere un passo decisivo verso la liberazione (délivrance), verso quella condizione in cui l’inessenziale non è più il motore immobile di un mondo che l’uomo ha pensato a immagine e somiglianza delle sue fantasie: poiché alla contingenza di queste corrisponde la necessità della ragione che le ha prodotte, il nostro autore vede nel pensiero umano non una via verso il sapere, ma un’elaborazione consacrata alle nostre infatuazioni. Egli radicalizza la posizione filosofica antica, per cui si desidera solo ciò che non si ha, e giunge alla conclusione che si desidera solo ciò che non (si) è: poiché pensiamo ciò che desideriamo, pensiero e desiderio ci immergono nel non-sapere e collaborano alla nostra schiavitù. Il vero sapere, viceversa, si identifica con la rinuncia (désistement) e delle idee e delle cose: la bramosia determina in ugual modo sia le nostre speculazioni che le nostre azioni, e la frenesia priva di soddisfazione con cui perseguiamo uno scopo dietro l’altro è la stessa con cui saltiamo da un concetto all’altro, imparando molto senza comprendere nulla. Meditare, da questo punto di vista, è farsi assorbire da una singola idea fino al punto in cui non resta nulla né da pensare né da desiderare, ma solo un vuoto colmo di noia, un «abisso senza vertigini»25.
Il problema, per Cioran, è che al desiderio non si può rinunciare e che «la liberazione è forse solo una catena in più, la più sottile in apparenza, la più pesante nei fatti, giacché di lei non ci si libererà mai»26. L’enunciato comporta due complicazioni: in primo luogo, se si ammette una salvezza, bisogna ammettere un modo “corretto” per ottenerla, avvicinandoci così all’ortodossia delle redenzioni; in secondo luogo, per prescindere dal desiderio si dovrebbe prescindere da se stessi, il che è tanto non-desiderabile quanto troppo evidente. La scelta del Buddha non è verosimile perché manca di paradossalità, quasi fosse una scelta postuma: «vi è troppa sistematicità nelle sue rinunce, troppa coerenza nelle sue amarezze. […] egli è vissuto e morto rassicurato – come ogni uomo estraneo alla tentazione fatale della vita, alla seduzione del nulla dell’esistenza e del Nirvana che fortifica ogni istante. […] La coscienza del nulla con l’amore della vita? Un Buddha da boulevard»27.
Stando a Cioran, si dovrebbe rinunciare agli atti senza alcun movente – al modo ozioso e inconcludente dell’abulico, il quale sarebbe l’unico esempio di «eletto che rifiuta di faticare, o di eccellere in un dominio qualsiasi»28. Ripudiando lo sforzo per consegnarsi al distacco, egli ha compreso l’eguale insignificanza di ogni gesto e il suo profilo, tratto a tratto opposto a quello di Adamo, ricorda alcune penombre del saggio stoico, che se pure agiva come gli altri, a differenza d’essi era indifferente alle sue azioni: «Spaesato tra i suoi simili, è come loro e tuttavia con loro non può comunicare; da ovunque guardi, egli non si sente di qui, e tutto ciò che vi discerne, gli sembra usurpazione: perfino il fatto di portare un nome… Le sue imprese sono votate al fallimento, vi si lancia senza credervi: simulacri dai quali lo distoglie l’immagine precisa di un altro mondo»29.
L’abulico, che preferisce l’anonimato alla fatalità di essere individuo, è un modello che Cioran propone per eludere l’aporia costitutiva dell’essere umano, pur sapendo che è un modello non praticabile. In lui si manifestano la consapevolezza di un destino al quale non possiamo sfuggire e l’urgente richiesta di una salvezza, di una via d’uscita. Di fronte a questo vicolo cieco, il nostro autore, più che escludere ogni soluzione, la cerca tra gli esclusi, gli ultimi, coloro che per definizione non potranno mai essere seguiti, e che rappresentano un esempio solo in quanto deformità elevate a paradigma: esiliati dalla civiltà e dalla storia, ci mostrano che gli unici spiragli di libertà, comunque non percorribile, sono da ricercare ai margini. Da qui i numerosi richiami all’indolente apatico, ma anche al clochard, al folle, alla prostituta; a coloro che, per perdizione, miseria o patologia, non stanno alle regole – e non saranno mai norma. È la noia che accomuna questi reprobi nella perdizione, ma è la perdizione che sottrae questi reprobi al doppio giogo del dovere e della necessità. La loro “morale” simboleggia ciò che le nostre azioni possono non fare, creando in tale inerzia un vuoto indispensabile a molecole di libertà.
Ribadiamolo: la noia di cui si parla, contrapposta sia alla volontà prometeica che all’ascetismo da anacoreta, non è passività; al contrario, essa è «azione, metodo nel senso esatto del termine, meta hodos, cammino di traverso, operazione continua dell’immaginazione sull’intelletto, del linguaggio sulla rappresentazione, della percezione sulla dottrina che la sommerge30. Così, nell’apparente stasi di chi esperisce la propria noia, si delinea un percorso esistenziale capace di destituire le convenzioni a fondamento della società attuale.
Emblema di questa destituzione è Diogene, il “cane celeste” che Platone definì un «Socrate divenuto folle» ma che per Cioran rappresenta un Socrate «sincero», in quanto ha rinunciato alle illusioni del Bene e della Città31. Agli occhi di Cioran, colui che ha vissuto nella botte simboleggia il saggio che contravviene a tutte le convenzioni stilistiche di saggezza, divenendo di fatto un saggio da non imitare. Essendo l’unico a proporre un’immagine vera e, dunque, orrenda dell’uomo, Diogene non può essere né maestro né modello; d’altronde, scrive il nostro autore, «il cinismo non si impara a scuola»32, non è una teoria da insegnare o un problema da ripetere a memoria, tanto meno una questione concettuale risolvibile con la ragione: è qualcosa che la precede o che, più precisamente, ne esaspera la natura promiscua.
Al riguardo, ma in alcuni passaggi della Tentation d’exister, Lutero viene dipinto incisivamente come un fedele segnato dal cinismo, un apologeta che impreca e che sa «pregare da polemista»33. La sua devozione è colma di aggressività e lancia una sfida alla teologia e al buon gusto, e alla logica che le giustifica. Cioran asseconda l’autore della Riforma quando chiama la ragione «baldracca», e ci chiede: «non vive lei di simulazione, di versatilità e di impudicizia? Siccome non si attacca a niente, siccome non è niente, si dona a tutti, e tutti la reclamano: i giusti e gli ingiusti, i martiri e i tiranni. Non c’è causa che non possa servire: lei mette tutto sullo stesso piano, senza reticenze, senza debolezze, senza predilezione alcuna – e il primo venuto ottiene i suoi favori»34. Nella sua mancanza di pudore, il ritratto della ragione evoca la figura di Diogene e, se quest’ultimo, con la lanterna, andava alla ricerca di un uomo, cosa fa l’altra se non aspettare il primo passante? Cioran coglie l’«essenza» della ragione nel suo non essere mai uguale a se stessa, nel suo opportunismo anti-platonico che la rende disponibile a qualsiasi simulacro. In un paragrafo del Précis intitolato “Philosophie et prostitution”, l’autore auspica un capovolgimento dell’essere, che sarebbe da modellarsi secondo i parametri del marciapiede, e non più secondo quelli del lògos. Lo citiamo per intero:
«Il filosofo, riavutosi dai sistemi e dalle superstizioni, ma che ancora persevera sui sentieri del mondo, dovrebbe imitare il pirronismo da marciapiede sfoggiato dalla meno dogmatica delle creature: la prostituta. Distaccata da tutto e aperta a tutto – che sposa gli umori e le idee del cliente; che corregge l’espressione e l’accento ad ogni occasione; che si presta alla tristezza quanto alla letizia; che prodiga sospiri per non trascurare gli affari; che accompagna le smorfie del suo vicino accavallato e sincero con uno sguardo illuminato e falso – lei propone allo spirito un modello di comportamento che compete con quello dei saggi. Essere senza convinzioni nei confronti degli uomini e di se stessi, questo è il nobile insegnamento della prostituzione, accademia ambulante di lucidità, ai margini della società come la filosofia. “Tutto ciò che so, l’ho appreso alla scuola delle lucciole”, dovrebbe gridare il pensatore che tutto accetta e tutto rifiuta, quando, seguendo il loro esempio, si è specializzato nel sorriso stanco; quando gli uomini sono per lui soltanto clienti, e i marciapiedi del mondo il mercato in cui vende la sua amarezza – come le sue compagne, i loro corpi»35.

Lo scetticismo di Cioran, che affida alla noia la propria iniziativa, è da cercare in questo compromesso fra la saggezza stoica, la rinuncia buddhista, il pessimismo cinico e la lucida empatia della meretrice. La «voluttà del dubbio», a cui i suoi scritti sono consueti, diventa più comprensibile se rapportata alla metafora della prostituzione: ha a che fare con la parola sincera, amara e licenziosa, con il bisogno e con il vizio della verità e del piacere, i quali comportano sempre una particella di tristezza e di dolore. Peter Sloterdijk ha osservato che, se la cura di sé a cui Cioran ci richiama è indubbiamente socratica, a differenza di Socrate – «che vuole che io voglia» – egli «non vuole che io non voglia»36, perché l’uomo muove solo per fare il male, anche se vivesse in Utopia. E Cioran, con forza, vorrebbe non fare, vorrebbe astenersi dall’atto e prendere come proprio modello l’abulico; eppure pubblica i suoi testi e, in questi, non fa altro che testimoniare per l’abulico che non è. Al «funesto demiurgo» (e a se stesso), egli non rimprovera di esistere, ma di non essersi astenuto dalla creazione, questo engagement primordiale contrario al Nirvana. E scrive: «Questo mondo non fu creato nella gioia. Procreiamo tuttavia nel piacere. Si, senza dubbio, ma il piacere non è la gioia, ne è il simulacro: la sua funzione consiste nell’inganno, per farci dimenticare che la creazione porta, fin nel suo minimo dettaglio, il segno di questa tristezza iniziale dalla quale è uscita»37.
La noia è il contro-altare di questo inganno, tavola liturgica che non prescrive sacrifici e che non prevede paradiso, pratica ascetica che si oppone alla passività delle scelte quotidiane e all’inerzia dogmatica delle nostre azioni. La non-adesione a ciò che facciamo è il primo passo di un’ascesi che non aspira a redimerci ma a renderci “metafisicamente apolidi”, ovvero a non esser radicati né a noi stessi né alle nostre idee, né alle ideologie che ne derivano. Consacrarsi al distacco significa allora amputare le proprie convinzioni, diminuire la realtà dell’Io per conferire un peso specifico diverso alla realtà che ci circonda, la quale trova nella contingenza la propria essenza e nell’illusione il suo orizzonte. Ma per non illudersi sulle proprie dimensioni e per mantenere uno sguardo lucido verso noi stessi e verso gli altri – astenendoci dunque dall’entusiasmo che ci accomuna – bisogna coltivare una visione futile delle cose, che ci apre alla nostra ontologica vulnerabilità e che è possibile soltanto se abbiamo conosciuto la noia dell’essere. La noia di esserci. Perché il fallimento è una provvidenza infinita.





NOTE
1 Je prends une résolution debout; je m’allonge – et l’annule. Syllogismes de l’amertume.^
2 V. Piednoir, Les révélations du corps, in L’Herne, Cioran, a cura di L. Tacou e V. Piednoir, Parigi, Ed. de l’Herne, 2009, p. 251.^
3 E. Cioran, La Chute dans le temps, 1964, in OEuvres, Parigi, Gallimard, coll. Quarto, 1995, p. 1072 [Faremo riferimento a questa edizione per tutte le opere di Cioran. La traduzione in italiano è nostra].^
4 S. Modreanu, Le dieu paradoxal de Cioran, Monaco, Éditions du Rocher, 2003, pp. 100-105.^
5 Cioran, La Chute dans le temps, cit., p. 1097.^
6 Cfr. V. Melchiorre, Ideologia, utopia, religione, Milano, Rusconi, 1980, pp. 15-29.^
7 M. Sora, Diogène sous les toits de Paris, in L’Herne, Cioran, cit., p. 225.^
8 Cioran, La tentation d’exister, 1956, cit., p. 821.^
9 Cfr. Cioran, Écartèlement, 1979, cit., pp. 1426-42.^
10 Intervista con Fernando Savater, 1977, in OEuvres, cit., p. 1790.^
11 Cioran, Histoire et utopie, 1960, cit., p. 1051.^
12 Cioran, Précis de décomposition, 1949, cit., p. 582.^
13 Cioran, Histoire et utopie, cit., p. 1031.^
14 Ivi, p. 1036.^
15 Ibidem.^
16 Cioran, Glossaire, cit., p. 1754.^
17 Cioran, Précis de decomposition, cit., pp. 708-709.^
18 Cioran, Cahiers, Parigi, Gallimard, 1997, p. 347.^
19 J. Laurent, Cioran, Plotin et la gnose, in L’Herne. Cioran, cit., p. 268.^
20 R. Mutin, Philosophie du néant et métaphysique du fragment, in L’Herne. Cioran, cit., pp. 244-47.^
21 P. Sloterdijk, Cioran ou l’excès de la parole sincère, in L’Herne. Cioran, cit., p. 233.^
22 J-F. Gautier, Cioran ou la mystique de l’ennui, in L’Herne. Cioran, cit., p. 257.^
23 F. Chenet, Cioran et le bouddhisme, in L’Herne, Cioran, cit., p. 282.^
24 Cioran, Le mauvais démiurge, cit., p. 1218.^
25 Ivi, p.1022.^
26 Cioran, Cahiers, cit., p. 870.^
27 Cioran, Les crépuscule des pensées, cit., pp. 421-22.^
28 Cioran, Histoire et utopie, cit., p. 1042.^
29 Ibidem.^
30 Gautier, Cioran ou la mystique de l’ennui, cit., p. 258.^
31 Cioran, Précis de décomposition, cit., p. 638.^
32 Ibidem.^
33 Cioran, La Tentation d’exister, cit., p. 932.^
34 Ivi, p. 933.^
35 Cioran, Précis de décomposition, cit., pp. 651-52.^
36 Sloterdijk, Cioran ou l’excès de la parole sincère, cit., p. 237.^
37 Cioran, Le mauvais démiurge, cit., p. 1175.^
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