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Quasi un diario (serio e semiserio) di mezza estate
di Giuseppe Galasso
Si è appreso in giugno, dal «Corriere del Mezzogiorno», che la giornalista Jessica Siegel era venuta dagli USA a Napoli per studiarvi nel Museo Archeologico la Venere Callipigia, ossia la statua che della Dea della Bellezza mette in particolare risalto le classiche armonie della figura e la soda e formosa consistenza delle sporgenze posteriori. Armata di metro, riga, squadra e compasso, la Siegel vuole chiarire definitivamente le misure che hanno dato a quella statua la sua fama.
C’è una “sezione aurea” di questa Venere? Sezione aurea di un segmento è la parte di esso che rappresenta la media proporzionale tra l’intero segmento e l’altra sua parte. Questo tipo di rapporto fra il tutto e le parti era ritenuto nel Rinascimento la proporzione perfetta sia in geometria che per tutti gli oggetti naturali, e quindi anche per il corpo umano. Lo stesso rapporto era perciò indicato come un criterio “aureo” (ideale, supremo) di perfezione estetica. Gli artisti vi si potevano attenere in tutte le arti con la sicurezza di rappresentare così, al meglio, la struttura delle cose.
Chissà se le misurazioni della Siegel ritroveranno a base della fama della Venere Callipigia la stessa proporzione perfetta che il Rinascimento ravvisò nella sezione aurea o se ne verranno fuori tutt’altre proporzioni, eccedenti o deficienti rispetto a quella aurea. In questo secondo caso vi potrà essere un bel discutere. A Napoli furono, comunque, parecchi coloro presso i quali ebbe fortuna, intanto, in quegli stessi giorni, la definizione di “Italia Callipigia” per la “nazionale” di calcio che nel campionato del mondo eliminò l’Australia dopo l’ultimo minuto per un imprevedibile rigore. In fondo, la vita non è male. Se non altro, si ha almeno più o meno spesso anche il modo di ridere o sorridere, e bisogna riconoscere che l’idea da cui muove lo studio della Siegel vi concorre meritoriamente.


* * *


Il calcio italiano ha riservato, peraltro, in questa estate del 2006 ben altre sorprese che quella di dare luogo a irriverenti richiami a uno dei capolavori della scultura ellenica. Tutto quel che si poteva desiderare in materia di “scandalo” è stato largamente offerto alla pubblica attenzione. Naturalmente, ne è uscito fuori l’immancabile vocabolo di occasione; e, altrettanto naturalmente, il vocabolo è stato “calciopoli” (ma fra luglio e agosto si è parlato pure di una “vallettopoli” per la RAI, e bisogna ammettere che è difficile dare la preferenza del cattivo gusto all’uno o all’altro dei due vocaboli: e, comunque, l’ombra terminologica di “tangentopoli” non accenna ancora a svanire).
Il piccante della vicenda di questa “calciopoli” stava tutto, ovviamente, nella portata delle punizioni che sarebbero state inflitte ai più o meno presunti colpevoli. L’attesa non è andata delusa. Questo ha, però, fatto perdere di vista alcuni particolari della vicenda degni di altra memoria.
Si è letto, ad esempio, che una persona della qualità e dell’esperienza di Guido Rossi ha annunciato o ventilato una sua querela a un parlamentare (che, per avventura, era Francesco Cossiga) per un’interrogazione dello stesso in Senato su cose di questa congiuntura calcistica, ritenuta dal Rossi offensive per lui. Generale la domanda: Guido Rossi conosce, oltre il diritto societario, quello costituzionale e parlamentare? Lo stesso Rossi sembra aver annunciato gravi punizioni in sede federale calcistica contro coloro che, colpiti dalla “giustizia sportiva”, si fossero rivolti alla “giustizia ordinaria”, ossia a quella dei comuni cittadini. Altra generale domanda: Rossi sa che, se i tribunali (quelli veri) ordinano qualcosa (che, ad esempio, modifichi o rovesci il verdetto della “giustizia sportiva”), egli o chiunque altro deve eseguirne il disposto? E sa che il diritto ad adire i tribunali (quelli veri) non può essere negato ad alcun cittadino o persona giuridica italiana?
Si è opposto, peraltro, a questo proposito, che una legge recente stabilisce che solo competente per certe faccende sia la “giustizia sportiva”, e si sono citate le autorità calcistiche internazionali come ulteriore fonte decisiva di una tale esclusività. Bisogna allora chiedere urgentemente l’abrogazione di queste molto indebite normative. Non sapevamo che in Italia, dopo l’abolizione del foro ecclesiastico interferente con quello civile, vi fossero altri fori speciali. Sapevamo che in Italia c’è la magistratura militare (per il codice militare di pace e di guerra); c’è il sovrano potere di autoregolamentazione del Parlamento; una certa immunità del presidente della Repubblica, e null’altro. Sapevamo soprattutto che c’è una magistratura sola (non sappiamo e non comprendiamo neppure perché la si designi come “ordinaria”) e che è questa magistratura, nei suoi varii gradi e funzioni, la sola a dovere e poter trattare qualsiasi occorrenza giudiziaria del cittadino o delle persone giuridiche, ad amministrare qualsiasi normativa civile e penale e ad applicare tutti i codici (civile, penale, di procedura, della strada, del lavoro, della navigazione d’acqua e d’aria, e quanti altri ve ne siano o possano esservi). Può darsi che ci sbagliamo, e diciamo subito che, se così fosse, non ci farebbe piacere, e non per il nostro eventuale errore, ma per il merito della cosa, perché vorrebbe dire che in qualche modo in Italia c’è ancora qualche foro riservato, distinto da quello dei comuni cittadini (gli odierni tribunali ecclesiastici non lo sono affatto). Non c’è nessun magistrato che nelle sedi competenti e nei modi dovuti possa sollevare eccezione di incostituzionalità per quella norma sulla giustizia sportiva, se davvero essa offende, come primo oculi ictu a noi sembra, l’eguaglianza dei cittadini italiani dinanzi alla legge?
Per fortuna, tra questi pensieri non propriamente ameni una nota più rasserenante non è mancata. Ce l’ha fornita il già presidente della Corte Costituzionale Ruperto, che ha riferito della sua angosciosa tensione e della notte insonne alla vigilia del maxipronunciamento del 14 luglio, con le tante sentenze di condanna di squadre, dirigenti, giocatori, arbitri. Ruperto ha, infatti, rivelato di aver fatto come, a suo avviso, nelle ore di tensione faceva «don Benedetto Croce» (tra l’altro, è la prima volta che mi imbatto in questo modo di esprimersi; si limitano, infatti, al solo «don Benedetto» coloro che affettano di sapere come si usava chiamare Croce, e chissà come si arrabbierebbe il suo spirito se li sentisse, poiché non fu affatto consueto questo appellativo con tanta faciloneria evocato da chi meno sa di lui, ed egli certamente non l’avrebbe gradito). Avrebbe, dunque, il presidente Ruperto, recitato il Veni creator Spiritus nel travaglio di giudicare con giustizia in quella vigilia di tensione di metà luglio. Il Gran Condé dormì, invece, serenamente, come si sa, alla vigilia della decisiva battaglia campale di Rocroi, il 19 maggio 1643. Ma Croce non era un guerriero, e lo sapeva, e – da uomo di profonda vita interiore qual era – si affidava al Paracleto, all’Invocato, ossia allo Spirito Santo, appunto, alla grazia divina che gli indicasse la strada e lo facesse risolvere nel senso del dovere; e Ruperto, come ci ha rivelato, esibisce la civetteria di aver fatto allo stesso modo.


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Il calcio come categoria dello Spirito? La domanda è meno spiritosa di come può apparire; anzi, è piuttosto banale, anche se la logica del calcio non è per niente più facile da penetrare di quella delle più ardue discussioni filosofiche. È difficile capire, ad esempio, il criterio che ha fatto togliere due scudetti alla Juventus. Colpe gravi, le sue, a quanto si è detto, ma, dopo tutto, è la squadra alla quale appartenevano ben nove giocatori fra i più ammirati delle squadre nazionali protagoniste dei recenti campionati del mondo (Buffon, Cannavaro, Camoranesi, Zambrotta e Del Piero, per l’Italia; Thuram, Vieira, Trezeguet e – juventino fino a ieri – il “duro di testa” Zidane per la Francia, e senza contare Nedved). Vuol dire che, scorrettezze a parte, quei due campionati li aveva vinti una delle squadre più forti del mondo.
È ragionevole la “sentenza”? O ha forse ragione un altro magistrato, anch’egli approdato imprevedutamente ai lidi della “pedata”, come compiaciutamente – ma a nostro avviso poco efficacemente e, ancora meno, spiritosamente – soleva appellare il calcio un vecchio giornalista sportivo di molto nome, ossia Gianni Brera? Ma quest’altro magistrato è l’ex leader del pool milanese di “mani pulite”, il dottor Francesco Saverio Borrelli, e il fatto che egli abbia definito “buonista” la sentenza, a suo avviso poco risanatrice del calcio italiano e foriera di altri futuri guai, non ha turbato, né impressionato molto l’opinione pubblica: effetto indubbio del discredito di un certo modo di intendere e amministrare la giustizia e dei suoi protagonisti dopo tanti anni di prassi giudiziaria iniziati con le epiche gesta di quel pool.
Dovrebbe, anzi, far riflettere un altro fatto della stessa cronaca calcistica. È stato, infatti, fin troppo chiaro che nell’enorme maggioranza dei tifosi lo “scandalo” ha prodotto un evidente, traumatico subbuglio. Ma è stato altrettanto chiaro che il motivo di tale subbuglio solo in parte (diremmo: alquanto minore) è stato lo sdegno di ordine morale; la parte (diremmo: alquanto maggiore) è apparsa dovuta piuttosto alle preoccupazioni per la propria squadra, colpita dal “processo” e dalle sentenze, e al dispetto per le altre squadre, specialmente quelle più direttamente sentite come rivali, favorite o non colpite da “processo” e sentenze. Di qui è certo facile dedurre qualche conclusione interessante sugli atteggiamenti dei tifosi: sostanziale indifferenza all’essenza propria di una “questione morale” (se di una tale questione si dava il caso); scarsa o nessuna fiducia nella “giustizia” italiana; sdegno morale autentico solo in una minoranza, che non sempre era la più informata o la più immune da idiosincrasie, pregiudizi e simili tratti negativi, spesso addirittura nei confronti del gioco del calcio, ossia “a prescindere”, come diceva un famoso attore napoletano; interesse al calcio, comunque sia e comunque appaia, più che per qualsiasi preoccupazione di natura morale, sa pure della “morale sportiva”; immancabile sdegno e feroce moralismo nei confronti di tutte le altre squadre, e in specie delle più dirette rivali (secondo la vecchia filosofia di coloro che definivano le donne tutte immancabilmente e ugualmente “infedeli”, tranne, sia chiaro, in ogni caso, la madre, ed eventualmente sorelle o mogli o figlie, di chi pronunciava quest’aurea sentenza).
Chi dice che il calcio non è un buono specchio della società italiana?


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Per l’occasione dei “processi” calcistici d’estate le colpe degli imputati sono state considerate come colpe delle società a cui essi appartenevano, e ciò in base al criterio della “responsabilità oggettiva”: chi sta su non può non sapere ciò che fa chi sta giù e ne è, quindi, “oggettivamente” responsabile. Di conseguenza, è diventata colpa societaria quella imputata ad alcuni dirigenti di questa o di quella società. È un criterio, non diciamo di no, anche se ci sembra piuttosto (come dire?) “veloce” in materia di giustizia. Solo che non comprendiamo poi perché in alcuni casi questo criterio valga, e in altri no.
Facciamo il caso, sempre a titolo di esempio, della divulgazione giornalistica e radio televisiva delle trascrizioni integrali di intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura. Violazione del segreto istruttorio che è prevista e sanzionata dalla normativa vigente con una qualche severità. Le deplorazioni a fatto compiuto sono di rito, così come la rivendicazione del diritto di cronaca o libertà di informazione da parte dei responsabili dei giornali, radio, televisioni che rendono pubblici quei testi. Qualcuno, tuttavia, si fa pure qualche altra domanda. La violazione della normativa vigente che si consuma con la loro pubblicazione non ha luogo a partire dagli uffici giudiziari o di polizia o altri che siano che custodiscono e trascrivono i testi delle telefonate intercettate? E non si configura, di conseguenza, nel reato di cui parliamo, una “oggettiva” responsabilità dei capi degli uffici ai quali la custodia e la trascrizione sono affidate? Dovrebbe essere così, ma non si è mai avuto notizia di nulla di simile. Tutt’al più solerti magistrati hanno disposto sequestri e perquisizioni a carico di chi pubblica, e qualche volta si è andati anche oltre.
È molto probabile, conoscendo le cose italiane, che ci si dimostri immediatamente che non è così, e che quanto abbiamo detto al riguardo non ha fondamento. Sarà. Ma che in Italia le cose si facciano fin troppo spesso con due pesi e due misure a seconda dei casi resta vero lo stesso. Si prenda l’evenienza ricorrente della “interruzione di pubblico servizio”, altro reato espressamente contemplato dalla normativa in vigore, ma che sembrerebbe caduta in quasi completa desuetudine, visto che quasi ogni giorno si “occupano” stazioni e binari ferroviari, sedi stradali e autostradali, uffici pubblici di ogni genere, scuole e istituti scolastici e non scolastici: insomma, di tutto. E neppure in questi casi così vistosi abbiamo notizia di fermi, arresti, incriminazioni o altro in una proporzione minimamente adeguata alla frequenza e, spesso, alla gravità degli episodi che al riguardo vengono lamentati. Tuttavia, quando hanno scioperato i tassisti, i farmacisti, perfino gli avvocati contro le misure adottate dal nuovo governo nei loro confronti, subito Authorities competenti, molti uomini politici, alcuni giornali o radio-televisioni hanno indicato la violazione della norma vigente di cui ci si rendeva colpevoli e hanno invocato misure conseguenti.
Ma di che meravigliarsi? Pressappoco negli stessi giorni un ministro della Repubblica decideva la propria “autosospensione” (anche questa non ci era mai accaduto di sentirla, e tanto meno di vederla sbandierata e praticata, e – lo confessiamo senza ritegno – non avremmo mai immaginato di sentirla e vederla), congiunta all’annuncio che si autosospendeva per protestare in piazza contro un provvedimento del governo di cui fa parte e per partecipare assiduamente, per l’occasione, ai lavori parlamentari. E neppure per Di Pietro nessuno ha parlato di interruzione di pubblico servizio (in questo caso si trattava del vertice del servizio pubblico: il governo).


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Pazienza. Ci toccherà, di questo passo, ancora dell’altro, se ne può essere sicuri. Intanto, ad esempio, ci è capitato l’indulto elargito da un’amplissima maggioranza della Camera dei Deputati alla fine di luglio. Contro di esso protestava appunto il ministro Di Pietro, e insieme con lui la Lega Nord, Alleanza Nazionale e qualche altro isolato parlamentare. Questi oppositori non sono apparsi né autorevoli, né credibili: Di Pietro perché il meno che gli si dica in materia è che lo domina una “ossessione giustizialista”; la Lega perché ….. è la Lega; e così via. Niente hanno quindi ottenuto. Noi non abbiamo alcuna intenzione di portare acqua al loro mulino. Una domanda, tuttavia, si affaccia irresistibilmente, a prescindere da quegli oppositori. Non si era detto che non si sarebbe parlato più di condoni e simili, perché tali provvedimenti fanno molto più male del pochissimo bene che con essi ci si illude di conseguire? Non si era detto, e non si continua a dire, che occorre condurre una lotta a fondo contro l’evasione fiscale? E come si potrà credere alla terribilità di una tale lotta, se intanto i rei di fatti di sangue e di malavita organizzata (che a noi sembrano sempre i più gravi di tutti), di corruzione e concussione nella gestione delle cose pubbliche, di falsi in bilancio e falsi in atto pubblico etc. etc. trovano l’immediata comprensione di un nuovo governo e di una nuova maggioranza, e se per tali provvedimenti c’è l’immediata solidarietà e convergenza dell’opposizione?
Però – si dice – l’indulto era quasi un passo obbligato: carceri sovraffollatissime, lunga durata dei processi (per cui, fra l’altro, i detenuti in attesa di giudizio sono spesso più numerosi dei detenuti che scontano la pena), condizioni pressoché disumane dei carcerati, e così via. Tradotto in volgare: lo Stato non è in grado di sostenere lo sforzo di tradurre nei fatti le pene che infligge o che minaccia. E se tra un po’ le carceri si riaffollano? Altro indulto? E di fronte a questa condizione di materiale e professata impotenza è credibile la teoria – anch’essa largamente in circolazione – della concessione dell’indulto come un “gesto di umanità”? Che umanità è quella imposta da una autodenunciata incapacità, impotenza o come altrimenti si voglia?
Vorremmo dire, in effetti, che, comunque lo si consideri, il provvedimento di indulto non può essere giustificato. Che lo si debba subire o rassegnarvisi può darsi. Ma si vorrebbe anche capire se, ad esempio, si pensa intanto di costruire nuove carceri o di reperire e predisporre gli altri mezzi che fosse possibile immaginare per prevenire nuove emergenze di sovraffollamento delle carceri; o per evitare che la lunghezza dei processi moltiplichi insopportabilmente e indebitamente le carceri trasformandole in una sorta di camere di sicurezza delle Questure, o per ristudiare i casi e le sanzioni dei reati in modo da depenalizzare tutto quel che sia possibile senza contraddire a ciò a cui i codici e le leggi debbono assolvere ….. In altri termini, una grande e comprensibile soddisfazione dei detenuti per questa boccata d’aria (il termine è al suo posto), e grande, ma assai meno comprensibile soddisfazione dei politici per il loro “gesto di umanità”. Peccato che qualcuno abbia pensato di evocare, a questo riguardo, perfino papa Giovanni Paolo II, ricordando che egli sin dal 2000 sosteneva il “gesto di umanità” di cui ora ci si fa vanto (e nel suo caso quella definizione era quella propria e pertinente). Qualcuno ne ha fatto un titolo forte di giornale: “Ha vinto ancora lui!”. Il grande Papa non merita queste contaminazioni; e i laici più convinti e integrali (come noi) debbono essere i primi a riconoscerlo.
Un indulto scarsamente previdente anche per aver previsto troppo da un canto, e troppo poco dall’altro. Il ministro dell’Interno Amato ha dovuto subito invocare che nei confronti di coloro che erano in carcere perché sospetti di terrorismo si adotti un immediato provvedimento di espulsione. Non era cosa a cui bisognava provvedere da prima, ossia nell’elaborazione del provvedimento? Ed è un punto importantissimo, che il Ministro ha fatto assai bene a rilanciare subito, se non altro a ridosso della concessione dell’indulto.
Però, si dice, bisogna che lo Stato si preoccupi ora del processo di reinserimento degli indultati nella società e nell’ordine. Si pensa – immaginiamo – a procurare lavoro, abitazioni, relazioni e quant’altro sia necessario a coloro che escono dal carcere per l’indulto e non si trovano nella condizione di provvedervi da sé: ossia alla stragrande maggioranza degli indultati. E questo lo farà quello stesso Stato che non si è rivelato in grado di assicurare carceri decenti e sufficienti ai suoi carcerati e si è trovato perciò nella necessità di essere “umano” con loro? E come non nutrire, per questo, qualche inclinazione a giustificare quei detenuti indultati, che, il giorno dopo di essere usciti dal carcere, hanno occupato il Duomo di Palermo, reclamando, appunto, posti di lavoro e altro per il loro reinserimento?


* * *


È proprio vero che – malgrado si parli di più di tante altre cose – il problema della giustizia rimane in Italia uno di quelli della massima rilevanza e urgenza, anche se i “giustizialisti” fanno di tutto perché cresca sempre più il fastidio esorcizzante che ormai domina verso questo problema e perché si riduca altrettanto il grado reale di preoccupazione. E, poiché le cose stanno come stanno, varrà pure la pena di ricordare ciò che Virginio Rognoni ha detto a chiusura del suo periodo di vicepresidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, mentre si apriva il periodo successivo per il quale è stato designato, in luogo suo, Nicola Mancino. Rognoni è persona di grande esperienza politica; appartiene al filone democratico dei Popolari italiani (ieri democristiani); come vicepresidente di quel Consiglio è stato sempre dalla parte dei magistrati, e a parere di molti lo è stato anche troppo e con troppo poche riserve o eccezioni. E, tuttavia, con la passione e l’impegno a lui consueti, nel suo ultimo discorso ha rivolto alla Magistratura parole che essa dovrebbe ricordare e meditare e prendere a norma di comportamento. Ricordatevi – ha detto Rognoni – che il Consiglio della Magistratura non è la terza Camera del Parlamento della Repubblica, a fianco dei quella dei Deputati e del Senato. Badate – ha aggiunto – che siamo sulla china di una deviazione, se non degenerazione, “correntocratica” (il termine è orribile, ma la cosa è chiarissima), contraria non solo a ogni logica di correttezza istituzionale e sociale, ma contraria ancora di più alle esigenze elementari dell’amministrazione della giustizia.
Ha detto anche qualche altra cosa Rognoni, ma quel che ne abbiamo riferito basta a dare l’idea, che egli voleva dare, di qualcosa che non va, e di qualcosa di determinante e di essenziale, in questa amministrazione. Sarebbe già una gran cosa che i magistrati lo tenessero presente e – prima di incolpare a ogni pie’ sospinto il governo, il Parlamento, i partiti e la classe politica – cominciassero da se stessi quell’opera di promozione e realizzazione di un sistema giudiziario degno del nome suo e di un paese che è, nonostante tutto, pur sempre un grande paese e una delle maggiori democrazie dell’Occidente.
Contribuisce a ciò la sentenza che definisce reato l’eventuale accusa (e perché non l’opinione?) mossa ai giudici di aver pronunciato in un determinato processo una “sentenza politica”? Ne dubitiamo fortemente. E se a pronunciare quell’accusa (e perché non opinione?) è un parlamentare? E contribuisce a migliorare la sentenza che definisce, invece, non reato l’accusa di “Giuda” a un politico che abbia cambiato partito o gruppo parlamentare? Forse che non c’è alcun diritto di cambiare parere o partito? Ne dubitiamo, ancora una volta, fortemente; e, pur nemici giurati come siamo di ogni trasformismo, e anche a prescindere da altre possibili e legittime considerazioni di merito, dubitiamo pure fortemente che nelle due sentenze citate non si sia caduti nel riprovevole caso dei due pesi e delle due misure.


* * *


In piena estate si è avuta pure la crisi internazionale provocata dalla guerra in Libano. A nostro sommesso avviso, l’iniziativa bellica è stata degli Israeliani, ma la responsabilità di quanto li ha indotti ad assumerla è stata indiscutibilmente degli Hezbollah. A suo tempo, un problema del genere si presentò in Giordania sotto il re Hussein per l’invadenza politica e militare dei profughi palestinesi, che avevano formato uno Stato nello Stato e ridotto intollerabilmente la sovranità giordana, e con essa la sicurezza del paese, poiché lo esponeva a giustificate reazioni israeliane. Hussein decise allora di espellere quegli ospiti invadenti, e ne nacque il settembre nero, che fu un vero trauma per il mondo arabo, ma per la Giordania e per il suo confine con Israele fu risolutivo. In Libano si è determinato, in sostanza, lo stesso problema, ed è da ciò che è nata l’iniziativa israeliana, felice o infelice che la si voglia giudicare.
Non è di questo che vogliamo, però, parlare qui, bensì della decisione italiana di partecipare al corpo di interposizione, che l’ONU ha deciso di inviare nel Libano meridionale. E ne vogliamo parlare o, meglio, accennare per notare come ancora una volta una gran parte della classe politica italiana sia capace di avvolgersi in labirinti inestricabili di contraddizioni, che offendono non solo la ragione politica, bensì anche il buon senso, e perfino il senso comune, che – diceva Manzoni – assai spesso col buon senso non ha nulla a che fare.
Quale senso ha, infatti, che si parli di inviare truppe – dunque, uomini armati – in una certa missione e, nel momento stesso in cui li si invia, si affacciano tante riserve, precisazioni, ammonimenti, delimitazioni e prescrizioni da far pensare che anche per lontana ipotesi si voglia escludere l’uso delle armi di cui quelle truppe sono in possesso? Non vorremmo sbagliare, ma non ricordiamo di aver letto o sentito neppure che l’uso ne è consentito in caso di legittima difesa. Anche l’ossessiva ripetizione della formula “missione di pace” suscita qualche perplessità e si ammanta di un soffuso velo di ridicolo. Non per la pace, naturalmente, che resta il valore prezioso più condiviso, certamente, dalla massima parte della gente di dovunque, bensì per la mens di chi usa quella formula. Perché la pace può essere voluta o imposta. Se è voluta, non dovrebbe esservi neppure una “missione” intitolata ad essa. Se dev’essere imposta, e non si deve considerare la forza un mezzo per imporla, a che pro’ inviare uomini armati? Invece di “missionari” armati, basterebbero, anzi sarebbero ben più adatti “missionari” con le insegne della pace stessa, uomini della parola e della persuasione.
Pensano alcuni che tutta questa preoccupazione di configurare una “missione di pace” sia dovuta al fatto che l’uso delle armi si prospetti come molto più probabile nei riguardi di Hezbollah. Se si trattasse di usarle contro gli Israeliani, si ritroverebbe subito un largo consenso. E, invero, l’affermazione che la “missione” non debba affatto proporsi il disarmo di Hezbollah sembrerebbe convalidare un tale modo di vedere. Ma noi non vogliamo assolutamente seguire questa traccia. Ci limitiamo solo a notare che non si vide mai unanimità più equivoca di quella con cui fu decisa in agosto dalle competenti Commissioni parlamentari la “missione di pace” in Libano. E ci sembra molto significativo che le (in verità, deboli) premure del ministro della Difesa Parisi di ricordare – solo nel governo – che armi e soldati hanno tra loro una qualche relazione, e così pure pace e guerra, non abbiano avuto, in pratica, nessun eco, né nel governo, né fuori.
L’ovvia speranza di tutti è, naturalmente, che le premure del ministro Parisi si dimostrino superflue e che egli abbia fatto bene a farle valere con voce così debole. La speranza di tutti è che l’intricatissimo nodo del Medio Oriente si possa sciogliere con il paziente lavoro di mani esperte e sensibili, e non richieda la spada di Alessandro per il nodo di Gordio. Israele rappresenta una realtà irrinunciabile. Il mondo arabo e musulmano rappresenta una civiltà di valore indiscusso. Quel che non rappresenta niente è il bamboleggiamento di tanti uomini e gruppi politici italiani (e non solo italiani) intorno a un’idea pura, tanto pura da riuscire astratta, intorno a un’idea virginea, candida, aprioristica della pace come di qualcosa che possa star fuori della realtà storica e politica: un’idea che, in ultima analisi, finisce col nuocere, non col giovare a un migliore corso delle cose (e ciò anche senza contare che poi, grattando grattando la, solo apparentemente e neppure sempre, levigata superficie di questa idea di pace, viene assai spesso fuori una fiera pellicola sottocutanea di pregiudizi, avversioni, ideologismi, e di mal represse inclinazioni alla violenza, di cui Israele e gli Stati Uniti sono quasi sempre i destinatari elettivi).
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