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La relazione tra la città e il suo porto. Un problema filosofico di antica data
di Daniele Demarco
Il mare circonda il nostro habitat, lo abbraccia da ogni lato. Tuttavia, specialmente per gli abitanti dei grandi centri costieri, la sua presenza è diventata ormai talmente ridondante da passare quasi inosservata. Può accadere così che spesso si guardi alla costa soltanto come alla meta delle vacanze o dello svago domenicale o, ancora, nel migliore dei casi, come a un elemento di mera facciata, il cosiddetto “biglietto da visita” di una città. Questa sorta di misunderstanding può emergere talvolta anche nel dibattito urbanistico-architettonico laddove si consideri il tema del rapporto tra mare e città soltanto come una questione attinente ai waterfront, quasi che la prossimità del mare non potesse sortire effetti anche nell’entroterra (laddove il mare non si vede) e condizionare, in qualche modo, lo spirito dei popoli, la loro visione del mondo, le loro concezioni estetiche e politiche. Di quest’ultimo avviso era già in tempi molto lontani il filosofo Platone il quale ravvisava, però, nel mare, il vettore di un condizionamento verso il peggio, di un influsso destinato a distrarre gli uomini dalla retta osservanza delle leggi. Per questo motivo, interrogandosi, sulle condizioni necessarie alla fondazione della città ideale, in un’opera intitolata, appunto, Leggi, il filosofo si chiedeva innanzitutto se dovesse essa sorgere «vicino al mare o nell’interno»1, nel continente. La città, argomentava Platone, sarebbe stata di certo una grande potenza navale, dotata di «ottimi porti 2, ma, affinché non accogliesse dal mare anche una quantità disordinata «di costumanze tortuose e squallide»3, sarebbe stato altrettanto opportuno che essa si levasse in una regione situata a non meno di «ottanta stadi» dalla costa4. In caso contrario, ammoniva il filosofo, la πόλις avrebbe avuto bisogno di statisti di altissima caratura morale, in grado di condurla alla salvezza5. La «prossimità di una contrada al mare, pur essendo ragione di quotidiano diletto, è [infatti] circostanza ben amara e salata perché, affollando la città di traffici e di affari legati al commercio 6 e favorendo l’ascesa di una risma di uomini «tutt’altro che rispettabile»7, rende la città «infida e ostile tanto a se stessa» quanto ai suoi abitanti8.
Nell’affidare simili considerazioni al suo interlocutore Clinia, Platone sembrava serbare ancora sul finire degli anni un ricordo più che vivido dell’Atene del V secolo a.C., una città che aveva tratto dal mare risorse sufficienti ad attivare un mirabolante processo di sviluppo, ma che dal mare era stata anche, in qualche modo, tratta in fallo allorché, al termine della trentennale guerra del Peloponneso contro l’odiata Sparta (una guerra auspicata dalle autorità ateniesi nell’ostinata persuasione dell’infallibilità della flotta navale), aveva dovuto patire l’onta della disfatta e della perdita di sovranità.
Non soltanto agli occhi di Platone, ma anche a quelli dei più attenti critici del IV-V secolo a.C., quell’inattesa débâcle sembrava denunciare i limiti strutturali di un sistema che aveva inseguito la propria gloria sui mari dimenticando di tenere conto delle fondamentali questioni eticopolitiche che concernono la vita di una comunità. In questo senso anche una vaga analisi del piano urbanistico di Atene avrebbe fornito, in quegli anni, una scottante testimonianza del macroscopico squilibrio tra processi di arricchimento quantitativo e qualitativo, tra progresso materiale e spirituale della πόλις.
Tante erano, ad esempio, le ricchezze ammassate nei templi dell’Acropoli (stele, erme, lapidi, statue, tripodi, vasi) che, nel tempo, la geometria degli edifici sacri aveva dovuto di necessità dilatarsi fino a perdere l’originaria proporzione9. Il fardello edilizio era andato, così, aggravandosi e, nonostante ciò, la città continuava, nel suo insieme, a mancare delle più essenziali strutture igienico-sanitarie. Se un ipotetico visitatore fosse poi ridisceso dall’alta Acropoli alla città bassa non avrebbe probabilmente notato altro che un accumulo disomogeneo di fabbricati: vecchi e nuovi edifici costruiti gli uni a ridosso degli altri a dispetto della ben che minima soluzione di continuità10.
In questa sorta di Babele architettonica, il cui reticolo viario appariva tanto angusto e intricato da evocare l’immagine stessa del labirinto, si accalcava, ancora alla vigilia della guerra del Peloponneso, una popolazione «più numerosa di quella complessiva della maggior parte degli stati greci»11 alla quale, in concomitanza con lo scoppio delle ostilità (430 a.C.), si sarebbe aggiunto un gran numero di contadini richiamati entro le mura. Nel suo complesso, l’Atene del V secolo a.C. appariva, dunque, come organismo dalle dimensioni enfiate e lacerate. C’era da chiedersi fino a che punto avrebbe potuto sostenere un simile sviluppo senza anche esplodere.
Una prima avvisaglia della catastrofe si era, d’altra parte, già avvertita nel 430 a.C. (lo stesso anno dello scoppio della guerra del Peloponneso contro Sparta), allorché, complici le carenze del progetto urbano, l’alto tasso demografico e la “quasi suicida”12 assenza di strutture igieniche, la città era stata colta da una devastante epidemia di peste. Lo storico Tucidide ci ricorda, però, che il morbo, il cui focolaio originava nella lontana Etiopia, era arrivato proprio attraverso il porto del Pireo, probabilmente insieme alle navi che importavano merci di lusso dall’Egitto e dalla Libia. Sebbene fossero situate in un villaggio distante più di sei chilometri dal cuore della πόλις, le fortificazioni del Pireo erano, infatti, collegate a quelle di Atene da uno stretto camminamento fortificato che teneva giunti i due abitati in un’unica grande conurbazione.
Queste «lunghe mura» (μακρά τείχη), mirabile e dispendiosa opera dell’ingegno umano, erano state fortemente volute da Temistocle, arconte e stratega ateniese all’epoca delle sanguinose guerre persiane, per garantire un canale di comunicazione tra la città e il porto anche nel caso in cui la capitale attica fosse stata cinta in assedio dall’esterno. Seppure i nemici avessero, infatti, circondato Atene nel tentativo di ridurla alla fame, in alcun modo avrebbero potuto, così, impedire che la popolazione continuasse a fare affidamento sulla flotta per i rifornimenti e l’organizzazione della rappresaglia militare.
Era proprio nel conforto della strategia temistoclea che, nell’estate del 430 a.C., alla vigilia dell’invasione spartana, Pericle chiamava tutti i cittadini a barricarsi entro le mura delegando l’organizzazione della resistenza armata alle navi. Se i nemici, diceva, «verranno con un esercito di terra contro il nostro paese, noi andremo con la flotta contro il loro»13. E, a quel punto, per rifarsi del danno arrecato, non sarebbe bastato agli spartani saccheggiare tutta l’Attica perché loro, godendo di un’egemonia limitata ai ristretti confini del continente, non avrebbero potuto prendere altra terra in sostituzione di quella persa in battaglia, mentre Atene, che esercitava, invece, il suo predominio dal mare, avrebbe potuto comunque contare sul sostegno della miriade di isole e piccoli centri costieri dislocati sulle due sponde dell’Egeo.
Lo stratega non poteva certo immaginare che proprio dal mare sarebbe arrivata la sciagura della peste. Condotta dalle navi al porto del Pireo, l’epidemia, sarebbe stata, infatti, quasi istantaneamente canalizzata, attraverso le lunghe mura, verso il centro della città contagiando, in poco tempo anche l’alta Acropoli. E il risultato di quella inavvedutezza, racconta Tucidide, anche in virtù delle scelte strategiche che avevano indotto Pericle a sovraffollare l’abitato, sarebbe stato disastroso. Nella sua cronaca lo storico descrive un’Atene allo sbando, una città ricolma di cadaveri, il disordine e la rovina per le strade, il degrado morale:
[…] gli uomini […], ignari di quel che sarebbe stato di loro, cadevano nell’incuria del santo e del divino. […] Nessun timore degli déi o legge degli uomini li tratteneva, ché da un lato consideravano indifferente esser religiosi o no, dato che tutti senza distinzione morivano, e dall’altro, perché nessuno si aspettava di vivere fino a dover rendere conto dei suoi misfatti e pagarne il fio; essi consideravano piuttosto che una pena molto più grande era già stata sentenziata ai loro danni […], per cui era naturale godere qualcosa della vita prima che tale punizione piombasse su di loro14.

Non soltanto in polemica con gli illustri statisti del suo tempo (Temistocle, Cimone, Pericle) e le loro mal riposte scelte strategiche, ma proprio rispetto al piano complessivo dello sviluppo ateniese, Platone sembrava già esprimere una pesantissima eccezione quando, nel Gorgia, lasciava pronunciare a Socrate (qui soltanto fittizio protagonista di un dialogo Callicle) una tonante invettiva:
Hanno pensato a riempire la città di porti e di arsenali, di mura, di tributi e di un mucchio di altre sciocchezze senza preoccuparsi della temperanza e della giustizia [corsivi miei]15

Ma quel fin troppo esplicito riferimento a porti e arsenali celava, forse, anche qualcos’altro. Evidentemente l’autore del Gorgia ben coglieva il nesso tra il prorompente sviluppo del IV-V secolo a.C. e la proiezione ateniese sui mari. Leggeva, però, quel processo, anche alla luce della tragica parabola della capitale attica, come un moto pericolosamente centrifugo rispetto all’asse degli antichi valori centrati sull’austerità, sul contegno e sulla predilezione per tutto ciò che è piccolo e limitato. Limitata, sosteneva d’altra parte il suo allievo Aristotele, avrebbe dovuto essere, in sé, una città, perché una πόλις troppo vasta e popolosa difficilmente potrebbe esprimere anche una buona costituzione16. Di tutt’altro avviso era, invece, Pericle il quale ai suoi concittadini diceva: «Voi pensate che il vostro impero sia limitato, io dico invece che delle due parti del mondo accessibili all’uomo, la terra e il mare, ve ne è una di cui voi siete padroni assoluti, e ne avete o potete avere il dominio assoluto nelle dimensioni che vorrete»17. Con simili parole, lo stratega sembrava appellarsi più alla πλεονεξία (avidità, cupidigia, «desiderio di avere di più»18) che alle antiche virtù degli ateniesi. Ma egli, in questo caso, parlava più da politico e da demagogo che da urbanista. Promuoveva, cioè, la strategia dell’espansione per trarre a sé il consenso del demo (δῆμος, popolo) vale a dire di tutti quei soggetti non nobili e non blasonati, ma non per questo anche umili (investitori, commercianti, artigiani) che, non godendo di rendite fondiarie (derivanti dalla terra), guardavano con favore proprio alla proiezione di Atene sui mari.
Al traino del demo vi era anche la folta schiera dei nullatenenti (πλῆθος δῆμος, la plebe), classe quasi del tutto priva di rendite autonome e quindi «avvezza a trarre sostentamento dai beni altrui»19: stipendiati insomma. Tra questi i marinai che, come ben rilevava Aristotele, si avviavano, ormai, a diventare il vero nerbo della talassocrazia ateniese in quanto muovevano fisicamente le navi da un capo all’altro del Mediterraneo. Per questa massa varia e multiforme proprio quella politica edilizia «di enorme disinvoltura»20 promossa da Pericle e avversata, invece, dal Socrate del Gorgia era diventata un’essenziale fonte di sostentamento. Commissionando, loro, i lavori pubblici, lo stratega distribuiva, infatti, i relativi emolumenti.
Ora, in questo perverso intreccio d’interessi sorti da e per il mare i cui strumenti erano, appunto, l’edilizia selvaggia e strategia dell’espansione, stava, in ultima analisi, la ratio della democrazia ateniese. Troppo spesso, d’altra parte, si dimentica che il termine democrazia era stato coniato proprio in senso polemico dagli oppositori del sistema per designare il potere (κράτος) del demo. Che quel sistema poi serbasse, agli occhi dei suoi critici, soltanto poche quote di «giustizia e temperanza» e molte, invece, di arbitrio era dimostrato dall’uso polemico che essi facevano del termine – crazia (da κράτος che significa letteralmente potere, ma nell’accezione puramente coercitiva21) in luogo del più opportuno termine –nomia (da νόμος che significa, invece, legge e designa del potere, appunto, la legittimità).
Ma, d’altra parte non era stato forse proprio quel sistema a cercare la guerra contro Sparta e a creare, così, le condizioni per la catastrofe ateniese? E, ancora, non era stato forse, quel sistema a condannare a morte Socrate? Platone che di Socrate era stato discepolo e che dalla sua morte era stato profondamente turbato, sembrava, in particolare, cogliere nel sotterraneo nesso tra l’esercizio del κράτος e l’affermazione di Atene sui mari una serie di conturbanti contraddizioni e, per questo proponeva di allontanare la città dal porto. Ottanta stadi (una distanza quasi raddoppiata rispetto a quella che originariamente separava Atene dal porto del Pireo) sarebbero stati, a suo avviso, sufficienti a bloccare l’ascesa di tutte le corporazioni che avevano tratto dal mare ricchezza e influenza politica. La terra con le sue intrinseche certezze, sarebbe, così, divenuta il baricentro della vita cittadina vincolando ogni ambizione di sviluppo alle catene di un’economia agricola di sussistenza. Quella stessa terra che, come sosteneva Isocrate, è fonte di tutte le qualità che rendono incrollabile il governo della πόλις. Non era stata, forse, proprio Sparta, una potenza terrestre, in assenza della flotta e del dominio sui mari, a soggiogare, in virtù della sua proverbiale tenacia, la ricca e prosperosa Atene? Da simili considerazioni lo storico greco traeva spunto per una riflessione sulle differenze tra le potenze di terra e potenze di mare. Le prime storicamente votate all’ordine, al contegno e alla disciplina. Le seconde condannate, invece, alla corruzione. Gli stessi spartani, d’altra parte, dopo aver acquisito, a loro volta, la supremazia sui mari, avrebbero cessato di vivere conformemente alle leggi della città poiché pensavano che fosse, ormai, loro concesso «fare tutto ciò che piacesse loro, e così finirono in un grande disordine»22. Sicché si potrebbe dire che, per l’Isocrate del Panatenaico (e per il Platone delle Leggi), il mare, ancorché vettore di progresso, ricchezze e partecipazione politica, dopo aver donato fasti e splendore alla città, finisce anche per condurla all’inevitabile rovina.






NOTE
1 Platone, Leggi, IV, 704, b 4-5 (Trad. it., Milano, Rizzoli, 2005).^
2 Ivi, 704, b 9.^
3 Ivi, 704, d 9-10.^
4 Ivi, 704, b 7.^
5 Ivi, 704, d 7-8.^
6 Ivi, 705, a 3-8.^
7 Ivi, 707, b 1-2.^
8 Ivi, 705, a 7-8.^
9 Cfr. M.C. Ruggieri Tricoli, M. D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Milano, Edizioni Lybra Immagine, 1998, p. 52.^
10 Cfr. L. Mumford, La città nella storia, trad. it. Milano, Bompiani, 1985, vol. I, pp. 211-219.^
11 M.I. Finley, Gli antichi greci, trad. it., Torino, Einaudi, 2002, p. 64. Cfr. anche C. Mossé, Pericle. L’inventore della democrazia, trad.it. Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 116-117. Buona parte della popolazione, soprattutto nel Pireo, era costituita da mercanti stranieri naturalizzati che qui avevano costituito le loro basi per le attività di importazione.^
12 L. Mumford, cit., p. 217.^
13 Tucidide, La guerra del Peloponneso, I, 143 (Trad. it, Milano, Rizzoli, 1998).^
14 Ivi II, 52.^
15 Platone, Gorgia, 519 a (Trad. it. Milano, Rizzoli, 2000).^
16 Cfr. Aristotele, Politica, VIII, 1326 b.^
17 Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 62. La traduzione qui proposta è tratta da A. Momigliano, La potenza navale nel pensiero greco, in id., Storia e storiografia antica, Bologna, il Mulino, 1987, p. 130.^
18 M. Vegeti, Quindici lezioni su Platone, Torino, Einaudi, 2003, p. 87.^
19 Isocrate, Panatenaico, 115-116. Citato in A. Momigliano, cit., p. 133.^
20 L. Canfora, La democrazia di Pericle. in L. Canfora, A. Giardina, C. Frugoni, A. Barbero, A.M. Banti, E. Gentile, A. Graziosi, V. Vidotto, G. Sabbatucci, A. Riccardi, M. Perrot, I volti del potere, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 12.^
21 «Nel vocabolario giuridico – spiega Marcelle Detienne – krateîn significa dominare qualcuno o qualcosa, dunque poterne disporre di diritto o semplicemente esserne padrone di fatto». Il termine, attestato, già in Omero, presso il quale indica un potere di resistenza, una forza in grado di «”sostenere” cose ed esseri viventi», subisce una profonda evoluzione nel corso dei secoli. In età alessandrina significa, infatti, «“esser padrone di, aver diritto su”, ma anche “tenere in mano, trattenere”». In età cristiana soltanto «“trattenere”, “sostenere”». L’autore ripercorre tutti questi passaggi in Mito e pensiero presso i greci. Studi di psicologia storica, trad. it. Torino, Einaudi, 2001, pp. 218-242.^
22 Isocrate, cit.^
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